Sardine, che scivolone: in visita da Benetton

Un incontro conoscitivo dentro “Fabrica, il centro di sovversione culturale, un confronto molto stimolante” tra le Sardine e i talenti del futuro, quelli scelti da Oliviero Toscani e Luciano Benetton. Sì, proprio uno dei capostipiti della famiglia che controlla Autostrade per l’Italia e che da mesi è in guerra col governo per evitare la revoca della concessione.

Cosa c’entrano le Sardine con l’imprenditore veneto che solo due mesi fa ha scaricato tutta la tragedia del ponte Morandi sulle spalle dei vecchi manager? “Non siamo andati a prendere un caffè con Luciano e Oliviero, siamo andati a incontrare i creativi che frequentano il centro di formazione, il nostro è stato un pomeriggio di arte e cultura, solo questo”, replicano dal movimento. Anche se una nota recita: “I 4 fondatori hanno incontrato Oliviero Toscani e Luciano Benetton presso Fabrica, il centro di sovversione culturale da loro fondato a Treviso”. Nessuna voglia di polemica da parte dei quattro bolognesi Mattia Santori, Giulia Trappoloni, Andrea Garreffa e Roberto Morotti, ma sui social – dove gira anche la foto dell’incontro tra i sorrisi – sono in tanti a descrivere l’appuntamento come uno scivolone del movimento.

Fabrica è uno spazio fondato dal fotografo e dall’imprenditore veneto per “accogliere i ragazzi di talento che sperimentano la comunicazione”. Il perfetto ritratto delle Sardine che hanno ribaltato la campagna elettorale di Matteo Salvini in Emilia-Romagna, costringendolo a rinunciare a diverse piazze per paura di incontrare la protesta. “L’idea alla base dell’incontro era di farci conoscere e confrontare con gli studenti di Fabrica, alcuni di loro avevano già partecipato alle nostre iniziative. È stato davvero uno scambio culturale e artistico molto ricco, rimarremo in contatto e ci siamo detti che ci rivedremo nel futuro, magari può nascere qualcosa”, spiegano dal movimento. Toscani è stato il vero spin-doctor dell’incontro: “Ci ha chiesto come stessimo vivendo questo periodo, è stato curioso, ha voluto conoscerci ma voleva soprattutto farci parlare con gli studenti, altrimenti saremmo andati a prenderci un caffè solo con lui”. Di fronte o meno all’opportunità della presenza, e dell’attinenza, di Luciano Benetton, le Sardine precisano solo che c’era in qualità di fondatore di Fabrica. Il dubbio che l’imprenditore trevigiano abbia approfittato della loro popolarità è legittimo considerando che da tempo non compariva sui media.

L’ultima volta lo ha fatto per iscritto il 1º dicembre scorso, quando inviò ai quotidiani una lettera auto-assolutoria sul ruolo della famiglia nella gestione di Autostrade. La tragedia del crollo del ponte Morandi di Genova nel quale hanno perso la vita 43 persone veniva scaricata sui manager, definiti “qualche mela marcia”, glissando sul fatto che quella gestione ha permesso ad Autostrade per l’Italia di versare in dieci anni 6 miliardi di dividendi alla controllante Atlantia, la holding a sua volta controllata al 30% dai Benetton. “Ci assumiamo la responsabilità di aver contribuito ad avallare la definizione di un management che si è dimostrato non idoneo” fu l’unica ammissione della lettera di Luciano Benetton. Pochi giorni prima, si dimetteva dal comitato scientifico della fondazione omonima, sempre a Treviso, Massimo Venturi Feriolo in disaccordo con la gestione da parte della famiglia del contenzioso con le popolazioni indigene dei Mapuche. Ci sono 900 mila ettari in Patagonia che gli indios rivendicano, acquistati dai Benetton per 50 milioni.

I big del casello senza pudore: sono loro a far causa allo Stato

Invece di chiedere scusa per le tragedie di cui si sono resi responsabili (dal disastro del ponte Morandi di Genova ai crolli a ripetizione), i Benetton, i Gavio e gli altri concessionari autostradali impugnano lo spadone e vanno a testa bassa al contrattacco. Lo fanno con un ricorso presentato al Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio: un documento di 27 pagine promosso dall’Aiscat, l’Associazione che rappresenta i concessionari guidata dall’eterno Fabrizio Palenzona, secondo il Sole 24 Ore tra i papabili per la guida di Atlantia, la holding controllata dai Benetton. Il documento è una cannonata ad alzo zero nei confronti delle istituzioni democratiche nazionali equiparate tout court a quelle giovani e fragili dei Paesi post coloniali degli anni Sessanta, “i Paesi arabi e sudamericani che hanno sistematicamente messo in dubbio gli effetti delle concessioni petrolifere assentite dai governi precedenti”.

I concessionari si scagliano contro la Repubblica italiana, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero delle Infrastrutture, considerati tutti quanti come una controparte e trattati alla stregua di un Soviet dedito all’esproprio proletario nei confronti degli incolpevoli gestori autostradali. L’azione legale promossa da Aiscat arriva proprio nei giorni in cui il ministro dei Trasporti Paola De Micheli (Pd) ha annunciato come prossima la decisione di un’eventuale revisione o revoca totale o parziale della concessione di Aspi (Autostrade per l’Italia) controllata dai Benetton. In forza di quella concessione stipulata 13 anni fa, benedetta dai governi di centrodestra e centrosinistra e totalmente favorevole al concessionario e sfavorevole allo Stato proprietario del bene, i Benetton pretendono anche dopo il crollo del ponte Morandi e nonostante tutte le altre clamorose inadempienze accertate, un risarcimento stellare il cui valore oscilla, da un massimo di 23 miliardi a un minimo di 7.

In attesa che qualcuno decida, i Benetton e gli altri concessionari si portano avanti con il lavoro e a prescindere da come finirà la storia della revoca, con il ricorso al Tar chiedono allo Stato altri soldi a risarcimento dei danni che ritengono di aver subito. Quanti soldi? Per ora non indicano una cifra, limitandosi a dire che “il quantum sarà quantificato in corso di causa”. Ma è evidente che non si tratta di spiccioli perché i concessionari si ritengono vittime di “gravi illeciti” e di “un danno arrecato al mercato come conseguenza di gravi violazioni”.

I concessionari se la prendono in particolare con due provvedimenti del governo, anzi, dei governi, perché gli esecutivi messi sotto tiro sono due: quello precedente 5 Stelle più Lega e quello attuale 5 Stelle più Pd. Il primo provvedimento contestato è il cosiddetto decreto Genova (numero 109 del 2018), il secondo è il recente Milleproroghe del 30 dicembre 2019, in particolare l’articolo 35 che introduce significative modifiche al regime delle concessioni, rendendo più facile la revoca per “grave inadempimento” senza dover pagare penali mostruose.

La causa promossa dai concessionari è firmata da quattro avvocati, Maurizio e Davide Maresca, Federico Tedeschini e Daniele Granata. Tra essi il più ferrato in materia è senza dubbio Maurizio Maresca, un superesperto di concessioni che nel corso della sua attività professionale ha messo la sua competenza indistintamente a servizio dell’una e dell’altra parte in causa, lo Stato e i padroni del casello. Prima di rappresentare come legale gli interessi dell’Aiscat, Maresca è stato per gli stessi argomenti consulente della Presidenza del Consiglio e più di recente consigliere del ministro dei Trasporti, Graziano Delrio (Pd). Proprio in questa veste ha trattato con l’Unione europea nuove misure ancora una volta molto favorevoli ai concessionari, l’allungamento di 4 anni delle concessioni Benetton e Gavio, più una buonuscita monstre al termine della concessione stessa: circa 6 miliardi di euro ai Benetton, quasi un miliardo ai Gavio.

Precariato record: cosa dicono davvero i dati

C’è un primato, è vero: il numero dei precari in Italia è arrivato ai suoi massimi storici superando quota tre milioni, come sottolineato da ogni parte negli ultimi giorni dopo i dati rilasciati dall’Istat. Eppure, analizzandoli meglio, viene fuori una novità non meno importante: l’aumento dei lavoratori a termine è stato molto minore rispetto agli anni scorsi.

A dicembre 2019, infatti, gli occupati a tempo determinato sono aumentati di 45 mila unità mentre nelle annate precedenti il lavoro “a termine” aveva vissuto avanzate ben più rapide. Record per record, va detto che anche i posti a tempo indeterminato hanno di recente superato le vette pre-crisi. Sullo sfondo, la vera debolezza: la mole di contratti part time, spesso “involontari”, che contribuiscono a riversare troppi lavoratori (il 12,2% secondo l’Eurostat) nel rischio di povertà.

Il 2019 è stato sotto osservazione soprattutto per il decreto Dignità che – a partire da novembre 2018 – ha reso meno convenienti i contratti a termine. Si sono così intensificate le stabilizzazioni, tendenza iniziata già da gennaio 2018 che poi ha accelerato sulla spinta delle nuove norme. Contestualmente, le aziende hanno ridotto le assunzioni rispetto ai numeri considerevoli degli anni precedenti. Esempio: tra dicembre 2016 e dicembre 2017, finiti gli sgravi per i contratti stabili connessi al Jobs Act, gli occupati a tempo determinato erano aumentati di 324 mila unità. Il numero è aumentato durante tutto l’anno, tanto che a dicembre 2018 se ne contavano 213 mila in più. Progressioni ben lontane, quindi, dalla lieve crescita di fine 2019 che ha solo segnato l’ultimo miglio del record.

Che è successo, invece, ai posti “fissi”? Anche questi sono aumentati e a giugno 2019 sono arrivati a 15 milioni e 53 mila, superando per la prima volta il record di luglio 2008 (quando erano 15 milioni e 25 mila). A novembre hanno compiuto un nuovo sorpasso, portandosi a 15 milioni e 74 mila. Poi a dicembre hanno messo la retromarcia e, in un solo mese, sono calati di 75 mila. Capita spesso che, a fine anno, le aziende non assumano a tempo indeterminato, aspettando gennaio per programmare gli inserimenti di personale. Prassi che fa sperare in un recupero di inizio 2020.

Anche i lavoratori indipendenti, le cosiddette “partite Iva”, a dicembre 2019 hanno a loro modo riscritto la storia, arrivando al minimo (5 milioni e 255 mila). Cifre che sembrano contraddire Matteo Salvini quando parla di un “boom” di persone messe in proprio dopo l’introduzione della flat tax fino a 65 mila euro.

A prescindere dalla stabilità dei rapporti, c’è il problema della loro sostanza. Ben 4,4 milioni di persone hanno un impiego part time, e di questi 2,8 milioni ne vorrebbero uno a tempo pieno. Nel terzo trimestre 2019, le ore lavorate sono state 11 miliardi, circa 600 milioni in meno rispetto al pre-crisi. Il tasso di occupazione cresce perché si riduce la platea di persone in età lavorativa. I disoccupati sono 2,5 milioni. “Lavorare meno” non sta coincidendo con “lavorare tutti”, ma solo con produrre meno e guadagnare meno.

Da Rcs a Gedi, gli utili garantiti dai fondi pubblici per le crisi

Non ha perso tempo Urbano Cairo, il patron di Rcs. Appena approvata lo scorso dicembre, con la legge di Bilancio 2020, la nuova tornata di prepensionamenti dei giornalisti e dei poligrafici, finanziati dallo Stato, Cairo si è mosso con grande celerità. E ha chiesto il primo stato di crisi della sua gestione prenotando di fatto i prepensionamenti per i giornalisti del gruppo. Prevenire è meglio che curare potrebbe essere lo slogan con cui si muove il primo editore puro italiano. Ma qui pare che si precorrano di gran lunga i tempi.

Già, perché nei fatti, Rcs è tutt’altro che in crisi. Dopo gli anni scriteriati della gestione del “salotto buono” che ha visto produrre ben 1,3 miliardi di perdite dal 2011 al 2015, la cura Cairo ha di fatto riassettato Rcs. La sua formidabile fama di tagliatore di costi ha fatto il miracolo: il primo utile già nel 2016 (Cairo conquistò Rcs nell’estate di quell’anno) poi un crescendo rossiniano: 71 milioni di profitti netti nel 2017 primo anno intero del nuovo corso; e 85 milioni l’anno successivo. Un caso di turnaround di successo nel mondo editoriale.

L’imprenditore alessandrino ha provveduto a una pesante revisione dei costi e i margini industriali lordi, che stazionavano tra il 2 e il 5% negli anni della crisi, a fine 2018 sono balzati al 16%. Anche Cairo, però, se si rivela geniale nella gestione dei costi, ritorna umano quando si tratta di ricavi. Come per gran parte dell’editoria italiana, anche Rcs comincia a soffrire il calo del fatturato, fattosi più pronunciato proprio nel 2019. Gli ultimi dati della trimestrale di settembre dicono che il gruppo Rcs ha perduto, in 12 mesi, 40 milioni di ricavi, pari al 5,5% del totale: giù sia i ricavi diffusionali (-6,3%) sia quelli pubblicitari (-4,7%). Ovviamente l’ex assistente di Silvio Berlusconi in Publitalia ha agito dove sa fare meglio, recuperando quasi 40 milioni sui costi operativi. Tanto che i margini industriali lordi sono rimasti di fatto invariati intorno a 100 milioni. L’utile di periodo cala però a 40 milioni rispetto ai 52 milioni di 12 mesi prima. Una cifra comunque notevole e che ne fa tuttora il gruppo editoriale con la migliore redditività.

Ma Cairo sa, e lo sa il mercato, che il trend di lenta erosione dei ricavi non potrà che proseguire. E allora perché non approfittare dei nuovi contributi pubblici per liberarsi, a quanto si dice, di una cinquantina di giornalisti, pari al 15% del corpo redazionale? Un modo come un altro per guadagnare tempo agendo su una leva dei costi, quella del lavoro giornalistico, su cui ha finora operato poco, preferendogli tagli sugli acquisti e sui servizi generali. Certo, proclamare lo stato di crisi o meglio una ristrutturazione aziendale con alle spalle utili per 85 milioni nel 2018 mentre quelli attesi per il 2019 sono intorno ai 50-60 milioni, suona quasi come una bestemmia. In più nel 2018 è tornato il dividendo staccato agli azionisti (Cairo in testa), pari a 31 milioni.

Una situazione paradossale: Rcs risanata e redditizia che approfitta del sussidio pubblico per contenere costi che è in grado di reggere svela il cortocircuito dei prepensionamenti dei giornalisti pagati dallo Stato. Dal 2009 gli editori approfittano della mano pubblica per mandare a casa anzitempo i giornalisti. Ragionevole per le aziende in perdita, surreale per quelle in utile. Vale la pena ricordare che dei mille prepensionamenti effettuati nel decennio, buona parte se li sono aggiudicati gruppi come l’ex Espresson (ora Gedi) dei De Benedetti per molti anni in utile e i giornali di Francesco Gaetano Caltagirone (come il Messaggero) che pur in perdita sono controllati da uno degli uomini più liquidi d’Italia. Una stortura evidente, un regalo che ha avuto anche l’effetto esiziale di contribuire a scassare l’equilibrio dell’Inpgi, l’ente di previdenza, facendo venir meno contribuzioni pesanti e allargando la forbice tra attivi e pensionati, oggi insostenibile. E così, da un lato il governo dà una mano ad aziende che in utile non avrebbero dovuto ricorrere all’aiuto pubblico, e dall’altra contribuisce al dissesto dell’ente di previdenza che ha uno sbilancio tra entrate e uscite previdenziali che si avvicina ai 200 milioni l’anno.

Le email dei clienti “gabbati”: “Riprendetevi indietro le azioni come avevamo stabilito”

Il duo Marco e Gianluca Jacobini poteva trasferire 5,6 milioni di euro, in poche ore, a ridosso del commissariamento, in altri istituti bancari. A giudicare da altri atti d’indagine, non tutti i clienti avevano la stessa fortuna. Sebbene dei loro soldi avessero particolarmente bisogno e nonostante si trattasse di monetizzare le azioni della stessa Popolare di Bari. A volte finanziati dalla banca stessa.

Bankitalia, nell’ispezione del 2016, attraverso un’analisi a campione, verifica che le correlazioni tra finanziamenti erogati e acquisti di azioni proprie, all’interno di Bpb, non supera una soglia “fisiologica”. E infatti nelle accuse contestate ai vertici bancari non figura la violazione dell’articolo 2358 del codice civile che vieta, salvo casi previsti, la vendita delle proprie azioni attraverso dei finanziamenti.

Il nucleo speciale di polizia valutaria della Gdf, analizzando i documenti sequestrati nel 2016 della procura di Bari, tiene però a precisare di aver riscontrato dei “casi anomali”. E nel rappresentarli cita note o mail indirizzate dai clienti agli uffici della banca. E più d’una volta il nesso tra i finanziamenti erogati e la compravendita di azioni, secondo gli investigatori, risulta evidente. Come nel caso di un cliente che nell’ottobre 2015 chiede di smobilizzare delle azioni a suo dire “connesse” a un finanziamento da 400mila euro in scadenza a gennaio e già rinnovato più volte. I clienti inviano una nota alla banca nella quale scrivono che “come ben noto, l’operazione di rientro del finanziamento è strettamente legato alla vendita dei predetti titoli, per cui siamo a sollecitare un più vivo interessamento da parte di questo istituto al soddisfacimento di quanto oggetto di procure”.

La vendita secondo la Gdf è stata richiesta proprio per pagare la rata del finanziamento. E a quanto pare – analizzando la mail del cliente – la vicenda sembra a destinata a chiudersi non con la vendita della azioni, ma grazie all’ottenimento di un fido, anche se il funzionario prende formalmente le distanze rispondendo: “… l’erogazione del credito andrà in ogni caso tenuta distinta dalla volontà del cliente di procedere alla cessione delle azioni possedute”. Una presa di distanza formale, sostiene la Gdf, ma distante da quel che stava in realtà accadendo. La vendita dei proprio titoli, secondo gli investigatori, non era ben vista: i finanzieri trovano tracce indicative di come la “banca, a livello periferico, si sia approcciata ai clienti con l’obiettivo cardine di tutelare la stabilità dei loro investimenti in azioni Bpb, addirittura proponendogli la concessione di finanziamenti pur di frenare e contenere la volontà di vendere i titoli”. Viene rintracciata la mail di un cliente che, lamentandosi del mancato accoglimento di un ordine di vendita, scrive al direttore della filiale: “Buongiorno direttore, come da accordi telefonici della scorsa settimana, le scrivo ancora una volta. Ho controllato in questo momento con l’internet banking e non c’è stato alcun accredito. Dal momento che si tratta di azioni della stessa Banca popolare di Bari e dal momento che ormai attendo da 4 mesi, aspetto con ansia una soluzione che sia il prestito di cui mi ha già parlato. La banca si riprenda le mie azioni e nell’attesa di venderle mi anticipi sul conto quanto mi deve. Cosa ostacola questa soluzione? Mi sembrava tra le possibili opzioni che mi aveva prospettato”.

E c’è anche chi diffida la banca dopo aver già accettato un mutuo invece della vendita e affida le comunicazioni al suo avvocato: “… il mio assistito non ha tuttavia desistito dal proprio intendimento di smobilizzare l’investimento azionario ricevendo – ancora una volta – rassicurazioni soltanto verbali circa il possibile adempimento della vendita”. Sarà un caso ma, intercettato, un ex direttore di filiale dirà: “Quando abbiamo venduto le azioni abbiamo fottuto i clienti”.

“Bankitalia su Tercas non fu ostacolata, ma condiscendente”

Una stroncatura che getta un’ombra pesante sull’operato della vigilanza bancaria. La vicenda riguarda l’acquisto da parte della Popolare di Bari della scassata Cassa di risparmio di Teramo. Operazione in cui la Banca d’Italia “non fu ostacolata”, anzi fu accondiscendente nei confronti dei vertici dell’istituto barese, al punto da non rimuoverli nonostante avesse il potere di farlo. È il giudizio del Gip del Tribunale di Bari Francesco Pellecchia, che – nell’ordinanza con cui ieri ha autorizzato l’arresto dell’ex presidente di Bpb Marco Jacobini, del figlio Gianluca (ex vicedirettore) e l’interdizione dell’ex ad della banca Vincenzo De Bustis – non condivide le contestazioni avanzate dai pm sull’ostacolo alle attività dell’Autorità di vigilanza.

La vicenda Tercas è la più controversa di tutta la storia. Bankitalia ha sempre negato di aver caldeggiato l’operazione con cui Pop Bari si caricò di un istituto, commissariato, gravato da quasi un miliardo di crediti in sofferenza, che hanno poi affossato i conti della popolare pugliese. L’operazione fu autorizzata dalla Bankitalia guidata da Ignazio Visco, che nell’estate 2014 rimosse il divieto di effettuare nuove acquisizioni imposto alla Popolare di Bari nel 2011 dall’allora governatore Mario Draghi, dopo che nell’ispezione 2010 erano emerse diverse criticità, a cominciare dalle carenze di governance espresse dallo strapotere dell’allora ad, Marco Jacobini.

Bankitalia rimosse il blocco permettendo l’acquisto di Tercas nonostante nel 2013 avesse condotto una lunga ispezione a bari, terminata ad agosto e conclusa con un giudizio “parzialmente sfavorevole” riscontrando le stesse carenze trovate nel 2010. Secondo i pm Bankitalia fu però ingannata dai vertici di Pop bari, che nelle controdeduzioni al verbale ispettivo, consegnate a novembre 2013, assicuravano di aver risolto le criticità attraverso, tra le altre cose, la nomina di un Chief risk Officer – con potere di veto sulle operazioni ad alto rischio – nella persona di Luca Sabetta e l’abbandono della carica di ad da parte di Jacobini. Secondo i magistrati, Sabetta fu subito messo in condizione di non operare e vessato, al punto da contestare agli indagati anche in reati di maltrattamento ed estorsione. Il manager ha dato un grosso impulso alle indagini denunciando l’operato dei vertici baresi. Secondo i pm, a Bankitalia fu anche nascosto che Marco Jacobini “cessata la carica di ad assumeva contestualmente quella di presidente, continuando a gestire l’azienda, contrariamente a quanto prescritto” dalla vigilanza. Difficile però che la nomina del presidente di una banca possa essere nascosta a qualcuno, visto che è un atto pubblico. Il Gip nega “la concreta sussistenza di una grave piattaforma indiziaria” anche per il reato di presunte estorsioni e maltrattamenti verso Sabetta. Le condotte contestate ai vertici di Pop Bari “per un verso rilevano in chiave di condotta meramente omissiva, non accompagnata da alcun mezzo di natura fraudolenta, come richiesta dalla legge; per altro verso, non hanno prodotto concretamente l’evento dell’ostacolo alla funzione di vigilanza”. E ciò a maggior ragione “ove si considerino le dichiarazioni rese dal coindagato Giorgio Papa (ex ad della banca, ndr) il quale ha riferito che nonostante i vertici di Bankitalia fossero perfettamente a conoscenza della persistenza di tutte le situazioni oggetto di specifico rilievo, nonché della conclamata indifferenza di Bpb alle formali contestazioni, non hanno mai esercitato i poteri di ‘removing’ espressamente attribuiti dalla legge allo stesso supremo organo di vigilanza”.

I rilievi del Gip picconano la tradizionale linea di difesa sempre usata da Bankitalia nei crac bancari, da Pop Etruria alle popolari venete: “I banchieri felloni ci hanno ingannati”. Via Nazionale, per dire, ha sostenuto in una nota di aver autorizzato, su Tercas, una iniziativa spontanea della Popolare di Bari. Eppure Marco Jacobini presiede il 17 ottobre 2013 un cda convocato per fornire tutte le informazioni “sull’invito ricevuto dalla Banca d’Italia a esaminare la sussistenza di condizioni (…) di un eventuale intervento nel salvataggio di Tercas”. “Alcuni giorni fa infatti – prosegue – la Vigilanza ha preso contatto con il vertice della Banca, per illustrare i termini della possibile operazione (…) con la sollecitazione a intervenire nell’operazione Tercas, la Banca d’Italia elevava la Popolare di Bari a un livello di superiore dignità, riconoscendole un ruolo di prestigio”.

Basta vedere le date per capire che la versione di Bankitalia non sta in piedi. Già il 5 novembre 2013 – 7 mesi prima che venisse revocato il divieto di fare nuove acquisizioni – Pop Bari subentra alla Banca d’Italia nel prestito di emergenza (Ela) fornito a Tercas, che non poteva più essere rinnovato, evitando così di farla implodere e risolvendo una bel problema a Via Nazionale. Che sei giorni dopo autorizza il fondo interbancario a partecipare all’operazione di salvataggio contribuendo con 280 milioni all’iniziativa di Pop Bari. Insomma, tutto era già stato deciso. Anche perché la popolare è l’unica sposa possibile, visto che il Credito valtellinese si era tirato indietro dopo che l’analisi dei conti aveva sconsigliato l’operazione.

Pop Bari, ecco gli arresti: “Bilanci falsati dal 2014”

La Procura di Bari avrebbe azzerato i vertici della Banca Popolare di Bari già sette mesi fa. È il luglio scorso quando il procuratore aggiunto, Roberto Rossi, e i pm Federico Perrone Capano e Savina Toscani, depositano la richiesta di misure cautelari per Marco e Gianluca Jacobini, ex presidente e direttore, l’ex amministratore delegato Vincenzo De Bustis ed Elia Circelli, responsabile della Funzione Bilancio. Ben sei mesi prima che la Banca d’Italia, a dicembre 2019, procedesse al commissariamento. L’inchiesta riguarda l’acquisizione di Banca Tercas, gli aumenti di capitale del biennio 2014-2015, bilanci “aggiustati” per “mantenere intatto il potere di gestione della banca a spese degli azionisti”. Falsati i dati degli avviamenti di Tercas e Cassa di Risparmio di Orvieto per circa 360 milioni. E ancora: 41 milioni da pagare all’Inps non segnalati in bilancio, false imposte anticipate sulle perdite fiscali per 96 milioni nel 2015, prospetti sballati sulla solidità delle azioni.

E proprio nei giorni del commissariamento, sulla scrivania del gip, giunge un’integrazione all’accusa: i due Jacobini spostano soldi dalla banca per ben 5,6 milioni di euro trasferendoli su conti personali – e intestati alle loro mogli – in altre banche. Se n’è accorta l’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia, che segnala ben 5 operazioni sospette intraprese a partire dal 12 dicembre 2019 “nell’imminenza” del “commissariamento”: dimostrano “l’intenzione di sottrarre i profitti illeciti a eventuali operazioni di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria”. Per Marco Jacobini emergono “profili di responsabilità in ordine a condotte di auto riciclaggio”. In sostanza, chiosa il gip, la “struttura della banca è ancora sottoposta al controllo di fatto della famiglia Jacobini” e c’è il rischio che “tale potere illecito” ne “impedisca il risanamento” con “devastanti effetti sull’economia meridionale”. Le accuse spaziano dal falso in bilancio al falso in prospetto e all’ostacolo alla vigilanza.

Anche i loro compensi paiono al gip insostenibili: “L’importo percepito da Marco Jacobini, pari a 3 milioni, appare, a prima vista, smisurato con riferimento alle funzioni svolte all’interno della Banca e se rapportato alla situazione di grave dissesto patrimoniale della banca”. D’altronde Marco Jacobini “governava la Banca con lo sguardo”, racconta un dipendente, e “vi era un potere assoluto del duo Marco e Gianluca” che aveva deciso “l’intera rete dei capi distretto come esercizio di potere di fatto”. Questo è accaduto per un decennio e, come abbiamo detto, nei fatti la Procura e la Guardia di Finanza, ci sono arrivati ben prima di Bankitalia. Di certo, Consob con le relazioni firmate da Giuseppe Maria Berruti aveva già multato la Bpb inviando gli atti in procura. E con il tempo la situazione s’è deteriorata al punto da spingere la procura a chiedere il loro arresto, disposto ieri dal Gip: Marco e Ganluca Jacobini sono ai domiciliari. Il concetto di regole pare piuttosto relativo, nel leggere le 409 pagine firmate dal Gip, visto che “i rapporti con il più grande cliente della banca (gruppo Fusillo, di recente dichiarato fallito) con un impressionante esposizione debitoria di centinaia di milioni veniva gestito da Gianluca Jacobini privo dei poteri che lo legittimavano al contatto con il cliente”. Marco Jacobini partecipava “al comitato crediti (senza che ci fosse verbalizzazione) pur non avendone alcun titolo” e “le verbalizzazioni… erano falsificate per non far emergere la presenza della famiglia”. Il gip su alcuni punti concorda con le accuse, su altri, come l’ostacolo alla vigilanza, ritiene che l’impianto indiziario non sia sufficiente, ma il quadro emerso resta devastante. L’accusa registra “la piena consapevolezza di tutti i dirigenti della BPB della falsificazione del bilancio al fine di soddisfare i desideri della famiglia Jacobini”. Il professor Gianvito Giannelli (non indagato, ndr) – compagno dell’attuale procuratore di Larino Isabella Ginefra, a lungo pm a Bari – è un “legale apparentemente indipendente”. In realtà è “consulente interno della Banca sulle questioni giuridiche”, in “conflitto di interessi” per il “monopolio delle pratiche legali” in Bpb e per i “rapporti di parentela con Marco Jacobini”.

Nel novembre 2018 viene intercettato Elia Cicelli mentre chiama Luigi Jacobini e “lo informa di avergli girato il conto economico”: “Il risultato – gli dice – è quello che ci aspettavamo”. L’accusa ritiene che “il risultato del conto economico” sia “stato già predeterminato in modo che … sia di segno positivo”. Alla Popolare di Bari si risponde alla “logica della piaggeria”, dice in un’altra intercettazione Cicelli, analizzando la situazione della banca.

Lo schema secondo l’accusa era il seguente. In primo luogo “il ruolo assolutamente preponderante di Marco e Gianluca Jacobini nella gestione e nel controllo dell’istituto di credito”. Poi c’era Circelli “nella redazione dei bilanci societari e la continua interlocuzione con il Presidente del Cda”. E infine l’ex ad Vincenzo De Bustis Figarola, per il quale il gip dispone l’interdizione e parla di “elevatissima propensione a delinquere”, “notevole spregiudicatezza nella programmazione ed esecuzione di delitti” e “preoccupante serialità” che hanno compromesso “interessi” che fanno capo a “società”, “soci”, “futuri soci” e “creditori”. Da ieri ha il “divieto temporaneo di esercitare la professione di dirigente di istituti bancari”.

Piazzapulita, ovvero il Coronavirus anti-privacy

Vedendo scorrere il sottopancia “Intervista ESCLUSIVA al ragazzo che stava dietro al famigerato citofono di Salvini” abbiamo pensato di essere finiti per errore su Non è la D’Urso Live. Invece no, eravamo proprio sintonizzati su Piazzapulita, il talk show dei quartieri alti che se la tira alla grande, e dove però è arrivato il coronavirus del voyeurismo in forma di scoop. Ma come? Ci si chiede giustamente come abbia potuto Salvini violare la privacy di una famiglia tunisina, e quella stessa privacy viene ora sparata in video come grande pagina di giornalismo? Non vogliamo sapere con quali argomenti sia stato convinto il diciassettenne Yassin a mostrarsi “in esclusiva”. Ma una cosa è certa: se Salvini ha compiuto quel deplorevole gesto per una speculazione politica, Formigli quel gesto lo ha a sua volta strumentalizzato, e sempre sulla pelle del ragazzo. Dal citofono al videocitofono. “Salvini dovrebbe chiedere scusa” proclama il conduttore contrito; segue processo sommario all’untore con Paolo Mieli, una giornalista di Repubblica e Maria Elena Boschi: un parterre bulgaro, da fare invidia a Quarta Repubblica di Nicola Porro.

Capace di un giornalismo di rango quando si occupa di esteri, caso unico tra i talk, sulle cose di casa Piazzapulita eredita tutta la presunzione e la retorica del giornalismo de sinistra. Invece di ispirarsi alla gastroenterologia della dottoressa Giò, Formigli dovrebbe prendere lezioni di autoironia dai suoi vicini di palinsesto, Propaganda live.

Governo, la fase 2 deve partire dalla riforma Rai

“Difendere il servizio pubblico, assicurare una pluralità di voci, differenziare i canali e averne almeno uno senza, o con pochissima pubblicità”.
(dall’intervista del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2018)

È passato un anno e mezzo da quando il premier Giuseppe Conte, in un’intervista al direttore di questo giornale, pronunciò le parole riportate qui sopra. Dalla guida del governo giallo-verde Conte è passato a quella del governo giallo-rosso, ma purtroppo la Rai continua a essere la Rai dei partiti piuttosto che la Rai dei cittadini, subalterna alla politica e asservita alla partitocrazia. Se dovessimo giudicare, anzi, dalla nota diffusa dopo l’incontro di lunedì scorso fra il ministro dell’Economia e l’amministratore delegato dell’azienda, dovremmo concludere con l’aforisma di Ennio Flaiano che “la situazione è grave, ma non è seria”.

A quanto risulta, Gualtieri avrebbe sollecitato Salini ad accelerare il piano industriale, rispettare il pluralismo, migliorare la qualità degli ascolti e acquisire diritti sportivi, entrando così nel merito di questioni che non appartengono direttamente alle sue competenze. “Sembra una fake news e danneggia il ministro”, ha polemizzato Michele Anzaldi, parlamentare di Italia Viva, contestando a Gualtieri di non aver affrontato invece il caso del presidente della Rai, Marcello Foa, nominato dal ministero nel Consiglio di amministrazione, prima bocciato e poi eletto in una controversa votazione della Commissione di Vigilanza, su cui lo stesso Pd ha chiesto da mesi trasparenza e rispetto delle regole.

Il fatto è che il ministero dell’Economia è tuttora il padrone assoluto della Rai, in quanto detiene il 99,56% delle azioni. Ed è proprio questo il vizio d’origine da cui discendono tutti i mali. Da qui, derivano le principali disfunzioni del servizio pubblico, pagato dai cittadini con il canone d’abbonamento. Un’azienda di proprietà governativa non può che dipendere fatalmente dalla maggioranza di turno. O magari, da quella che i suoi dirigenti, conduttori e giornalisti ritengono che possa diventare la nuova maggioranza, come dimostra lo scandalo dello spot elettorale di Matteo Salvini trasmesso da Porta a Porta alla vigilia delle Regionali in Emilia-Romagna e rimasto finora impunito. Un “promo” in cui l’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni ha fatto sapere sibillinamente di aver riscontrato “elementi di possibile violazione degli obblighi di servizio pubblico”. Ma, al momento, non si registrano altre reazioni né del cda né della Commissione di Vigilanza. Se neppure la maggioranza giallo-rossa riuscirà a cancellare questa ipoteca, la Rai resterà ostaggio della partitocrazia, dei suoi capi e dei suoi accoliti. Un sistema di tipo feudale, in cui vassalli, valvassori e valvassini sono sottomessi o asserviti al sovrano. È proprio da questa riforma, dunque, che deve partire la “fase due” del governo Conte, perché la comunicazione – a cominciare dalla tv pubblica – è l’amplificatore e il regolatore della politica. “Non si cambia l’Italia se non si cambia la Rai”, avvertì il senatore Salvatore Margiotta (Pd) all’esordio del governo Renzi.

Il primo passo, come abbiamo già scritto, dev’essere il trasferimento del pacchetto azionario dell’azienda dal ministero dell’Economia a un soggetto terzo, autonomo e indipendente, trust o fondazione che sia. A questo organismo va rimessa la nomina del cda, dell’amministratore delegato ed eventualmente di un direttore editoriale. Altrimenti, con un “rosso” di 65 milioni previsto quest’anno, prima o poi sarà la fine del servizio pubblico radiotelevisivo.

L’est Europa è la nostra nuova discarica

Èdi pochi giorni fa la notizia di un’indagine su larga scala della polizia bulgara culminata nel fermo (seguito da dimissioni) del ministro dell’Ambiente bulgaro, Neno Dimov, per aver consentito il trasferimento e lo smaltimento di 9000 tonnellate di rifiuti urbani italiani in siti non adeguati e non autorizzati nelle città di Vraca e Pleven. Ma già il mese scorso i carabinieri del Noe di Milano, dopo il sequestro di numerose aree del Nord Italia adibite a discariche abusive, avevano sequestrato un’intera spedizione costituita da un carico di 582 balle di rifiuti anche industriali e senza più frazioni riciclabili, classificati falsamente come “scarti di plastica recuperabili”, riposte su 17 carri ferroviari nello scalo di Lecco per un peso complessivo di 815 tonnellate e un valore di circa 130.000 euro.

Di certo, peraltro, si tratta di traffici non sporadici se si pensa che negli ultimi anni, dopo la chiusura delle frontiere cinesi ai nostri scarti, l’importazione di rifiuti in Bulgaria, provenienti soprattutto dall’Italia, è aumentata di circa cinque volte. E si tratta sempre di rifiuti destinati, sulla carta, a recupero, ma che molto spesso prendono ben altra destinazione oppure vengono “recuperati” senza rispettare le norme europee di tutela in qualche cementificio, centrale elettrica e simili.

Il motivo è semplice: poche spese e massimi profitti. Un esempio per tutti: il 26 agosto 2016 salpava dal porto di Augusta la Nave Blu Star I alla volta della Bulgaria, con i rifiuti inviati dalla società Sicula Trasporti provenienti dalla discarica siciliana di Grotte. Costo dell’operazione: 30 euro a tonnellata. Impensabile in Italia se veramente si volesse procedere a riciclo e recupero secondo legge. Peraltro, buona parte dei rifiuti inviati in Bulgaria proviene dal sud Italia: il Comune di Giuliano, ad esempio, ha firmato un contratto con l’azienda bulgara “Es Er Technologies (Es Er Te)” per spedire le balle da Napoli a Burgas. Ma – secondo la stampa locale – “non è del tutto chiaro dove venga poi portata la spazzatura”.

Peraltro, non c’è solo la Bulgaria. Sono in corso indagini congiunte di Italia e Albania su migliaia di container di rifiuti provenienti dal porto calabrese di Gioia Tauro e diretti in Macedonia, che risultano sbarcati a Durazzo e sembrano scomparsi lungo il tragitto.

E c’è anche la Polonia. Recentemente, Greenpeace Italia ha documentato l’abbandono di un centinaio di balle, almeno in parte provenienti dalla raccolta differenziata di rifiuti urbani italiani, in un’area industriale di Gliwice, in Polonia.

Insomma, è del tutto giustificato il sospetto che i Paesi dell’est Europa, dove scarsa attenzione viene dedicata alle norme di tutela ambientale, stiano diventando, come dichiarato dal capo del Partito socialista bulgaro, “una discarica per rifiuti provenienti da tutto il mondo”. Con l’ulteriore sospetto, esplicitato dal segretario generale del ministero dell’Interno bulgaro, che vi sia lo zampino della criminalità organizzata italiana.

È un altro tassello dell’economia circolare all’italiana, dove, a causa di una normativa e di un sistema di controllo inadeguati (con milioni spesi per un sistema nazionale di controllo, SISTRI, totalmente fallito) una parte consistente di rifiuti che figurano come riciclati finisce, in realtà, in capannoni, in discariche abusive, in roghi tossici o in campi coltivati con la sigla di compost o fanghi destinati all’agricoltura (ove è tuttora consentita la presenza di sostanze tossiche). Oppure scompaiono in qualche discarica più o meno abusiva dell’Europa dell’est.