Davigo e stop prescrizione, l’Anm contro gli avvocati

Ci fu un tempo in cui all’inaugurazione dell’anno giudiziario i magistrati si presentarono in toga e con la Costituzione in mano, per difendere la legge uguale per tutti, contro le leggi ad personam varate dall’allora presidente del Consiglio. Questa volta è stato un gruppo di avvocati a inscenare la protesta, uscendo dall’aula magna del palazzo di giustizia milanese e agitando fogli su cui erano indicati tre articoli della Costituzione (24, 27, 111): per manifestare contro la norma che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e rende più difficile ai potenti uscire dal processo penale perché il tempo è scaduto.

La protesta era annunciata. Gli avvocati della Camera penale avevano chiesto al Consiglio superiore della magistratura di non mandare Piercamillo Davigo a rappresentare il Csm a Milano nella cerimonia che apre l’anno giudiziario: ritengono le sue dichiarazioni un attacco all’avvocatura, al diritto alla difesa, addirittura allo Stato di diritto.

Davigo è tornato comunque nel palazzo dove nacque l’inchiesta Mani pulite e ha svolto il suo intervento, un discorso istituzionale in rappresentanza del Csm di cui ora fa parte, senza il minimo accenno ai temi oggetto di polemiche: prescrizione e ruolo dell’avvocatura. Ha ricordato invece la grave crisi che ha investito il Csm, con le dimissioni dei suoi membri che non avevano svolto la loro funzione “con disciplina e onore”. Ha ribadito la necessità di superare le degenerazioni correntizie e le “nomine a pacchetto”, spartite tra le correnti dell’associazione magistrati. Ha sottolineato che le 13 sospensioni cautelari e le altre misure disciplinari inflitte dal Csm dimostrano che quella del Consiglio non è una “giustizia domestica”, ma “estremamente rigorosa”.

Ad affrontare i temi della polemica ci ha pensato il rappresentante degli avvocati, Vinicio Nardo, che ha arditamente paragonato gli avvocati minacciati nel mondo da regimi totalitari con l’attacco al diritto alla difesa che a suo dire sarebbe in corso in Italia, con una “fustigazione mediatica che indebolisce i diritti dei cittadini”. In suo soccorso è arrivato anche il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso: “La sospensione della prescrizione non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà senza limiti”; con una norma che “presenta rischi di incostituzionalità”, “irragionevole”, “incoerente”, “confliggente con valori costituzionali”. La risposta, con toni pacati ma decisi, è arrivata dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Poniz, che ha innanzitutto criticato il tentativo degli avvocati di non far parlare Davigo: “Oggi appare ancora più gravemente impropria un’iniziativa di protesta che, lontano dall’essere un pacato, argomentato, ancorchè fermo, confronto di idee, vorrebbe negare la presenza stessa, e la voce, a un interlocutore, persino nella sua veste istituzionale: ostracismi preventivi e veti ad personam contraddicono apertamente non soltanto il metodo del confronto delle idee, ma quei valori stessi di fondamento costituzionale ai quali si pretende di ispirarsi”. Poniz ha poi ha contestato l’uso della prescrizione come rimedio per curare un’altra malattia, la lunghezza dei processi: “L’idea che la prescrizione sia istituto idoneo a regolare la durata del processo” è una “giuridicolaggine”. La prescrizione, “a processo in corso, è una patologia”; e non può essere usata “come una medicina per curare un’altra patologia, la durata del processo, che impone ben altre, e genetiche, misure”. Del resto, “troviamo oggi intollerabile la lezione di garantismo che pretenderebbe di impartire chi, dal mondo della politica, non ha esitato a introdurre a suo tempo le più irrazionali e ingiuste riforme sostanziali e processuali”, producendo “davvero ‘imputati per sempre’, per statuto normativo: distratti, talvolta, questi garantisti à la carte…”. Infine Poniz ha ricordato i dati nazionali ed europei che “testimoniano la più alta produttività” dei magistrati italiani: sono la metà della media europea (11 per 100 mila abitanti, contro i 22 dell’Unione) e fanno il doppio dei processi (2,17 per 100 abitanti, contro 1,08 della media europea).

Critico Poniz sulla parte della riforma della giustizia che sanzionerà i giudici che non riusciranno a concludere i processi nei tempi prestabiliti, con una una “presunzione pressoché invincibile di negligenza”: nasce da “un’idea astratta di un processo tipo, come se il processo fosse uno, tipizzabile nelle sue pressochè infinite variabili”.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha ribadito la volontà di dialogare con chi ha idee diverse sulla prescrizione. Ma “non c’è alcuna incostituzionalità”, come suggerito dal procuratore generale. “In tutta Europa vige un sistema di prescrizione che è, non dico identico, ma simile al modello che abbiamo introdotto”. E poi: “Non ho mai detto che la riforma della prescrizione serva a ridurre i tempi dei processi”. Ogni malattia ha bisogno dei suoi (diversi) rimedi. “Ritengo ingiusto che lo Stato dopo aver speso soldi ed energie per l’accertamento dei fatti, a un certo punto debba veder finire quel lavoro nel nulla”. Ha concluso Bonafede: “Non sono un manettaro: sono il primo ministro della Giustizia che ha stabilito un controllo strutturale su tutti i casi di ingiusta detenzione”.

Le Camere penose

Se non fossero indecenti e vagamente sediziose, le gazzarre inscenate dalle Camere penali in varie inaugurazioni dell’anno giudiziario sarebbero irresistibilmente comiche. A Milano gli avvocati escono dall’aula, dove peraltro le Camere penose sono solo ospiti, per protestare contro Piercamillo Davigo perché non la pensa come loro; per contestare quello che non ha ancora detto e poi quello che sta dicendo citando il presidente Mattarella; e per deplorare che il Csm, dovendo inviare alla cerimonia un membro del Csm, abbia inviato alla cerimonia un membro del Csm, per giunta ex pm ed ex giudice a Milano. E sventolano articoli della Costituzione scelti a casaccio, visto che difendono la prescrizione come fosse un diritto costituzionale e non una vergogna incostituzionale. Completa il quadretto il Pg Roberto Alfonso, che evoca la presunta incostituzionalità della blocca-prescrizione facendo rimpiangere Borrelli e tutti gli altri predecessori e dimenticando che il suo sindacato, l’Associazione nazionale magistrati, il blocco della prescrizione l’ha chiesto per vent’anni, almeno finché non l’ha ottenuto. E nessun Alfonso ha mai accusato l’Anm di volere leggi incostituzionali.

Ma eccoci a Napoli, la città record in Europa per numero di reati, processi lunghi e prescritti. Per onorare la memoria di Pulcinella e di Totò, gli avvocati hanno sfilato in manette. Ma non – come qualcuno potrebbe sospettare – per un eccesso di identificazione con i loro clienti, bensì per protestare contro la blocca- prescrizione (che ovviamente con gli arresti non c’entra una mazza) e l’“abuso delle intercettazioni”. Cioè contro due tipici attrezzi del mestiere del magistrato, pagato dallo Stato proprio per scoprire i delinquenti e possibilmente acchiapparli e metterli in condizione di non nuocere per un po’. Una scena spassosissima, che fa ben sperare per il futuro: prossimamente, orde di avvocati irromperanno nelle carceri per deplorare l’uso delle sbarre, nei pronto soccorso agitando stetoscopi contro l’abuso delle visite, nelle sale operatorie sventolando bisturi per protesta contro gli interventi chirurgici, nelle questure forando le gomme alle volanti contro le retate facili, nelle caserme agitando fucili contro le forze armate inspiegabilmente armate, nelle cucine contro le pentole, nei boschi contro le seghe dei taglialegna, nei mari contro le reti da pesca, negli stadi contro i palloni da calcio e le bandierine dei guardalinee. Domanda: cosa induce le Camere penali a coprire di ridicolo un’intera categoria di 180 mila e rotti professionisti (molti dei quali serissimi)?

Non si accorgono di confermare così tutti i più vieti luoghi comuni e le caricature sull’avvocatura, dal manzoniano Azzeccagarbugli in giù? La risposta è presto detta. Quella forense è da sempre la lobby più potente in Parlamento e al governo, abituata a farsi le leggi e i codici a uso e consumo proprio e della clientela più danarosa. Solo agli albori della Repubblica finivano in Parlamento gli avvocati migliori, da Calamandrei a Leone. Poi arrivarono i peggiori, perlopiù difensori di politici indagati e imputati di centrodestra e di centrosinistra. Quelli che, in palese e sfrontato conflitto d’interessi, con la mano sinistra continuavano a esercitare la professione nelle aule di giustizia, mentre con la destra legiferavano nelle aule parlamentari, sfornando leggi incostituzionali per depenalizzare o far prescrivere i reati dei clienti (soprattutto uno). Il tutto nel silenzio complice del cosiddetto Ordine forense che avrebbe dovuto sanzionare quegli abomini. Ora, da un paio d’anni, la nota lobby ha perso il monopolio delle leggi sulla giustizia e – paradosso dei paradossi – proprio con un premier e un Guardasigilli avvocati (Conte e Bonafede): a riprova del fatto che esistono avvocati dediti non all’interesse della bottega, ma a quello collettività, vittime e cittadini onesti in primis. Infatti, dopo centinaia di norme che allungavano i processi, accorciavano la prescrizione, svuotavano le carceri, depenalizzavano i reati dei colletti bianchi e seminavano impunità a piene mani, la tendenza si è invertita (come ha notato il Pg di Palermo Roberto Scarpinato, a pag. 4). Perciò gli avvocati e i relativi clienti che campavano sui processi eterni, a botte di leggi ad categoriam e manovre dilatorie, oggi si trovano spiazzati e strillano come vergini violate. Senz’accorgersi che i loro alti lai contro i tempi della giustizia fanno sorridere chiunque abbia assistito a un processo eccellente, in tribunale o a Un giorno in pretura. Come se Rocco Siffredi e Max Felicitas deplorassero ogni giorno la piaga dilagante della pornografia. Noi naturalmente conosciamo avvocati che mai si sognerebbero di chiedere bavagli illiberali e punizioni esemplari contro Davigo, né amano vincere i processi depenalizzando i reati o mandandoli in prescrizione, né si presterebbero a sceneggiate come quelle di ieri. E continuiamo a sperare che, in una categoria di 180mila e più persone, esista una minoranza silenziosa che non vuol essere confusa con la maggioranza sediziosa: il Fatto è a loro disposizione, se vogliono dire qualcosa a tutela del proprio buon nome e della loro nobile missione.
Ps. Siccome non c’è limite al peggio e i politici non sono mai secondi a nessuno, a Catanzaro ha chiesto di parlare all’inaugurazione dell’anno giudiziario la deputata Pd Enza Bruno Bossio, celebre perché ha più processi e indagini a carico che capelli in testa (senza contare quelli del marito Nicola Adamo) e per gli attacchi al procuratore Nicola Gratteri. Ma è stata respinta con perdite. Peccato, l’idea non era male: dal 2021 l’anno giudiziario potrebbero inaugurarlo direttamente gli imputati.

Il “Don Carlos” (intero) di Verdi, capolavoro del pessimismo storico

Per lungo tempo si è sottovalutata l’arte di Verdi in lingua francese. Eppure essa è durata dal 1847 al 1894, quando l’edizione dell’Otello per l’Opéra di Parigi lo portò a scrivere la sua ultima pagina sinfonica, i modernissimi Balletti esotici. Il tipo di Opera che si era internazionalmente affermato era il Grand-Opéra. Creazione parigina, ma di paternità soprattutto italiana.

Le intuizioni di Salieri e Cherubini erano state raccolte dal marchigiano Spontini, che fu anche cultore a Berlino di Bach e Beethoven, dopo esserlo stato a Parigi di Mozart. Il primo vero Grand-Opéra della storia è suo, il Fernand Cortez, del 1809. Ma l’esaltazione di Napoleone civilizzatore si scontrò con le avverse fortune spagnole dell’Imperatore. La monumentale Opera esotica ebbe una seconda e miglior versione sotto Luigi XVIII nel 1817. Spontini vi fece seguire l’Olimpie, del 1819, pur essa esistente in varie revisioni (la pristina partitura è perduta) e il primo Grand-Opéra in lingua tedesca, l’Agnes von Hohenstaufen, che influenza lo stesso Wagner. A Parigi s’era insediato intanto Rossini, del quale i capolavori francesi sono monumenti della musica, in ispecie il terzo, il Guillaume Tell (1829), un gigantesco Poema Sinfonico sulla Natura.

Ma Verdi non sopportava l’Opéra, con la sua pesantezza burocratica, il suo vetusto regolamento, i direttori d’orchestra scadenti che non poteva sostituire neanche con se stesso. La riconciliazione si ebbe solo nel 1880, quando potette dirigervi l’Aida. Onde si tenne alla larga dal teatro, in un ambiente che sentiva anche ostile. Poi giunse a quella che sarebbe stata la più gran de disperazione della sua vita. Torna come fonte a Schiller, il grande poeta che riscriveva la storia a suo talento, come mostra la Giovanna d’Arco, musicata dal Maestro nel 1845. Questa volta ricorre alla Tragedia Don Carlos. L’Infante di Spagna, figlio di Filippo II, era in realtà gobbo e pazzo. Morì nelle carceri dell’Inquisizione, ove il padre l’aveva ristretto. Ma il Re era, già nella storia, uno psicopatico, e Verdi ne dà un ritratto che fa venire i brividi. Lo mostra soggetto al Grande Inquisitore, così come fa dell’Infante un puro eroe, affetto da una passione platonica per la sposa del padre, Elisabetta di Valois, e legato da un rapporto erotico col suo miglior amico. Il Maestro s’impegnò allo spasimo nella creazione. Il Don Carlos, insieme col Guillaume Tell di Rossini e con l’Aida (ancorché questa sia in italiano) e col Tannhäuser di Wagner è il più bel Grand-Opéra della storia. Verdi non potette mai ascoltarlo intero. Lo tagliarono alla prima rappresentazione. Lo tagliarono dovunque. Per la disperazione l’Autore eliminò l’intero primo atto, in una versione italiana. Poi lo ripristinò con tagli, vent’anni dopo la “prima”, sempre in italiano. Non so se, incisione a parte, la partitura completa del 1866 sia stata mai allestita in scena. Lo ha fatto ora quello che considero il miglior soprintendente, italiano ma da anni a Liegi, ove dirige l’Opéra Royal de Wallonie. Stefano Mazzonis di Pralafera è autore anche della geniale regia, mentre sul podio un nostro direttore in costante crescita, il mantovano Paolo Arrivabeni, coglie nel timbro tutta la terribilità e, lo dico ancora una volta, la disperazione di un testo del più grande pessimismo storico che fu anche il dolore del suo Autore. Non un torso michelangiolesco, ma il Michelangelo scultore più cupo può essere accostato al capolavoro di un genio che non gli è inferiore.

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Peter Pan, traditori, mostri: benvenute nel club delle Sante

Sarà in libreria il 6 febbraio (Baldini+Castoldi) “Pene d’amore. Manuale di sopravvivenza agli ex” dell’illustratrice Amalia Caratozzolo. Pubblichiamo la prefazione di Selvaggia Lucarelli.

Amalia Caratozzolo è una di noi. Questa è la premessa necessaria per illustrare al lettore la prima buona ragione per leggere il suo libro. È una di noi perché, con quella che i saggi chiamano “esperienza” e che noi donne chiamiamo “esperienza maturata grazie alla sventurata sequela di sfigati in cui siamo inciampate”, illustra con ironico cinismo le più temibili tipologie maschili.

Prendendo in prestito un’espressione leggendaria passata alla storia grazie al film Notting Hill potrei dire che Amalia, in Pene d’amore, descrive “i cazzoni avariati” (e come vi sarà chiaro osservando le belle illustrazioni, non è una definizione puramente metaforica). Dalle categorie più classiche quali il narcisista patologico, il Peter Pan irrecuperabile, il traditore seriale a quelle più improbabili (il mostro dello Stretto spicca sugli altri), nella galleria di Amalia si trova di tutto ed è un tutto che evoca incontri propri o racconti di amiche, un po’ come in quei mercatini dell’usato in cui si riconoscono soprammobili identici a quelli di casa o oggetti visti in appartamenti altrui. Non illudetevi però.

Nella mappa di Amalia c’è anche un’ironica agiografia di donne che sa di velato biasimo, una lista di “sante creature votate al martirio” e per martirio si intende quella spiccata e suicida propensione tutta femminile a intraprendere relazioni sentimentali con esseri tra lo spregevole e il raccapricciante. Non è un libro femminista, quello di Amalia, è un libro “femminile”. Perché è spietato con gli uomini e per nulla assolutorio con le donne. Santa Pazienza, santa Temeraria, santa Rinuncia e perfino Maria Addolorata nel suo desolante cimitero sentimentale siamo noi. Noi che nella disperata ricerca di una relazione decente, almeno una volta nella vita, non sapendo più a che santo votarci, ci siamo votate a vampiri energetici, mammoni e immaturi. Insomma, ai già citati cazzoni avariati. Senza dimenticare, però, che proprio quelle sottospecie di uomini lì piacciono terribilmente alle single avariate.

Come Amalia. Come noi.

Ugo Moretti, lo scrittore che l’Italia non meritava

Il suo nome era già completamente dimenticato quando, il 29 settembre 2008, il giornalista Massimo Balletti lo rievocò testimoniando in una delle udienze del processo per il sequestro e l’uccisione di Mauro De Mauro, il cronista del giornale L’Ora. Ricordò che Ugo Moretti (Orvieto, 1918-Roma, 1991), narratore e poeta, giornalista, critico d’arte e sceneggiatore, nel novembre del 1970, quando dirigeva a Milano il settimanale Le Ore della Settimana, presentò una denuncia alla Procura della Repubblica affinché la magistratura indagasse con l’ipotesi di omicidio sulla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei. Una denuncia, la sua, che anticipava di più di vent’anni l’inchiesta della Procura di Pavia con cui il pubblico ministero Vincenzo Calia stabilì che l’aereo di Mattei era stato abbattuto da una bomba.

Moretti, in ogni caso, da tempo era caduto nell’oblio, nonostante durante la sua esistenza e la sua “carriera dispersiva e oscura”, come ha notato lo scrittore Diego Zandel, avesse vinto un Premio Viareggio Opera Prima nel 1949, con il romanzo Vento caldo, e fosse stato autore, per sopravvivere, di svariati e pregevoli “gialli” e persino continuatore dell’Emanuelle di Emanuelle Arsan, con le sue Emanuelle 2 e 3. Nessuno rammentava, poi, ciò che aveva detto L’Unità nel 1991, quando Moretti morì, parlando dei suoi libri “neorealisti” tradotti in molte lingue e del suo essere stato “animatore delle iniziative culturali di via Margutta alla fine degli anni ’50, personaggio inconfondibile nel ‘baretto degli artisti’ di via del Babuino”, oltre che amico di pittori come Vespignani, Omiccioli, Afro, di narratori come Giuseppe Berto, del libraio Remo Croce. Quel mondo, affermò ancora L’Unità, “che Moretti descrisse in Gente al Babuino“, del 1955.

Adesso, a quasi trent’anni dalla scomparsa di questo scrittore bohémienne, grande seduttore di signore e signorine, poeta erotico, grazie al citato Diego Zandel, che gli fu amico, la casa editrice ligure Oltre ha ripubblicato Doppia Morte al Governo Vecchio (pagine 182, euro 16): un “romanzo di costume e quadro d’ambiente”, per citare il giudizio di Raffaele Crovi, che era uscito nel 1960, in piena “dolce vita”, e ristampato per l’ultima volta nel 1990. È una storia ambientata nella vecchia Roma, da Trastevere a via del Governo Vecchio, asseriva sempre Crovi qualche anno fa, in cui Moretti “combina sapientemente i meccanismi di un ingarbugliatissimo intreccio delittuoso con le gag satirico-grottesche della commedia cinematografica all’italiana, confermando di essere (dopo un’immotivata e immeritata lunga lontananza dalle librerie) un narratore di talento e un giallista di razza”. Dall’opera dello scrittore di Orvieto venne pure tratto un film, nel 1977, diretto da Steno, con Marcello Mastroianni, Ursula Andress, Agostina Belli, Peter Ustinov e Jean-Claude Brialy.

La vita di Moretti, fin dai suoi esordi letterari, fu sempre picaresca, come nel caso della pubblicazione di Vento caldo.

Il critico letterario Carlo Muscetta, lettore per l’Einaudi – raccontò Moretti nel 1987 alla rivista Fermenti – aveva spedito “il manoscritto di Vento caldo a Torino. Sfortuna volle che il manoscritto fu intercettato da Natalia Ginzburg che lo respinse con motivazione ‘torinese’ che – se non fosse stata una donna e vedova di un martire della Resistenza – gliel’avrei fatta mangiare, senza burro e senza zucchero. Vento caldo uscì un anno dopo, presso una casa editrice scamuffa e fantomatica (era la copertura fiscale degli Scalera) che pubblicavano libri che non si vendevano per aumentare il passivo della società. Comunque, per la forza dei bastardi, Vento caldo prese il premio Viareggio opera prima e la tiratura si esaurì in due mesi. Fu ristampato dalla SucarCo undici anni dopo. Pavese, quando mi conobbe l’anno dopo, allibì a leggere la lettera che la Ginzburg aveva scritto a Muscetta. ‘Non lo sapevo’ disse e mi regalò Il mestiere di vivere aggiungendo al titolo ‘…da scrittore’”.

Alternò miseria e periodi di modesto benessere, cercò di vivere con allegria, fu sempre un uomo libero. In “un altro Paese”, scrive Zandel nell’introduzione a Doppia morte al Governo Vecchio , “uno scrittore come lui avrebbe avuto un’altra fortuna. Qui, invece, nonostante tutto, era alla fame”.

Nord Irlanda, torna il confine che uccise Tobias

Tobias Molloy aveva 18 anni la notte in cui un proiettile di gomma sparato dai militari del Sas al check-point di Camel’s Hump (la gobba del cammello) a Strabane, Irlanda del Nord, lo ha ucciso sul colpo. La mezzanotte del 16 luglio 1971 era passata da meno di due ore. Tobias aveva trascorso quel sabato sera a una festa danzante in un albergo di Lifford, la cittadina “gemella” di Strabane sul versante irlandese del fiume Foyle, assieme alla fidanzata. Quasi mezzo secolo dopo, ieri sera alle 23 ora locale (mezzanotte in Italia), l’entrata in vigore della Brexit, pone di fatto un grande punto interrogativo: senza un accordo sul Backstop, la questione del confine tra Regno Unito e Eire, c’è il rischio di un ritorno al sistema doganale, ai posti di controllo e, dunque, alla violenza dei troubles? Nel luglio del 1971 la Gran Bretagna non aveva ancora aderito all’Unione europea. In questo, lungo lasso di tempo, il colpevole della morte di Tobias Molloy non ha un nome e un volto. Quella sera il ragazzo aveva detto a sua madre che sarebbe rientrato a casa prima delle 2 e piuttosto di farla preoccupare decise di non seguire l’amico lungo la via “lunga” per passare tra le due Irlande, sfidando i soliti soprusi da parte dei soldati inglesi al posto di controllo. Giunto all’estremità nordirlandese del ponte, Tobias si trovò in mezzo a uno dei soliti scontri tra nazionalisti repubblicani e forze di occupazione britanniche: “Un proiettile di gomma, sparato da una distanza di pochi metri non gli ha dato scampo, colpendolo tra il petto e il cuore. Il suo corpo fu caricato e portato in ospedale a Lifford, ma lui era già morto pochi secondi dopo il trauma”.

Martin e Anne Molloy sono i cugini di Tobias, gli unici parenti diretti rimasti in vita (a parte il fratello, da tanti anni residente in Inghilterra). Come per la quasi totalità dei fatti di sangue durante il conflitto in Irlanda del Nord tra il 1969 e l’Accordo di Pasqua (Good Friday Agreement) nel 1998, nessuno è finito alla sbarra: “Per il caso di Tobias non c’è stata alcuna investigazione – aggiungono –, siccome lui è morto ufficialmente a Lifford dovrebbe essere l’Irlanda a occuparsene, ma i militari che lo hanno ucciso sono britannici. Insomma, noi moriremo senza avere neppure uno straccio di verità”. You have just crossed the border. La voce registrata a bordo della macchina dei fratelli Molloy, in transito sopra il ponte sul fiume Foyle, annuncia il passaggio tra Irlanda del Nord, Regno Unito, e la Repubblica d’Irlanda. In pochi secondi si passa da Strabane, la cittadina dell’Ulster più colpita dai troubles, in proporzione ai suoi abitanti, a Lifford, al contrario un tranquillo villaggio irlandese. Le lancette dell’orologio viaggiano nel tempo. Il presente racconta l’imminente entrata in vigore della Brexit sul versante orientale, forse l’annuncio di un ritorno a un passato nero e violento. Allora i posti di controllo delle forze britanniche servivano a sigillare una città ribelle, oggi potrebbero non essere necessari, ma la paura di un ritorno al passato è sempre viva a Strabane.

“Good morning, Brexit”: Londra si sveglia da sola

“L’alba di una nuova era”. Boris Johnson chiude così la lunga, travagliata relazione con l’Unione europea: passaggio storico di enorme portata simbolica, economica e geopolitica, che però il primo ministro è ansioso di gettarsi alle spalle. “La cosa più importante da dire stasera è che questa non è un fine ma un inizio. Il momento in cui sorge il sole e si apre il sipario su un nuovo capitolo. Un momento di vero rinnovamento e ricambio nazionale”. Messaggio pre-registrato: nel momento fatidico Boris era a Downing Street con ministri, consulenti, funzionari e attivisti pro- Brexit. E menu autarchico: spumante inglese, blue cheese dello Shropshire, canapè di agnello, pollo arrosto, la molto patriottica salsa al rafano. Celebrazioni riservate, senza trionfalismi o ostentazioni e, anzi, con il diktat a funzionari e rappresentanze diplomatiche nel mondo di evitarle.

Il memento ufficiale è una moneta commemorativa da 50 centesimi con la scritta pace, prosperità e amicizia per tutte le nazioni datata 31 gennaio 2020. Le piazza è lasciata a Nigel Farage, che ieri ha twittato: “È finalmente giunto il giorno della liberazione. Una enorme vittoria per il popolo contro l’establishment”. Il suo Brexit Party ha festeggiato in piazza del Parlamento: festa contingentata, dalle 21 a poco dopo le 23, ora fatidica del bye bye alla Ue. Sotto il diluvio e senza alcol né fuochi d’artificio, per motivi di sicurezza, e cosa è un party inglese senza alcol? Attorno, il paese è sempre diviso fra vincitori e vinti, fra chi ha festeggiato e chi era in lutto, e l’uscita dall’Ue inaugura un periodo di enorme incertezza. Malgrado la propaganda ufficiale e il passaggio simbolico di ieri, Brexit non è affatto conclusa: a marzo iniziano i negoziati decisivi, quelli sul futuro dei rapporti commerciali, e Boris vuole chiuderli in 11 mesi, senza estensioni. Tecnicamente troppo poco per un accordo onnicomprensivo, ma non per un compromesso politico di massima che permetta a entrambe le parti di salvare la faccia, e poi elaborare negli anni a venire.

Sul piano domestico la strategia del Primo ministro ora prevede due passaggi: sanare le ferite con un piano di rilancio di tutte le regioni del Regno e investire in innovazione e tecnologia. Visione unitaria già rigettata a Edimburgo, dove in migliaia hanno marciato davanti al Parlamento contro Brexit e per l’indipendenza scozzese, obiettivo del partito di Nicola Sturgeon saldamente al governo. I due elettorati sono sempre più sovrapposti, con Brexit che fa da acceleratore per il consenso popolare alla secessione da Londra: secondo l’ultimo sondaggio YouGov il sì, per la prima volta dalla sconfitta nel referendum del 2014, avrebbe la maggioranza.

E Brexit rischia di fare da catalizzatore anche per un prossimo referendum per l’unificazione fra le due Irlande. I nazionalisti irlandesi del Dup sono usciti indeboliti dalle elezioni di dicembre: non sono più l’ago della bilancia che erano per il governo di Theresa May. Bagno di realtà che li ha indotti ad accettare la formazione di un nuovo governo, dopo quasi tre anni di vacuum, con i repubblicani del Sinn Fein. Ma l’Irlanda del Nord è sempre una bomba a orologeria: Boris ripete che, al termine del periodo di transizione, fra 11 mesi, non ci saranno controlli fisici fra Irlanda e Gran Bretagna: ieri la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen lo ha di nuovo smentito, chiarendo che non solo sono inevitabili ma che saranno sotto la supervisione europea. Se e quando quei controlli appariranno, l’Irlanda del Nord tornerà a essere una spina nel fianco, politica e anche di sicurezza, con i paramilitari di entrambi i fronti, repubblicano e unionista, pronti a colpire. Ma rallegriamoci: dal giorno del referendum, il 23 giugno 2016, l’ex premier David Cameron, che il referendum sulla Brexit l’ha indetto, ha incassato 1,6 milioni di pound per parlare di politica. Da luglio, quando si è dimessa da premier, Theresa May ne ha guadagnati 400 mila.

“The Donald si prepara a guadagnare sui prezzi di cure e cibo per gli inglesi”

Non farà sconti Donald Trump dopo la Brexit al suo vecchio amico Boris Johnson, il quale, al contrario, contava proprio sulle buone relazioni del suo governo con quello Usa una volta perso lo status di membro dell’Unione europea. “Il presidente Usa insisterà affinché il Servizio sanitario nazionale inglese paghi di più per le medicine”, ha assicurato l’ex ambasciatore a Washington per il Regno Unito, Kim Darroch, in un’intervista esclusiva al Guardian proprio nel giorno del divorzio. Ma non si tratta solo di medicine e del prezzo da pagare per Johnson per il “tradimento” perpetrato da Londra firmando l’accordo con la cinese Huawei per l’implementazione della tecnologia 5G, accordo sul quale ieri si è detto preoccupato anche il capo del Pentagono, Marc Esper: “Se la tecnologia cinese compromette le nostre reti, compromette anche la nostra capacità di scambiarsi informazioni, comprese quelle di intelligence”, ha avvisato. La questione però riguarda anche i prodotti: “La maggior parte degli agricoltori Usa vota per Trump – ha spiegato il diplomatico dimessosi a luglio scorso a causa della pubblicazione dei cable in cui descriveva il presidente Usa come “goffo e inetto – a loro The Donald prometterà un maggior accesso al mercato del Regno Unito. Metterà al primo posto gli interessi delle multinazionali americane”, ha dichiarato Darroch. “Avvisaglie sulle pretese commerciali Usa se ne erano avute già a Downing Street già durante il mio mandato – ha confessato – ed era impossibile arrivare a un accordo con il Congresso entro la fine del 2020”. Ma la rivelazione è un’altra: “So per certo che gli Usa lanceranno una proposta quando si tratterà di negoziare un accordo di libero scambio con noi. Si parla di pollo, ma c’è molto di più”. Si tratta delle case farmaceutiche Usa – che finora si sono viste porre un tetto al prezzo per i farmaci da vendere al Sistema sanitario inglese, e che con i negoziati potrebbero non averne più. Notizia questa che Jeremy Corbyn aveva tirato fuori in campagna elettorale, e che BoJo aveva subito smentito. Insomma, come dichiarato anche dallo stesso segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, i colloqui tra americani e inglesi si fanno sempre più difficili. Non a caso Pompeo ha lanciato un avvertimento a Johnson: “Non usi la sicurezza alimentare come stratagemma per proteggere un determinato settore”. “Anche perché – ha concluso Darroch – non si può venire a patti mentre l’altro definisce i tuoi prodotti ‘carne trattata con ormoni, pollo clorato, colture geneticamente modificate’.

Trump, la lunga notte verso l’assoluzione Bolton: “Mi usò per Kiev”

Le pressioni sull’Ucraina perché mettesse sotto inchiesta i Biden padre e figlio cominciarono almeno due mesi prima della telefonata incriminata del 25 luglio tra i presidenti Donald Trump e Volodymyr Zelensky. All’inizio di maggio, Trump ordinò al consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton di aiutarlo a convincere Kiev durante una riunione nello Studio Ovale, presenti il capo ad interim dello staff della Casa Bianca Mick Mulvaney, il suo avvocato personale Rudy Giuliani e l’avvocato della Casa Bianca Pat Cipollone. Trump disse a Bolton di chiamare Zelensky, che aveva appena vinto le elezioni, perché incontrasse Giuliani, che stava organizzandosi incontri in Ucraina. Ma Bolton, ostile alla “diplomazia parallela” affidata a Giuliani, non fece mai quella telefonata.

Le ultime rivelazioni dalle bozze del libro di Bolton The Room where it Happened: a White House Memoir, che dovrebbe uscire a marzo, ma che la Casa Bianca cerca di bloccare, sono un tentativo in extremis di indurre il Senato ad ascoltare l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, che sa molto sul quid pro quo tra Usa e Ucraina. Ma in America la giustizia va veloce: magari non giunge al verdetto migliore, ma ci arriva in fretta, che l’imputato sia un – presunto – spacciatore o il presidente degli Stati Uniti. Così, nel processo sull’impeachment di Donald Trump, la sentenza appare già matura, appena due settimane dopo l’avvio del procedimento: il presidente sarà assolto, spiega un repubblicano critico, perché è colpevole del quid pro quo che gli viene contestato, ma non per questo merita d’essere rimosso. Ieri mattina, l’alternativa era se andare avanti, ammettendo nuovi testi, o se passare subito al voto, che a quel punto poteva solo essere d’assoluzione. Per ammettere nuovi testi, o nuovi documenti, è sufficiente la maggioranza semplice dei cento senatori; per condannare il magnate presidente, ce ne vogliono i due terzi (67 su 100).

I senatori repubblicani sono 53, i democratici 45, due gli indipendenti (che votano coi democratici). Quindi, per ammettere nuovi testi bisognava che quattro repubblicani votassero con i democratici, sempre che questi siano compatti.

Il nodo era se ascoltare o meno Bolton. Quando uno dei possibili transfughi repubblicani, il senatore del Tennessee Lamar Alexander, rientra nei ranghi (“Il comportamento del presidente è censurabile, ma non è da impeachment”), e quando pure la senatrice Lisa Murkowski si tira indietro, dicendo cose analoghe (il quid pro quo è già provato, ma non vale l’impeachment), i giochi paiono fatti. Mitt Romney conferma il voto a favore dell’ascolto di nuovi testi, fra cui Bolton. Se lo dovesse fare, come ipotizzato, pure Susan Collins, si arriverà a un 51 a 49. E vi sono alcuni democratici indecisi, che vengono da Stati conservatori: i media citano Joe Manchin (West Virginia), Doug Jones (Alabama) e Kyrsten Sinema (Arizona). Anche un voto pari sarebbe inutile e il processo si avvierebbe comunque verso la fine. Ma, in caso di parità, i democratici potevano chiedere al presidente della Corte suprema, John Roberts, che presiede il processo, di spezzare l’equilibrio – pochi credono che Roberts l’avrebbe fatto –. Adam Schiff, il deputato democratico che guida l’accusa, propone di limare la proroga del processo a una settimana. Un compromesso potrebbe essere che il processo prosegua sino a mercoledì, cioè fino a dopo il discorso sullo stato dell’Unione di martedì: ci sarebbe più tempo per le dichiarazioni di chiusura di accusa e difesa, senza però sentire nuovi testi. I democratici respirano il fallimento: il procedimento si sfarina; Trump va verso l’assoluzione e potrà presentarsi martedì con le stimmate del perseguitato politico; l’operazione impeachment finisce con l’essere, come temuto, un boomerang. Il presidente, invece, respira la vittoria: già giovedì twittava “game over”, con una foto di Bolton. Con una raffica di tweet, da giorni Trump attacca l’ambasciatore e ne mina la credibilità: lo accusa di avere fatto “molti errori di giudizio”, tra cui l’avere proposto in tv il “modello libico” per la Corea del Nord; e dice che “è stato licenziato perché francamente, se lo avessi ascoltato, saremmo ora nella sesta (?) guerra mondiale”. Il libro è “malevolo e falso”, con informazioni riservate. Di Bolton, finito sotto attacco sui social, Rudy Giuliani dice: “È un backstabber”, uno che pugnala alle spalle.

Giovedì si erano chiusi i due giorni di domande dei senatori ad accusa e difesa. Il repubblicano Rand Paul ha tentato di fare leggere al giudice Roberts una domanda con il nome della “talpa”, l’agente dell’Fbi che con la sua denuncia ha fatto esplodere il Kievgate. Roberts ha però respinto la domanda. Paul, allora, l’ha letta ad alta voce fuori dall’aula a telecamere accese. Il senatore chiedeva se l’accusa o la difesa fossero al corrente delle voci che due persone “potrebbero avere tramato insieme l’impeachment del presidente prima che fossero formalmente avviate le indagini”. Il nome della “talpa”, protetta dai democratici, era già stato svelato da media conservatori.

Continua, intanto, a fare discutere un’affermazione fatta dall’avvocato star Alan Dershowitz, uno dei difensori del presidente: secondo lui, qualsiasi azione intrapresa da un presidente per la sua rielezione è, per definizione, nell’interesse pubblico. Il che vorrebbe dire che, se anche tutte le accuse fossero vere, Trump non avrebbe comunque fatto nulla che meriti l’impeachment.

Imprese e sviluppo sostenibile. Ecco i nuovi gattopardi “green”

Tra tutti i colori, secondo gli scienziati quello di cui l’occhio umano distingue il maggior numero di sfumature è il verde. In Italia le sfumature abbondano al punto che si vede verde anche dove, a ben guardare, l’ambiente è grigio.

È il greenwashing, la mano di pittura green passata su ciò che ecologico non è, in economia, finanza o politica per convincere consumatori, risparmiatori ed elettori della (inesistente) sensibilità ambientale di aziende, banche e partiti.

Il 18 ottobre, Il Sole 24 Ore intervistava Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni secondo cui “i rifiuti sono il petrolio del futuro”. Ma nel piano industriale 2018-2021 di Eni si dice che l’80% degli investimenti, quasi 32 miliardi, andrà all’estrazione e produzione di idrocarburi, per far crescere i combustibili fossili del 3,5% annuo. Alle fonti rinnovabili andranno appena 1,2 miliardi per puntare sul “green diesel” prodotto dalle “bioraffinerie” di Venezia e di Gela. Peccato che l’Antitrust abbia appena multato per 5 milioni proprio l’EniDiesel+ per pubblicità ingannevole proprio sulle sue caratteristiche green.

Gli impegni di Enel Alla Camera il 15 maggio scorso il gigante elettrico nazionale ha presentato i suoi passi rispetto al Piano nazionale energia e clima per il 2030, richiesto dall’Unione Europea: l’ex monopolista ha promesso lo spegnimento degli impianti a carbone entro il 2025, il cosiddetto phase out. Ma in Cile invece Enel uscirà del tutto dal carbone solo nel 2040. Nel Paese sudamericano le popolazioni locali e l’ambiente sono colpite da centrali a carbone come quella di Bocamina, nella città di Coronel, descritta da Marina Forti su Internazionale.

Nel Paese però l’azienda ha ottime entrature: Enel Chile, che è la maggiore distributrice di elettricità, “è presieduta da Herman Chadwick Piñera, cugino del presidente della repubblica Sebastián e fratello del ministro dell’interno”. Non solo: la grande campagna di comunicazione (e pubblicità) di Enel sulla mobilità sostenibile non cita il fatto, lamentato dai proprietari di auto elettriche plug-in, che le tariffe di ricarica alle colonnine Enel X sono di 45 cent a kilowatt per un pieno di 25 euro per abbonamenti da 60 kw al mese, quando la stessa Enel vende l’elettricità per gli usi domestici a 22 cent per kw.

Poi ci sono le banche I due campioni nazionali, Intesa Sanpaolo e UniCredit, promettono sfracelli sull’attenzione ai cambiamenti climatici. Ma, come spiegato da un rapporto dell’associazione Re:Common, sono al decimo e undicesimo posto nella classifica mondiale stilata da una trentina di Ong degli istituti di credito che hanno finanziato di più l’industria del carbone nell’ultimo triennio.

UniCredit, secondo una inchiesta di Antonio Tricarico di Re:Common per Valori.it, “è il principale finanziatore delle società carbonifere turche Ic Ictas, Limak e Bereket Enerji per le centrali altamente inquinanti di Yenikoy, Kemerkoy e Yatagan”.

Intesa Sanpaolo, come hanno denunciato solo l’altroieri in una lettera di Greenpeace e Re:Common indirizzata al presidente Gian Maria Gros-Pietro e all’amministratore delegato Carlo Messina, nonostante i risultati mirabolanti annunciati anche nel corso del convegno “Intesa Sanpaolo motore per lo sviluppo sostenibile e inclusivo” ha finanziato con 77 milioni di euro l’azienda indiana Adani per il giacimento di carbone nel Galilee Basin, nel Queensland australiano.

Sempre Re:Common il 6 dicembre ha scritto un’altra lettera a Carlo Messina chiedendo conto delle notizie riportate dalla stampa della Bosnia Erzegovina sulla partecipazione di Intesa Sanpaolo a un consorzio di credito internazionale con Sberbank e NLB Banka per finanziarie il 15% dell’impianto termoelettrico a carbone Tuzla 7.

Generali Le assicurazioni di Trieste su spinta di Greenpeace, Re:Common e altre associazioni hanno fatto passi avanti per uscire dal finanziamento alle fonti fossili e dal carbone ma ammettono con grosse eccezioni. Generali investe in aziende che non hanno piani di abbandono del carbone in linea con gli accordi sul clima di Parigi, come la polacca Pge e la ceca Cez, che Greenpeace definisce “due delle compagnie più inquinanti d’Europa”.

L’azione di Stato D’altronde anche il governo italiano fa il “doppiogioco climatico”. A metà giugno l’Italia ha ottenuto il via libera definitivo della Ue alle norme, scritte dal ministero dello Sviluppo economico con l’autorità Arera e Terna, per varare il cosiddetto “mercato della capacità” nel quale gli operatori elettrici potranno vendere allo Stato la loro capacità di produzione elettrica. Ma in una nota congiunta Assoutenti, Casa del Consumatore, Greenpeace, Italia Solare (l’associazione dei produttori di energia fotovoltaica), Legambiente e Wwf, chiedono al ministero dello Sviluppo economico di riscrivere le regole perché “lo strumento incentiva di fatto una corsa alla realizzazione di nuove centrali alimentate ancora a fonti fossili”.

Parafiscalità Dal 2010 al 2017 gli oneri generali del sistema elettrico sono stati pari a 101,1 miliardi, ai quali si sono sommati altri 77 miliardi di accise e Iva per un totale di 178 miliardi. Nello stesso periodo le bollette sono costate 440 miliardi: il carico fiscale e parafiscale è stato pari dunque al 40,5% della bolletta elettrica nazionale. Con questi fondi in otto anni sono stati erogati 2,7 miliardi per smantellare i siti nucleari, 2,5 miliardi alle Ferrovie (regime tariffario speciale) e solo 400 milioni per il Fondo bonus famiglia a favore di 1,7 milioni di famiglie in povertà assoluta e 3,2 milioni in povertà relativa e, dal 2014, 2,1 miliardi alle aziende energivore per ridurre i costi della bolletta. Nel 2017 alle fonti rinnovabili “e assimilate” (occhio alle parole) sono andati solo 12,4 miliardi.