Prescrizione&regionali: il Patto dei due Matteo

La mossa del cavallo: il testo ancora non c’è, ma Matteo Renzi dal palco dell’Assemblea nazionale di Italia viva, circondato da uno zoccolo duro sempre più residuale, ma agguerrito, annuncia il titolo del suo prossimo libro. “Non è quella di agosto, sarà la prossima”, chiarisce. Quella che tutti si aspettano? Un rocambolesco salto nello schieramento avverso per appoggiare in maniera più o meno esplicita Matteo Salvini? Tanta strategia e tanta prospettiva sono decisamente troppo per l’ex premier. E sono troppo pure per l’omonimo leader leghista, che si dibatte in una crisi ancora non tanto rovinosa da essere definitiva, ma sempre più conclamata. I due, però, qualche favore sottobanco se lo fanno sempre.

Sarà un caso, ma davanti alle colonne ricostruite di antiche chiese ieri si vedeva passare di nuovo Antonio Angelucci, il forzista più vicino a Denis Verdini, l’anello di congiunzione tra i due Mattei. Il cui ex portavoce, Francesco Sciotto, è oggi quello di Sandro Gozi, l’avamposto macroniano di Renzi in Europa. Un altro caso, un altro indizio. Maglioncino nero inedito (una scelta di campo voluta?), ennesimo viaggio in Italia in programma (in camper, come ai bei tempi degli esordi),

Renzi ha davanti due partite per dimostrare di essere vivo. Primo, le sei regioni al voto. Secondo, la prescrizione. In entrambi i dossier, le convergenze con la Lega si vedono. “Al Sud non serve il reddito di cittadinanza, serve un progetto. Al Sud serve una nuova classe dirigente e quando diciamo no a Emiliano, non diciamo no a una persona ma diciamo no al peggiore notabilato meridionale”, scandisce dal palco nell’entusiasmo generale Teresa Bellanova. Finora la sua candidatura non sembrava sul tavolo, oggi è una possibilità concreta. Con lei, l’8% è a portata di mano: dimostrare di avere i voti è essenziale per Renzi. Comunque, Iv (insieme a Calenda) metterà in campo un nome suo. Quello che potrebbe far perdere il governatore, visto che i Cinque Stelle hanno il loro e Raffaele Fitto svetta nei sondaggi. La partita in casa centrodestra è complessa. Salvini ora non vorrebbe lasciare la Puglia a Fratelli d’Italia e a Giorgia Meloni, nonostante gli accordi. Ma non ha un nome altrettanto forte. A proposito di patti variabili. Perché il leader del Carroccio aveva deciso di presentare uomini suoi nelle Regioni rosse (Emilia-Romagna, Marche e Toscana), sognando la sconfitta di Bonaccini e dando per persa la Regione dell’ex premier. Nei dialoghi con lui era sempre venuta fuori l’idea che contro il candidato del centrosinistra (ma voluto da Renzi), Eugenio Giani, il centrodestra ne avrebbe presentato uno debole. Qualche ripensamento ci sarebbe, ma un nome forte Salvini non ce l’ha.

“A Bonafede dico fermati finché sei in tempo perchè in Parlamento votiamo contro la follia sulla prescrizione. Patti chiari, amicizia lunga. Senza di noi non avete i numeri al Senato e forse neanche alla Camera”. Con queste parole, il treno contro la prescrizione è partito. Mentre il M5S fa muro, l’agitazione è massima in casa Pd. Al Nazareno chiedono un intervento del premier, Giuseppe Conte. Iv a Palazzo Madama i numeri per mandare sotto il governo sulla proposta di legge Costa che abroga la norma del Guardasigilli ce l’ha. Senza contare che al netto del rischio oggettivo per la maggioranza, Renzi si intesta un tema che i dem non vogliono lasciargli. Anche stavolta, con la gentile collaborazione di Salvini: “Pazzesco questo continuo litigio sulla giustizia: siamo pronti a sostenere qualunque proposta per ridurre i tempi dei processi ed assicurare certezza della pena, decida il Parlamento”.

Conferme a latere. Sta per arrivare in Giunta delle Autorizzazioni del Senato un’altra richiesta di processo per il capo della Lega per il caso Open Arms. Prematuro capire che posizione assumeranno i renziani, ma voci dentro Iv reputano che non ci siano gli estremi per una condanna. A questo punto, quanti sono gli indizi?

Ma mi faccia il piacere

Duri d’orecchio. “Gli avvocati stufi di dover ascoltare Davigo” (Filippo Facci, Libero, 30.1). Rischiano di imparare qualcosa.

L’ideona. “‘La prescrizione di Bonafede intasa il sistema’. L’allarme della Cassazione agita il governo” (La Stampa, 1.2). “Cassazione, i dubbi sulla riforma: senza prescrizione rischio paralisi” (Corriere della sera, 1.2). “Prescrizione vuol dire paralisi giudiziaria” (il Foglio, 1.2). Giusto: contro l’intasamento e la paralisi, prescrizione obbligatoria per tutti i processi.

Noi siamo scienza. “La migliore arma per fermare l’epidemia è isolare chi ha contratto l’infezione” (Roberto Burioni, virologo, La Stampa, 1.2). Fortuna che ci sono scienziati come lui, sennò non ci arrivava nessuno.

Sorpresa. “Inaugurazione dell’anno giudiziario: a sorpresa spunta De Vito, imputato per lo stadio” (Repubblica-cronaca di Roma, 2.2). Nessuna sorpresa di Repubblica, invece, per la presenza all’Anno giudiziario milanese del sindaco Giuseppe Sala, condannato a 6 mesi in primo grado per falso in atto pubblico.

Promesso? “Salvini: ‘Io rifarei tutto’” (Il Messaggero, 28.1). Oh, mi raccomando, l’hai promesso eh?!

Resurrezioni. “La morte dei Cinquestelle resuscita Autostrade” (Libero, 29.1). I 43 morti ancora no.

Garantisti. “Processare Bonafede” (il Foglio, 28.1). “Gli avvocati arrestano Davigo e Bonafede” (il Giornale, 2.2). E questi sono i garantisti. Poi ci sono i giustizialisti.

Moderati. “La sinistra ha attuato una mobilitazione degna dei tempi andati, si è vista in tv gente di più di cento anni portata ai seggi, disabili accompagnati con i pulmini…” (Attilio Fontana, Lega, governatore della Lombardia, 28.1). E questi sono i moderati. Poi ci sono gli estremisti.

Tradizioni famigliari. “Sulla prescrizione sto con Forza Italia, noi non siamo per le manette” (Matteo Renzi, segretario Iv, repubblica.it, 1.2). Ma papà ti manda solo?

Se c’ero dormivo. “Italia Viva non c’era in Emilia perché me l’ha chiesto Boanaccini” (Renzi, La Stampa, 28.1). Sennò sai che trionfo. E in Calabria chi te l’ha chiesto?

Macedonia alla calabrese. “Santelli in trincea: ‘Caccerò i mandarini’” (il Giornale, 28.1). Ma non toccatele il Banana.

Agende. “Il Pd a Conte: ora cambiamo agenda” (La Stampa, 28.1). Nazareno Gabrielli.

Il giureconsulto. “Il capo della magistratura dice che l’abolizione della prescrizione è una stupidaggine” (Piero Sansonetti, Tagadà, La7, 31.1). “Davigo non ne sa moltissimo di diritto” (Sansonetti, il Riformista, 28.1). “Davigo, poco noto come giurista ma notissimo come personaggio Tv” (Sansonetti, ibidem, 31.1). Parla il giurista che crede che la magistratura abbia un capo.

Riflessi prontissimi. “Io senatrice ho deciso di lasciare i 5Stelle anche per lo strappo sulla prescrizione” (Silvia Vono, senatrice passata dal M5S a Iv, Il Dubbio, 31.1). Poverina, non si era accorta che i 5Stelle sono contro la prescrizione da quando sono nati.

Grasso che cola. “‘Deriso perché ero obeso’, Filippo Sensi in Aula racconta la sua storia” (Ansa, 29.1). “Bullismo, il deputato Sensi si sfoga in Aula: ‘Ciccione, così mi insultavano da bambino’” (Il Messaggero, 29.1). “Ho perso 40 chili e ora sono il simbolo dei grassi bullizzati” (Sensi, deputato Pd ed ex portavoce di Renzi, intervista a Repubblica, 30.1). “Sensi: il testo completo del discorso” (corriere.it, 30.1). “Quando mi chiamavano Cicciobomba” (Sensi, intervista a Vanity Fair, 31.1). “Le parole di Sensi: un aiuto concreto per i ragazzi che soffrono” (La Stampa, 1.2). Senza offesa per nessuno: esticazzi?

Autoritratto. “I 5 Stelle non hanno più nulla da dire. Sono stati al governo con tutto e il contrario di tutto e non han combinato niente” (Federico Pizzarotti, sindaco di Parma eletto dal M5S, poi passato al centrosinistra, Repubblica, 27.1). Quindi si sente ancora un 5Stelle.

Ignobili. “Craxi è un punto di riferimento della sinistra riformista. Berlinguer è stato un grande leader, ma aveva ragione Craxi. Renzi ha avuto la capacità di rendere maggioritarie quelle idee. Ad Hammamet non sono andato per impegni elettorali, ma ho spedito un sms affettuoso a Bobo. Il primo comizio che ho visto è stato di Bettino, avevo 13 anni. Indimenticabile” (Luciano Nobili, deputato Iv, la Verità, 201). Povero ragazzo: da certi traumi infantili non ti riprendi più.

Il titolo della settimana/1. “Vince il Pd riformista, perde il Pd delle Procure” (Il Riformista, 28.1). Uahahahahaah.

Il titolo della settimana/2. “Diliberto a Wuhan, città del virus: ‘È meno sporca di Roma’” (Libero, 30.1). “Ormai a Bogotà dicono: ‘Non siamo mica a Roma’” (il Foglio, 30.1). Poi dicono che la stampa satirica è morta.

 

Dal letame (mafioso) nascono “I fiori blu” della letteratura

A Foggia sboccia una nuova primavera. Il mondo della cultura risponde alla recrudescenza mafiosa, che sta scuotendo la Capitanata, con un premio letterario nazionale. Per tre mesi il capoluogo dauno ospiterà i migliori romanzieri e saggisti italiani. Il progetto organizzato dall’associazione “I fiori blu”, che dà il nome anche al premio, trae ispirazione dal titolo del libro di Raymond Queneau: “Uno strato di fango ricopriva ancora la terra – si legge nell’opera tradotta da Italo Calvino – ma qua e là piccoli fiori blu stavano già sbocciando”.

L’ambiziosa sfida di avviare un percorso di rinascita per il territorio, attraverso la promozione della lettura, è mossa dal desiderio di riscatto sociale che anima professionisti e volontari impegnati a sottrarre la città dall’oppressione mafiosa. Presidente dell’associazione e direttrice artistica del premio è la giornalista Alessandra Benvenuto. Desidera “donare un contenitore di idee, persone e storie, dove attingere per riflettere, divertirsi e dialogare, nella consapevolezza che attraverso la lettura si cresce, viaggiando nelle vite di altri e nella propria”. Con la part-
nership dell’Università di Foggia e della biblioteca regionale La Magna Capitanata, il sostegno del Centro per il libro e la lettura e il patrocinio di Regione Puglia, Provincia, Comune e Teatro pubblico pugliese, dall’8 febbraio al 28 aprile in città arriveranno autrici e autori di spicco del panorama letterario nazionale per presentare le loro opere. Saranno le grandi firme a competere tra loro in una sorta di Olimpiadi della cultura. Tra i partecipanti figurano Luciano Canfora, Bianca Berlinguer, Massimo Recalcati, Francesco Piccolo, Nicolò Govoni,
Gianrico Carofiglio e Walter Veltroni.

Sono sedici i titoli in gara, divisi tra saggistica e narrativa. La rosa dei sei finalisti verrà scelta da una giuria popolare, composta da esponenti della società civile provenienti dal mondo della scuola e da associazioni culturali, librerie, biblioteche, presidi del libro e compagnie teatrali. L’ultima parola spetterà a una giuria tecnica, presieduta dal giornalista e saggista Paolo Mieli, affiancato da Sandra Petrignani, Marco Ferrante, Ritanna Armeni e Pierluigi Battista. Durante la cerimonia conclusiva, che avrà luogo il 28 aprile nel Teatro Umberto Giordano, al vincitore verrà assegnato un premio di ottomila euro. Non mancherà un riconoscimento speciale della giuria popolare, coadiuvata nella selezione dal comitato tecnico.

L’iniziativa si inserisce in un progetto più ampio della Regione Puglia di riqualificare le biblioteche: “Ne stiamo realizzando 117 in tutta la regione grazie a un imponente investimento di 120 milioni di euro”, ha dichiarato il presidente Michele Emiliano. Foggia dalla sua ha i big della cultura italiana. A loro l’arduo compito di far sbocciare in tre mesi i “fiori blu”, metafora degli ideali incontaminati che Queneau immagina spuntare dal fango una volta attraversato il diluvio e spazzato via il vecchio. Il primo appuntamento sarà sabato 8 febbraio con tre dei sedici concorrenti: Giorgio Ieranò, Cinzia Leone e Margherita Toffa, che presenta il libro della figlia Nadia.

“Prima di noi” solo macerie: la maledizione di casa Sartori

Se il romanzo è malato, Giorgio Fontana si propone di guarirlo. Prima di noi, che esce per Sellerio, è un formidabile atto di fiducia nella letteratura. Il 38enne autore lombardo – premio Campiello 2014 con Morte di un uomo felice – mette a frutto la sua ambizione di narratore in un testo monumentale che non vuole abbassare lo sguardo davanti a certi classici.

Fontana ritaglia un arco temporale lungo quasi un secolo e lo diluisce in 900 pagine di fabula pura. C’è una felicità di racconto che, al netto di qualche stonatura lirica, si traduce in una salutare prosa piana e priva di virtuosismi che sembra civettare con l’artigianato di un Cassola: chiarezza espositiva e timbro asciutto. C’è una felicità di racconto che, pur inciampando in talune riduzioni didascaliche, riesce a restituire la connessione tra privato e Storia con rigore e verosimiglianza. Il montaggio è sempre coerente e ricorda, sia pure con le debite differenze, la genealogia che scena dopo scena lievita nel film di Scola La famiglia. Sì, perché Fontana, lungo un asse cronologico che va dal 1917 al 2012, racconta proprio quattro generazioni di una stirpe, i Sartori.

Dal Friuli rurale del primo Novecento alla Milano contemporanea, il romanzo scava dentro il vissuto di undici protagonisti. Dai capostipiti Maurizio e Nadia nascono tre figli: Gabriele, Domenico, Renzo. Da Gabriele nascono Davide e Eloisa. Da Renzo, Diana e Libero. Da Eloisa nasce Letizia. Da Libero, Dario. La famiglia Sartori è, per dirla con Tolstoj, “infelice a modo suo”. Un tema forse un po’ troppo rapinato ma Fontana vi fruga ancora una volta per venire a capo di un tormento messo in bocca a uno dei suoi personaggi: “L’amore non salva dalla distruzione”. E l’amore non salva perché nel sangue dei Sartori scorre un veleno che preclude ogni possibilità di riscatto.

C’è un peccato originale che incombe come una maledizione sulla progenie. Il capostipite Maurizio è un disertore dal fronte di Caporetto che, riparato in un casolare, intreccia una relazione clandestina con una contadina, Nadia Tassan. Quando lei resta incinta, Maurizio prima fa perdere le sue tracce e poi viene costretto ad assumersi le sue responsabilità di padre. È un uomo vile, che scappa da se stesso, dal furore della Storia e dai sentimenti.

Una famiglia fondata su un antieroe si ramifica quindi nei decenni successivi in destini incapacitanti. Il “secolo breve” accompagna i Sartori con tutti i suoi orrori e i suoi progressi, li trascina nella sua corrente con un plagio perenne perché “qualsiasi cosa fai, il mondo ti chiava comunque”.

Nelle 900 pagine di Prima di noi, come in una successione di diapositive, c’è stipata tutta la nostra memoria nazionale. Il primo conflitto bellico del ’15-’18, il fascismo al potere, la Seconda Guerra Mondiale, la migrazione, la fabbrica e le lotte sindacali, il benessere borghese del boom anni 60, il terrorismo degli anni 70, l’attentato a Falcone, la guerra in Bosnia, la discesa in campo di Berlusconi.

Fontana – che in una nota in coda al romanzo svela quanto sia debitore dei racconti orali e dei diari del nonno Luigi – riesce nell’impresa di restituire con rara efficacia le condizioni dei vinti. Sono pagine intense quelle dedicate alla nuova vita “milanese” dei fratelli Gabriele e Renzo tra gli anni 60 e gli anni 70. C’è una periferia operaia che non differisce dai campi friulani di inizio secolo, inchiodata a “la miseria, le malattie non curate, i turni sottopagati, le domeniche a fissare il muro”. Solo i pronipoti Dario e Letizia, che incarnano l’eredità dei nostri anni, restano immuni dal contagio.

Dove oggi c’è lo Xanax a placare l’ansia di verità in un “tempo senza scelte”, ieri c’era l’ideologia totalizzante o la fiducia cieca nella letteratura. A pagina 864, ormai alle battute finali, una riflessione di Letizia svela e sublima il senso del romanzo: “La sofferenza si conservava proprio come l’energia. I loro nonni, e in una certa misura i loro padri, avevano dovuto sopportare il dolore fisico… e ora che questo dolore era terminato, a loro spettava un destino di ferite interiori”.

Fontana suggerisce che combattere l’eredità dei padri ignorando il passato significa ignorare la verità: “Possibile che il passato avesse una tale forza sul presente? Il potere di ciò che accadde prima di noi è tale da forgiare un destino?”. Ecco perché la sola via d’uscita dalla catena di dolore è la struggente invocazione finale alla pietas che finalmente seppellisce le storie dei Sartori dentro la Storia.

Non sono una maestra

L’intoppo è dietro l’appellativo. “Lo so, tra gli artisti non c’è il femminile di ‘maestro’, e spesso le persone si arrampicano per scovare la soluzione giusta”. Qual è? “A volte mi chiamano ‘dottoressa’, e mi viene da ridere; ‘maestra’ no perché è legato alla scuola”. Quindi? “Si rifugiano nel rassicurante ‘maestro’, e in quei momenti mi sento molto virile”.

Austera può sembrare, Katia Ricciarelli; austerità data anche dalla sua professione, dai ruoli interpretati, dall’ambiente frequentato, dove le regole sono dogmi e si tramandano da generazioni, teatri e sipari; salvo poi rivelare lati del carattere molto più pratici e inaspettati per parole e atteggiamenti, così all’improvviso, magari durante un argomento serio, gira la testa e le sfugge un “guarda che sta a fa’ sto fijo de ‘na mignotta”.

Dopo un secondo di incertezza, diventa chiaro il soggetto in questione: è il cane indisciplinato.

Da questa sera e per tre domeniche su Rai 1, la Ricciarelli sarà tra le protagoniste di Come una madre, un giallo-dramma su una donna (Vanessa Incontrada) in fuga insieme a due bambini orfani di una madre uccisa in circostanze da chiarire; e la Katia nazionale interpreta una cantante lirica diventata barbona. “Ovvio, in gran parte sono io”.

In gran parte…

Non ero e non sono un’attrice di cinema o televisione, posso avvicinarmi a certi personaggi se affini a me stessa.

In compenso al suo esordio ha vinto un Nastro D’Argento…

Grazie a Pupi Avati e neanche ci pensavo: uno non diventa attore a 50 o 60 anni, è un lavoro da intraprendere ben prima.

E invece…

Allora ha vinto la curiosità e la capacità di coinvolgermi di Pupi, poi ci metto del mio, quindi caparbietà e curiosità.

La definiscono precisa e pignola.

Sul lavoro lo confermo, nella vita tutto il contrario, e a casa mica pretendo le pattine: quando parto lascio un disordine bestiale.

Aggiungono: schietta.

Non so se è un difetto o un pregio, forse più un difetto, però non offendo mai nessuno.

Ad Andrea Bocelli ha sconsigliato la lirica per questioni di vista.

E lo confermo, una cosa è il palco per un concerto e un’altra è l’Opera.

Lui non ci sarà rimasto bene…

Ancora non era famoso, non aveva debuttato a Sanremo; vennero da me e dopo averlo sentito cantare, gli espressi il mio pensiero: “Nella lirica è fondamentale vedere il direttore d’orchestra e mantenere un contatto visivo pure con i colleghi”.

Diretta.

Ma è basilare! Altrimenti è come voler guidare una Ferrari.

Tipo “Profumo di donna”.

Esatto! Ciò non toglie nulla alle grandissime capacità di Andrea, che poi ha espresso.

Daniele De Rossi si è cammuffato per vedere il derby in Curva Sud. Lei per cosa si travestirebbe?

Una rapina in banca.

Eh?

(Ride a lungo) Vabbè, scherzo, ma non ho questa necessità di andare in qualche posto senza farmi riconoscere; comunque a volte vorrei tramutarmi in uccellino per ascoltare cosa dicono di me. (Il cagnolino abbaia).

Ha spesso parlato della sua Dorothy…

Le ho dato il nome della moglie di Caruso, l’ho salvata dalla strada, quando aveva pochi mesi. È morta dopo 18 anni, un dolore terribile; quando sono in macchina controllo sempre dal finestrino, ho paura di investire un animale.

Vegetariana.

Non del tutto, evito solo gli animali piccoli; una volta ho chiamato i Vigili del fuoco per salvare una rondine, e sono venuti.

Torniamo ad Avati.

Mi ha insegnato l’a-b-c della recitazione, prima di far parte del cast de La seconda notte di nozze avevo solo partecipato a L’Otello di Zeffirelli, ma con Franco bastava seguire la musica, navigavo nelle mie certezze, per dire “ti amo” ci mettevo un tempo infinito perché cantato, mentre il cinema vero è diverso (sorride), pure lento.

Cosa?

Per girare un minuto impieghi un tempo impossibile, devi farla e rifarla, fino all’esaurimento.

Noioso.

Io sono per la spontaneità.

Sempre.

Certo, e grazie alla spontaneità mi è andata bene pure sul grande schermo, e poi con Pupi c’è ironia, anche se l’argomento è serio.

Come Shakespeare con i suoi “buffoni”.

La regola è sempre quella, serve a mantenere la concentrazione del pubblico, e Falstaff ne è l’emblema. Ah, il mio difetto era quello di recitare e gridare.

Perché?

Abituata al teatro: sul palco è necessario mantenere un tono sempre forte per arrivare fino alle ultime file, mentre Pupi mi ha spiegato che con il cinema è il contrario: se uno abbassa i toni, obbliga lo spettatore a cercare di capire.

Un maestro.

Quando giravamo stava tutto il tempo in ginocchio per seguire i passaggi; anche Franco (Zeffirelli) mi ha aiutata tantissimo.

Un suo grande amico.

Oltre: un fratello. Mi ha insegnato a gesticolare di meno, a ridurre la mimica facciale, “non servono tutte queste smorfie, non stai all’Opera”. Ma su un palco uno deve caricare ogni aspetto per arrivare pure alle file in fondo.

“Come una madre”…

Sì, lì in gran parte sono io. Con quel turbante nero, tutta truccata…

In gran parte.

E ci vuole tutta la mia ironia per mostrarmi così, perché una come la Tebaldi non avrebbe mai accettato; mi sono commossa.

Davvero?

Diventare grandi in questo ambiente non è semplice, all’improvviso arriva il tempo a portarti via lo scettro. Ci vuole dignità.

Non è semplice, dice.

Per niente; anche per Mazzacurati ho interpretato un ruolo con sfumature non facili (La sedia della felicità). Ero una parrucchiera.

Ultimo film di Mazzacurati prima di morire.

Persona meravigliosa, un poeta.

Fabio Testi ha raccontato al “Grande Fratello” di una storia tra di voi.

Se c’è realmente stata, non ha avuto molto successo, perché di questo flirt non ricordo niente.

Dolore.

Mi hanno chiamato per riportarmi le sue parole: l’ho trovato inelegante e non è la prima volta.

Con Testi?

No in generale, oramai ne sento di tutti i colori, forse perché sono sola.

E con Sordi?

Alt, qui è vero, ma ero giovanissima, lui già un divo, e persona molto divertente. Quando lo seppero le sorelle, arrivò la loro benedizione: “Lei va bene, ha un lavoro”.

Allora era tirchio.

No, mi ha offerto la cena.

Ha un’ossessione?

Neanche una, ma ho la passione per la musica, che è ben diverso, e alla musica sono riconoscente perché grazie a lei mi sono permessa tutto ciò che sognavo da ragazza (cambia discorso). E questa storia del Coronavirus?

Bel guaio…

Io insegno a tantissimi cinesi e coreani, metterò la mascherina.

La Incontrada è stata bersagliata per il peso…

Sul set ne abbiamo parlato, e mi ha detto di essere felice così, purtroppo rompono con i social, ed è per questo che non ci sono, non intendo prestarmi a certe scenette, e non voglio sentire neanche certe frasi rivolte a me.

Teme?

Ho i miei chiletti in più, e sono quasi sempre stata così: mi piacciono e sono normali per la mia professione.

Quando ha vinto il Nastro, gli altri attori come l’hanno presa?

Hanno rosicato tanto, e quando l’ho ritirato ero quasi imbarazzata, quasi mi vergognavo. E li capivo.

È una dei pochi artisti da sempre dichiarata di destra.

Però non ho mai avuto problemi sul lavoro, perché sono un’artista e ora lo dico in maniera chiara.

Cosa?

I veri artisti appartengono al mondo, non a una parte, e chi crede il contrario è un povero deficiente.

Quindi è successo.

Recentemente ho partecipato a uno spettacolo dedicato alla Shoah: tre serate meravigliose, e sono stata brava, e sono arrivata alle lacrime per quanto ho sentito il tema. Eppure c’è stato uno che ha protestato in quanto di destra.

È scaramantica?

Un tempo lo ero sotto molte forme, anche le più classiche come il gatto nero; adesso no, al massimo mi concedo il segno della croce.

Superenalotto?

Mai giocato. Preferisco le slot machine.

È giocatrice.

Mi piacciono quelle con il poker, amo stare da sola davanti a loro, non amo giocare con altri, con il vociare, il nervosismo, e tutto il corredo; mi piace stare lì e vivermi in solitaria l’adrenalina offerta (resta zitta).

Qui c’è un “ma”…

I tempi sono cambiati, secondo me le hanno truccate, perché non vince più nessuno, ci hanno tolto anche questo divertimento, ma nonostante questo ho più vinto che perso e a volte ho portato a casa dei bei colpi.

Di cosa ha paura?

Di niente, neanche della vecchiaia, e se posso scegliere, preferisco morire di un colpo secco.

Cos’è la felicità?

Quella non esiste più; quando non avevamo niente potevi sognare e magari raggiungere i tuoi obbiettivi; adesso no, ci hanno svuotato, al massimo uno deve puntare alla serenità.

A proposito di serenità, hanno raccomandato di non nominarle Baudo.

Davvero?

Sì.

E perché? Oramai ci parliamo, ci siamo rivisti, non ha senso restare con il muso, troppa inutile fatica. Come dicevo prima, conta la serenità.

(E qui, in questo momento alto, parte la frase clandestina rivolta al cane).

 

Libia, la tregua-burla è stata violata 110 volte

Una tregua quotidianamente punteggiata di violazioni. Un embargo sulla vendita di armi “tradito” pure da chi l’ha sottoscritto. In queste condizioni, puntare a una soluzione politica della crisi libica resta un obiettivo irrealistico nel breve termine. Due settimane or sono, il 19 dicembre, la Conferenza di Berlino diceva “sì” alla tregua e all’embargo e “no” alle ingerenze. Ora, l’Onu denuncia 110 violazioni alla tregua e l’inviato del Palazzo di Vetro, Ghassan Salamé, constata che le parti in conflitto, il governo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale, e l’esercito cirenaico del generale Khalifa Haftar continuano a ricevere armi dall’estero. Il Lybia Observer di Tripoli scrive che Haftar ha ricevuto circa tremila tonnellate di equipaggiamento militare dagli Emirati arabi uniti, che ormai da anni giocano un ruolo attivo in tutta la Regione ed è protagonista del conflitto nello Yemen.

Impossibile verificare l’attendibilità delle informazioni, secondo cui i trasporti sono stati effettuati da un aereo cargo denominato Makassimos Air Cargo Company, di proprietà del principe ereditario di Abu Dabhi, Mohammed bin Zayed. L’Antonov 124 opera per la Jenis Air, compagnia registrata in Kazakistan, ed è spesso usato per trasporti militari, equipaggiamenti, veicoli, truppe. Come la Russia e l’Egitto, gli Emirati arabi uniti appoggiano Haftar: ad Abu Dhabi è stata costituita una “cellula libica” incaricata di seguire gli sviluppi della crisi. L’aumento degli aiuti dagli Emirati ad Haftar compenserebbe un calo di quelli russi, divenuti “più simbolici che sostanziali” dopo l’intesa sulla Libia tra i presidenti russo Putin e turco Erdogan. Le tremila tonnellate di equipaggiamento militare appena consegnate ad Haftar equivalgono a tutto l’aiuto inviato in tutto il 2019, quando il conflitto in Libia ha fatto centinaia di vittime civili. Quella delle armi è una partita di giro a largo raggio: i paesi arabi le comprano dall’Occidente – e l’Italia non è esclusa – e poi riforniscono i propri protetti nei conflitti in corso. La diffusione dell’informazione coincide con l’arrivo a Bengasi di Salamé: secondo quanto riferiscono fonti locali, deve vedere a Rajma, nel suo quartier generale, il comandante del sedicente Esercito nazionale libico, il generale Haftar. Molti attori della Conferenza di Berlino esprimono malessere e preoccupazione per le violazioni della tregua e dell’embargo: al-Sarraj lamenta il fervore pro-Haftar degli Emirati; e Haftar denuncia l’arrivo a Tripoli di armi turche. Una bozza di risoluzione britannica al Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiede il ritiro dei mercenari dalla Libia (e incontra l’ostilità della Russia). Gli Usa sarebbero favorevoli al ricorso ai Caschi Blu. Il premier Conte si affida al percorso di Berlino “credibile per riportare pace e sicurezza in Libia attraverso l’unica linea di azione sostenibile: la via politica e diplomatica”.

Abu Mazen rompe con Israele e Usa: “Ho il mio Piano”

“Una cosa è certa, non passerò alla Storia come l’uomo che ha venduto Gerusalemme”. Ha concluso così il suo intervento al vertice straordinario della Lega Araba al Cairo, il presidente palestinese Abu Mazen dove ha minacciato di sospendere la collaborazione sulla sicurezza con Israele. Uno scroscio di applausi dei ministri degli Esteri del Paesi Arabi ha fatto da cornice all’intervento del leader dell’Anp che ha respinto in blocco il Piano del presidente Usa Donald Trump. Anche se sulla sincerità degli applausi e delle strette di mano c’è da dubitare assai. La Lega ha ufficialmente respinto il Piano definendolo “ingiusto” per i palestinesi, ed ha avvertito Israele di non agire unilateralmente, un riferimento chiaro all’intenzione del premier Netanyahu di procedere all’annessione di parte della Cisgiordania il prima possibile. Il presidente palestinese ha minacciato di tagliare i legami di sicurezza anche in passato, ma non sono seguite le azioni sul campo. Abu Mazen ha ribadito che i palestinesi sono impegnati a porre fine al controllo israeliano sulla Cisgiordania e istituire uno Stato con la sua capitale a Gerusalemme Est. Il leader dell’Anp ha affermato che i palestinesi non accetteranno gli Usa come unico mediatore in nessun negoziato con Israele, per questo andrà a Consiglio di sicurezza Onu per presentare un “piano alternativo” a quello americano: si parla dell’11 febbraio. La Casa Bianca aveva chiesto ai Paesi arabi amici di impedire una risoluzione della Lega araba contro il piano, ma almeno formalmente non c’è stato nessun effetto. Il segretario della Lega – l’egiziano Ahmed Aboul Gheit – ha affermato che la proposta ha rivelato una “brusca svolta” nella politica Usa sul conflitto israelo-palestinese.

Iran a crescita zero, la festa amara in onore di Khomeini

La rivoluzione khomeinista iraniana, iniziata nel 1978 per detronizzare il violento regime dello Sciá, si compì ufficialmente nel marzo dell’anno seguente quando al referendum la popolazione scelse di archiviare la monarchia a favore della repubblica islamica. L’istituzione della repubblica però garantì solo apparentemente un ordinamento democratico. A 41 anni da allora, l’Iran è una brutale e corrotta teocrazia dove l’esercizio del voto è una farsa a causa di candidati scelti in partenza dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e costanti brogli elettorali.

Furono questi i motivi principali per cui le elezioni del 2009 furono boicottate in modo massiccio nelle strade di Teheran da migliaia di giovani, che pagarono con la carcerazione o la vita l’adesione al movimento di protesta noto come Onda Verde. Dopo 11 anni, la situazione socio-politica-economica è ulteriormente peggiorata, come hanno dimostrato le proteste del 2018 e dello scorso anno. La recente uccisione nell’attacco americano con droni armati del secondo uomo più potente dell’Iran, il generale delle forze al-Quds dei Pasdaran (Guardie della Rivoluzione) Ali Soleimani, non ha certo rimosso le cause per cui gli iraniani protestano e muoiono colpiti dalle armi d’assalto degli stessi Pasdaran. Nelle ultime proteste di dicembre e gennaio si stima che più di mille manifestanti siano stati uccisi e almeno 4.000 siano stati sbattuti nelle prigioni dove la pratica della tortura è quotidiana. A rendere difficili le stime contribuisce la mancata restituzione dei corpi dei morti alle famiglie proprio per evitare che gli organismi indipendenti e le organizzazioni umanitarie riescano a fare gli aggiornamenti sul numero dei decessi. Se è vero che le sanzioni economiche reintrodotte dall’Occidente per volontà dell’amministrazione Trump – dopo la fuoriuscita due anni fa dall’accordo sul nucleare firmato nel 2015 dal predecessore Obama assieme alla Ue, Russia e Cina – hanno bloccato quasi del tutto l’export petrolifero danneggiando ulteriormente l’economia, è altrettanto vero che il trentennale impegno dei Pasdaran per espandere l’influenza iraniana il più possibile in tutto il Medio Oriente, e non solo, ha richiesto un aumento costante delle tasse e drenato massicciamente le casse dello Stato e sottratto fondi pubblici destinati a creare infrastrutture e servizi pubblici moderni.

Uno degli slogan più sentiti durante le proteste di due anni fa e dell’anno scorso riguardava proprio l’uso del denaro pubblico per foraggiare il regime di Assad in Siria, i ribelli Houthi nello Yemen, il partito armato Hezbollah in Libano, il regime iracheno e le cellule di agenti sciiti in Centro e Sud America, in quelli che erano i paesi non allineati. Non vi è dubbio che l’Iran abbia dovuto iniziare a crearsi una sfera di influenza in seguito alla lunga e sanguinosa guerra mossagli negli anni 80 dall’Iraq di Saddam su ordine degli Stati Uniti, resta il fatto però che ormai l’Iran è diventato una potenza regionale con alleati chiave sul Mediterraneo. Intanto la Banca mondiale ha reso noto che la crescita economica dell’Iran nel 2020 e 2021 sarà pari a zero. È altamente probabile che, a breve, ci saranno nuove proteste da parte del ceto medio sempre più impoverito, mentre i giovani reagiranno alla generale mancanza di lavoro e contro un sistema bancario corrotto che privilegia la nomenklatura islamica e i Pasdaran proprietari di tutti gli asset iraniani.

Sanders momentum. La campagna socialista toglie il sonno ai Dem

La paura fa Bernie Sanders. Tra i Democratici americani, alle prese con un impossibile impeachment contro Donald Trump, il voto di domani sera in Iowa, primo stato in cui si svolgeranno le primarie, potrebbe rappresentare un incubo. Tanto che si parla di un possibile intervento dello stesso Barack Obamaper cercare di frenare l’avanzata del socialista Bernie.

Secondo il Wall Street Journal il senatore del Vermont sarebbe al 27% davanti all’ex vice di Obama, il moderato e un po’ noioso Joe Biden, con il 26%. Al terzo posto, 15%, la più dinamica Elisabeth Warren. In Iowa non si decide ancora nulla e il meccanismo delle primarie, fondato sull’antico “caucus”, permetterà fino all’ultimo di spostare gli indecisi.

Il voto nel caucus Il voto, infatti, non avviene con un semplice bollettino da depositare nel segreto dell’urna, ma con riunioni pubbliche in appositi luoghi (palestre, biblioteche, pub, chiese) in cui gli elettori si posizionano fisicamente nel gruppo del proprio candidato formando degli alignements, allineamenti che indicano la quantità di voti ricevuti da ciascun candidato e durante i quali si possono far spostare, fisicamente, gli indecisi. Per cui il vantaggio di Sanders può essere ancora insidiato. Se Warren, ad esempio, riuscisse ad attrarre i sostenitori di Amy Klobouchar o se Biden e Pete Buttigieg, entrambi moderati ma il secondo molto più seducente, dovessero reciprocamente attrarre i rispettivi voti, il risultato potrebbe essere rovesciato.

Sanders però è quello che fa il pieno ai comizi, fa aumentare il tasso di registrazioni alle primarie, continua ad affascinare i più giovani nonostante sia il bersaglio preferito dell’establishment democratico. E la presenza, al suo fianco, della giovane stella della sinistra nordamericana, Alexandria Ocasio-Cortez, gli ha impresso nuova energia. Per questo il grosso del Partito democratico non solo lo teme, ma ha iniziato ad attaccarlo apertamente.

Un post su Twitter del giornalista e polemista Charles Gasparino ha fatto sapere che “fonti Dem che hanno parlato con Barack Obama dicono che l’ex presidente sia molto preoccupato per la crescita di Sanders nei sondaggi e sta considerando di rilasciare una dichiarazione pubblica”.

Se interviene Obama In molti lo sperano e infatti dal quartier generale dei Democratici, come nota una delle quinte colonne della campagna di Sanders, la rivista Jacobin, è partita una campagna concertata. Tre articoli pubblicati da testate come Nbc, Associated Press e Politico.com, hanno dato ampio risalto agli allarmi su Sanders. Gli articoli, nota Jacobin, sono tutti basati su un rapporto del think tank Third Way (la “terza via”, dalla strategia di Tony Blair e Bill Clinton) che ha ricevuto ampi contributi e coltiva solide relazioni con le corporations Usa a partire da colossi del mondo assicurativo come Humana.

Incubo 1% Il messaggio è chiaro: Sanders alla Casa Bianca rappresenterebbe un incubo per quell’1% del capitalismo americano che ha prosperato anche negli anni più duri della crisi e che vuole mantenere un solido controllo sulle dinamiche politiche. Un altro chiaro segnale viene dal mondo democratico che guarda a Michael Bloomberg.

Steven Rattner, consigliere di Obama per la riconversione automobilistica (sul cui salvataggio ha pubblicato il libro Overhaul) e oggi consulente finanziario dello stesso Bloomberg, ha una rubrica quotidiana su Msnbc, la tv via cavo fondata da Microsoft e Nbc. Tra i suoi ultimi commenti troviamo questo: “Più Bernie Sanders sale nei sondaggi più la gente si spaventa della sua candidatura per due ragioni. Primo, perché pensa che perderà. Secondo, perché pensano che vincendo implementerà il tipo di politiche molto lontane dal centro del Partito democratico. Per cui c’è un sacco di lavoro per cercare di affermare lo stop Bernie sebbene non sia stato ancora definito così”.

Bloomberg si scalda Una tale posizione ovviamente punta alla possibile ascesa di Bloomberg che, al momento, sempre secondo il WSJ, si trova con il 9% dietro i primi tre. Ma Bloomberg si muoverà solo a marzo e per ora si è limitato a fare dei test investendo diversi milioni di dollari.

Sanders, invece, continua con la strategia dei micro-finanziamenti che ne fanno il candidato con il maggior numero di sostenitori finanziari: finora 1,5 milioni di sottoscritori hanno donato piccoli fondi, di cui 633.552 nel solo mese di gennaio. A chiedere i contributi direttamente per Sanders è anche Ocasio-Cortez che sta conducendo una campagna a tappeto per lui, così come il regista Michael Moore, icona della cinematografia progressista.

Sanders punta a un Medicare for all, a un Green New Deal, a eliminare i debiti studenteschi ed è il candidato più nettamente contrario alla guerra. I suoi consensi sommati con quelli della liberal Warren varrebbero circa il 40% e smentiscono nettamente l’idea che la campagna elettorale contro Trump si vinca solo al centro, nel campo dei moderati e facendo l’occhiolino alla classe dei super-ricchi.

In Iowa non si decide ancora nulla, ma come ha scritto ieri Sanders, “il caucus è domani e dopo una settimana si vota in New Hampshire. E se andiamo bene in questi due primi stati, saremo in una buona posizione per vincere le primarie”. La paura fa Sanders, ma per molti americani più che la paura è la speranza.

I piani di Conte sulla revoca e le furbate dei Benetton

È un giro di poker bloccato. Il gruppo Atlantia e la famiglia Benetton che lo controlla attendono le mosse del governo. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha il dossier sulla sua scrivania, aspetta le mosse del plenipotenziario dei Benetton Gianni Mion. Ma si è predisposto all’attesa dopo aver messo una pistola sul tavolo, l’impegno a revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi) per sanzionare le gravi colpe e inadempienze all’origine del crollo del ponte Morandi, nel quale il 14 agosto 2018 sono morte 40 persone. La partita ha un valore economico notevole.

Le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna, con una netta vittoria della Lega di Matteo Salvini, avrebbero potuto far cadere il governo e mandare a monte la partita della revoca. Eppure, all’indomani della sconfitta di Salvini il titolo di Atlantia ha guadagnato in Borsa l’8 per cento: le mani informate che hanno approfittato dell’occasione si sono messe in tasca, complessivamente, un miliardo e mezzo. E questo perché sapienti veline hanno fatto strombazzare la notizia che il Pd, forte della vittoria emiliana, attraverso un uomo di peso come il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri avrebbe imposto agli indeboliti alleati M5S e allo stesso Conte la rinuncia alla revoca. Il premier però ha fatto sapere che non intende fermarsi e Mion non sa che pesci prendere, se non sperare che Conte alla fine non trovi il coraggio di far partire quel missile.

Effettivamente di coraggio ce ne vuole. Il giorno che il governo annunciasse la revoca, ad Atlantia verrebbe sottratta la gallina dalla uova d’oro. Nel 2017, ultimo bilancio non intaccato dall’effetto Morandi (500 milioni di danni contabilizzati per il 2018), le autostrade di Aspi e controllate hanno incassato 3,9 miliardi spendendone solo 1,5 per gestione e manutenzione e consegnando alla controllante Atlantia 2,45 miliardi di margine operativo lordo (Ebitda): una redditività superiore a quella della cocaina e a quella degli immigrati di Salvatore Buzzi sommate. I profitti di Aspi valgono circa due terzi dei profitti del gruppo Atlantia.

L’annuncio della revoca della concessione provocherebbe con tutta probabilità un crollo del titolo in Borsa: se sfumano due terzi della redditività è possibile che si volatilizzi la metà del valore delle azioni, dagli attuali 18 miliardi a non più di dieci. La famiglia Benetton perderebbe all’istante 2,5 miliardi, il fondo sovrano di Singapore darebbe l’addio a 6-700 milioni sull’unghia, i fondi Lazard a 4-500 milioni e via piangendo. È improbabile che gli investitori stranieri la prendano bene. E non è improbabile che per ritorsione, o per delusione sull’aria che tira in Italia, diano il via a massicce vendite di titoli di Stato tricolori. Lo spread potrebbe impennarsi. Non solo.

Atlantia impugnerebbe sicuramente la revoca e ne nascerebbe un contenzioso di anni (odo avvocati far festa, direbbe il poeta). Il governo sarebbe obbligato a gravare da subito il deficit dello Stato dei circa 20 miliardi che vale il rischio incombente: una mezza manovra che non farebbe un bell’effetto anche se il rischio di perdere fosse remoto.

Tutto considerato, rimane un fatto: per tenere conto degli umori dei mercati finanziari internazionali il governo dovrebbe decidere di non fare niente e ufficializzare la vigenza in Italia del noto brocardo “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”. E ci sarebbe da decidere chi lo va a dire al M5S, ma soprattutto alle famiglie dei 40 morti di Genova.

Il piano B sarebbe una transazione. Il governo rinuncia alla revoca e i vertici di Atlantia accettano un sacrificio: pagano un significativo risarcimento allo Stato (misurato in miliardi, non in centinaia di milioni) e soprattutto sottoscrivono una revisione della convenzione che garantisca d’ora in poi che i soldi dei pedaggi vengano spesi per investimenti e manutenzioni sulla rete anziché finire nelle tasche dei Benetton e dei loro soci, magari con l’ingresso nell’azionariato di Cassa Depositi e Prestiti come garanzia pubblica di una più seria gestione della rete. Il governo lamenta però che dai Benetton non arrivano segnali significativi in questa direzione. Si limitano a far trapelare offerte un po’ stitiche e nei corridoi di Palazzo Chigi dicono che “è un anno che ci prendono in giro”. Anche questo ha una spiegazione.

Sottoscrivendo una transazione punitiva (ma non quanto la revoca), Atlantia ammetterebbe una pesante responsabilità nel crollo del Morandi. Supponiamo che il punto di accordo sia il dimezzamento della redditività di Aspi (anziché l’azzeramento comportato dalla revoca): il danno per gli azionisti di Atlantia sarebbe la metà ma a questo punto sarebbero tutti obbligati (per rispetto dei rispettivi azionisti) a fare causa alla stessa Atlantia e a tutti i manager e consiglieri d’amministrazione degli ultimi anni. I loro avvocati direbbero ai Benetton e ai loro collaboratori più o meno stretti: “Avete gestito male le autostrade al punto da dover accettare uno stravolgimento della convenzione che tanti profitti ci faceva fare, e per colpa vostra le nostre azioni hanno perso valore per centinaia di milioni”. Le richieste di danni potrebbero risalire alla Edizione, la cassaforte dei Benetton. Orribile prospettiva.

Così Mion non apre una trattativa seria con il governo sperando che novità politiche o d’altro genere facciano desistere Conte dal suo battagliero proposito di schiacciare il pulsante rosso della revoca della concessione. Conte dice di aspettare solo i pareri giuridici dell’Avvocatura e del Consiglio di Stato, ma forse in cuor suo spera che nell’attesa i Benetton addivengano a più miti consigli. Improbabile.

Anche perché c’è una novità rispetto alla tradizione dei rapporti tra imprese e politica: Conte ha fatto sapere che il confronto lo vuole istituzionale e trasparente, e gli imprenditori italiani non sanno come si fa. Così è tutto un fiorire di volontari che cercano di aprire canali diplomatici per portare la discussione sul terreno prediletto dal sistema nazionale, un salotto riservato propiziato da qualche abile mediatore, magari massone.