A Firenze mille telecamere: il grande fratello di Nardella

Piazza indipendenza, vigilia dell’ultimo dell’anno. I fiorentini che passeggiano per il centro città notano che l’uomo con l’elmetto giallo che dall’alto di una gru maneggia un lampione non è un operaio qualsiasi: è il sindaco renziano Dario Nardella. Non è la prima volta che il primo cittadino decide di montare in prima persona un impianto di illuminazione pubblica per le strade della città, eppure stavolta è un’occasione speciale che merita di essere immortalata anche sui social: il sindaco sta installando la millesima telecamera di sicurezza in città diventando così la città più videosorvegliata d’Italia. Negli ultimi sei mesi dell’anno ne sono state montate 300 ed entro l’estate l’obiettivo della giunta di centrosinistra è quella di dotare la città di 1200 dispositivi di sicurezza, tutte collegate tra loro con una rete in fibra ottica e gestite da un sistema centrale di supervisione.

Una volta accesa la telecamera, il sindaco del Pd rieletto a maggio scorso con il 57% dei voti si volta verso giornalisti, fotografi e suoi assistenti e si fa riprendere con in mano il solito cartello bianco che vorrebbe fare da deterrente a ladri, spacciatori e micro criminalità da strada (“Area Videosorvegliata”). “Da oggi Firenze è in Italia la prima città per numero di telecamere in rapporto agli abitanti” esulta giulivo Nardella cercando di provare a tranquillizzare i fiorentini che, soprattutto in centro, si sentono sempre più insicuri. Clic. Il video viene postato sui social network del sindaco di Firenze e la foto pubblicata sulla stampa locale. Ma nelle cronache del giorno dopo, oltre alla scenetta della telecamera accesa, non si trova traccia di una dichiarazione che il sindaco Nardella fa a margine dell’evento: “Con i servizi tecnici e l’assessore alla Sicurezza Urbana Andrea Vannucci stiamo sperimentando un software innovativo che, tramite le telecamere, consente di rilevare oggetti e movimenti sospetti di persone, senza riconoscimento facciale né violazione della privacy, così da poter garantire interventi più tempestivi in caso di situazioni anomale”. Il primo cittadino inoltre spiega che il modello preso in considerazione per questo software è quello della blindata Tel Aviv soprattutto in funzione antiterrorismo: “È un servizio già in atto in altre città del mondo e che può essere usato anche in funzione antiterrorismo” ha spiegato Nardella.

Eppure, se la funzione del nuovo software avrà l’obiettivo di migliorare gli strumenti di indagine sui reati da strada o per prevenire possibili attentati terroristici, gli esperti hanno molti dubbi su questo nuovo strumento che sarà applicato alle telecamere fiorentine. Soprattutto per le possibili violazioni della privacy dei cittadini, tant’è che per la sperimentazione del software servirà il parere favorevole del Garante che per il momento non è ancora arrivato. “A Firenze ci sarà un unico Grande Fratello che controllerà tutta la città” fanno sapere da Palazzo Vecchio.

Per capire di quale nuova trovata tecnologica stiamo parlando dobbiamo partire dal nome: “Piattaforma Inquiris”. Secondo il sito ufficiale dell’azienda che lo produce, il software “permette di gestire e monitorare i diversi sistemi di sicurezza: videosorveglianza, antintrusione, antincendio, controllo accesso, stazioni meteo e tutti i sensori disposti sul campo gestibili tramite protocollo IP”. La traduzione la fornisce al Fatto Quotidiano Michele Mazzoni, di professione ingegnere che dal 2007 è il Direttore dei Servizi Tecnici del Comune di Firenze: “Quella che sarà installata nelle mille telecamere di Firenze è una sperimentazione nuova che prova a rispondere a una sempre maggiore esigenza di sicurezza – spiega – e ha due obiettivi ben precisi: riuscire a facilitare le ricerche delle forze dell’ordine che hanno bisogno di visionare immagini delle telecamere e anche capire, in maniera più precisa, il tipo di movimenti di cittadini o oggetti: questo elemento è fondamentale per esempio nelle indagini sul terrorismo perché capire se un oggetto anomalo è fermo da molto tempo potrebbe essere un indizio più preciso per sventare un possibile attentato”.

Il lavoro degli investigatori, spiegano i tecnici di Palazzo Vecchio, sarà sicuramente più facile e i tempi verranno ridotti: se adesso le immagini delle telecamere devono essere ricercate manualmente da un dispositivo all’altro nel giro di diverse centinaia di metri, il nuovo software permetterà di fare una ricerca su un grosso numero di immagini. In sintesi: basterà ricavare le immagini della prima per ottenere anche quelle di tutte le altre telecamere successive. Non solo: oltre alla velocità dei movimenti di persone o oggetti, e al netto di quello che sostiene il sindaco Nardella, “Piattaforma Inquiris” permetterà anche il riconoscimento facciale di possibili indiziati e non solo. “Se alla telecamera viene ‘chiesto’ di individuare una persona con determinate caratteristiche – continua Mazzoni – questo software permette di riconoscere tutte le facce all’interno delle immagini e capire se in esse sono presenti volti dalle caratteristiche simili a quelle di partenza”. Una opzione, quest’ultima, che potrebbe andare a impattare sulla vita dei fiorentini. E anche se dal Comune fanno sapere che “Piattaforma Inquiris” sarà a disposizione solo degli operatori specializzati (forze dell’ordine, magistrati e guardia di finanza) e in alcuni luoghi preposti (le sale operative dei carabinieri e quelle del Comune di Firenze), è lo stesso Mazzoni ad ammettere che esiste un “rischio di errori” rispetto a sospetti di terrorismo e di oggetti anomali per strada ma soprattutto evidenti perplessità sulla privacy delle persone: “Il problema esiste ed è sotto gli occhi di tutti – conclude Mazzoni – infatti stiamo aspettando il nullaosta del Garante: quando arriverà, ovviamente prenderemo tutte le accortezze del caso”.

Educazione fisica a scuola: in Italia in vigore il fai-da-te

“Forza bambini, tutti in palestra a fare educazione fisica”. Solo che manca l’insegnante di educazione fisica, e molto spesso persino la palestra. Lo Stato se ne disinteressa da sempre, il Coni ha provato a metterci una pezza, allargandosi su competenze non sue, con risultati altalenanti. Così lo sport nella scuola italiana resta uno slogan, un progetto un po’ scalcagnato. Specie fra i più piccoli, alle elementari, dove nasce la pratica sportiva. E invece c’è solo improvvisazione: quest’anno tra liti istituzionali e scelte cervellotiche l’unico piano nazionale è partito con quattro mesi di ritardo e imbarazzanti differenze geografiche. In Puglia si gioca a pallacanestro, in Lombardia si fa ginnastica. In alcune classi di alcune scuole. Nelle altre nemmeno questo.

Fanalino di coda. Si dice che la pratica scolastica sia la base dei trionfi sportivi di un Paese e della forma fisica dei suoi abitanti. L’Italia è l’eccezione che conferma la regola: a Olimpiadi e Mondiali il tricolore sventola nonostante fra i banchi non si faccia quasi nulla. Soprattutto alle elementari, primo e determinante ciclo di istruzione: l’educazione motoria è compresa nei programmi ma è come se non ci fosse. Manca l’insegnante specializzato: la figura del maestro di educazione fisica non è prevista nell’ordinamento; la materia è affidata al maestro generalista (quasi tutti donne, spesso avanti negli anni visto lo scarso ricambio generazionale), che non ha competenze né attitudine. Di più: mentre all’estero la disciplina è obbligatoria, quasi sempre per due ore a settimana (in Francia e Portogallo addirittura tre), da noi l’orario è lasciato all’autonomia degli istituti, che generalmente ne fanno solo una. Siamo fanalini di coda in Europa, e i nostri piccoli ne risentono: il 21,3% di bambini fra gli 8 e i 9 anni è in sovrappeso, il 9,3% obeso. Non può essere un caso.

Nell’inerzia dei governi qualcosa ha provato a fare il Coni. Un progetto, neanche rivoluzionario: prima si chiamava “Alfabetizzazione motoria”, dal 2014 è diventato “Sport di classe”. Consiste essenzialmente nell’inserimento di un tutor, che per un’ora alla settimana affianca il maestro nelle quarte e quinte elementari degli istituti che aderiscono, garantendo la doppia ora di educazione fisica. I limiti sono sempre stati evidenti. I soldi, innanzitutto: finanziato a fasi alterne, il piano è arrivato negli anni a contare su un massimo di 15 milioni di euro. Adesso è a quota 10,7: poco per coprire tutto il territorio. Gli alunni partecipanti (circa 555mila) sono meno del 25% del totale. Le classi coinvolte 7.718 su 128mila, con forti differenze locali: si va dal 77-72% di Basilicata e Puglia al 25-18% di Emilia-Romagna e Lombardia, anche perché i tutor disoccupati sono quasi tutti al Sud, mentre al centro-nord ci sono altri bandi regionali con finanziamenti, finalità e a volte persino tariffe differenti. E poi problemi burocratici, sprechi, l’impressione che il bando servisse più al Coni per ribadire il proprio potere, e ai laureati in scienze motorie per tirare su qualche spicciolo (ne vengono impiegati circa 3mila, in una categoria in forte sofferenza occupazionale) che all’attività dei bambini. Quest’anno la situazione è anche peggiorata.

A fine 2018 l’ex governo gialloverde ha creato la società “Sport e Salute” per ridimensionare il Coni di Malagò e puntare sul sociale; ovvio che si riappropiasse della scuola. Tutte le attenzioni, però, erano per la spartizione dei contributi pubblici alle Federazioni, e non si è trovata nessuna idea per migliorare o proprio sostituire “Sport di classe”. Così, per evitare la critica di aver soppresso l’unico piano per la scuola, si è deciso di confermare in blocco il vecchio progetto, solo togliendolo al Coni. Creando più svantaggi che benefici, anche perché “Sport e Salute” in quanto spa non ha la possibilità di stipulare i contratti. Il buon senso avrebbe lasciato l’onere ai comitati regionali Coni, che se non altro garantivano omogeneità, ma per una questione politica si è deciso di estromettere l’ente pubblico e sostituirlo con le Federazioni, più deboli e impreparate a livello locale.

Tra Nord e sud. Ne sono state scelte sei (calcio, atletica, tennis, ginnastica, pallamano, basket; non si sa bene in basa a quali criteri, manca la pallavolo, lo sport più praticato nelle palestre scolastiche), e ad ognuna di esse sono state assegnate 3-4 Regioni: sono loro ad assumere i tutor, che oltre all’attività generica devono svolgere anche un modulo specializzato sulla disciplina (di cui però non sanno nulla). Così si sono moltiplicati interlocutori, problemi, equivoci sulla gestione. Risultato: il coinvolgimento delle Federazioni, auspicato da tempo, è avvenuto nella maniera sbagliata. Quest’anno il progetto è ancora più frammentato sul territorio che in passato, con ogni Regione che fa una disciplina diversa (pallamano in Veneto e calcio in Molise, tennis in Toscana e atletica in Sicilia; ma perché?). Ed è partito con diversi mesi di ritardo: solo in questi giorni i tutor stanno arrivando nelle classi, senza nemmeno aver svolto il corso di formazione presso le Federazioni.

Meglio di niente? Oggi la situazione dello sport a scuola resta “una realtà drammatica”, come ha spiegato il presidente del Coni, Giovanni Malagò, in un recente convegno organizzato dalla Federazione atletica leggera. “Sport di classe” ha posto la questione e supplito alla mancanza dello Stato, ma non è riuscito a fare il salto di qualità, né a livello di fondi né di organizzazione. E nessuna ricerca ha mai dimostrato i suoi risultati. Ogni anno viene messo in discussione e poi riconfermato, nella sconsolata convinzione che sia comunque meglio di nulla.

Non tutti, però, sono d’accordo. “Quanto incidono davvero queste iniziative? Io non lo so più, forse è arrivato il momento di dire stop e fare una riflessione profonda”, è la provocazione il numero uno dell’atletica, Alfio Giomi. Forse queste toppe hanno solo dato un alibi allo Stato. Per il futuro infatti non si muove (quasi) nulla: in Parlamento sono stati presentati due disegni di legge per introdurre il maestro di educazione fisica, sostenuti in particolare dal M5S, ma ci vogliono almeno 300 milioni l’anno (altro che i 10 di “Sport di classe”) e il ddl si è arenato. Non bisogna nemmeno confondere la battaglia occupazionale dei laureati in scienze motorie (da tempo alla ricerca di uno sbocco nel pubblico) con le reali priorità del Movimento: al Sud ci sono Regioni dove oltre il 50% degli istituti non ha nemmeno una palestra interna. Per questo, come per tutto, mancano i soldi. E pure le idee: ancora non è chiaro chi dovrà insegnare lo sport a scuola ai nostri bambini, e in che modo.

“La Calabria e il (non) voto. Ora serve la ‘disperanza’”

Ancora una volta il voto ci offre l’immagine di una Calabria che si tuffa nel passato. La maggior parte dei calabresi non vota, e quelli che lo fanno resuscitano Berlusconi e mandano in Consiglio regionale uomini della Lega. Con l’indigesto contorno, di trasformisti e impresentabili eletti a furor di popolo. C’è materiale in abbondanza per disperarsi, per dire che è la solita Calabria che non cambia mai. “Sono d’accordo solo in parte con questi giudizi. Più che di disperazione o di speranza, io parlerei di disperanza, un sentimento che i calabresi farebbero bene a coltivare”. Vito Teti, antropologo di fama mondiale, è calabrese fino al midollo. Gira il mondo e scrive (libri, saggi, commenti per riviste e giornali nazionali), vive San Nicola da Crissa, poco più di mille anime sulle pendici del monte Cucco.

Professore sarà difficile spiegare la disperanza.

Capisco, è un termine che suona come un ibrido di due opposti, lo uso come un possibile spunto per aiutarci a tentare di immaginare una prospettiva di riapertura al futuro, alla speranza, di sintesi e superamento di questa impasse culturale.

Una impasse che rischia di uccidere la Calabria e i calabresi.

Noi calabresi dobbiamo imparare ad essere lucidi, critici, a guardare la realtà nella sua crudezza. Ciò non deve indurci alla rassegnazione, ma all’impegno per progettare il cambiamento. Quando tu metti in gioco queste cose metti in moto la speranza. È una lezione che ci viene da Corrado Alvaro, il suo pessimismo non escludeva la speranza e l’utopia. I grandi pensatori calabresi si sono sempre mossi entro questi due poli, Campanella, Gioacchino da Fiore, criticavano lo status quo e il potere in modo feroce, ma nello stesso tempo coltivavano l’utopia, prospettavano la possibilità di mondi nuovi.

Intanto, però, quasi il 60% dei calabresi non vota.

C’è chi non vota per protesta, ma tanti non votano per apatia e rassegnazione. Perché tanto sono tutti uguali, tutti ladri, nessuno pensa al popolo. Qualunquismo. Alla fine la conseguenza è che vincono i vecchi gruppi di potere. Non si vota perché prevale uno sguardo disperato sulla realtà. Ultimi per qualità della vita, primi per criminalità organizzata, ultimi per la sanità, primi per corruzione, la Calabria contribuisce a rafforzare questa idea di essere terra ultima, al punto che neppure vale la pena occuparsene, come è accaduto durante le ultime elezioni. Certo, è vero che c’è uno sguardo ostile nei confronti di questo lembo d’Italia, ma ci dobbiamo chiedere se noi calabresi non contribuiamo a rafforzare lo stereotipo.

I calabresi, diceva Corrado Alvaro, “vogliono essere parlati”. Sono alla ricerca di una narrazione che aiuti a capire, che rappresenti la realtà senza pregiudizi e luoghi comuni. Come viene raccontata la Calabria?

Male. O è tutto mafia, o tutto sole, mare e cibo buono. Bisogna smetterla con l’adottare uno sguardo retorico o edulcorato. Il problema è anche come ci raccontiamo noi calabresi. Basta con la retorica della Magna Grecia, lo diceva Corrado Alvaro, mentre i braccianti poveri fuggivano all’estero, gli intellettuali locali si rifugiano nella retorica della classicità. Serve uno sguardo lucido, realista, senza autoassolverci, senza dare la colpa sempre agli altri. In più dobbiamo uscire dalla logica di una narrazione dove da un lato ci si sente assediati quando gli altri ci dicono come siamo, dall’altro, quando non si parla di noi calabresi, ci sentiamo trascurati. La Calabria è fatta di contraddizioni, di contrasti. È un agglomerato di passaggio di popoli, di separazioni, ha una storia di catastrofi, di vicende drammatiche, di emigrazioni. Lo sguardo deve essere complesso. Ma qui c’è un problema serio, l’incapacità delle élite di elaborare una identità autonoma, una soggettività propria ed una identità che è necessariamente plurale.

Il voto ci racconta dell’eterno ritorno delle vecchie élite.

I calabresi hanno scelto i soliti gruppi di potere, soffrono di retrotopia, il passato sembra garantire l’oggi e non il futuro. Un atteggiamento che ovviamente le vecchie classi dirigenti coltivano ben volentieri. Basta vedere i cambi di schieramento alle ultime elezioni, pensi che un ex di Rifondazione comunista si è candidato nelle liste della Santelli ed è stato eletto. I gruppi di potere calabresi stabiliscono un rapporto meramente clientelare con gli elettori.

A destra, al centro e anche a sinistra.

La sinistra calabrese da anni è lontana dai sentimenti e dai bisogni dei ceti popolari. In quanto a clientelismo non si è affatto distinta dalla destra. Lo ha praticato, ha favorito lobby e gruppi amicali, non ha pensato al bene della Calabria. Ma come volevano convincere un giovane a tornare per votare, con quale autorevolezza?.

I giovani vanno via e la sua terra muore, professore.

Il giovane che va via è un disperato, perché sa che non tornerà più. In passato l’emigrazione diventava un fattore di trasformazione per la realtà da cui si partiva, la migliorava, c’era la speranza di un ritorno. Oggi l’emigrazione del giovane che si forma qui, studia qui, porterà il suo capitale sociale e culturale fuori, impoverisce la Calabria. Da questo punto di vista si ha una grande rottura anche antropologica rispetto al passato, il ritorno non viene nemmeno messo nel conto perché si sa che tra dieci anni le cose non cambieranno. Ma dentro questo dramma, me lo lasci dire, c’è il dolore della mia generazione. Di quelli che hanno studiato grazie a padri che sono andati all’estero, e che per tutta la vita soffrono di una doppia mancanza, da giovani l’assenza del padre, da adulti quella dei figli che vanno via. In Calabria la classe politica non garantisce il diritto di restare.

Eppure, qualcosa sembrava muoversi. Le manifestazioni a favore di Gratteri, la Sardine, Mimmo Lucano. Altre illusioni?

Siamo una terra contraddittoria, di slanci e di apatie, di grandi sogni e di grande sonno, di autonomia e subalternità al potente che ti assicura qualcosa. Quella società civile che potrebbe rompere queste contraddizioni, non viene incoraggiata. Mimmo Lucano è un calabrese che sicuramente ha sognato, ma ha anche mostrato che l’identità non è quella dell’io sono perché mi proclamo così, ma è una identità del fare, io sto facendo, sto mostrando una immagine nuova e realizzando qualcosa per il bene comune. Ecco un esempio vero di disperanza.

“Omicidio Bachelet, Br pilotate per eliminare i migliori uomini”

“Nell’atrio della facoltà di Scienze politiche, in quell’angolo, accanto alla grande porta vetrata, c’è un lenzuolo di tela grossa, e sotto il lenzuolo qualcosa che da lontano sembra un fagotto o un animale abbattuto”. Sono le prime impressioni di Giampaolo Pansa, allora giornalista di Repubblica, mandato a raccontare l’ennesima giornata di sangue degli anni di piombo. È il 12 febbraio 1980, il giorno in cui viene freddato con sette colpi di pistola dai brigatisti Annalaura Braghetti e Bruno Seghetti il professor Vittorio Bachelet, 54 anni ancora da compiere. È il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, alla Sapienza insegna Diritto amministrativo. Accanto a lui, quando viene avvicinato dai killer, c’è una giovane assistente, Rosy Bindi, ex parlamentare ed ex ministro della Sanità. Oggi ha accettato di ricordare con noi il suo maestro, di cui ancora qualche volta parla al presente.

Perché le Br scelsero Bachelet?

Io credo che le Br abbiano perseguito il disegno di privare il Paese delle persone migliori, di coloro che per competenza, e rettitudine morale contribuivano a rendere migliore quello Stato che loro volevano abbattere, a rendere migliore il rapporto tra i cittadini e le istituzioni che volevano sovvertire. Di li a qualche anno scoppierà Tangentopoli: nessuno dei protagonisti era stato sfiorato dalle Br. Vittorio Bachelet era il vicepresidente del Csm, e in quegli anni in cui la magistratura era così esposta al terrorismo era riuscito a rasserenare i rapporti tra politica e magistratura. In questi quarant’anni mi sono fatta l’idea che, consapevolmente o no, le Br siano state lo strumento di poteri occulti dell’Italia di quegli anni, che approfittarono in quel passaggio in maniera esplicita anche del terrorismo nero e della mafia. Parti deviate dello stato e le massonerie deviate si servirono delle Br per ostacolare il progetto moroteo con l’assassinio di Moro e quella Sicilia delle carte in regola che costò la vita il 6 gennaio a Piersanti Mattarella. Bachelet era il vicepresidente del Csm che si adoperava per ricostruire gli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato.

Il progetto costituzionale non era ancora attuato completamente.

Bachelet non fa parte della generazione che scrive la Carta, ma di quella successiva che lavora alla sua applicazione: l’amministrazione era ancora organizzata attorno ai principi dello stato liberale e fascista. C’era molto da fare per attuare la Costituzione affinchè l’amministrazione fosse al servizio dei cittadini e non del potere. Nel 1980 furono uccisi Galli, Tobagi, Minervini. Tutte persone che praticavano, a diversi livelli della vita del Paese, il dialogo. È stato colpito chi lavorava per un progetto di democrazia compiuta. Le Br volevano uno Stato odiato e non amato dai cittadini, ma sono stati strumenti di altre forze, come la P2.

Vi siete conosciuti all’Università?

Sì, ma prima in Azione cattolica. All’università l’ho conosciuto come preside e docente, ho fatto con lui la tesi e poi su sua richiesta sono diventata assegnista in Diritto amministrativo. Lui era un giurista molto rigoroso ma che si applicava ai problemi del Paese. Era la sensibilità politica che gli fa individuare il settore di ricerca e studio. Apparteneva a quella generazione cattolica che ha costruito la Repubblica e attuato il Concilio: si era formato nella Fuci, la federazione universitaria dei cattolici, poi era stato a lungo presidente dell’Azione cattolica.

Lei era accanto a lui quando arrivò la Braghetti. Cosa ricorda?

La nostra facoltà era quella di Aldo Moro: avevamo vissuto quegli anni con particolare partecipazione. Lui non vuole la scorta. Una mattina me lo disse: dopo il rapimento di Moro le prime vittime erano stati gli uomini della scorta. Se lui era un obiettivo non voleva coinvolgere altri. Era consapevole di essere in pericolo, a tal punto da non voler mettere in pericolo altri.

Io fui la prima a vedere il volto della Braghetti che si avvicinava sulle scale. Immediatamente lui cambiò espressione, da sorridente quale era di solito, si fece terrorizzata. Lo capì subito che non era una studentessa che voleva una dispensa! In un attimo mi allontanarono da lui e spararono. Quando vidi i colpi entrare nel petto capii che non c’era più nulla da fare. Fece un grande urlo e andò a sbattere contro la parete di marmo.

C’è qualcosa che ancora non si spiega?

Sì, il deserto che c’era attorno a noi quella mattina. Perfino l’ufficio del custode era chiuso. Chiamammo aiuto e per molto tempo non arrivò nessuno. Si era sparsa la voce, così è stato ricostruito in un secondo momento, che c’era una bomba e che tutti dovevano lasciare la facoltà: qualcuno s’incaricò di fare in modo che restassimo soli.

Il figlio Giovanni invocò il perdono ai funerali del suo papà. Una reazione che è stata letta come di segno opposto rispetto a quella della famiglia Moro.

Ogni famiglia ha il suo modo di reagire alle tragedie e tutte meritano rispetto. La preghiera di Giovanni io la leggo come la continuazione dell’opera di pacificazione portata avanti da Vittorio per tutta la sua vita. Era un uomo di dialogo e riconciliazione. Era un cristiano vero, con una fede profondissima e serena. Quando diventò presidente dell’Azione cattolica, negli anni del Concilio, fece un’intervista al Tg1. Gli chiesero quale fosse la missione dell’associazione. E lui disse: “Aiutare gli italiani ad amare di più Dio e gli uomini”. Diceva sempre: dobbiamo essere consapevoli dell’importanza dei nostri valori e della nostra cultura, ma li dobbiamo mettere a disposizione del mondo non per dominarlo ma per servirlo. Questo è un insegnamento prezioso, non solo per chi è credente.

Inverno caldo: Vietato stupirsi

Ieri ai 500 metri di quota di Susa, a ovest di Torino, la temperatura ha superato i 20 gradi sotto un foehn a 90 chilometri orari. Oltre mille metri più in alto, davanti alle piste da sci di Sauze d’Oulx, per tutta la notte non ha gelato.
Eppure lì normalmente nei primi giorni di febbraio le temperature dovrebbero essere ben sottozero. Invece la minima era 5 gradi, con gocciolio di neve che fondeva dai tetti, e in giornata si sono toccati 12 C di massima tra nubi, sole e perfino un po’ di pioggia. Per trovare temperature negative bisognava salire vicino a 3mila metri. Condizioni che quassù ci sono di solito a inizio maggio. E non sono un caso isolato che ci può stare nella variabilità meteorologica, bensì una cifra di questo inverno da burletta. Nella vicina Francia il bimestre dicembre 2019 – gennaio 2020 è stato il secondo più caldo da oltre un secolo, dopo quello del 2015-16. Le correnti straordinariamente miti da sud-ovest che anche oggi su gran parte d’Italia porteranno valori primaverili, cederanno però il passo da mercoledì a un netto raffreddamento, febbraio tornerà nei ranghi con gelate anche in pianura. E presto dimenticheremo questo caldo lamentandoci del freddo.

Ancora una volta non riusciremo a cogliere il senso di queste anomalie: il freddo d’inverno dovrebbe essere normale mentre non lo è l’opposto. Gli episodi miti invernali stanno tuttavia diventando la norma in questo nuovo millennio a causa del riscaldamento globale che, come correttamente predetto oltre quarant’anni fa, si sarebbe esplicitato proprio dopo l’anno 2000. Quindi il giusto approccio sarebbe non tanto quello di stupirsi candidamente ad ogni record termico sopra le attese, ma quello di preoccuparci della mancanza di contromisure per evitare che tra 50 anni neve e gelo siano solo un ricordo.

Il che si porta dietro problemi nel settore agricolo, in quello del turismo e della conservazione della biodiversità. Problemi che poi esplodono d’estate quando le ondate di calore diventano e diventeranno più frequenti e intense, l’acqua scarseggerà e gli incendi boschivi divamperanno. Ogni volta che ci stupiamo per i venti gradi a febbraio dovremmo in realtà comportarci come un medico che sorveglia il coronavirus, ne trova i sintomi nella febbre in aumento e immediatamente cerca di isolare l’infetto e instaurare una terapia. Ma perché di fronte al rischio della pandemia reagiamo con misure rapide e razionali, almeno quelle da parte dei governi, chiudendo rotte aeree, istituendo quarantene e potenziando le infrastrutture sanitarie, anche a prezzo di perdite economiche, mentre di fronte al rischio climatico che è solo un po’ più diluito nel tempo ma non meno inquietante e soprattutto irreversibile se non curato a tempo debito, non facciamo nulla? Forse perché ci spaventiamo e corriamo ai ripari solo di fronte a pericoli che vediamo e tocchiamo con mano (pure qui quando spesso è troppo tardi…) e ce ne infischiamo degli avvertimenti preventivi nei confronti di quelli a medio-lungo termine? Ma perché non impariamo mai?

I medici italiani: “Così abbiamo isolato il virus”

Quarantotto ore. A partire dal ricovero della coppia cinese prelevata mercoledì al Grand Hotel Palatino di Roma. Due giorni sono bastati al laboratorio di Virologia dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” per isolare il virus 2019-nCoV, che in Cina ha colpito circa 10mila persone uccidendone 213 ed è arrivato anche in Italia.

“Avere la mappatura del virus significa poterlo studiare in tutte le sue caratteristiche – spiega al Fatto Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani – abbiamo stabilito che il ceppo riscontrato a Roma è sostanzialmente sovrapponibile a quello del mercato di Wuhan”. Un risultato che consentirà di elaborare una risposta al morbo che dalla metropoli della provincia di Hubei ha raggiunto in un tempo relativamente breve tutti i continenti. “Quando diciamo che abbiamo il test per il coronavirus, significa che abbiamo test molecolari basati sulla reazione a catena della polimerasi”, prosegue Ippolito. Tradotto? “Finora non avevamo l’intera sequenza del virus, ma solo un pezzetto di acido nucleico – spiega il professore – Dopo questo risultato, invece, ce l’abbiamo. Ora si potranno fare accertamenti genetici migliori”.

La scoperta è stata messa a disposizione della comunità scientifica internazionale: “Venerdì notte abbiamo depositato le informazioni che riguardano la caratterizzazione genetica del virus sul sito della banca delle sequenze, la GenBank che si trova a Los Alamos. Le sequenze sono, come si dice in gergo, ‘aperte’ perché tutti coloro che hanno titolo a farlo possano vederle”. E possano lavorare alle contromisure: “Certo – prosegue Ippolito – sarà utile per testare i farmaci e candidati farmaci. Ad esempio, ce ne sono alcuni nati per l’Hiv che hanno funzionato contro la Sars e adesso sono stati autorizzati per curare i pazienti più gravi in Cina. Nei prossimi giorni metteremo a disposizione l’intera sequenza genomica del virus”. Che potrà essere utilizzata per la messa a punto di un vaccino: “Tutti questi ceppi virali serviranno a metterlo a punto, anche se non arriverà domani – spiega il professore – dobbiamo considerare un periodo che va dai 3 ai 6 mesi per trovare un candidato vaccinale e tra i 6 mesi e un anno per avere un prodotto potenzialmente utilizzabile. Come accade con tutte le epidemie”.

“Diversi gruppi di ricerca ci stanno già lavorando, soprattutto aziende – spiega al Fatto Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità – La tecnologia c’è per metterlo a punto in poco tempo, poi bisogna fare le sperimentazioni per valutare sicurezza ed efficacia, produrlo e distribuirlo su larga scala. È un processo che richiede tempo”.

Il risultato è il frutto del lavoro di un team tutto al femminile, guidato da Maria Capobianchi, 67 anni, direttrice del laboratorio di Virologia dello Spallanzani. Al suo fianco Concetta Castilletti, 56 anni, responsabile dell’Unità dei virus emergenti, e Francesca Colavita, 30 anni, ricercatrice precaria. Che hanno lavorato su materiali forniti dalla Cina con protocolli messi a punto in Germania. “Sulla base delle sequenze messe a disposizione da Pechino – spiega ancora Ippolito – la Germania ha messo a punto una procedura, come era accaduto per la Sars”. Lo Spallanzani, poi, ha utilizzato il protocollo tedesco per i test sui materiali orofaringei prelevati alla coppia cinese ricoverata da giovedì. “Siamo arrivati dopo Giappone e Stati Uniti, ma siamo contenti – conclude Ippolito – i francesi hanno annunciato a mezzanotte, noi dopo qualche ora perché abbiamo preferito fare un secondo test di conferma prima di comunicare il risultato”.

È stato il ministro della Salute Roberto Speranza a dare la notizia, per poi lanciare un appello all’unità a tutti i partiti, chiedendo “una riunione domani (oggi, ndr) alle 18 con tutti i capigruppo per lavorare insieme e dare una risposta. Berlusconi e Meloni hanno dato la loro disponibilità. Lo farò anche con Salvini”.

Accusa l’Azzolina: arruolato ai convegni leghisti

La segnalazione circola nei corridoi di viale Trastevere e, seppur in parte, risponde alla domanda che in questi mesi la neoministra dell’Istruzione Lucia Azzolina e il suo staff si sono posti, ovvero quale siano il motivo e la fonte dell’accanimento di Massimo Arcangeli, professore di Filologia e collaboratore di Repubblica e Il Giornale, sulla questione delle parti di testo che avrebbe copiato nel lavoro di fine corso della scuola di specializzazione per l’insegnamento e anche nelle due tesi, di laurea, triennale e specialistica, in filosofia.

Arcangeli, sabato, ha partecipato a un convegno a Bari promosso dal deputato leghista Rossano Sasso e dal senatore leghista, ben attivo sui temi scolastici, Mario Pittoni. Il titolo è chiaramente di opposizione: “Scuola, il governo delle bugie” e tra i vari relatori, soprattutto membri del comitato “Trasparenza è Partecipazione” e dell’associazione “Libera Scuola” (entrambe si professano movimenti apolitici) è stato assoldato anche Massimo Arcangeli, che nei mesi scorsi ha accusato la ministra, con una serie di articoli di aver copiato senza citare le fonti o citandole male stralci di testo nei suoi lavori conclusivi universitari e per l’abilitazione all’insegnamento (testi che anche il Fatto ha analizzato con i software antiplagio ricavandone dati molto meno allarmistici di quelli diffusi da Arcangeli). “Dopo una nottata a combattere con prenotazioni aeree che non risultavano, alternative possibili (treni, auto, voli diversi da quello previsto, ma sarei andato anche a piedi pur di esserci) – ha scritto Arcangeli su Facebook -. Oggi parlerò per la prima volta davanti a un pubblico ‘reale’ della vicenda dell’on. Azzolina. Mi appello al Governo, e alle forze politiche che lo reggono, perché si faccia chiarezza, una volta per tutte, su una vicenda imbarazzante (in attesa, naturalmente, delle interrogazioni parlamentari che verranno)”.

Insomma, abbandonate le sue (varie) pagine Facebook, Arcangeli ora spiega le sue ragioni sotto la bandiera della Lega (Sasso promuove il convegno con tanto di simbolo), tra un pubblico che lui stesso definisce “reale”. La sua battaglia contro l’Azzolina era infatti iniziata proprio sui social quando, all’indomani di una intervista in cui l’Azzolina aveva spiegato che non vedeva problemi nello svolgere il concorso per dirigente scolastico mentre era deputata (e membro della commissione cultura) e che avrebbe anzi dovuto “studiare il doppio”, Arcangeli si era sentito tirato in causa in quanto presidente della commissione giudicatrice. Aveva – sintesi di quanto denunciato al tempo online – interpretato le parole dell’Azzolina (che poi fu comunque promossa all’esame) come una messa in discussione della correttezza della commissione. Ne era seguita la pubblicazione da parte di Arcangeli – sempre online – dello zero preso nella prova di informatica e dei risultati della prova affissi in bacheca.

De Magistris indagato per “Piazzapulita”: avrebbe diffamato chi bloccò Why Not

Quasi tredici anni dopo il deflagrare delle indagini a Catanzaro, le scorie di Why Not continuano a depositarsi ovunque. L’ultima è piovuta sul tavolo del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il pm che aprì all’epoca le inchieste sui finanziamenti pubblici alle imprese ritenute protette dal sistema politico-massonico calabrese, prima di subire la sottrazione dei fascicoli: un avviso concluse indagini per diffamazione in concorso con Corrado Formigli, conduttore di Piazzapulita, per una puntata andata in onda il 9 marzo 2017.

Il primo cittadino e il giornalista sono indagati su querela dell’ex procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone. Sul capo di imputazione si contesta a de Magistris, ed a Formigli “che non manifestava alcun distacco”, un pezzo dell’intervista rilasciata su La7: “Io non avrei mai ipotizzato di fare il sindaco… io avrei voluto fare il magistrato… poi lei ha citato una mia inchiesta che si chiama Why Not… quell’inchiesta non fu portata a termine proprio perché fummo fermati da un sistema criminale fatto di pezzi di politica, pezzi di magistratura e pezzi di istituzioni, a danno dei presunti colpevoli e dei presunti innocenti… perché se tu fermi un’indagine… è venuto fuori chiaramente che mi sono state scippate le inchieste e che le inchieste dovevano essere scippate…”.

La giurisprudenza fissa i procedimenti delle diffamazioni televisive nella procura competente per la residenza del presunto diffamato. E quindi ha proceduto Lamezia Terme, pm Emanuela Costa, secondo la quale la denuncia merita di essere approfondita “pur in assenza di indicazioni nominative” (de Magistris non fece nomi) perché Murone all’epoca era il procuratore aggiunto a Catanzaro capo della sezione pubblica amministrazione, e firmatario delle relazioni su Why Not che determinarono da parte della procura generale la decisione di avocare il fascicolo al pm de Magistris.

C’è un passaggio dell’avviso che merita di essere sottolineato, riguarda le tempistiche: secondo la Procura calabrese, de Magistris sarebbe stato offensivo verso Murone pur “avendo piena conoscenza” che l’ex procuratore era stato assolto a Salerno nel processo per il presunto complotto ai danni dell’ex pm “perché il fatto non sussiste”. Sentenza di assoluzione in primo grado del 20 aprile 2016 (quasi un anno prima di Piazzapulita) divenuta definitiva nel settembre 2019 (due anni e mezzo dopo). A voler essere pignoli, andrebbe ricordato che al momento della messa in onda pendeva un ricorso “ai soli fini civili” che la Corte d’Appello ha accolto nel novembre 2018, trasformando le assoluzioni delle imputazioni di corruzione in prescrizioni di abuso d’ufficio. La Cassazione ha però cassato senza rinvio questa sentenza. Decisione che fu accolta con giubilo da Murone: “Tutte le mistificazioni, le bugie, le cattiverie sono finite, l’assoluzione è stata ribadita”. Di parere diverso fu de Magistris: “La sentenza della Corte d’Appello di Salerno in cui si parla di condotte, seppur prescritte, di abuso d’ufficio, quindi di sottrazioni illecite delle inchieste Why not e Poseidone, al fine di danneggiarmi e avvantaggiare gli indagati, è un fatto storico acclarato e la storia non può essere cambiata, qualunque sia la motivazione della Cassazione”.

Migranti, così deve cambiare il trattato tra l’Italia e la Libia

Alla vigilia del rinnovo del memorandum italo-libico sul contrasto alla migrazione irregolare, stipulato nel febbraio 2017 dal governo Gentiloni, Dunja Mijatovic era stata molto chiara: “Chiedo al governo italiano di sospendere l’attività di cooperazione con la Guardia costiera libica per quanto riguarda il respingimento in Libia delle persone intercettate in mare”, aveva detto venerdì scorso il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa. Ricordando che il memorandum era destinato a essere automaticamente riconfermato il 2 febbraio, il Commissario deplorava che le autorità italiane non avessero usato questi mesi per “cancellare l’accordo o, come minimo, modificarne i termini”. Modifiche che il ministro Lamorgese aveva garantito, il 6 novembre, ma di cui non risulta esserci traccia il giorno dopo l’automatico rinnovo. “Il memorandum rimarrà in vigore nella sua formulazione originaria fino a quando non saranno concordati gli interventi migliorativi”: così la Farnesina ha messo nel cassetto i propositi del ministro dell’Interno come se mai fossero esistiti.

Dunja Mijatovic aveva anche fatto capire che le parole e le buone intenzioni sull’evacuazione dei centri di detenzione non sarebbero bastati. Il memorandum andava sospeso, assieme al sostegno offerto alle Guardie costiere, “fino a quando la Libia e le Guardie costiere non saranno in grado di dare concrete garanzie sul rispetto dei diritti umani”. Queste le condizioni minime: migranti e richiedenti asilo devono essere liberati dai campi in cui si trovano (un diplomatico tedesco li definì Lager di morte, anni fa); il ricorso ai corridoi umanitari deve divenire politica dell’Ue e non solo dell’Italia; e nel Mediterraneo va assicurata una presenza sufficiente di navi dedicate alla Ricerca e Soccorso: “Questa tragedia è già durata troppo tempo, e i Paesi europei ne sono responsabili”. Già nel settembre 2017, il predecessore di Mijatovic –Nils Muižnieks– aveva aspramente criticato il ministro Minniti su questi temi.

Sia pure con toni meno forti, il Capo della missione in Libia dell’Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati), Jean Paul Cavalieri, si era espresso in modo non dissimile, l’8 gennaio in un’audizione alla Commissione esteri della Camera. Aveva detto che alcuni progressi esistono, anche se le evacuazioni dei Lager e il reinsediamento in Paesi sicuri degli evacuati restano minimi, ma comunque aveva ribadito una cosa essenziale, che l’Onu va ripetendo dal dicembre 2016: “La Libia non è da considerarsi un porto sicuro di sbarco per i migranti” (“place of safety”, nel linguaggio del diritto internazionale).

Sia il commissario del Consiglio d’Europa sia il capo missione Unhcr hanno puntato il dito su un’evidenza: la violenza della guerra ha enormemente aggravato la situazione nei campi di detenzione, e minacciato la sicurezza di migranti e rifugiati che si aggirano, senza alcuna protezione, nelle città libiche (a tutt’oggi gli sfollati a causa della guerra sono oltre 300.000). È dunque pertinente quanto affermato sull’Espresso da Francesca Mannocchi: delle promesse fatte da Lamorgese (riconferma del memorandum, ma negoziando modifiche sostanziali) non sembra esser restato nulla, a parte dichiarazioni vuote. Dichiarazioni che si sono ripetute negli ultimi anni, a Roma come a Bruxelles, anche se da più di tre anni l’Onu ritiene la Libia porto non sicuro.

Che l’Italia non sia l’unica responsabile del disastro è messo in evidenza, come abbiamo visto, sia da Mijatovic che da Cavalieri. Un aspetto non minore della tragedia è infatti la volontà di impotenza mostrata dall’Unione europea a fronte di una guerra che si sta trasformando in un sanguinoso regolamento dei conti geo-politico, che vede al-Sarraj appoggiato da Turchia e Qatar, e Haftar sostenuto da Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Russia e Francia. Il 19 gennaio, un vertice mondiale a Berlino ha tentato senza successo di fermare l’escalation bellica: i partecipanti si sono impegnati a non interferire nel conflitto e a “rispettare in pieno l’embargo sulle armi” stabilito nel 2011dall’Onu. Erano vane parole anche quelle, e le interferenze continuano così come le forniture di armi o mercenari. La Libia è un paese ricco di petrolio e gas naturale: questo il vero oggetto di contesa nel Grande Gioco nel Mediterraneo orientale. In particolare, è l’oggetto di contesa nel conflitto politico-diplomatico che vede contrapporsi i governi di Francia e Italia.

Se il governo italiano ha dunque responsabilità di primo piano per quanto riguarda il flusso dei migranti e il memorandum, altrettanto può dirsi della Francia di Macron. Il divario tra parole e fatti, nel caso francese, è solo più subdolo. Basti ascoltare quanto detto da Macron in occasione della visita in Francia del Premier greco, il 29 gennaio: con parole pesanti ha accusato Erdogan per violazione dell’embargo sulle armi, ma non ha fatto il minimo accenno ai mercenari pro-Haftar del Ciad e del Sudan, ai missili francesi trovati in un quartier generale di Haftar presso Tripoli, e alla violazione dell’embargo da parte di chi – come lui – fiancheggia il generale: Emirati e Giordania, già indicati da un gruppo di esperti Onu, nello scorso dicembre, come fiancheggiatori principali di Tobruk. “La Francia sta dando prova di una grande miopia”, avevano concluso gli esperti.

In questo Grande Gioco non ci sono innocenti, e lo stesso si può dire per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori e la mancanza di politiche di Ricerca e Soccorso nelle acque del Mediterraneo. Divisa com’è, l’Unione fa finta di agire. E se si parla dell’Italia con più severità, è solo perché la Francia di Macron è una potenza, nell’Unione europea, più eguale di quasi tutte altre.

Campania, gelo per Fico: no al Pd dalla base dei 5S

Anzitutto, i numeri: quasi il 90% dei 120 tra attivisti, portavoci di meetup ed eletti del M5s in piccoli e grandi consessi in Campania, intervenuti al dibattito convocato a Napoli dai facilitatori Luigi Iovino e Agostino Santillo, ha detto no a un’ipotesi di intesa col Pd per le elezioni regionali di primavera. Con interventi spesso accompagnati dalla postilla “no ai dem con o senza Vincenzo De Luca”, l’ingombrante governatore uscente la cui ricandidatura era ritenuta il principale ostacolo. Finora.

Poi, i luoghi: se la scelta di radunarsi all’Hotel Ramada, il luogo dove nel 2016 De Luca invocò una campagna elettorale pro riforma costituzionale a base di fritture di pesce, era stata ironicamente letta come il tentativo di esorcizzare la possibilità di sedersi a un tavolo con lui, il tentativo è fallito.

“Siamo qui per bonificare i luoghi”, ci scherzava ieri la capogruppo regionale Valeria Ciarambino, salvo poi ricordare l’episodio nel corso dell’intervento: “Siamo nella sala del patto delle fritture, simbolo di una politica in cui i cittadini sono usati per il potere personale”.

Infine, le facce. A cominciare da quella, funerea, di Roberto Fico, figura simbolo di una costruenda alleanza in Campania per allargare al centrosinistra il progetto di sostituire De Luca con il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, mentre ascoltava le parole di Ciarambino a conclusione dell’assemblea: “Porteremo al capo politico reggente (Vito Crimi, ndr) la fotografia di un M5S che per rilanciarsi ha deciso di ripartire da se stesso”. Applausi quasi unanimi, con eccezione delle cinque o sei persone sedute intorno al presidente della Camera. E poi le facce arrabbiate di alcuni interventi, tipo quella di Matteo Brambilla, il candidato sindaco di Napoli del 2016: “Io mi incazzo persino se me lo chiedono soltanto, di dialogare col Pd”.

Una delle sintesi più efficaci è nelle parole di Francesco Martino, dell’agro-aversano. “Direi no al Pd pure se ci proponessero una figura stimabile come quella di Raffaele Cantone”. Secondo Titti Caldarelli, che ha parlato a nome degli eretici della Carta di Firenze, “non ci sono nemmeno le condizioni per presentare una lista”. Quei pochi che invitano al dialogo vengono subissati di fischi. Tra loro c’è Antonio Marfella, l’epidemologo della Terra dei Fuochi che ricorda con stima il professore Franco Ortolani (senatore recentemente deceduto, il 23 febbraio ci sono le suppletive del suo collegio di Napoli). Il clima è così rovente che Rosa Maria, del meetup di Cardito, favorevole “ma con un candidato comune della società civile”, va via senza parlare. Ed anche le facce tese dei parlamentari che a Roma avrebbero dato il via libera e vengono sbeffeggiati: “Vi abbiamo mandato noi a Roma, siete dei portavoce, venite a presentarvi alle comunali e vediamo quanti voti prendere”, grida uno.

La senatrice Virginia La Mura, intervenuta per sostenere le ragioni del dialogo, si aggira in sala lamentandosi della piega che ha preso il dibattito: “Non doveva essere un referendum su sì o no al Pd, ma un incontro sui temi da proporre al tavolo”. La deputata Gilda Sportiello che al termine dei lavori va via sconfortata. Il senatore Andrea Cioffi che non riesce a parlare e a margine sussurra: “La vera domanda da porre era questa: vogliamo provare a guidare la Campania? Da soli perdiamo”. Di Maio non è venuto e l’invito di un militante a rivolgergli un applauso cade nel vuoto. Per lui presidia Ciarambino, che rivolge un invito netto ai (nuovi) vertici nazionali: “Chiediamo che a votare sulla piattaforma Rousseau siano solo i campani”. Le parole possibiliste di Fico cadono nel gelo della base: “Dopo cinque anni di opposizione abbiamo capito che o fai opposizione a vita o ti devi alleare” e se non ci sarà intesa “a maggio probabilmente avremo la fotografia della situazione attuale: con De Luca, Caldoro e una nostra pattuglia. Dobbiamo allora pensare se c’è un’altra strada. Ma se non c’è, non è il medico ad averci prescritto questa medicina”. Neanche con un poco di zucchero la pillola Pd va giù.