La casa popolare e il pass disabili: Naomo il vicesindaco leghista che “oscura” Matteo

Simbolo del leghismo 2.0 emiliano-romagnolo, dalla t-shirt “Più rum meno rom” all’epico “vi faccio il culo così” rivolto indistintamente a migranti e giornalisti, Nicola “Naomo” Lodi sembra l’unico del Carroccio capace di oscurare Matteo Salvini. Una gara vorticosa al ribasso, in cui il vicesindaco di Ferrara eccelle. La prima mossa da amministratore è stata quella di togliere le panchine dai parchi, considerate un luogo di spaccio. Dal giorno dopo, sono spariti i residenti mentre gli ipotetici spacciatori sono scesi con le sedie portate da casa. Seconda mossa, l’aumento del 10% dello stipendio per tutta la Giunta: Lodi riceve oggi 4.800 euro lordi al mese, ma continua ad abitare in una residenza popolare. Nessun problema, tecnicamente il trasloco può attendere: le entrate del 2019 si vedranno solo nell’Isee 2021. Va sempre tutto bene: anche nel caso della ex collega di partito Anna Ferraresi. In un audio trasmesso da Piazzapulita, Lodi la invita a dimettersi da consigliere in cambio di un posto a tempo indeterminato “così ti levo dai coglioni e non ti vedo più”. L’ultimo scandalo l’ha denunciato l’ex responsabile dell’Ufficio Benessere Ambientale del Comune, Fausto Bertoncelli: il vicesindaco ha un pass-invalidi irregolare. Una bugia secondo l’interessato che rivendica, ancora una volta, tutto: “Il mio pass è regolare ed è stato legalmente rilasciato nel 2006 con una percentuale di invalidità del 46% che a oggi non è meno del 70%”. Una autodiagnosi visto che Lodi in tutti questi anni non è mai stato convocato per la revisione mentre ha pubblicato decine di video in cui insegue correndo presunti pusher. Secondo l’ex responsabile comunale “quando la tua deambulazione torna normale lo devi restituire, invece lui ce l’ha ancora”. Sul caso sono intervenuti anche i comici Ficarra e Picone: “Vive in una casa popolare nonostante un reddito netto di 3.400 euro al mese. Ha un contrassegno disabili tuttavia corre, va in bici e solleva pesi. Ma, purtroppo per noi, non è tunisino”.

Salvini “molla” il Papeete: la Lega si fa istituzionale

Ai dirigenti leghisti in via Bellerio a Milano, in luogo sacro, di recente dissodato, tant’è che consiglio federale è terminologia ormai impropria, più corretto riferire di segreteria o direttorio o comitato, Matteo Salvini ha annunciato una svolta epocale: vuole essere (apparire) un po’ meno Matteo Salvini. Un attimo, calma. Qui non si ripone l’armamentario di vocaboli spiacevoli né l’assortita collezione di felpette e paroloni, compresi i bacioni, ma Salvini ha capito che Salvini ha saturato il consenso che può ricavare con quel tipo di campagna elettorale che stimola la paura e spande l’odio.

Per prima cosa, il capo ha ammesso che la Lega in provincia è tosta, mentre in città è moscia. Allora ha srotolato l’elenco del prossimo giro d’Italia che passa per i capoluoghi di regione. A proposito di regioni e soprattutto di regioni meridionali, si tratta di Puglia e Campania, con prepotenza Salvini ha avvertito gli alleati che mal sopporta: non è che da Roma in giù i candidati governatori li scegliete voi. No al campano Stefano Caldoro, no al pugliese Raffaele Fitto. Arriverà presto il vertice riparatorio e consolatorio con Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi. Salvini ha il trenta per cento che i sondaggi confermano e detiene il comando della coalizione, ma il linguaggio politico del Carroccio a destra è sorpassato da Fratelli d’Italia e al centro da Forza Italia, per quel che conta. Salvini in via Bellerio s’è davvero superato, perché ha spiegato l’esigenza di creare una Lega più istituzionale. Non ha chiesto subito una rettifica a se stesso, anzi ha nominato alcuni dei responsabili dei dipartimenti, cioè i ministri ombra del governo ombra già annunciato l’autunno scorso e poi dimenticati, appunto nell’ombra, per l’incessante susseguirsi di comizi e citofoni.

A Giancarlo Giorgetti ha affidato gli Esteri. È un bel progresso saltare da Gianluca Savoini, l’uomo che lo scortava in Russia e un giorno finì al Metropol di Mosca a trattare commesse di petrolio, all’ex sottosegretario a Palazzo Chigi che ha una intensa frequentazione con l’ambasciatore americano a Roma. Lucia Borgonzoni sconfitta dietro le quinte in Emilia Romagna viene risarcita con la Cultura, l’ex ministro Gian Marco Centinaio si occuperà di Agricoltura, Edoardo Rixi di Infrastrutture, Vannia Gava di Ambiente, Luca Coletto di Sanità.

A parte gli esteri, Salvini ha mancato le caselle più delicate: economia e giustizia. S’è preso altri giorni per riflettere. Però una riflessione l’ha fatta o, come dire, l’ha condivisa: accantonata la propaganda sull’uscita dall’euro e constatata la feroce diffidenza di Bruxelles, per l’economia serve un nome moderato, anche se moderato è un’espressione bandita da Salvini. Il principale indiziato è Massimo Garavaglia, ex viceministro al Tesoro. E si fa notare che Garavaglia fu proposto per il ruolo di Commissario europeo per l’Italia alla vigilia del ribaltone del Papeete e da Bruxelles appresero l’intenzione del governo senza minacciare guerra a Roma. Siccome la Lega è monolitica per definizione, perché ha un capo che non viene contestato mai, però all’interno l’agitazione è perenne, Salvini pensa di spacchettare l’economia con Garavaglia in prima fila e altri con propensioni diverse. Per semplificare: i critici di Bruxelles in servizio permanente. In conferenza stampa, rifilate in tasca i buoni propositi, Salvini ha ripreso a martellare perché sbraitare di qua e di là rientra nel suo repertorio classico. Funziona, fino a un certo punto. Al 32 per cento emiliano. Per Chigi non basta. E Salvini lo sa.

Foa sceglie Bruchi, il Prix si fa sovranista

In Rai nulla avviene senza scossoni. Figuriamoci una nomina. Parliamo di quella di Annalisa Bruchi, che ieri il presidente Marcello Foa ha messo alla guida del Prix Italia, la manifestazione che ogni anno coinvolge le tv europee e internazionali, con premi alle migliori trasmissioni e format. Va a sostituire la precedente segretaria Karina Laterza, nominata dall’ex presidente Monica Maggioni. “È una nomina che spetta al presidente”, spiegano da Viale Mazzini. Le polemiche, però, non mancano. Innanzitutto perché Bruchi non è un’interna Rai. “È la prima volta dal 1971 che l’incarico viene affidato a un esterno. Parliamo di una carica importante, di una struttura con fondi e budget. Possibile che con tutti i dirigenti Rai senza incarico e lautamente pagati non ce ne fosse uno che andava bene per il Prix Italia?”, si chiede il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi, che ha annunciato un’interrogazione in Vigilanza.

Bruchi, infatti, pur lavorando in Rai dal 1997 (ha iniziato con Giovanni Minoli) non è mai stata assunta. Moglie dell’ex deputato e fondatore di Forza Italia Mario Valducci, è una giornalista economica che ha sempre gravitato nell’orbita del centrodestra. Per un paio d’anni è stata accreditata anche come renziana, mentre ora sembra essere salita sul cavallo leghista. Dopo l’esperimento di Night Tabloid, ora il lunedì sera su Raidue conduce Povera Patria. Non da sola: al suo fianco ci sono le firme del Corriere, Aldo Cazzullo, e di Libero, Alessandro Giuli. Programma che è stato voluto e confezionato dall’ex direttore di rete Carlo Freccero, e che non va neanche male: in onda nella seconda serata del lunedì, sta intorno a una media del 3,5% di share. “Annalisa ha un curriculum di tutto rispetto: lavora in Rai da tanti anni, ha una laurea a Siena in Relazioni Internazionali e un master in Scienze Politiche. Non si capisce perché non dovrebbe essere chiamata al timone del Prix Italia, che sembra calzare a pennello su di lei”, dicono dalla presidenza della Rai. Il problema, però, è che ora in teoria non potrà più andare in video, a meno che non le venga concessa una deroga, cosa che probabilmente avverrà. “Devo tutto a Giovanni Minoli: con lui ho imparato l’artigianato della tv. Ma è stata importante anche l’esperienza che ho fatto a Mediaset con Maurizio Costanzo: lì ho capito come si fa a riconoscere le storie che funzionano in tv”, ha dichiarato in un’intervista. Nel 2018, in vista delle elezioni politiche, ha condotto anche Kronos, il tempo della scelta, insieme a Giancarlo Loquenzi: esperimento fallito di talk show di centrodestra.

Cinque Stelle, i timori di Conte: “Troppi 3 mesi per il Congresso”

La sua linea l’ha detta e ridetta, a tutti ma soprattutto ai Cinque Stelle: e porta a sinistra, senza possibilità di equivoci. Ma il presidente del Consiglio che si sente terzo, Giuseppe Conte, non ha esaurito i suggerimenti per il partito che l’ha pur sempre portato a Palazzo Chigi.

Perché l’ipotesi molto concreta che gli Stati generali del Movimento slittino di oltre un mese, cioè al fine settimana tra il 19 e il 21 aprile, non lo fa stare tranquillo. E nei colloqui riservati lo ha già detto. “Tre mesi di discussione congressuale possono indebolire il M5S e indirettamente il governo” è (in sostanza) il ragionamento del premier. Che in fondo, seppure con sillabe più edulcorate, aveva espresso lo stesso concetto giovedì, a margine della sua visita ufficiale a Sofia: “Ho parlato con gli esponenti del M5S e ho avuto un confronto con Vito Crimi (il reggente, ndr). È chiaro che si siano dati dei tempi per la completa riorganizzazione interna e che gli Stati generali sono ancora di là da venire, ma l’attività di governo non può attendere”. Come a dire che il congresso non deve distrarre troppo il Movimento. E che dilatarne i tempi non è la migliore delle idee.

D’altronde Conte non è per nulla il solo ad avere questa preoccupazione. Perché in queste ore nel Movimento diversi big hanno la stessa ansia. “Discutere dei nostri problemi fino ad aprile inoltrato mi sembra follia” sospirava ieri sera al Fatto un 5Stelle di primissimo piano. E raccontano che l’ipotesi di scivolare di tutte queste settimane rispetto alla data del 13 marzo (mai ufficializzata sul blog delle Stelle, va ricordato) non convinca troppo neanche l’ex capo politico, Luigi Di Maio. Però il nodo è di quelli difficili da sciogliere. Perché il 29 marzo è previsto il referendum sul taglio dei parlamentari, e per il Movimento può essere un’occasione per rilanciare su una sua battaglia, gettandosi ventre a terra nella campagna referendaria e recuperando così consenso tra la sua disorientata base. “Ma se lavoriamo per il sì al taglio non possiamo anche preparare gli Stati generali” è la riflessione che stanno facendo ai piani alti del M5S, a partire dal reggente Crimi. E anche molti dei facilitatori sono dello stesso avviso.

Quindi bisogna rinviare, e di parecchio, perché tra il 4 e il 6 aprile è previsto Sum, l’ormai tradizionale appuntamento dell’associazione Rousseau a Ivrea. Mentre il 12 sarà Pasqua. Quindi il primo fine settimana possibile diventa quello del 19. Un rinvio che potrebbe essere utile, anche l’organizzazione è ancora in alto mare. Non è stata ancora trovata una sede, e il lavoro preparatorio sulle regole va sgrezzato. E poi ci sono altri aspetti, compreso quello economico. “Se facciamo le cose con calma i costi saranno più gestibili” spiegano. Tradotto: gli argomenti a favore dello slittamento al 19 aprile sono numerosi. Ma i timori di Conte non possono essere bollati come ingiustificati, da nessuno. D’altra parte anche nel Pd stanno cercando di capire che cosa sarà questo primo congresso del Movimento. Il più attivo nel consultare i colleghi di governo è il capo delegazione Dario Franceschini.

Ad esempio, un paio di giorni fa, lo hanno notato alla Camera mentre parlava fitto con il viceministro allo Sviluppo economico Stefano Buffagni, 5Stelle che si è già ricavato un suo spazio nel dibattito pre-congressuale, lanciando l’idea di un Politburo su più livelli che governi il M5S del prossimo futuro. “Dovete prendere atto che non siete più all’opposizione e decidere cosa siete ora” è il mantra che Franceschini ripete ai grillini. Nell’attesa di capire questo e altro, oggi si terrà un’altra riunione interna con Crimi e i sei facilitatori nazionali per fare il punto sugli Stati generali. L’obiettivo è arrivare all’assemblea congiunta di martedì con i parlamentari con qualche certezza, almeno sulla sede e su altri aspetti, come la platea del congresso. L’idea che sta prendendo piede è quella di aprire la tre giorni a delegati per ogni regione, che non dovranno però coincidere con i facilitatori regionali già nominati. Perché tutti hanno chiara l’esigenza di recuperare la base, di farla sentire partecipe. Ma sui modi e soprattutto sui contenuti è tutto ancora da decidere. Anzi da discutere, che potrebbe fare rima anche con litigare.

Giustizia più rapida: le parole, i fatti e le norme

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario, rivendica la legge blocca prescrizione che tutti vogliono cancellare, a parte il M5S. Il suo discorso si apre con una rivendicazione della riforma appena entrata in vigore, che non ha potuto fare in Parlamento, durante la relazione annuale sulla Giustizia, martedì, altrimenti non avrebbe avuto i voti dei renziani.

“È noto a tutti che esistono divergenze – riconosce Bonafede – soprattutto per quanto concerne il nuovo regime della prescrizione”. Poi un bagno nel realismo politico: sulla prescrizione “è in atto un confronto serrato all’interno della maggioranza per superare le divergenze e consegnare ai cittadini un processo idoneo a rispondere alle loro istanze di giustizia, garantendo tempi certi ed eliminando ogni spazio di impunità”. Ma anche l’ultimo vertice di maggioranza prima delle Regionali è finito in un nulla di fatto per colpa delle barricate di Iv e in parte del Pd.

La durata dei processi: massimo quattro anni

L’idea di partenza è che i processi debbano durare complessivamente 4 anni e addirittura 3 anni quando la riforma sarà a regime: intanto 12 mesi in primo grado, 2 anni in Appello e un anno per la Cassazione. Nessun limite per mafia e terrorismo e più tempo per altri reati gravi. Cadrebbe l’obbligo di ripartire da zero quando cambia anche solo un giudice del collegio.

Ai Procuratori capi la scelta delle priorità

Sarebbero i procuratori capi, ufficialmente, a stabilire la priorità per le notizie di reato (oggi di fatto la scelta avviene tramite l’invio di circolari interne).

Nuove regole per l’Appello

Per l’Appello, previsti processi con giudici monocratici, l’avvocato potrebbe presentare Appello solo se ha un mandato ufficiale del suo assistito. Se non c’è sentenza entro due anni, le parti possono pretenderla, con possibili conseguenze disciplinari per i giudici che non rispettano i tempi.

Responsabilità dei giudici “fannulloni”

Le sanzioni disciplinari per il mancato rispetto dei tempi processuali scatterebbero solo dopo una valutazione del carico di lavoro del distretto giudiziario in cui opera il magistrato. Un’ipotesi già respinta al mittente dall’Associazione nazionale magistrati perché si scaricherebbe sulle toghe la responsabilità di disfunzioni che nulla hanno a che vedere – dice l’Anm –, con l’operato dei magistrati “i più produttivi d’Europa”.

Prossimo passo: riformare il Csm

Bonafede ieri ha ricordato che la maggioranza si confronta anche su “una riforma ordinamentale della magistratura incidendo da un lato sulla recisione di ogni possibile commistione con la politica dall’altro sulla eliminazione delle degenerazioni del correntismo”.

Cioè si sta pensando a come cambiare il Csm: i consiglieri togati passerebbero da 16 a 20 e i laici da 8 a 10. I togati sarebbero eletti in 19 collegi, 3 le preferenze possibili. Senza un vincitore al primo turno si va al ballottaggio tra i due che hanno preso più voti.

Il pg Salvi denuncia: “Prescrizione facile rallenta i processi”

Prescrizione. Questione morale. Immigrazione. Tre parole chiave ad alto tasso di scontro politico hanno dominato l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario ieri in Cassazione. Il neo procuratore generale, Giovanni Salvi, sulla prescrizione ha messo sul piatto numeri veri per provare a sterilizzare il dibattito da posizioni strumentali. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, silente in Parlamento, davanti a una platea di magistrati, con in prima fila il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il vicepresidente del Csm David Ermini e il premier Giuseppe Conte ha rivendicato la sua legge che blocca la prescrizione dopo il primo grado: “Una battaglia di civiltà”.

Ad aprire la cerimonia il presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, che sul blocco della prescrizione dà la sua visione a 360 gradi: da un lato, mette in risalto che in Appello dovrebbe esserci “una auspicabile riduzione delle pendenze derivante dall’attesa diminuzione delle impugnazioni meramente dilatorie” ma dall’altro lancia un Sos: “Si prospetta un incremento del carico di lavoro della Corte di Cassazione di circa 20-25.000 processi per anno”, quelli che si sono prescritti mediamente negli ultimi anni. Quindi Mammone chiede riforme per velocizzare i processi.

È il Pg Salvi che mette il dito nella piaga di un dibattito politico intriso di interessi di parte e privo di dati oggettivi. “Se è vero – dice – che è dinanzi al giudice di primo grado e al giudice per le indagini preliminari che si consuma la prescrizione, è ormai noto che ciò dipende dal fallimento della scommessa sui riti alternativi” dovuto proprio alla prescrizione facile: “L’aspettativa pressoché certa della prescrizione ha reso quella scelta non conveniente, nell’ovvio e legittimo calcolo costi-benefici dell’imputato. Finché la prescrizione sarà, non un evento eccezionale causato dall’inerzia della giurisdizione, ma un obiettivo da perseguire, nessun rito alternativo sarà appetibile”. Quindi bisogna muoversi “per respingere gli effetti negativi di una prescrizione che giunge mentre è intenso lo sforzo di accertamento della responsabilità”.

La via di Salvi sembra quella del doppio binario per condannati e assolti in primo grado, il lodo Conte che, però, non è bastato ai renziani: solo per gli assolti la prescrizione tornerebbe a correre se non si celebrano nel tempo prestabilito Appello e Cassazione. Dice, infatti, Salvi rispetto alla legge Bonafede : “C’è un punto critico nella parificazione della sentenza di condanna a quella di assoluzione” perché “la condanna è una statuizione di responsabilità, benché provvisoria mentre l’assoluzione indica la sussistenza del dubbio accertato” che va subito sciolto. Salvi, poi, fornisce dati che smontano fake news: in primo grado le assoluzioni di merito “in realtà non sono il 50% ma il 21%”. Un altro dato interessante è sull’esito dei processi in Appello. Nel 2018 a fronte di 113 mila processi ci sono state 64 mila condanne, 35 mila estinzioni per “prescrizione e altre cause” e 14 mila assoluzioni nel merito. Quindi dice una bufala chi parla di sentenze di condanna quasi sempre ribaltate in appello.

Il Pg affronta anche la questione morale dentro la magistratura non solo per lo scandalo nomine che ha squassato il Csm, ma anche per diverse indagini penali di quest’ultimo periodo: “Il danno che il mercimonio della funzione determina all’amministrazione della giustizia è incalcolabile. Queste condotte devono trovare anche adeguata sanzione disciplinare”. E veniamo a un altro tema rovente per la politica, quello dell’immigrazione che ha portato ai decreti Sicurezza a marchio Salvini, votati dall’ex maggioranza. “È bene che sia valutato l’effetto criminogeno e di insicurezza che discende dalla mancanza di politiche razionali per l’ingresso legale nel Paese e per l’inserimento sociale pieno di coloro che vi si trovano. La tentazione del ‘governo della paura’ ha riflessi anche sul pm” e dal desiderio di “rassicurazione sociale” al “proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, il passo non è poi troppo lungo”.

“Il vero revisionismo è su poveri e lavoro”

Scampato pericolo. Ma siamo sicuri? Domenico De Masi, sociologo del lavoro e professore emerito alla Sapienza, ne è moderatamente sicuro: “In Emilia Romagna sono capitati alcuni benedetti imprevisti, come le Sardine, che hanno dato una mano preziosa per sconfiggere Salvini. Ci hanno salvato da un pericolo a cui Luigi Di Maio, con la decisione di presentare un candidato 5stelle, ci aveva esposti. Per fortuna il voto disgiunto ha contribuito a questo risultato, altrimenti oggi saremmo in mano a Salvini. Ovvio raccomandare che questo scampato pericolo non deve farci abbassare la guardia”.

Professore, sospiro di sollievo a parte, vede segnali reazionari come si diceva una volta?

Altan direbbe: “Mi sorprende questa svolta autoritaria: debbo essermi perso la spinta progressista!”. Ci sono espliciti segnali reazionari nel mondo del lavoro e nella lotta alla povertà. Con i 5 Stelle in difficoltà si vorrebbe mettere in discussione quel che di buono hanno fatto. Penso soprattutto al reddito di cittadinanza e al decreto Dignità. Grazie ai quali quelle situazioni estreme che Ken Loach racconta nel suo terribile e bellissimo film Sorry, we missed you ambientato in Gran Bretagna, in Italia non sono più possibili. Quella flessibilità feroce che condanna il protagonista a lavorare sempre, con ritmi spietati e senza tutela nemmeno in caso di malattia, qui non è più possibile. Stupisce che di questo nostro progresso sociale non si legga sui giornali e non si senta nei talk show. I 5Stelle hanno portato avanti una crociata sacrosanta, cioè distinguere i poveri dai proletari.

Il povero non è un lavoratore che deve ottenere un aumento salariale?

Sui 5 milioni di poveri assoluti rilevati un anno fa, il 60% non era in grado di lavorare perché invalido, minore o vecchio. Non c’è nessun rapporto tra la povertà e la ricchezza di un Paese. Gli Stati Uniti sono uno dei paesi più ricchi del mondo eppure hanno 30 milioni di poveri: questi sono cresciuti anche quando cresceva la ricchezza. Per salvare i poveri occorre una provvidenza statale urgente. Questa distinzione non l’aveva fatta la Dc, che si ispirava ai principi del cattolicesimo, non il Partito comunista che si rifaceva alla solidarietà politica. Quella dei 5 Stelle è stata una nobile intuizione e una miracolosa realizzazione che poi nemmeno loro sono in grado di difendere.

Prima c’era il Rei, dicono.

Ma i due provvedimenti sono imparagonabili! La legge istitutiva del Rei era un guazzabuglio inapplicabile tanto è vero che, nei primi otto mesi, ne hanno beneficiato solo 980mila poveri percependo una media di 293 euro. Invece nei primi otto mesi del Reddito di cittadinanza ben 2,5 milioni di poveri hanno ottenuto un sussidio medio di 520 euro. È vergognoso il parallelo scagliarsi di Renzi, Salvini contro questa misura di giustizia sociale.

Che pensa del tentativo di non far parlare Davigo all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario?

Una vergogna. Figuriamoci se un magistrato specchiato come Piercamillo Davigo non possa parlare e proprio nel tribunale di Milano! Certi disvalori purtroppo sopravvivono anche ai loro portavoce. Berlusconi è fuori dai giochi politici, ma la sua eredità, il berlusconismo, gli sopravvive. Stessa cosa sta succedendo con il salvinismo che, tra l’altro, è un erede dello stesso berlusconismo. Salvini ha deteriorato ulteriormente la cultura degli italiani, con una rapidità spaventosa, imponendo le sue parole d’ordine e il suo stile rozzo, antitesi della raffinatezza che il nostro paese ha affermato con il suo Made in Italy. Pensi a quella frase sui “pieni poteri”: era il sogno implicito di Berlusconi, ma Salvini l’ha reso esplicito pronunciandola con estrema naturalezza. Certi danni, nel discorso pubblico, sono incalcolabili. In queste settimane assistiamo a episodi di antisemitismo che erano inconcepibili anche solo due anni fa.

Le commemorazioni di Craxi che effetto le hanno fatto?

È il residuo di una vecchia politica. I miei studenti diciannovenni non sanno nemmeno chi sia, è come per noi Crispi o Quintino Sella. La rimpatriata di Hammamet mi è parsa più un raduno degli alpini. Certo, se al governo ci fosse la destra ascolteremmo un’altra musica. Io credo che gli anticorpi, rispetto al riaffacciarsi di una certa politica, ci siano. I guai sono altri.

Il lamento degli ex: “Ridateci i soldi persi. Pronti a fare causa”

Lei dice di aver addirittura subito un trauma per il taglio del vitalizio. E quindi ora che il Senato della Repubblica si prepara a ripristinare gli antichi privilegi dell’assegno, spera con tutte le forze che la Camera faccia altrettanto. Ilona Staller, la pornodiva con trascorsi da parlamentare radicale (fu deputata dal 1987 al 1992) non ha mai digerito la sforbiciata che ha ridotto il suo mensile da 2.200 a 800 euro lordi. E adesso si prepara anche a chiedere i danni. Cantando vittoria. “Abbiamo la certezza matematica che la decisione di Montecitorio sarà dello stesso tenore di quella che verrà comunicata il 20 febbraio a Palazzo Madama e che manderà in soffitta il ricalcolo degli assegni su base contributiva” spiega Luca Di Carlo, avvocato della Staller che assiste altri 97 ex deputati pronti come lei a far causa per il danno che dicono di aver subito nel frattempo. “Alcuni avevano stipulato un mutuo, altri avevano comprato una macchina e si sono ritrovati indebitati. Per questo chiederemo un risarcimento milionario: siamo pronti a denunciare chi ha voluto il ricalcolo dei vitalizi e gli altri che hanno dato esecuzione, a cominciare dal presidente grillino della Camera, Roberto Fico”.

E non è sola la Staller a dissotterrare l’ascia di guerra. L’ex ministro Claudio Scajola, quello della casa del Colosseo pagata a sua insaputa (recentemente condannato per aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena), a lungo deputato di peso di Forza Italia e oggi sindaco di Imperia, s’augura anche lui che le cose vengano rimesse a posto. Precisando di aver fatto ricorso a Montecitorio non certo per ragioni di vil danaro, ma per un nobile principio. “Ho subito una sforbiciata del 20 per cento del mio assegno, ma il problema per me non è questo: scalfire i diritti acquisiti sui quali gli ex deputati avevano organizzato la loro vita è un atto di barbarie. La delegittimazione della politica è un danno per la democrazia: non ci sto!”.

Musica per le orecchie di Ugo Sposetti, ieri alla presentazione dell’archivio storico del Pci di Siena in una sala piena di scaffali e cimeli. E che aspetta il 20 febbraio per brindare alla decisione di Palazzo Madama dove ha maturato un vitalizio da 7.709 euro e 28 centesimi mensili lordi, oggi ridotto a poco più di 5.900. “C’è un giudice a Berlino” esulta dopo aver letto la sentenza ormai scritta e anticipata dal Fatto Quotidiano. Che ripristinerà l’assegno suo e degli oltre 770 ex senatori che come lui hanno fatto ricorso contro il taglio. Sposetti spara a palle incatenate sulle riduzioni: “C’è in ballo il destino del Paese: se l’Italia è una democrazia lo si deve alle migliaia di uomini e donne che hanno lottato e sacrificato la vita. Difendo il mio impegno politico e quello di tanti altri: non vedo perché dobbiamo essere maltrattati così”.

Accusa il colpo anche Francesco Storace, storico esponente della destra missina. Pure lui contesta la mannaia imposta per delibera, ma è fiero di non aver fatto ricorso: “Mi hanno abbassato l’assegno da 4.500 euro a 3.000. Un signor taglio, ma non ho aperto bocca. Anzi, per dirla tutta, quando ero presidente del Lazio ho pure fatto in modo che si potesse rinunciare al vitalizio regionale per impedire il cumulo con quello parlamentare. E questo – aggiunge Storace, oggi direttore del Secolo d’Italia – non perché io non condivida l’istituto del vitalizio in sé, per come era stato concepito originariamente: il fatto è che poi c’è stato chi si è allargato troppo abusando del privilegio e facendo pagare alla politica tutti gli eccessi”. Per questo malinconicamente minimizza i danni. “Ma sì, in fondo va bene così, si campa anche con il vitalizio ridotto”.

Attenzione alta, comunque, e tutta concentrata su quello che accadrà alla Camera. Anche da parte di personaggi di gran nome. Giorgio La Malfa, ex ministro e soprattutto ex segretario del Partito Repubblicano si dice per niente contento del taglio pure se non lo riguarda direttamente. “Ho fatto undici legislature e quindi sono tra quelli che non subiranno sforbiciate. Anzi, per dirla tutta, avrei avuto titolo a fare ricorso perché la delibera non consente di ritoccare in alto gli assegni che, come nel mio caso, con il nuovo metodo contributivo, avrebbero dovuto essere aumentati. Ricorrere”, conclude La Malfa, “avrebbe significato infatti accettare la logica imposta con quella delibera, che considero ingiusta visto che interviene con un taglio retroattivo. Mi farà comunque piacere per gli altri colleghi se sarà eliminato anche se personalmente non ne beneficerò.

Sembra voler invece solo dimenticare l’ex presidente del Partito democratico e della commissione Antimafia, Rosy Bindi: “Il taglio del vitalizio l’ho subito eccome, ma sono anche io tra quelli che non hanno fatto ricorso”, taglia corto. Al contrario di Irene Pivetti, già presidente della Camera per la Lega che fu, e che della riforma in corso parla invece molto volentieri. “Il vitalizio lo prenderò fra circa tre anni”, spiega, “ma se mi si chiede un giudizio sull’aria che tira non mi sottraggo: prendersela con i parlamentari non mi sembra giusto perché incassano meno di altre categorie contando sempre di meno. Diciamo la verità: hanno fatto bene gli ex parlamentari a fare ricorso. Il taglio è una questione da morti di fame: il tema vero non sono i quattro spicci che si risparmiano, ma a cosa serve la politica. Quanto a me, sarei addirittura disponibile a rinunciare all’assegno della Camera. Ma a una condizione: che mi si restituiscano cash i contributi che ho versato”.

Il Cazzatavirus

A metà dicembre quasi tutte le testate di ogni ordine e grado diffusero con sdegno la notizia che, in base al Rapporto Ocse Pisa 2018, appena uno studente italiano su 20 riesce a capire un testo di media complessità. Poi si scoprì che il Rapporto Ocse Pisa diceva tutt’altro: gli studenti in grado di capire un testo di media complessità sono 77 su 100, cioè non uno su 20, ma più di 3 su 4. Il fatto che quasi il 100 per 100 dei media italiani non avesse capito un testo di media complessità come il Rapporto Ocse Pisa dimostrò che il giornalista medio italiano è molto più ciuccio dello studente medio italiano. L’ho sperimentato domenica scorsa, quando la vicedirettrice del Tg La7 mi ha mandato “affanculo” per aver scritto che tutti i detenuti in custodia cautelare sono considerati “presunti innocenti” fino a sentenza definitiva di condanna, dunque “non c’è nulla di scandaloso se un ‘presunto innocente’ è in carcere: è la legge che lo prevede”. Mi aspettavo che qualche giurista o commentatore o giornalista che conosce la differenza fra carcere per custodia cautelare (durante le indagini o il processo) e per espiazione pena (dopo la condanna definitiva), se voleva intervenire anziché tacere per carità di patria, spiegasse alla signora che la mia era un’ovvietà descrittiva di un principio cardine del nostro ordinamento: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna irrevocabile, fra l’altro sempre invocata dai garantisti veri o presunti. Invece tutti, ma proprio tutti quelli che sono intervenuti erano già irrimediabilmente contagiati dal Cazzatavirus: infatti hanno solidarizzato con l’insultatrice anziché con l’insultato.

Nulla di nuovo sotto il sole. Due anni fa, quando scrissi che la legislatura 2013-2018, la peggiore della storia repubblicana per le porcate fatte da quel Parlamento, andava “sciolta nell’acido”. Apriti cielo! La batteria dei twittatori renziani si scatenò a dire che avevo offeso Lucia Annibali (mai citata né pensata mentre scrivevo della legislatura) e a inviarle solidarietà, abbracci e baci. Una scenetta da cabaret. E un modo come un altro per screditare me e il Fatto (i feroci forcaioli che non hanno pietà neppure per le donne sfregiate) e lanciare la candidatura della Annibali, che infatti di lì a poco planò a Montecitorio. Ma ora non c’è neppure un’espressione truculenta (“sciogliere nell’acido”) da processare al tribunale del politicamente corretto: c’è un principio costituzionale e garantista, quello della presunzione di non colpevolezza. Che, con doppio tuffo carpiato con avvitamento, viene trasformato in un rigurgito di giustizialismo, per mettere alla gogna chi l’ha citato.

Mattia Feltri, collega tanto ignaro quanto attivo su questioni giudiziarie, scrive su La Stampa: “Per Bonafede non ci sono innocenti in carcere, e se ci sono, aggiungono i suoi bardi, non è uno scandalo, nonostante un detenuto su tre sia in attesa di giudizio”. Premesso che i “bardi” di Bonafede saremmo noi (ormai si polemizza senza neppure avere il coraggio di specificare con chi), vediamo quante scemenze contiene quella frase. 1) Bonafede non ha mai detto che non ci sono innocenti in carcere, ma che la sua riforma della prescrizione non manda in carcere nessun innocente (né colpevole). 2) Chi spiega cos’ha detto Bonafede non è un “bardo”: è, diversamente da Feltri jr., uno che capisce una frase di senso compiuto pronunciata in un dibattito tv non sui detenuti in attesa di giudizio, ma sulla blocca-prescrizione che incide zero sui detenuti in attesa di giudizio. 3) Io non ho mai scritto che “se ci sono innocenti in carcere non è uno scandalo”: ma che tutti quelli che finiscono in carcere prima della sentenza definitiva sono “presunti innocenti” (inclusi quelli che il reato l’hanno commesso eccome). E questo non è uno scandalo, ma è la prassi in tutto il mondo civile. Non l’ho deciso io: è scritto nella Costituzione e nel Codice di procedura.

Resta un dilemma: essendo la mia frase, oltreché un’ovvietà, un brevissimo testo in lingua italiana di complessità medio-bassa, com’è possibile che tutti i colleghi che l’hanno commentato ne abbiano ribaltato il senso di 180 gradi? Delle tre l’una: o sono vittime del Cazzatavirus; o sono dei mascalzoni in malafede, che attribuiscono cose mai dette a chi vogliono screditare e mettere alla gogna; o sono dei somari in buona fede, rientranti in quel 23% di studenti così impreparati da non comprendere un testo scritto nella propria lingua. Lo stesso dilemma si è riproposto ieri, quando il presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, ha ricordato due ovvietà. 1) Se in futuro, con la blocca-prescrizione, i processi non si prescriveranno più in appello né in Cassazione, le Corti d’appello e di Cassazione dovranno celebrarne di più (i 20-25 mila all’anno che finora si estinguevano con la prescrizione non bloccata). 2) La blocca-prescrizione già produrrà un’“auspicabile riduzione delle pendenze in appello derivante dall’attesa diminuzione delle impugnazioni meramente dilatorie”; ma occorrono anche altre “misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi processuali”. Proprio ciò che propone Bonafede con la riforma del processo penale, bocciata a suo tempo da Salvini e ora incredibilmente congelata da Pd e Iv. Queste parole sono state subito spacciate dai siti dei giornaloni per un “attacco” e un “allarme” contro la blocca-prescrizione: quasi che il presidente della Cassazione si dolesse perché 25 mila processi d’appello all’anno non si prescriveranno più. Ora però questi somari (o mascalzoni) dovrebbero essere coerenti fino in fondo e proporre la loro soluzione finale e risolutiva per accelerare i processi: prescriverli tutti.

A Ferrara uccidono il cardinale vescovo: una pallottola in fronte, in riva al Po

Il cardinale Augusto Previati, vescovo di Ferrara, è un uomo pio e trasparente. Detesta il potere mondano ed è un mistico. Una mattina di luglio viene ritrovato cadavere in riva al Po. Una pallottola in fronte. Il cardinale è stato ammazzato. Aveva appuntamento a mezzanotte con un giornalista, per rivelargli un affare grave e inquietante. Il cronista però arriva in ritardo, trova il cardinale ucciso e sconvolto scappa, non senza aver preso la rivoltella per terra. Si nasconde per una notte e poi corre a bussare alla porta dell’unica persona che si fida. Gaetano De Nittis, un pugliese. È il capitano della Finanza locale. Gli confessa tutto e poi va dai carabinieri a riferire tutto. Ovviamente viene fermato, come unico indiziato. E a quel punto tocca a De Nittis darsi da fare per scagionare l’amico giornalista.

Il capitano è il protagonista di Morte di un cardinale, opera seconda dell’avvocato Paolo Regina. È un giallo classico ambientato nella provincia italiana, dove tutto è pettegolezzo e ipocrisia. A Ferrara, a luglio, c’è un caldo che non lascia scampo e le indagini di De Nittis ufficialmente sono di supporto ai carabinieri. L’omicidio di un cardinale è un evento epocale. Perdipiù il finanziere si trova con una città invasa da banconote false da 50 euro, un altro caso da risolvere. La pista da seguire sembra quella degli intrallazzi di curia, tra affari immobiliari e cooperative per accogliere migranti. Tipo solitario che però si è innamorato della bella Rosa – siciliana emigrata per dimenticare un delusione d’amore – il capitano De Nittis è al centro di una trama ben costruita, senza appesantimenti soverchi, valorizzata dalla nitida scrittura di Regina. Un giallo classico, appunto.

 

Morte di un cardinale – Paolo Regina, Pagine: 221, Prezzo: 16, Editore: Sem