La sardina Cristallo: “Sbagliato e improprio vedere Benetton”

Esplode il caso Benetton tra le Sardine, dopo l’incontro di venerdì a Fabrica, la fucina creativa fondata dall’imprenditore Luciano e dal fotografo Oliviero Toscani. Un incontro pubblicizzato con foto dagli stessi creativi di Fabrica, nonostante le esplicite richieste di riservatezza delle Sardine. Uno dei capostipiti del gruppo che controlla Autostrade per l’Italia, in guerra col governo per la concessione, è arrivato solo verso la fine “per salutare e ascoltare parte del dibattito”.

Una precisazione post-incontro per bloccare le polemiche crescenti. Un’onda che potrebbe trasformarsi in maremoto. Per Jasmine Cristallo, volto delle Sardine calabresi più volte presa di mira da Salvini sui social, l’incontro è stato “sbagliato e improprio. L’autorevolezza che il movimento ha acquisito è il frutto della determinazione di una moltitudine di persone, queste iniziative di popolo non possono più essere direttamente riconducibili a una sintesi di immagine degli iniziali promotori. I quattro amici di Bologna non erano in ‘visita ufficiale’: erano quattro persone ospiti in un luogo, e non certo le Sardine”.

Per Cristallo, che su Facebook invita ad archiviare “questa brutta giornata”, la cosa più grave “è che quella foto venga pubblicata in un momento di confronto in merito alle concessioni autostradali, facendo assumere al movimento intero un ruolo di pressione esterna senza, però, che su questo argomento ci sia mai confrontati”. Senza contare il caso dei terreni acquistati in Argentina dai Benetton (“no global e ambientalisti davanti alle telecamere e, a luci spente, interpreti senza scrupoli di un capitalismo rapace”) “a scapito degli indiani Mapuche”.

A dare la misura della questione è il numero dei commenti: 800 a 1600. Il primo si riferisce alla lettera al premier Conte, il secondo al post-Treviso. Gongola Giorgia Meloni: “Finisce nel ridicolo la favola del movimento popolare”. E i 5Stelle attaccano con Barbara Lezzi, Stefano Buffagni e Mario Giarrusso, durissimo: “Il tentativo delle sardine di sdoganare Benetton, dopo la strage di agosto, è vergognoso. Il pesce ha iniziato a puzzare”.

Risponde un portavoce emiliano, Maurizio Tarantino: “Che il M5S sia arrivato al capolinea era già di pubblico dominio, essere costretti a correre dietro alle Sardine è segno di un declino inarrestabile. Era stato richiesto di non pubblicare foto alcuna e difatti la pubblicazione non è avvenuta dalle 6000 sardine, Autostrade non c’entra nulla, stanno diffondendo fake news”.

Ci sono da fare le nomine e così la star è Gualtieri

È Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, l’ospite d’onore dell’assemblea di Italia viva. D’altra parte, da qui ai prossimi due mesi ci sono in ballo le nomine delle partecipate. Peso fondamentale ce l’ha proprio Gualtieri con il suo gruppo al ministero dell’Economia. E per Renzi quella resta una partita vitale, gestita operativamente da Maria Elena Boschi. Un assaggio si è avuto qualche giorno fa, quando è riuscito a ottenere il ritorno del suo Ernesto Ruffini all’Agenzia delle Entrate. Lo presenta così, Gualtieri, Matteo Renzi: “È una persona a cui siamo legati, vogliamo bene e con cui abbiamo lavorato bene. Anzi è uno dei pochi che mi ha telefonato la mattina della scissione per salutarci”. Il rapporto tra i due è effettivamente antico. E l’ex premier la vicinanza la rivendica tutte le volte che può. Fu anche tra i primi a proporlo per la guida del Mef. “Sono candidato al collegio Roma 1 e i candidati vanno da tutti”, spiegava il ministro, quando è uscita la notizia della sua partecipazione. La conferma del legame tra i due l’ha data ieri Gianni Cuperlo (che in un primo momento doveva essere il candidato alle suppletive del Collegio Roma 1) in un’intervista: “Mi risulta che Italia Viva abbia posto un veto sul mio nome, poi hanno avanzato una candidatura civica autorevole”. Ma su Gualtieri il veto non c’è stato.

Ieri, in prima fila nello studio di Cinecittà, c’erano pure Antonio Angelucci (l’editore ora in Forza Italia) e Luca Sammartino, che ha preso trentamila preferenze in provincia di Catania, eletto per la prima volta nel centrodestra, poi migrato nel Pd e oggi punto di riferimento di Renzi in Sicilia. A proposito di potere in movimento.

Intanto, le trattative sulle nomine vanno avanti. Si è appena dimesso l’amministratore di Eur Spa (la società che gestisce l’Eur, quasi tutta del Mef, con una parte del Comune di Roma). Motivo di tale passo indietro sarebbe che al suo posto dovrebbe arrivare Enrico Gasbarra.

“Salvini a processo” anche per l’Ong “Il soccorso in mare è obbligatorio”

Sequestro di persona e omissione in atti d’ufficio. Matteo Salvini secondo il tribunale dei ministri di Palermo deve rispondere d’aver “privato della libertà personale 164 migranti” dal 14 al 20 agosto 2019 quando non fu concesso un porto sicuro alla nave dell’ong Open Arms.

Il fascicolo approda a Palermo dalla Procura di Agrigento guidata da Luigi Patronaggio. A novembre il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi aveva condiviso le ipotesi di reato contestate e aveva inviato il fascicolo al Tribunale dei ministri. E il Tribunale dei ministri – composto da Caterina Greco, Lucia Fontana e Maria Cirrincione – ha nuovamente confermato l’accusa: “Il soccorso in mare è obbligatorio” e su questo punto non è possibile derogare attraverso il decreto sicurezza. Non solo. Salvini ha “volutamente ignorato l’emergenza sanitaria” a bordo “mettendo veti alle autorità locali”. Nonostante “un provvedimento del Tribunale dei minori” Salvini non consentì ai minori a bordo di scendere dalla nave. Il Tribunale dei ministri precisa anche che l’ex ministro dell’Interno formalizzò il suo diniego al premier Giuseppe assumendo la responsabilità politica della scelta. Fu il procuratore di Agrigento, Patronaggio, a sbloccare la situazione ordinando il sequestro della nave e consentendo lo sbarco dei naufraghi soccorsi.

Il procuratore di Agrigento ha iscritto nel registro degli indagati anche il capo di gabinetto, Matteo Piantedosi, che era a capo della catena di comando.

“Pensano di farmi paura? No, perché ritengo di fare, bene o male il mio lavoro, il mio dovere, di aver difeso confini, interesse sicurezza e onore del nostro Paese” ha commentato Salvini, che ha aggiunto: “Sono tutti processi politici che non mi spaventano”. A dieci giorni dal voto in Senato sul caso Gregoretti – il 12 febbraio dovrà pronunciarsi il Senato – arriva in Parlamento una nuova richiesta di autorizzazione a procedere per Salvini. E proprio ieri sera, la nave della Open Arms, con 363 persone a bordo salvate dinanzi alla Libia, era in attesa dell’ok per lo sbarco sulle coste italiane, dopo 5 soccorsi effettuati negli scorsi giorni. L’ultimo la sera del 30 gennaio. “Salvini rischia il processo per non aver fatto sbarcare i clandestini dalla Open Arms ad agosto. È la stessa ong che da 24 ore chiede un porto sicuro per 363 immigrati. Malta ha già detto no. Il ministro Lamorgese rischia l’accusa di sequestro di persona?”. In realtà pochi minuti dopo la soluzione era già arrivata: è stato autorizzato lo sbarco a Pozzallo.

Prescrizione, attacchi a raffica da Iv a Bonafede (e Travaglio)

“Non si capisce il motivo di tanta rigidità di Bonafede sulla prescrizione. Lo dicono anche alcuni dei Cinque Stelle”. Nelle quinte dello studio 10 di Cinecittà dove va in scena la prima Assemblea nazionale di Italia Viva, c’è anche chi la mette così. L’ambientazione è studiata e curata nel dettaglio. La scelta della location (gli studios dove sono stati girati Il Gladiatore e la serie Roma) vuol essere evocativa. Ma più che altro riesce a evocare fasti passati.

Nella difficoltà di trovare una strategia e una prospettiva politica, in un momento in cui rompere con il governo Conte è fuori discussione, ma pesare davvero è impossibile, diventa la prescrizione il tema centrale della kermesse. “Non ho fatto un governo per cedere al giustizialismo dei grillini”, dice Matteo Renzi. Affonda: “I magistrati di Milano hanno detto che viola l’articolo 116 della Costituzione. Noi siamo dalla parte di chi vuole una giustizia giusta, come diceva Marco Pannella con Enzo Tortora”. E poi entra direttamente nella diatriba che va avanti da una settimana tra Gaia Tortora (vicedirettore del Tg La7) e Marco Travaglio: “Mi accusano di stare con Forza Italia, ma se devo scegliere tra chi dice ‘mai prescrizione’ o, peggio ancora, ‘non è uno scandalo che ci siano innocenti in galera’, noi stiamo con i garantisti: è uno scandalo che ci siano innocenti in galera, lo dico a Bonafede e Travaglio”.

Il ministro della Giustizia (travolto poi da una pioggia di critiche) aveva detto che “gli innocenti non finiscono in carcere”. Il direttore del Fatto ha chiarito così il suo ragionamento: “Ho scritto un’ovvietà. I detenuti in custodia cautelare (arrestati prima della sentenza in base a ‘gravi indizi di colpevolezza’ per evitare che fuggano o inquinino le prove o reitirino il reato’) per la nostra Costituzione sono ‘presunti innocenti’. Quindi non c’è nulla di scandaloso se ‘un presunto innocente è in carcere: è la legge che lo prevede. Solo la sentenza definitiva dirà se era colpevole o innocente’”. Ma Italia viva cavalca la polemica. E tocca a Roberto Giachetti ricordare che la ingiusta detenzione è stata alla base della malattia e poi della morte di Enzo Tortora.

Renzi ancora una volta lancia il “Lodo Annibali”: “Si voti nel Milleproroghe la sospensione degli effetti della Bonafede per un anno”. Per ora, non trova sponde nel Pd. La posizione ufficiale di Nicola Zingaretti resta quella di presentare una propria proposta se il premier Giuseppe Conte e il Guardasigilli non andranno incontro alle richieste dei dem. Ma chi lo sa. “Magari alla fine, se c’è il voto segreto, voteremo la proposta Costa che sospende la Bonafede e la risolveremo così, abrogandola”, ragionava qualche esponente del Pd qualche giorno fa. Se ci sarà un voto segreto, è possibile.

Intanto, Renzi si intesta il tema. Il pomeriggio viene aperto da un video del presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza). Poi tocca a Lucia Annibali (che fu sfregiata con l’acido), capogruppo in commissione Giustizia del Pd alla Camera, spiegare il contenuto dei due emendamenti che portano il suo nome. “Il fatto di essere stata vittima di un’aggressione non offusca la lucidità con cui approccio la questione. Il processo deve avere una fine anche per permettere alle vittime di elaborare quanto accaduto.”. E ancora, tocca a Giuseppe Cucca, capogruppo in Commissione Senato tornare all’attacco di Travaglio: in un editoriale, il direttore del Fatto ha ricostruito le gesta del senatore in un modo che lo stesso Cucca rinnega (al centro del discorso, un emendamento per la prescrizione del 2016 che il senatore sostiene di aver firmato a sua insaputa).

Come si giustificava il dg che diede l’ok per acquisire Tercas

Salvatore Rossi è stato direttore generale della Banca d’Italia. Economista, manager, banchiere. Oggi presiede Telecom Italia.

Rossi è direttore generale di Bankitalia nel 2013, quando la Popolare di Bari viene bollata da un giudizio “parzialmente sfavorevole”. Già due anni prima, peraltro, le era stato disposto il “divieto di crescita per linee esterne”: in sostanza non poteva acquisire nuove banche. Figurarsi la Tercas, ch’era indebitata fino all’inverosimile. Ma nel 2014 cambia tutto. Può acquisire persino Tercas: Bankitalia revoca il divieto. E a revocarlo è proprio Rossi. Le criticità sono svanite: Bpb giura, tra l’altro, d’aver nominato un nuovo capo della Funzione Controllo Rischi (Cro). Bankitalia nel 2013 è categorica: “La figura del Cro” ha un impatto solo se gli assicurano “sufficiente autonomia e autorevolezza”.

E infatti Bpb assume Luca Sabetta che proprio per la sua autonomia e autorevolezza, secondo la procura di Bari, viene esautorato (e successivamente vessato) nell’arco d’appena un mese. Al suo posto torna il Cro precedente. La procura specifica: senza che Bankitalia “fosse adeguatamente informata”. E ci mancherebbe.

Bene. Questo è l’antefatto.

Passiamo all’interrogatorio. Siamo a novembre 2017. Il procuratore aggiunto Roberto Rossi e la pm Savina Toscani convocano l’ex direttore generale di Bankitalia come persona informata sui fatti.

“Quali erano i miglioramenti che voi avevate verificato?”, chiede il procuratore. “Beh!” , risponde l’ex direttore generale di Via Nazionale, “loro, dunque, hanno molto cambiato il modo in cui erano organizzati, come dire, istituendo uffici, intanto la figura del Cro, che non c’era, e questo…”.

In realtà, fa notare il procuratore, non è che prima il Cro mancasse: “C’era”, conviene l’ex direttore, “ma era… non era idoneo”. Ah, ecco.

Domanda successiva: “Ma voi avete poi verificato i cambi di questa figura?”. “Immagino di sì”, dice Rossi, “sì”.

In effetti c’è stato un problemino. “Attualmente”, dicono quasi all’unisono i due magistrati, “il responsabile è… ritornato… lo stesso di prima… È già dal marzo… Cioè non c’è stato mai un cambiamento… c’è stato per due mesi…”.

L’ex direttore generale a questo punto s’incuriosisce: “Cioè quel signore che poi… Sabetta …”. E già, Sabetta. Proprio lui.

“Chiaramente – continua il procuratore – è chiaro che voi, se vi viene comunicata una cosa, non è che avete possibilità di… non per nulla esiste un reato nell’ostacolo…”. Quindi Bpb avrebbe ostacolato la vigilanza di Bankitalia omettendo di aver rimosso Sabetta. Ci sarebbe un altro piccolo dettaglio: i cambiamenti che Bpb avrebbe dovuto operare nella governance. “La governance”, continua il procuratore, “al di là della nomina di Giorgio Papa (amministratore delegato dal 2015 al 2018, ndr) … rimane sempre in mano agli stessi soggetti”. Due fregature su due. Il procuratore aggiunge: “Tant’è vero che le interlocuzioni che voi fate sono con gli stessi soggetti… inviate una lettera, che non inviate a Papa, ma al presidente della famiglia…”.

Riepiloghiamo: Bankitalia chiede a Bpb di cambiare la governance ma poi quando arriva il nuovo ad, continua a scrivere ai soggetti di prima. Una spiegazione c’è. “Dunque”, risponde Rossi, “viene mandata al legale rappresentante, che è il presidente, dicendogli: ‘convoca un Consiglio di Amministrazione, e leggi a tutti questa lettera qua’, quindi anche al Chief Executive Officer”. Ah, ecco.

Ma c’è una spiegazione più concreta: “Marco Jacobini, tanto per essere concreti…, per quello che risulta alla Banca d’Italia, e quindi a me, è stato mano mano, come dire, innalzato, quindi ha perso … la presa che aveva sulla banca fino al 2010- 2011, è vero che ha piazzato i due figli, infatti il piazzamento dei due figli…”. In sostanza Marco Jacobini è stato “innalzato” e com’è ovvio, quando capita che ci si innalzi, perde la “presa sulla banca”. Tanto la perde, che “piazza i suoi figli” ai vertici. Ma a Bankitalia non sfugge: “Lo rileviamo, è una delle ragioni” delle “due restrizioni in atto”.

Rossi è però in grado di rivelare ai pm informazioni ben più riservate: “I due figli stanno ancora là, indubbiamente. Adesso io… ne conosco uno, ma l’altro no, mi dicono che uno sia intelligente, l’altro un po’ meno … ma sono pettegolezzi”. Resta un fatto: “Per quello che risulta a me, l’organizzazione complessiva della banca è migliorata, al punto da meritarsi la rimozione delle due misure restrittive… nel frattempo s’era proposta come acquirente di Tercas e aveva dimostrato di poterlo fare efficacemente”. Bpb a dicembre è stata commissariata da Bankitalia. Marco e Gianluca Jacobini sono ai domiciliari. gli sono contestati a vario titolo i reati di falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza.

“Ero a Wuhan, ma niente visita. Sono in quarantena volontaria”

Da Wuhan a Roma (e poi a Enna) senza che nessuno lo abbia sottoposto a un test approfondito. È arrivato nella Capitale la sera del 30 gennaio, poche ore prima che il premier Conte annunciasse in diretta tv i primi due casi “italiani” di Coronavirus. Decisivo per far saltare i protocolli – già iniziati da giorni per i voli diretti dalla città primo focolaio dell’epidemia – uno scalo di poche ore a Vienna. Ora Domenico T., studente di 26 anni, si è messo in quarantena volontaria nel capoluogo siciliano, costringendo anche i suoi genitori a fare lo stesso. “Non voglio contagiare nessuno”, dice, raccontando la sua storia a Il Fatto Quotidiano.

Domenico si trova a Wuhan da settembre dello scorso anno, grazie a una borsa di studio in lingua cinese. “Ho lasciato la città intorno al 18 di gennaio, approfittando delle festività per il Capodanno cinese”, dice mostrandoci i biglietti dei treni. Un migliaio di chilometri in treno in più tappe, passando per Zhangjiajie, Huaihua, Zhenyuan, Kaili e Aushun, per arrivare infine il 27 gennaio, nove giorni dopo, a Guiyang. “Qui il 29 mi sono imbarcato per il volo che mi avrebbe dovuto portare a Roma, facendo scalo a Pechino e a Vienna”. In Cina l’emergenza è scoppiata da un pezzo. Sia all’aeroporto di Guiyang che a quello di Pechino, a Domenico viene misurata la febbre. Cosa che non accade all’arrivo nella Capitale austriaca, il giorno successivo, 30 gennaio, con il volo CA4165. “Una volta atterrati a Vienna – spiega lo studente – siamo usciti dall’aereo come se niente fosse. A parte il controllo passaporti, nessuna visita. Come se non arrivassimo da Wuhan”. L’Austria non ha ancora preso misure restrittive.

Alle 6.30, Domenico sale sul volo Air China 0S510, acquistato nello stesso pacchetto con cui si è imbarcato dalla Repubblica Popolare, e arriva intorno alle 8 del mattino a Fiumicino. Anche qui, stando al suo racconto, nessun controllo. “Ero molto preoccupato per la mia famiglia – dice – sono andato alla postazione della Guardia di Finanza dicendo che venivo da Wuhan e che volevo essere visitato. Mi hanno portato alla postazione di pronto soccorso dell’aeroporto, dove finalmente, su mia richiesta, mi hanno visitato”.

Domenico denuncia una certa “superficialità”. “Mi hanno fatto qualche domanda – spiega – mi dicevano che dovevo stare tranquillo, sono giovane, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Cercavo di dirgli che il quartiere vicino a quello dove abitavo a Wuhan era stato messo in quarantena, che non ho fatto alcuna profilassi, ma non mi facevano parlare”. A un certo punto “hanno perfino litigato su chi mi doveva visitare”. Evidentemente i medici hanno reputato che il ragazzo non avesse sintomi. Sono giorni caldi e il personale sanitario si trova ad affrontare decine di casi simili. Ma lui obietta: “Io non sono come quelli che non vanno al ristorante per paura – dice – io vengo dal posto dove è scoppiata l’epidemia!”.

Domenico racconta di essere uscito dal pronto soccorso aeroportuale “senza alcun foglio”, solo con qualche “raccomandazione” di non stare troppo a contatto con altre persone “e di non prendere i mezzi pubblici”, per poi rivolgersi alla Asl competente.

Sceglie dunque di non raggiungere il fratello, che vive a Roma in un monolocale. Così compra un altro volo e raggiunge Enna in Sicilia, dove vivono i genitori. Da ieri si è chiuso in una stanza. I suoi gli passano il cibo attraverso la porta socchiusa. “Erano 5 mesi che non tornavo a casa – dice – non ho potuto nemmeno riabbracciarli dopo tutti i timori che hanno passato in queste settimane”. Anche i suoi genitori si sono messi in quarantena volontaria e non vanno a lavoro. “Devo salutare e parlare con i miei nonni e i miei amici da una finestra indossando una mascherina. Loro non riescono a vederlo, ma io sorrido”.

Se rubano tutti, processi inutili

Le statistiche giudiziarie hanno una eloquenza esplicativa dei complessi problemi della giustizia in buona misura apparente.

Dicono molto sulla produttività e i deficit dell’apparato giudiziario, ma nulla o poco sulle radicate e strutturali cause sociali che continuano a generare e a perpetuare una quota rilevatissima di reati (…) e sui motivi della sostanziale impotenza del sistema di giustizia penale a incidere, nonostante le ingentissime risorse profuse, su tali cause strutturali (…). Mi limiterò ad alcuni cenni esemplificativi, muovendo dalla vicenda criminale apparentemente minore (…) dei cosiddetti “Spaccaossa”. La Procura di Palermo ha (…) portato alla luce l’operato di associazioni criminali specializzate in truffe seriali ai danni delle compagnie assicurative mediante finti incidenti stradali per un valore complessivo di circa 12 milioni di euro. Per simulare gli incidenti gli organizzatori procuravano fratture alle gambe e alle braccia con pesi di ghisa e mattoni a vittime consenzienti, disposte a subire atroci dolori e menomazioni fisiche permanenti in cambio di somme miserevoli dai 300 ai 700 euro, mentre gli organizzatori tenevano per sè i premi di varie migliaia di euro corrisposti per ogni singolo incidente dalle compagnie assicurative. (…) Uno squarcio sulle drammatiche condizioni di vita, sulla estrema miseria in cui nella Sicilia del 2020 versa una moltitudine di persone talmente disperate da fare la fila per farsi rompere le ossa in cambio di pochi spiccioli (…). Quale efficacia deterrente può avere un ordinamento penale che minaccia pene detentive a persone talmente disperate da accettare di subire la pena di atroci dolori e di menomazioni permanenti per un tozzo di pane? Quale efficacia rieducativa alla cultura della legalità può assolvere la pena inflitta nei confronti di persone che dopo il carcere saranno restituite alle vite miserevoli di prima e di sempre? (…)

Interrogativi analoghi si ripropongono per una quota significativa dei furti che rappresentano la parte numericamente più rilevante del carico di lavoro delle procure e quest’anno hanno registrato un incremento del più 20%: 29.949 reati rispetto a 24.872. Un numero elevato di furti sono consumati in danno di aziende che erogano le forniture di acqua, gas ed energia elettrica o di supermercati, perpetrati da persone in stato di disagio economico abitanti nei quartieri più popolari, gli stessi contrassegnati da una dispersione scolastica del 40%, da tassi di disoccupazione elevatissimi e da un reddito pro capite tra i più bassi d’Europa (…). Un caso emblematico di efficienza-inefficace: i processi vengono definiti, le pene vengono irrogate ma, ciononostante, il sistema penale non riesce a sortire né l’effetto di una riduzione né di un contenimento del fenomeno che anzi si incrementa (…).

Una geografia del crimine tipica dei paesi sottosviluppati e una significativa crescita dell’area della illegalità nei settori più colpiti dalla crisi economica. Dal 2012 al 2018 si registrano 51509 occupati in meno e una correlativa crescita del lavoro irregolare dal 19,5 al 21%, 8 punti in più della media nazionale (…). Alla crescita del lavoro irregolare si accompagna la crescita di una vasta costellazione di reati: caporalato, evasione fiscale, violazione delle norme antiinfortunistiche, sull’igiene, edilizie, etc (…). Altra espressione tipica di questa geografia del crimine del sottosviluppo è la crescita costante di tutti i reati legati al ciclo del cemento e in particolare l’abusivismo edilizio. (…).

L’economia criminale del sottosviluppo caratterizza anche tutte le principali fonti di locupletazione di Cosa Nostra: le estorsioni, la vendita di stupefacenti, la gestione di agenzie e centri di scommesse. Quanto alle estorsioni che continuano ad essere praticate a tappeto almeno in alcune zone, la chiusura di migliaia di esercizi commerciali e di imprese falcidiate dalla crisi ha progressivamente ridotto in modo significativo la platea numerica dei soggetti da estorcere, concentrando la pressione vessatoria sugli operatori economici che ancora resistono e che spesso versano in situazione di tale precarietà da consentire solo la sopravvivenza con margini di guadagno esigui che vengono frequentemente rimpinguati mediante pratiche illegali della più varia tipologia: dal furto di energia elettrica, all’evasione fiscale, al ricorso al lavoro irregolare, allo smaltimento illegale dei rifiuti. Criminalità mafiosa e illegalità diffusa si saldano così in un circuito perverso, avvitandosi in una spirale che si autoalimenta (…).

Il progressivo arretramento economico dell’isola con tutte le conseguenze che si declinano sulla espansione dell’illegalità, non è frutto di un destino avverso, ma chiama in causa la responsabilità delle classi dirigenti nazionali e isolane sotto vari profili. Se la storia della “prima Repubblica” è stata caratterizzata dal colossale spreco di risorse di migliaia di miliardi destinati al Sud per promuovere sviluppo e invece dilapidati nel buco nero della gestione di enormi reti clientelari che in cambio di favoritismi della più varia tipologia garantivano un voto di scambio fidelizzato, l’attuale fase storica segnata da riduzioni strutturali della spesa pubblica si caratterizza per la pressoché totale rimozione della questione meridionale dall’agenda politica. Pur nel radicale cambiamento dello scenario politico ed economico, persiste tuttavia una inquietante e perniciosa continuità tra passato e presente (…) di una predazione sistematica delle residue risorse pubbliche praticata con le più diverse forme corruttive e l’abuso di potere da una pletora di colletti bianchi della classe dirigente (…).

Si ha quasi la sensazione di uno Stato accerchiato, contemporaneamente impegnato a difendere la linea Maginot della legalità su due fronti. Da una parte il difficile e impegnativo fronte esterno del contrasto alla criminalità mafiosa, alla criminalità comune e alla illegalità di massa. Dall’altra l’insidioso fronte interno della neutralizzazione dell’attività criminale posta in essere da una pletora di soggetti che occupano postazioni strategiche all’interno del circuito istituzionale e che all’ombra discreta di ovattati uffici pubblici, di salotti bene e di logge massoniche coperte, sono dediti a strumentalizzare i ruoli ed poteri pubblici di cui sono investiti per arricchirsi predando le risorse pubbliche e contribuendo così a perpetuare e aggravare il sottosviluppo.

Se l’illegalità dei piani bassi della piramide sociale è alimentata dalla crisi economica, il proliferare di quella dei piani alti è stata invece sin qui alimentata dalla stratificazione di una legislazione che nel tempo e in vari modi ha abbattuto ai minimi termini il rischio e il costo penale per i reati dei colletti bianchi, come dimostra il fatto che solo lo 0,3% dei detenuti appartiene a tale categoria sociale. La recente approvazione della legge “Spazzacorrotti” e la riforma del regime della prescrizione segnano una inversione di tendenza che non si sa ancora se destinata a stabilizzarsi o ad essere ridimensionata tenuto conto che su tali temi è in corso da mesi uno scontro politico ad altissima intensità che mette a rischio la stessa tenuta del governo nazionale (…).

Un telegrafico elenco della tipologia dei soggetti incriminati e di quelli tratti in arresto per tale tipologia di reati: deputati nazionali e regionali, sottosegretari di stato, dirigenti ministeriali, dirigenti di assessorati regionali, dirigenti Genio Civile, dirigenti Anas, direttori Uffici tributari, dirigenti Sanitari, ex rettori universitari e persino vescovi accusati di essersi impossessati dell’8 per mille (…) Si registra una crescita del 29% dei reati di corruzione, del 32 dei reati di peculato, del 32 dei reati di malversazione a danno dello Stato e di indebita percezione dei contributi (…). Dall’ultimo rapporto Istat sulla Sicilia emerge che il 51,4% degli abitanti crede che ribellarsi alle tangenti sia pericoloso, mentre il 33,8 crede che sia inutile. Perciò la maggior parte dei reati contro la P.A. emerge solo a seguito di autonoma attività di indagine svolta dalle forze di Polizia e dalla magistratura, come per i reati di mafia (…).

Possono i processi penali supplire alla mancanza di etica collettiva e di senso dello Stato di settori portanti di classi dirigenti incapaci di autoregolarsi e corresponsabili esse stesse del progressivo degrado economico e sociale di una Sicilia che dopo 70 anni di storia repubblicana é tornata al punto di partenza divenendo la regione più povera del Paese?

Calabria, l’imputata chiede la parola

A Catanzaro la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario ha risentito di quello che il presidente della Corte d’appello Domenico Introcaso ha definito “il vulnus indelebile derivato dai provvedimenti giurisdizionali e disciplinari riguardanti magistrati del distretto, titolari di incarichi di grande responsabilità”.

Non poteva essere altrimenti visto il terremoto che si è imbattuto nel distretto di Catanzaro negli ultimi mesi: un giudice arrestato per corruzione (il presidente di sezione della Corte d’appello Marco Petrini) e due indagati per lo stesso reato (il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla) e trasferiti dal Csm al Tribunale civile di Potenza. Un quarto, addirittura il procuratore generale Otello Lupacchini (pure lui sotto inchiesta dalla Procura di Salerno) è finito a Torino come sostituto pg dopo le critiche, in diretta sul Tgcom, rivolte al procuratore della Dda Nicola Gratteri all’indomani della maxi-operazione “Rinascita-Scott”.

Per la stessa indagine, Gratteri è stato attaccato anche dalla deputata del Pd Enza Bruno Bossio, imputata nell’inchiesta “Lande Desolate” assieme al marito ex parlamentare, Nicola Adamo, indagato per traffico di influenze proprio nella maxi-inchiesta contro la cosca Mancuso. La deputata aveva accusato Gratteri di voler impedire la ricandidatura di Mario Oliverio alla Regione ma ieri era in prima fila all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Sempre al fianco degli avvocati, Bruno Bossio non ha mollato un attimo il cellulare e non è passato inosservato il suo mancato applauso al discorso del procuratore Gratteri. A metà cerimonia, la deputata dem ha chiesto di intervenire. Non le è stato consentito e per questo se n’è andata senza aspettare che il presidente della Corte d’Appello dichiari aperto l’anno giudiziario di Catanzaro.

“Il processo estinto è una patologia, guai a zittire le idee”

C’è nell’aria una voglia di restaurazione nel campo della giustizia. Ne ragiona Marcello Maddalena, già procuratore e procuratore generale a Torino.

Barricate della politica e dell’avvocatura contro la riforma della prescrizione. Proteste contro la legge anticorruzione. Invocazione del bavaglio per un giudice non gradito inviato dal Consiglio superiore della magistratura all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano…

Sulla prescrizione il discorso è delicato, perché bisogna conciliare due esigenze contrapposte: da una parte non sprecare il lavoro fatto dalla giustizia, nel quadro dell’obbligatorietà dell’azione penale, e dall’altra non tenere all’infinito un cittadino sulla graticola penale. Non è semplice. In altri Paesi la prescrizione non corre più dopo che è partita l’azione penale. Vero è che nel nostro i processi sono lunghi, anche perché ci sono tanti gradi di giudizio: l’udienza preliminare, il primo grado, l’appello, la Cassazione, poi ancora l’eventuale rinvio a un nuovo appello e a una nuova decisione della Cassazione. Allora, intanto io non capisco perché sia diventata tanto fondamentale la questione della prescrizione, visto che gli effetti della riforma si vedranno solo tra molti anni e c’è tutto il tempo per fare gli aggiustamenti necessari. Ma poi c’è un’altra cosa che ritengo fondamentale.

Quale?

Chi è contrario a riformare la prescrizione ha dalla sua la ragionevole obiezione che non si può tenere un cittadino sulla graticola per troppi anni. Ma allora perché non facciamo decorrere la prescrizione non dal momento in cui è commesso il reato, ma dal momento in cui il cittadino viene informato di essere indagato? È allora, e non prima, che comincia a essere tenuto sulla graticola. La decisione di innocenza o colpevolezza deve essere presa in tempi ragionevoli, lo prevede la Costituzione, ma poi scatta anche una sacrosanta differenza tra chi è ritenuto colpevole o innocente.

Qual è questa sacrosanta differenza?

Se la persona imputata è assolta in primo grado, è lo Stato che vuole continuare a tenerlo sulla graticola, dunque è ragionevole che continui a correre la prescrizione. Se invece in primo grado è condannato e vuole ricorrere in appello, è sua la scelta di restare sulla graticola, dunque la prescrizione può essere bloccata.

Ha senso usare la prescrizione come medicina per curare una disfunzione della giustizia, come l’eccessiva lunghezza dei processi?

In realtà la prescrizione è essa stessa una patologia, perché quando scatta dimostra che il sistema non ha funzionato. E non dovrebbe essere usata per ridurre la lunghezza dei processi, che dovrebbe essere invece risolta con altre cure. Però è inevitabile che scatti, se le altre cure non ci sono.

È normale pretendere che un giudice non gradito non partecipi alla cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario?

È inammissibile. In un Paese democratico dove c’è libertà d’espressione del pensiero è inconcepibile non voler far parlare un giudice scelto dal Consiglio superiore della magistratura. Si può non essere d’accordo con quel che dice il dottor Davigo, che spesso parla per paradossi – io sono quasi sempre d’accordo, ma capisco che qualcuno non lo sia – però in ogni caso guai se si pongono divieti e si chiede di bloccare la libertà di manifestare le proprie idee.

“In appello muore il 50% dei processi. E ci mancano le risorse per celebrarli”

Nel distretto della Capitale si prescrive un processo penale su cinque, ma in appello sono quasi la metà. È lo stato di salute della giustizia nel Lazio nel 2019, secondo i dati del presidente della Corte d’appello di Roma Luciano Panzani, elencati durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. “I processi prescritti sono stati 19.500 su un totale di 125 mila, pari al 15% – spiega Panzani –, di questi 48% in Appello (7.743), 10% al Gip-Gup (7.300), 12% al dibattimento monocratico (4.300), 118 al collegiale (5%). La prescrizione colpisce maggiormente nei processi per cui c’è condanna in primo grado e quindi quasi uno su due in appello”, cioè dove è destinata a operare la riforma Bonafede che blocca la prescrizione dopo il primo grado. C’è un motivo se la ghigliottina cade a cavallo dei due gradi di giudizio: il “notevole ritardo nell’arrivo del fascicolo in Corte – spiega Panzani –, cui si è aggiunto il tempo necessario per l’instaurazione del rapporto processuale”, anche per “vizi di notifica”.

L’alto magistrato ritiene che “la battaglia per risolvere il problema della prescrizione può essere vinta”, basterebbe potenziare “adeguatamente le Corti” e “porre rimedio all’arretrato” con “un’amnistia mirata per i reati minori”. Ma “sospendere la prescrizione non serve a nulla”, dice Panzani, si andrebbe ad “accumulare i processi senza le risorse per farli”, visto che “gli uffici hanno scoperti di personale amministrativo del 20-30%” e “non possono essere sufficienti e tempestivi”. Un vuoto di organico che richiede “al ritmo attuale cinque anni di concorsi”.

Inoltre, si finirebbe per “ledere in modo irreparabile diritti fondamentali ad un processo equo e tempestivo”, la pena verrebbe “irrogata e scontata dopo che è passato troppo tempo dal fatto e quando ormai ha perso gran parte del suo significato”.

Il ministero ha previsto un “aumento delle piante organiche delle Corti di appello”, “più 9 consiglieri a Roma e Napoli – aggiunge Panzani -. Per Roma significa 2 mila sentenze penali in più all’anno. Un progresso, non la soluzione, anche se Roma in pochi anni è passata dalle 10 mila sentenze penali all’anno del 2014-2015 alle 16 mila del 2019, con un aumento, al netto delle sentenze di prescrizione, di 3 mila sentenze penali all’anno”.

Naturalmente, a Roma, gli avvocati non protestano. “Condividiamo il pensiero di Panzani – spiega Cesare Placanica, presidente Camere Penale di Roma –, mi auguro che adesso la politica che ci governa ne prenda atto”.