Seggio drive-in schede dei positivi saranno sanificate

Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge che consente ai grandi elettori quirinalizi in isolamento o in quarantena causa Covid di raggiungere Roma per poter partecipare allo scrutinio che inizia lunedì 24 gennaio. Per potersi mettere in viaggio i grandi elettori alle prese con il virus dovranno prima darne comunicazione alla Asl competente per territorio e anche a Montecitorio perché gli arrivi avvengano a orario assegnato. Le schede, una volta votate, verranno poi sottoposte ai raggi delle lampade sanificanti (quelle per esempio in uso negli studi dentistici) e poi portate all’interno dell’aula della Camera dove saranno depositate nelle “insalatiere” quirinalizie per essere scrutinate insieme a tutte le altre. Ancora nulla è deciso invece sulla modalità di voto ossia se anche nel drive-in verrà allestito un catafalco o i grandi elettori potranno rimanere a bordo dei mezzi scelti per arrivare al seggio. Il decreto varato ieri dal governo prevede che i loro spostamenti sul territorio nazionale avvengano esclusivamente “con mezzo proprio o sanitario” ossia attraverso noleggio di autoambulanza. Sempre a carico degli interessati anche l’eventuale prenotazione del Covid hotel per il pernottamento laddove non disponessero di una abitazione a Roma. Gli spostamenti sono autorizzati “per il tempo strettamente necessario alle operazioni di voto e comunque con modalità tali da prevenire il pericolo di contagio, esclusivamente per raggiungere la sede del Parlamento”. Dovranno sempre indossare la Ffp2, non potranno entrare in contatto “con soggetti diversi da coloro che sono preposti alle operazioni di voto”: vietato anche pernottare e consumare pasti in luoghi diversi da quelli da loro indicati come sede di isolamento o quarantena.

Il Quirinale si decide col delivery: la pandemia scaccia dai ristoranti

La parola d’ordine è: preservare i grandi elettori. Per questo dai partiti, nelle ultime settimane, sono giunte direttive precise ai parlamentari: ridurre all’osso la vita sociale, stare ritiratissimi, evitare momenti di convivialità e cene fuori perché, se prendete il Covid, rischiate di non votare il capo dello Stato.

Perché non è ancora detto che i positivi provenienti da fuori possano raggiungere il seggio drive-in nel parcheggio di Montecitorio. Con i numeri assai risicati e un accordo tra partiti ancora lontano, si vuole evitare di arrivare a lunedì con le truppe decimate. “Forse sarà la prima volta che un capo dello Stato non viene deciso al ristorante”, sussurra Filippo Sensi, ex portavoce di Renzi e ora parlamentare Pd. E infatti sono proprio i ristoranti i grandi assenti di queste intense giornate (e nottate) di trattative. Tavoli vuoti da Fortunato e al Moro, politici che scarseggiano all’Osteria del Sostegno e dell’Ingegno. “Hanno paura di infettarsi, preferiscono stare alla larga, nonostante le regole sul Green pass”, dicono da Fortunato.

Così molti di loro negli ultimi giorni, per non restare a digiuno, hanno fatto ricorso al magico mondo del delivery. Glovo, Just Eat, Deliveroo e Uber Eats i più gettonati. E a ordinare in hotel o nelle case in affitto sono soprattutto i giovani: dai leghisti Andrea Crippa e Igor Iezzi (Lega) ai pentastellati Sergio Battelli e Angelo Tofalo fino ai dem Giuditta Pini e Alessandro Zan. La pizza va per la maggiore, ma poi anche sushi, noodles e poke.

L’ordine di scuderia riguarda anche il personale. In Lega sono tutti in smart working. Poche presenze nel M5S. “Non possiamo mettere a rischio infezione i grandi elettori, i contatti dei parlamentari con staff e ufficio stampa sono azzerati”, raccontano dal gruppo pentastellato. Questo riguarda le truppe, perché poi i leader si vedono eccome. Mercoledì, dopo l’incontro con Enrico Letta e Roberto Speranza, Giuseppe Conte ha riunito il vertice M5S. Ieri Renzi e Letta hanno parlato a Palazzo Giustiniani. Il gruppo di Iv si è riunito su Zoom, ma domani, nell’auletta dei gruppi, i dem si vedranno in presenza.

“Sembra di stare in una squadra di calcio in ritiro pre-partita: allenamenti, cena e tutti a letto presto. Ristoranti? E chi se li ricorda più”, sospirano dal Pd. Le tavolate sono bandite: si va a cena in coppia o al massimo in quattro. Giovanni Toti, ad esempio, quando è a Roma va al Bolognese con Paolo Romani e Gaetano Quagliariello. Ma ci sono anche le new entry. Come Laganà, in via Dell’Orso, che cattura simpatie trasversali (Giacomo Portas è un aficionado). Poi Il Marchese, in via di Ripetta, dov’è stata avvistata Maria Elena Boschi. Maxela va forte nel centrodestra: qui sono state immortalate Giorgia Meloni e Letizia Moratti in un pranzo che aveva il sapore dell’endorsement.

Si va anche da Zuma, giapponese ultra-chic sopra Fendi, e da Casa Bleve. I renziani amano Grano, a piazza Rondanini. I forzisti vanno all’Osteria Siciliana in via del Leoncino. Sempre di moda sono i centralissimi Spiriti e Settimio all’Arancio. E il regno verdiniano di PaStation. Mentre i 5S assediano i locali di piazza delle Coppelle, Maccheroni in testa, tranne Conte che preferisce l’Arancio d’Oro a Fontanella Borghese. Questo fino a qualche settimana fa. Ora tutti a casa o in albergo. A ordinare su Glovo.

“Personaggio indecoroso” Moretti asfalta il Caimano

Nell’ennesimo flashback collettivo della politica italiana, sono i giorni del Caimano. Ieri, a 15 anni e passa dall’uscita nelle sale del film di Nanni Moretti, il regista è tornato a parlare di Berlusconi. Anzi a scriverne, su una piattaforma forse insolita per Moretti come Instagram, con poche ma definitive parole: “‘Berlusconi è troppo divisivo’, dicono in molti. No, la cosa è più semplice: un personaggio così squalificato e indecoroso non può diventare presidente della Repubblica”. Era dai tempi del Caimano, appunto (e prima ancora dei girotondi), che Moretti non entrava nel dibattito politico con tanta nettezza. Le sue parole su Instagram sono accompagnate dalla fotografia di scena di Elio De Capitani, che nel film interpreta proprio l’ex presidente del Consiglio.

“Nanni ha ragione, ragionissima – commenta De Capitani con il Fatto – ma lo sport preferito di Berlusconi è fare la vittima”. Secondo l’attore, quindi, “è politicamente intelligente dire ‘è divisivo’ ed evitare l’alzata di scudi e il piagnisteo. Dire che è ‘divisivo’ in questa fase ha funzionato. Vediamo che succede adesso, che i nodi vengono al pettine”.

Certo, anche solo che si parli dell’ipotesi del Caimano al Quirinale deve far venire un brivido a chi l’ha messo in scena, non certo come figura positiva, 15 anni fa. “Di Berlusconi presidente ne parla soprattutto il centrodestra e questo non mi stupisce – spiega De Capitani – perché il centrodestra attuale è una sua creatura. Anche il flirt con la destra estrema e i neofascisti lo ricordano tutti – quasi tutti –: aveva dismesso pure doppiopetto, camicia azzurra e cravatta per indossare maglione nero e giubbotto. Poi è tornato sui suoi passi, con Salvini e Meloni che hanno più che coperto quell’area politica e lui si è reinventato centrista. Per me è normale che lui creda di poter diventare presidente e ci provi, ma penso che ormai la vera gara a destra sia per chi farà il kingmaker”. Ormai si tratta di aspettare fino a lunedì, o forse anche meno.

Giuliano. Poltronissimo collezionista di ritiri (tre) e incarichi (tranne uno)

Poi Craxi ricorda maligno “le sue campagne elettorali sempre finanziate dal partito, tanto in sede nazionale che locale… Non credo che il tutto avvenisse tramite assegni e trasferimenti bancari documentati”. E qui pare proprio che Craxi alluda alle storie del 1983, alla colletta e agli assegni dei vecchi amici Rolando e Coda-Zabet: “Resta da considerare se, per far fronte alle spese delle sue campagne elettorali, furono organizzate, come pare, raccolte di fondi che non rientravano nel controllo dell’amministrazione centrale… senza che mai Amato esternasse le sue perplessità per il sistema generale su cui si imperniava il finanziamento del partito, parte del quale in aperta e risaputa violazione della legge”. Ma “di tutto ciò si può tornare a parlare più nel dettaglio”.

Il secondo ritiro. Un paio di mesi dopo, ad aprile, Amato anticipa che a ottobre si dimetterà dall’Antitrust e si ritirerà di nuovo dalla vita pubblica: “Torno all’insegnamento a tempo pieno, non potrò avere altri incarichi”. Anche stavolta, dura meno di un anno. Nell’ottobre ’98 D’Alema, premier al posto di Prodi, lo richiama in servizio come ministro delle Riforme. Nel 1999, scaduto Scalfaro, si elegge il nuovo presidente. E Berlusconi, guarda un po’, punta su Amato. Ma passa Ciampi. E Amato lo rimpiazza al Tesoro. Nel 2000 muore Craxi e lui è l’unico ex big socialista a disertare il funerale. Però gli ha scritto qualche giorno prima per assicurargli che si stava prodigando per farlo rimpatriare con un salvacondotto. “Giuliano scrive bene – ha commentato Craxi morente nell’ospedale militare di Tunisi – ma non dice nulla. È quello che s’è comportato peggio”. Insieme al suo cuore, si ferma anche il suo fax. E Amato può rientrare in politica. “Io al posto di D’Alema? Per me il problema non esiste” (7-11-1999). Infatti, il 25 aprile 2000, a sette anni dal suo primo ritiro dalla politica, torna a Palazzo Chigi.

Il Dottor Purtroppo. Nell’anno e poco più che resta alla fine della legislatura, il governo Amato riesce a varare alcune leggi vergogna che non erano riuscite neppure a B.. Una è quella del guardasigilli Piero Fassino contro i pentiti di mafia, proprio ora che cominciano a parlare della Trattativa avviata sotto il governo Amato. L’altra è la legge penale tributaria, che fissa soglie altissime di non punibilità per l’evasione e la frode e depenalizza l’uso delle false fatture, per la gioia di molti imputati eccellenti, tra cui B., Dell’Utri e Romiti. Memorabile la sua dichiarazione sul Gay Pride del 2000, nell’anno del Giubileo: lui avrebbe tanto voluto impedire il corteo omosessuale nella Città Santa, ma non può perché “purtroppo c’è la Costituzione”. Un ottimo viatico per la Corte costituzionale.

Lo Sceriffo. Nel 2001, siccome ha lasciato la politica, Amato è rieletto senatore dell’Ulivo e nel 2002 diventa vicepresidente della Convenzione europea che riscrive la Costituzione Ue. Nel 2006 passa alla Camera. Allo scadere di Ciampi, è di nuovo il candidato di B. al Colle, ma vince Napolitano e lui deve accontentarsi del Viminale. Come ministro dell’Interno dovrebbe dire qualcosa sull’indulto extra-large, ma non dice una parola. Poi, quando la frittata è fatta e 26 mila detenuti sono usciti di galera, tornando perlopiù a delinquere, fa sapere di aver votato l’indulto “con grande sofferenza”. E, visto che la criminalità riesplode, diventa sceriffo: non contro i delitti dei colletti bianchi, ma contro lavavetri, ambulanti, mendicanti. Ai clienti delle prostitute vuole mandare la multa a domicilio, i graffitari sogna di punirli per “porto non autorizzato di bomboletta spray”. Poi va a Palermo a commemorare Falcone e uno studente gli ricorda i 25 condannati in Parlamento e lui lo zittisce: “Sei un piccolo capetto populista, sono reati minori”. Tipo mafia, corruzione, bancarotta, frode, cosette così.

Il Poltronissimo. Nel 2008 Berlusconi torna premier per la terza volta e Amato si ritira dalla politica per la terza volta. Il tempo libero lo dedica ai suoi due hobby preferiti. Uno è il tennis (di cui ha dato prova in una memorabile puntata di Porta a Porta con Panatta). L’altro la collezione di poltrone: 77 in 37 anni. Presidente della Treccani, membro del Comitato nazionale e del Coordinamento del Pd, presidente della “commissione Attali” creata a Roma dal sindaco nero Alemanno, consulente della Deutsche Bank, presidente onorario della Fondazione Ildebrando Imberciadori per la ricerca storica ecc. Roba da far invidia a “Divani & Divani”. Nel 2010 sponsorizza Giuseppe Mussari, l’avvocato che presiede il Mps (coi risultati a tutti noti), al vertice dell’Abi; ma anche per ottenere da lui un finanziamento al Circolo Tennis Orbetello, di cui è ovviamente presidente onorario. Eccoli al telefono, intercettati dai pm di Siena il 1° aprile 2010. Amato: “Mi vergogno a chiedertelo, ma per il nostro torneo a Orbetello è importante perché noi siano ormai sull’osso, che rimanga immutata la cifra della sponsorizzazione. Ciullini ha fatto sapere che il Monte vorrebbe scendere da 150 a 125”. Mussari: “Va bene, ma la compensiamo in un altro modo”. A: “Guarda un po’ se riesci, sennò io non saprei come fare”. M: “La trovo, contaci”. Nel 2011 è presidente del Comitato dei Garanti per i 150 anni dell’Unità d’Italia e consulente di Monti per i tagli ai finanziamenti pubblici ai partiti (in qualità di intenditore). Nel 2012 è presidente della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e dell’International advisory board di Unicredit. Nel 2013, come sempre, è il candidato di Berlusconi (e Napolitano) al Colle, ma alla fine Re Giorgio fa il bis. Sulle polemiche per le sue mega-pensioni (una è sostituita dallo stipendio alla Consulta, l’altra – assicura lui – va in beneficenza), scrive una lettera strappalacrime a Repubblica: “Io non faccio parte della Casta”. Nel 2013 Napolitano gli trova finalmente un posto a sedere: giudice della Corte costituzionale. Nella speranza che quel trampolino di lancio, alla tenera età di 77 anni, 23 dopo le sue prime dimissioni, lo proietti sull’amato (o Amato) Colle. Re Giorgio lascia nel 2015 e Berlusconi, tanto per cambiare, tifa per lui. Ma Renzi frega entrambi e fa eleggere Mattarella. Il Caimano grida al tradimento, rompe il Patto del Nazareno e rivela (o millanta?): “Amato mi aveva promesso la grazia per Dell’Utri”. Oggi, a quasi 84 anni e a 29 dal suo primo addio irrevocabile alla politica, è di nuovo in corsa. Pare disposto a restare lì solo un annetto, per tenere in caldo la sedia a Draghi. Come sempre, il suo sponsor più attivo è un vecchio amico dai tempi della Torino degli scandali, siculo-subalpino come lui: Ignazio Moncada, ex agente segreto, consulente, manager, lobbista e tante altre cose, ancora ascoltatissimo da giornaloni e siti di gossip. Un altro che sa tutto, ma è senza polpastrelli.

(4-fine)

5S, l’incubo Mario e i “tavoli paralleli” Fraccaro nel mirino

L’avvocato porta a pranzo i suoi vice, si chiude in riunioni infinite, sente vari leader di partito, tra cui Giorgia Meloni. Giuseppe Conte crede o almeno spera, ancora, in un nome “terzo e condiviso” grazie al quale schivare Mario Draghi al Quirinale. Vuole evitare una drammatica conta nel M5S, dove almeno metà degli eletti giura guerra al premier. “Ma tanto lì si finirà” sussurrano i dimaiani, che a sentire le alternative, da Franco Frattini a Pier Ferdinando Casini, sorridono di scetticismo. “E poi il vero nome di Matteo Salvini è Marcello Pera, invotabile per il Pd” dicono in diversi. Mentre in serata riaffiora l’ipotesi Elisabetta Belloni, direttore generale del Dis. Ma è il caso di Riccardo Fraccaro a ricordare quanto sia sfarinato il M5S. Come raccontato dal Fatto, giorni fa l’ex ministro aveva incontrato Matteo Salvini in un appartamento a Roma, esortandolo a convergere con i 5Stelle su un nome alternativo a Draghi, con l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti come prima opzione.

Una figura su cui, dicono, si sarebbe potuto costruire un percorso, anche grazie al rapporto costruito tra il Movimento e Tremonti ai tempi della prima stesura del superbonus 110 per cento. Ma l’iniziativa è avvenuta all’insaputa di Conte, che nella cabina di regia del M5S ha minacciato “gravi conseguenze, anche perché Fraccaro è un probiviro”. L’ex sottosegretario è accusato di aver scavalcato il leder mentre sta cercando un nome per il Colle proprio assieme a Salvini, ex nemico a cui si è dovuto affidare. Fraccaro, in antichi e cordiali rapporti con l’ex ministro, gli avrebbe assicurato di rappresentare diversi 5Stelle, tra cui i sottosegretari Carlo Sibilia e Dalila Nesci, leader dell’area Parole guerriere. Versione dei fatti che ieri Fraccaro ha smentito: “Non si è parlato di numeri e voti, a Salvini ho detto di aprire a Conte”. Nega anche Sibilia – “ricostruzioni prive di fondamento, per me esistono solo le trattative portate avanti da Conte” – mentre Nesci giura: “Siamo tutti compatti con Giuseppe, insinuazioni false”. Ma nella nota di smentita, Fraccaro aggiunge: “Non voterò mai Mario Draghi”. Postilla che rivela la preoccupazione crescente, nel Movimento, che il trasloco del premier al Quirinale sia uno scenario a cui i 5Stelle saranno costretti a dire di sì per inerzia. Così, chi ragiona sulla vicenda di Fraccaro sottolinea come la ricerca di un’intesa con Salvini sia ancora l’unica arma a disposizione per sottrarsi a un destino che pare segnato. “Giuseppe deve dire chiaramente che noi non ci stiamo a far commissariare la politica per altri sette anni”, insistono gli anti-Draghi, “e deve dirlo ora, perché non potremo sfilarci all’ultimo minuto”. Ma è tutto complicato.

Nell’incontro di giovedì con Conte, Salvini ha posto un nodo: “Per lavorare assieme a una soluzione dobbiamo fermare i tavoli paralleli tra i tuoi e alcuni della Lega”. E poi ci sono le scorie del caso Fraccaro, criticato giovedì nell’assemblea dei deputati anche dal capogruppo Davide Crippa (“Certi singoli danneggiano la trattativa in corso”). Mentre volano accuse incrociate tra correnti su chi abbia sostenuto la mossa dell’ex ministro. Però Fraccaro non rischia sanzioni, anche perché il collegio dei probiviri di cui fa parte è fermo da mesi. “Mancano i regolamenti” ricordano. E comunque ora l’urgenza è il Colle. Molti deputati hanno insistito sul Mattarella bis. “Ma il suo nome ora va protetto per non metterlo in contrapposizione con Draghi” teorizza un big. Domani Conte farà il punto in assemblea congiunta con gli eletti. E dovrà mostrarsi fiducioso.

Un caffè col nemico: Letta incontra Renzi e non chiude a Casini

È mattina presto quando Enrico Letta entra a Palazzo Giustiniani per prendere un caffè con Matteo Renzi. Stavolta, la tensione psicologica della prima volta (dopo l’elezione di Letta a segretario del Pd) cede il passo al pragmatismo. Alla necessità reciproca di trovare qualche punto di contatto nella strategia per il Quirinale. Se Italia Viva vota con il centrosinistra, Letta può avallare ciò che va dicendo in questi giorni: il centrodestra non ha la golden share per scegliere il presidente. Dal canto suo Renzi ha tutto l’interesse a inserire qualche variabile nello schema, qualche atto di disturbo, che possa renderlo alfine determinante.

La strategia di Letta è nota: lavora per Mario Draghi, convinto che il premier sarà eletto al Quirinale, nonostante le ostilità trasversali tra le forze politiche. E ribadisce la sua linea a Renzi, gli chiarisce che è quella la carta. O un’altra figura autorevole, eletta con maggioranza alta. Il clima è abbastanza disteso. Riassume poi Renzi in tv: “O hai uno schema politico che porta Draghi al Colle e c’è un governo con una caratura politica, o resta Draghi a palazzo Chigi e a quel punto al Colle ci va una figura che prende il consenso il più ampio possibile”.

Ma il leader di Iv non è allineato. Mette sul tavolo anche altri nomi, del centrodestra: Maria Elisabetta Casellati, Franco Frattini. Soprattutto Pier Ferdinando Casini. Dall’inizio, il suo piano A. Perché se in pubblico continua a esprimersi in favore del premier, in privato esprime tutti i suoi dubbi. La chiusura di Letta non è netta, anche se non è un nome che farà mai lui. Però, se lo facesse Matteo Salvini, tutto il Pd lo voterebbe. Renzi lo sa. E cerca di verificare l’agibilità di una soluzione che gli darebbe una momentanea centralità. Nessuno spende troppe parole per raccontare il colloquio. Ore troppo delicate.

C’è pure un giallo: l’Espresso scrive che all’incontro era presente anche Dario Franceschini. L’interessato smentisce categoricamente. In un momento in cui il ministro della Cultura è uno dei principali oppositori dell’elezione di Draghi al Quirinale, la sua presenza sarebbe significativa.

Ad ogni modo, Letta e Renzi si accordano per un patto di legislatura, che insieme al capo dello Stato comprenda anche un accordo sull’esecutivo. Le trattative sull’eventuale dopo Draghi vanno avanti parallele e vorticose. Ma i due non arrivano a parlare di ministri e di premier: troppo poca la fiducia di Letta nell’interlocutore. Parlano invece di legge elettorale, Letta non chiude al proporzionale di cui Renzi ha bisogno. Il segretario del Pd in questa fase crede di poter contare sulla sostanziale lealtà del partito, una volta data l’indicazione di voto. Ma sa che le trame vanno avanti. Come sa anche che molti del Pd sarebbero pronti a fare sponda con Renzi. Meglio cercare di prevenire. Se Draghi verrà effettivamente eletto potrà rivendicare di aver tenuto la barra diritta. Ma tra un Giuseppe Conte recalcitrante e un partito sempre opaco, è incisivo fino a un certo punto.

La realtà è che gli occhi di tutti nel Pd sono puntati su Silvio Berlusconi e su Matteo Salvini. Il leader della Lega farà un nome – alternativo a Draghi – che i giallorossi possono votare? Se fosse per Renzi, il nome sarebbe Casini. Ma non è detto che gli riesca. A vedere Salvini sarà Letta, oggi o domani: dopo la riunione di centrodestra. A quel punto, la trattativa tra centrodestra e centrosinistra entrerà nel vivo. Con il leader del Carroccio che però appare rassegnato a non anticipare Berlusconi sui nomi.

Intanto, per domani il segretario ha convocato l’Assemblea dei grandi elettori dem, dopo aver visto giovedì le capigruppo, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi. Vuole condividere ogni passaggio, per evitare franchi tiratori e sgambetti. Domenica vedrà di nuovo anche Renzi. L’idea è arrivare anche con lui a una strategia condivisa per le prime tre votazioni: scheda bianca e candidato di bandiera sono entrambe opzioni possibili.

Ora Silvio tratta sul ritiro e per il momento dice no a Draghi: oggi il vertice

Erano pronti perfino ad andare ad Arcore pur di fare quel tanto agognato vertice che lui, il candidato in pectore, voleva rimandare per prendere ancora tempo. Così alla fine Silvio Berlusconi si è dovuto arrendere alla pressione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Lo hanno chiamato e lui non ha potuto tirarsi indietro. Dunque il vertice del centrodestra si farà oggi pomeriggio a Roma e sarà decisivo: Berlusconi, anche se in collegamento da villa San Martino, scioglierà la riserva. In un senso o nell’altro. E a quel punto si sbloccherà lo stallo. Sarà lui a prendere per primo la parola e a decidere il da farsi: se da Arcore si racconta che Berlusconi è ancora “determinato” e potrebbe convincere gli alleati che ce la può fare, alla fine il leader azzurro sarebbe pronto al ritiro.

Tant’è che per la prima volta Berlusconi aprirà a una rosa di nomi alternativi. Tutti “piani b” ma su cui discutere con Meloni e Salvini. D’altronde il leader della Lega, smanioso di fare il kingmaker, come gli ha consigliato il suocero Denis Verdini, ieri pomeriggio ha incontrato Umberto Bossi a Gemonio e ha sentito tutti i leader della coalizione di governo via sms con un messaggio preciso: “Lavori in corso”. Come dire: le carte le do io e solo io posso sbloccare la partita del Colle. Che sia vero o meno, lo si vedrà oggi. Anche perché ieri sera dalla Lega facevano sapere che Salvini è pronto a tirare fuori un nome coperto, non ancora uscito negli ultimi giorni. Uno di questi potrebbe essere Paola Severino, di cui il leghista ha parlato giovedì con Conte. Ma la certezza, ieri sera, era un’altra: un accordo sul nome, nel centrodestra, non c’è.

Oggi però la prima mossa dovrà farla Berlusconi. Se tutto fa pensare al suo ritiro, al momento la sua posizione è quella di dire “no” a Mario Draghi. Una strategia emersa ieri nel pranzo ad Arcore con Licia Ronzulli e Antonio Tajani, i capigruppo Paolo Barelli e Anna Maria Bernini e il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri. La prima scelta di Berlusconi sarebbe quella del Mattarella bis ma Lega e Fratelli d’Italia sono apertamente contrari a questa ipotesi.

L’altro nome in testa di Berlusconi è quello di Giuliano Amato, anche questo bocciato da Salvini e Meloni. A quel punto si ragionerà su altri nomi “di alto profilo di centrodestra”, come ha spiegato ieri il segretario del Carroccio. E sarà Salvini a dover fare la prima mossa. Nella rosa del leghista, in pole ci sono Marcello Pera (sponsorizzato da Verdini) e Maria Elisabetta Alberti Casellati. Più indietro, Letizia Moratti e Franco Frattini ma anche Pier Ferdinando Casini, che ha preso sempre più quota nelle ultime ore. Meloni invece condivide con il leghista il sostegno a Pera e non le dispiacerebbe Giulio Tremonti. Su tutti questi nomi però Berlusconi resta freddo (“sono tutti miei sottoposti” usa dire) a partire da Casini: in Forza Italia non prendono in considerazione l’ipotesi del senatore centrista. E anche dalla Lega c’è scetticismo: “È stato eletto con il Pd” dicono i salviniani più stretti. Anche se alla fine potrebbe essere lui l’anti-Draghi, il candidato che mette d’accordo tutti e non fa vincere nessuno. Veti e controveti che rendono complicata una convergenza su un candidato di centrodestra a partire dalla prima votazione.

Così, anche se Salvini e Berlusconi dicono “no” in partenza, si arriva a Draghi. Quella di Berlusconi è una posizione tattica: sbarrare la strada al premier per trattare un possibile appoggio a partire dal rimpasto di governo (in cui entrerebbe Antonio Tajani) e magari, è il sogno dell’ex Cavaliere, la nomina di Gianni Letta come segretario generale del Quirinale. Anche Meloni vedrebbe bene l’elezione del premier al Colle: è stata lei la prima a fare il suo nome e con lui ha un ottimo rapporto. Ma soprattutto, è la tesi di un esponente di peso di Fratelli d’Italia, Draghi potrebbe essere quell’ombrello con le cancellerie internazionali pronto a garantirgli l’incarico a Palazzo Chigi. L’unico dei tre che, per il momento, resta sul “no” secco al premier è Salvini. Che potrebbe sparigliare e mettere sul piatto proprio quel Casini che terrorizza il Pd.

Ma il 67 per cento degli italiani vuole che rimanga dov’è

Grandi giornali, intellettuali e poteri internazionali ora spingono Mario Draghi verso il Quirinale. Sostengono che solo così si può “preservare” l’ex presidente della Bce. Peccato che la maggioranza degli italiani la pensi diversamente: secondo gli ultimi sondaggi, infatti, più di un cittadino su due pensa che il premier debba rimanere a Palazzo Chigi e il suo governo debba completare il programma per cui è stato chiamato un anno fa dal presidente Sergio Mattarella. A certificarlo ieri sono stati i sondaggio di Quorum/YouTrend per Sky Tg24 e di Demopolis per Otto e Mezzo. Secondo la rilevazione dell’istituto di Lorenzo Pregliasco il 56,7% degli italiani preferisce che Draghi “rimanga presidente del Consiglio” mentre solo il 16,8% che diventi presidente della Repubblica. Il restante 16,5%, zoccolo duro degli anti Draghi, invece sogna di vederlo estromesso sia dalla carica di premier che di capo dello Stato (il 10% non sa o non risponde).

Un dato confermato anche dal fatto che questo governo riscuote un alto gradimento tra i cittadini: il 66,5% degli intervistati ha molta o abbastanza fiducia nell’esecutivo contro un 30,3% che ne ha poca o nessuna. Quasi un italiano su due inoltre sostiene che, dopo l’elezione del capo dello Stato, il governo Draghi andrà avanti: è la tesi del 49,2% degli intervistati contro il 13,6% che ipotizza la stessa maggioranza ma un diverso premier tecnico e l’11,3% secondo cui il prossimo governo sarà formato da una maggioranza diversa con un premier tecnico. Solo per il 10,4% si andrà subito a nuove elezioni. Va detto, però, che tra i nomi per il Colle su cui sono stati interpellati gli elettori, Draghi si posiziona al secondo posto tra i presidenti più graditi: al primo posto c’è Sergio Mattarella, che però si è detto indisponibile a un bis, che piacerebbe al 65,1% degli intervistati, mentre Draghi è dietro al 57,1%. Tra i “quirinabili” che circolano in questi giorni più staccati sono Paolo Gentiloni (38,3%), Emma Bonino (32,2%), Marta Cartabia (29%), Silvio Berlusconi (25,7%), Maria Elisabetta Alberti Casellati (25,7%) e Pier Ferdinando Casini (21,6%). Nonostante la speranza che il premier rimanga a Palazzo Chigi, però, gli intervistati si stanno rassegnando al fatto che la sua elezione al Quirinale sia l’ipotesi più probabile vista la situazione politica attuale: il 18,8% dei cittadini pensa che Draghi sarà eletto, il 14,7% scommette su Berlusconi e l’11,1% sul bis di Mattarella.

Anche nel sondaggio di Demopolis la maggioranza degli italiani inchioda Draghi a Palazzo Chigi: è l’auspicio del 60% degli intervistati contro un misero 18% che spera diventi capo dello Stato e il 22% che lo vorrebbe estromesso da tutto. In sintesi, secondo la rilevazione dell’istituto di Pietro Vento, più di otto italiani su dieci vuole andare contro il desiderio di Draghi di essere eletto al Colle. A volere la permanenza del premier proprio gli elettori dei partiti che oggi sostengono il suo esecutivo: l’80% di chi vota Forza Italia, il 68% dei leghisti, il 65% tra chi vota il M5S e il 63% il Pd. Più staccati invece gli elettori di Fratelli d’Italia, unico partito di opposizione al governo: solo il 34% vorrebbe che Draghi rimanesse a Chigi. Diverso il discorso per il bis di Mattarella: il 58% vedrebbe positivamente il suo secondo mandato e, tra i candidati, svetta al primo posto con il 30% delle preferenze. Per il secondo mandato dell’attuale inquilino del Quirinale si esprimono anche gli intervistati del sondaggio realizzato da Index e trasmesso da Piazza Pulita giovedì sera. Il 19,1% degli elettori spera nel bis di Mattarella contro il 17,9% di Mario Draghi e l’11,5% di Silvio Berlusconi. Più indietro invece Cartabia col 9,2% del gradimento, Casini con il 4,2% e Casellati con il 2,2%.

I Giornaloni voltagabbana: ora Draghi è meglio al Colle

Tutti i dilemmi intorno all’elezione di Mario Draghi al Quirinale si riconducono, in fondo, a un unico grande problema: di SuperMario ce n’è uno solo. In attesa che il dono dell’ubiquità faccia la sua comparsa, i grandi giornali devono perciò chiedersi dove sia meglio che finisca Draghi (meglio per lui, si intende). E c’è da dire che i quotidiani – come anche i rispettivi editori e direttori – hanno cambiato nettamente idea negli ultimi tempi, replicando le giravolte di alcune importanti testate straniere e assecondando i desideri del presidente del Consiglio: se prima si sperava nel “Draghi forever” a Palazzo Chigi, adesso tutto rema in favore del Migliore al Colle.

In tutto ciò, come detto, influisce il fascino dei giornali stranieri, schierati come un sol quotidiano per Draghi al Quirinale (dopo che ne avevano sostenuto l’imprescindibilità a Palazzo Chigi). Un coro di voci angeliche interrotto giusto ieri dalla prestigiosa rivista americana Foreign Policy, secondo cui invece il premier “non ha più il whatever it takes” e, “che sia al governo o presidente, potrebbe non avere la soluzione ai problemi dell’Italia”.

Prima imbullonato dov’è

Fino all’autunno del 2021, nessuno voleva rinunciare a Draghi premier. L’epitome di questa vasta letteratura è l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere del 21 ottobre: “E se decidessimo di non votare mai più?”. Mieli argomenta: “Darebbero vita ad un esecutivo assai simile all’attuale che però escluderebbe la Lega e sarebbe così dotato della stabilità adatta. Beninteso il tutto dovrebbe restare sotto la guida di Draghi”. Certo “l’idea di non voler più coinvolgere il corpo elettorale potrebbe rivelarsi poco adatta a combattere l’astensionismo”. Ma sono problemi trascurabili.

D’altra parte il clima era quello in cui l’editorialista della Stampa Marcello Sorgi ventilava l’ipotesi di un governo dei Colonnelli in caso di caduta di Draghi: “Se gli stessi responsabili delle dimissioni insistessero per mandare a casa il banchiere, giocandosi la fiducia dell’Europa e i miliardi di aiuti, al presidente della Repubblica non resterebbe che mettere su un governo elettorale, forse persino militare”. O Draghi o l’apocalisse. Stefano Folli, su Repubblica, si crucciava invece sul futuro del premier. Mica solo fino alle elezioni per il Quirinale, ma pure oltre il 2023: “Offrire una piattaforma politica a Draghi, magari senza bisogno che egli si candidi formalmente alle elezioni, vorrebbe dire garantire la continuità del governo”.

Il progetto piaceva molto al Sole 24 Ore di Confindustria, che negli stessi giorni ospitava un contributo di Roberto D’Alimonte dal titolo eloquente: “Una maggioranza Draghi dopo il 2023”. La Stampa, invece, sparava a tutta pagina il “Fattore Draghi”, ricordando che “i mercati temono che il premier vada al Colle”. Il direttore Massimo Giannini, appena dopo la conferenza di fine anno in cui Draghi si è – di fatto – auto-candidato, doveva persino dare ragione alla Lega: “Se la situazione pandemica si fa realmente drammatica mi spingo a dire che ha ragione Salvini quando dice: ma come, noi dobbiamo stare qui a presidiare il governo e tu ci dici tanti saluti e vai al Quirinale?”. Lo stesso Giannini, tre sere fa, si è dovuto arrendere: “La scelta tutto sommato migliore per il Paese è che per il Colle si vada su Draghi”.

Dopo accontentate Mr. Bce

Anche i suddetti mercati finanziari però sembrano aver cambiato idea, almeno per come la raccontano i nostri giornali. Questa settimana La Stampa ha riportato senza commenti l’entusiasmo del New York Times: “Draghi ha trasformato l’Italia in una nazione leader in Europa, con lui presidente il Paese estenderebbe questa età dell’oro”. Repubblica ci ha raccontato “le paure di Wall Street sul futuro di Draghi”: l’ideale sarebbe un Mattarella bis, è chiaro, ma altrimenti “parecchi gestori di hedge fund” si augurano “l’ascesa di Draghi al Colle”. Sullo stesso quotidiano, Claudio Tito riduce a volgari capricci personali i “No” di M5S e Lega all’elezione del premier: “Questo ricostituito centro direzionale grillo-leghista si presenta connotato non dal perseguimento dell’interesse nazionale ma da quello partitico”.

Lo stesso giorno, La Stampa restituisce l’immagine suggestiva di “SuperMario sull’ottovolante”, mentre sul Corriere è Carlo Verdelli a porsi il problema di un Paese che non può rinunciare al suo supereroe: “Possiamo davvero permetterci che torni nel suo buen retiro umbro?”. Ergo: se Draghi vuole il Colle, glielo si conceda. Trattasi dello stesso Verdelli che a settembre vedeva un governo “che sembra spingersi verso il 2023, e magari anche oltre”. Pure il Sole 24 ore, quello della maggioranza Draghi “dopo il 2023”, ci ha ripensato. Intervistato da Affari italiani, il direttore Fabio Tamburini è chiaro: “Non avrei dubbi di confermare Mattarella e Draghi”. Se non fosse possibile, la priorità è salvare il soldato Mario: “Piuttosto che perderlo, portiamolo al Quirinale”. Sempre che, da qui a lunedì, l’interessato non cambi idea. E i giornali con lui.

L’Uomo Poltrona

Il 23 aprile 1993, dopo la bocciatura del suo decreto Salvaladri che ha scatenato il putiferio alla Camera, fra leghisti che sventolano cappi e missini che mostrano guanti bianchi, spugne e manette, Giuliano Amato si dimette da presidente del Consiglio (sostituito da Ciampi) e abbandona la politica: “Per cambiare, dobbiamo trovare nuovi politici. Per questo confermo che ho deciso di lasciare la politica, dopo questa esperienza da primo ministro. Solo i mandarini vogliono restare sempre e io sono in Parlamento ormai da dieci anni”. Sarà il ritiro più breve della storia.

Tiritiritu? Nel 1994 Berlusconi va al governo e, grato per i decreti pro Fininvest, il 9 novembre nomina Amato presidente dell’Antitrust: chi meglio del santificatore del suo trust? Infatti in tre anni il Dottor Sottile non si accorge della più spaventosa posizione dominante mai vista sui mercati televisivo, editoriale e pubblicitario. In compenso spezza le reni a un trust ben più grave per il libero mercato: le scatole di fiammiferi che, a differenza degli accendini, possono ospitare pubblicità. Uno scandalo: fremente di sdegno, Amato scrive una letteraccia ai presidenti delle Camere, al premier Prodi e al ministro Bersani perché provvedano immantinente: “Fiammiferi e accendini sono prodotti che assolvono alla stessa funzione d’uso e l’esistenza di due distinte discipline normative determina una disparità ingiustificata di trattamento a favore delle imprese attive nella produzione e commercializzazione di fiammiferi”. Ecco perché non vede la trave Fininvest: ha sempre una pagliuzza, anzi un fiammifero nell’occhio.

L’amico Squillante. Nel 1996 Berlusconi gli offre un collegio sicuro in FI e lui, prima di declinare, ne discute con l’amico giudice Renato Squillante, capo dei Gip romani di stretta osservanza socialista e poi berlusconiana, senza sapere che sta per essere arrestato per corruzione. Così il suo nome salta fuori dalle intercettazioni e tabulati dell’inchiesta “toghe sporche”. Nel 1997, in piena Bicamerale, D’Alema lo vuole con sé nel progetto “Cosa 2” per seppellire l’Ulivo prodiano. Ma basta un fax da Hammamet per fermarlo sull’uscio. “Amato – scrive Craxi il 7 febbraio – tutto può fare salvo che ergersi a giudice delle presunte malefatte del Psi, di cui egli, al pari degli altri dirigenti, porta per intero la sua parte di responsabilità… Ma guardacaso, forte delle sue amicizie e altolocate protezioni, a lui non è toccato nulla di nulla. Buon per lui…”. Lo definisce “becchino del Psi”, “voltagabbana”, “una cosa vomitevole come tutti i craxiani diventati anticraxiani”, “un opportunista che strisciava ai miei piedi e ora striscia a quelli degli altri per salvarsi la pelle”.

Erano pronti perfino ad andare ad Arcore pur di fare quel tanto agognato vertice che lui, il candidato in pectore, voleva rimandare per prendere ancora tempo. Così alla fine Silvio Berlusconi si è dovuto arrendere alla pressione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Lo hanno chiamato e lui non ha potuto tirarsi indietro. Dunque il vertice del centrodestra si farà oggi pomeriggio a Roma e sarà decisivo: Berlusconi, anche se in collegamento da villa San Martino, scioglierà la riserva. In un senso o nell’altro. E a quel punto si sbloccherà lo stallo. Sarà lui a prendere per primo la parola e a decidere il da farsi: se da Arcore si racconta che Berlusconi è ancora “determinato” e potrebbe convincere gli alleati che ce la può fare, alla fine il leader azzurro sarebbe pronto al ritiro.

Tant’è che per la prima volta Berlusconi aprirà a una rosa di nomi alternativi. Tutti “piani b” ma su cui discutere con Meloni e Salvini. D’altronde il leader della Lega, smanioso di fare il kingmaker, come gli ha consigliato il suocero Denis Verdini, ieri pomeriggio ha incontrato Umberto Bossi a Gemonio e ha sentito tutti i leader della coalizione di governo via sms con un messaggio preciso: “Lavori in corso”. Come dire: le carte le do io e solo io posso sbloccare la partita del Colle. Che sia vero o meno, lo si vedrà oggi. Anche perché ieri sera dalla Lega facevano sapere che Salvini è pronto a tirare fuori un nome coperto, non ancora uscito negli ultimi giorni. Uno di questi potrebbe essere Paola Severino, di cui il leghista ha parlato giovedì con Conte. Ma la certezza, ieri sera, era un’altra: un accordo sul nome, nel centrodestra, non c’è.

Oggi però la prima mossa dovrà farla Berlusconi. Se tutto fa pensare al suo ritiro, al momento la sua posizione è quella di dire “no” a Mario Draghi. Una strategia emersa ieri nel pranzo ad Arcore con Licia Ronzulli e Antonio Tajani, i capigruppo Paolo Barelli e Anna Maria Bernini e il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri. La prima scelta di Berlusconi sarebbe quella del Mattarella bis ma Lega e Fratelli d’Italia sono apertamente contrari a questa ipotesi.

L’altro nome in testa di Berlusconi è quello di Giuliano Amato, anche questo bocciato da Salvini e Meloni. A quel punto si ragionerà su altri nomi “di alto profilo di centrodestra”, come ha spiegato ieri il segretario del Carroccio. E sarà Salvini a dover fare la prima mossa. Nella rosa del leghista, in pole ci sono Marcello Pera (sponsorizzato da Verdini) e Maria Elisabetta Alberti Casellati. Più indietro, Letizia Moratti e Franco Frattini ma anche Pier Ferdinando Casini, che ha preso sempre più quota nelle ultime ore. Meloni invece condivide con il leghista il sostegno a Pera e non le dispiacerebbe Giulio Tremonti. Su tutti questi nomi però Berlusconi resta freddo (“sono tutti miei sottoposti” usa dire) a partire da Casini: in Forza Italia non prendono in considerazione l’ipotesi del senatore centrista. E anche dalla Lega c’è scetticismo: “È stato eletto con il Pd” dicono i salviniani più stretti. Anche se alla fine potrebbe essere lui l’anti-Draghi, il candidato che mette d’accordo tutti e non fa vincere nessuno. Veti e controveti che rendono complicata una convergenza su un candidato di centrodestra a partire dalla prima votazione.

Così, anche se Salvini e Berlusconi dicono “no” in partenza, si arriva a Draghi. Quella di Berlusconi è una posizione tattica: sbarrare la strada al premier per trattare un possibile appoggio a partire dal rimpasto di governo (in cui entrerebbe Antonio Tajani) e magari, è il sogno dell’ex Cavaliere, la nomina di Gianni Letta come segretario generale del Quirinale. Anche Meloni vedrebbe bene l’elezione del premier al Colle: è stata lei la prima a fare il suo nome e con lui ha un ottimo rapporto. Ma soprattutto, è la tesi di un esponente di peso di Fratelli d’Italia, Draghi potrebbe essere quell’ombrello con le cancellerie internazionali pronto a garantirgli l’incarico a Palazzo Chigi. L’unico dei tre che, per il momento, resta sul “no” secco al premier è Salvini. Che potrebbe sparigliare e mettere sul piatto proprio quel Casini che terrorizza il Pd.