La brama di possesso è nemica della felicità

Sono trent’anni che Roald Dahl non c’è più, ma quando dici La fabbrica di cioccolato, Il GGG e Matilde, da cui registi come Burton e Spielberg hanno tratto film di successo, tutti sanno di chi si parla. Con 250 milioni di copie vendute nel mondo la sua stella continua a brillare. I bambini lo adorano per il linguaggio stravagante e innovativo e lo sentono amico, gli adulti colgono nei suoi racconti più grotteschi, spesso venati di amarezza, un invito a combattere la meschinità umana. Ne L’assaggio, breve novella datata 1945, ora proposto da Donzelli con le grandi illustrazioni del basco Iban Barrenetxea, Dahl immagina sei commensali alla tavola di una raffinata dimora londinese: l’agente di Borsa Mike, proprietario di casa, con la moglie e la figlia diciottenne Louise, un’altra coppia e Richard Pratt, famoso gastronomo, esperto di vini (di cui parla come fossero persone), uomo pieno di sé. Come già accaduto in passato Mike sfida Pratt a riconoscere uno dei vini della sua cantina semplicemente assaggiandolo. La posta in gioco? Altissima: la mano di Louise, impone il borioso gastronomo. Mike accetta, mosso dalla cupidigia. Se Pratt perdesse a Louise andrebbero infatti le sue due dimore. Ma l’avidità, qualunque volto abbia, è la radice di molti mali e Dahl ci sconsiglia di scommettere su ciò che abbiamo di più caro per brama di possesso.

L’assaggio – Roald Dahl, Pagine: 61, Prezzo: 16, Editore Donzelli

L’insospettabile armonia nascosta negli sbudellamenti intergalattici

Prendete qualunque bambino che abbia da poco scoperto la magia del fumetto e consuma penne e matite per cercare di replicare quelle tavole che lo hanno emozionato. Chiedetegli che storie sogna di disegnare. Non risponderà che ambisce a realizzare graphic novel intimisti o raffinate satire sociali. Di solito vi racconterà di una serie infinita di combattimenti tra l’eroe e i suoi nemici. Poi di solito il bambino cresce, cambia gusti, se mai diventa un fumettista si cimenta con generi e trame molto diverse. Johnny Ryan no, diventa un autore piuttosto noto nel mondo underground americano e per nove anni si dedica a una serie che esce ora raccolta in Italia in un gigantesco volume unico da 760 pagine, Prison Pit, per Eris edizioni. Per tutte quelle pagine una specie di guerriero wrestler intergalattico (qualunque cosa sia non è molto rilevante) si dedica a fuggire da un carcere, anche quello intergalattico, dove non sappiamo bene perché è rinchiuso. L’impresa comporta duelli, squartamenti, sbudellamenti, arti mozzati, sangue e fluidi vari sparsi pagina dopo pagina, decine di avversari – intergalattici – smembrati, in una sequenza che perfino a Quentin Tarantino parrebbe un po’ eccessiva. Se cercate una trama o una morale, arrendetevi. Ma Prison Pit ha altre ambizioni, se scorrete le pagine ad alta velocità vedrete questi mostri (intergalattici) muoversi quasi danzando, come in quelle primordiali versioni del cinematografo che si trovano nei musei. Invece di ballerine che piroettano troverete giganti che si massacrano, ma la grandezza di Johnny Ryan è proprio questa, farci scoprire la poesia e l’armonia in un contesto di puro disgusto. Al termine ci si sente frastornati come dopo aver ascoltato quei musicisti che producono musiche ipnotiche suonando su materiali di scarto e bidoni.

Prison Pit – Johnny Ryan, Pagine: 760, Prezzo: 35, Editore: Eris

 

Chi l’ha detto che la Natura è morta?

C’era solo un modo per sciogliere l’inganno di fondo che il genere della natura morta reca con sé ab origine, e che ha creato – quando intorno al Seicento si classificò la pittura per soggetto: storica, sacra, di genere, i paesaggi etc. – una sorta di equivoco secondo cui le nature morte precipitarono giù dalla classifica d’importanza e finirono per arredare le case dei nostri nonni sia sotto forma di dipinti che di riproduzioni. Il (fine) inganno è la mise en scene: fiori e frutta, infatti, non si mettono in posa dentro un vaso o un cesto sul tavolo. Come illustra bene l’esposizione già azzeccata dal titolo Natura in posa (a cura di Francesca Del Torre, Gerlinde Gruber e Sabine Pénot) per dipanare un inganno occorre metterlo in posa e spiegarlo.

Tutto nasce nel Cinquecento quando la rappresentazione dei mercati entra a far parte, insieme alla raffigurazione del cibo, nel novero dei soggetti artistici. All’origine di ciò, troviamo le opere del pittore Pieter Aertsen che disponeva i cibi in primo piano. In Italia (a Venezia), è Francesco Bassano il caposcuola, di cui possiamo ammirare le allegorie delle stagioni in Estate, Autunno e Inverno, che illustrano ciascuna le attività agresti tipiche del periodo, e Scena di mercato che combina dinamicamente cibi, paesaggio, animali e uomini. Capolavoro di palpitante realismo in questo senso è Bue sventrato di Marten Van Cleve. Si passa poi alla rappresentazione degli interni con quel capolavoro di miniature e dettagli che è Il medico di Gerard Dou, e alle classiche tavole imbandite, il cui tema è ovviamente la ricchezza e l’opulenza: in Natura morta con frutta di Gottfried Libalt zucca, pesche e uva riempiono il quadro fino ai bordi; in Natura morta con strumenti musicali, spartiti e libri di Bartolomeo Bettera gli strumenti emergono da tappeti persiani come su un palcoscenico teatrale. Attenzione, però, a cotanta ostentazione. Tutto è fuggevole, come ricordano le immancabili vanitas (nature morte con elementi simbolici sul tema della caducità della vita), qui ben rappresentate da Allegoria della vanità della vita di Nicolaes Van Verendael, in cui un teschio accasciato è il vaso da cui spiccano alcuni fiori avvizziti.

Tuttavia, è solo al secondo piano della mostra dedicato ai maestri della fotografia che tutto diventa chiaro: Negli scatti di LaChapelle o di Mapplethorpe, per quello che Roland Barthes definiva après coup (lo scoppio ritardato dell’amore), si capisce che l’unico desiderio della natura morta è mettere in posa la vita, per renderla immortale. Delle illusioni, la più irresistibile.

Natura in posa – Complesso di Santa Caterina Musei civici di Treviso, fino al 31.5

Visita guidata all’amore nei musei

 

Sono infiniti i luoghi deputati all’amore: spingendo da parte i più canonici che tutti abbiamo frequentato – spiagge nelle notti d’estate, boudoir, sedili posteriori delle auto – o i più stravaganti per gli spiriti ardimentosi – cime dei monti, ascensori o camere con letto a baldacchino –, ne esiste uno cui mai nessuno aveva pensato. Il museo. Tale scoperta è il centro d’attrazione dell’antologia Pezzi da museo. Ventidue collezioni straordinarie nel racconto di grandi scrittori (Sellerio). Attenzione, però! Dell’amore, questo affascinante libro non ha una visione terrena, quanto piuttosto “fantasmatica”, che in qualche modo omaggia Roland Barthes: nel seminario tenuto al Collège de France nel 1977, il semiologo francese definisce infatti fantasme “un ritorno di desideri, di immagini, che vagano ma che restano concomitanti alla coscienza della realtà”. Dunque, i ventidue scrittori che compongono la preziosa collezione curata da Maggie Fergusson – caporedattrice di Intelligent Life, su cui sono apparsi gli articoli-reportage – mostrano come anche nel museo si compia quella scoperta della bellezza dell’altro che è in noi chiamata innamoramento. Per Allison Pears, il Musée Rodin di Parigi è il luogo del cuore, lo stesso del suo primo bacio e dove, a distanza di anni, si è riscoperta innamorata del marito di fronte alla suggestiva statua de Il bacio. Roddy Doyle, voce ironica della classe operaia, a New York snobba il MoMA o il Met e sceglie di raccontare il Tenement Museum, un ex condominio che dal 1863 al 1935 ha accolto settemila di quegli immigrati apostrofati dagli americani con il termine greenhorn (carne fresca, nuove leve, pivelli): un museo di gente comune e delle loro quotidiane storie di immigrazione, disperazione e riscatto. L’inquieto William Boyd, in visita al Leopold Museum nella vecchia Vienna fa rivivere i tormenti di Egon Schiele, suo artista feticcio, messo con spavalderia in sinossi con il filosofo Wittgenstein (come Egon, ascetico e sempre ben rasato), Sigmund Freud e un giovanissimo Adolf Hitler “che viveva in squallidi ostelli e coltivava fantasie paranoiche” in attesa di divenire pittore. Mentre Julian Barnes dà eco ai propri ricordi di adolescente malinconico nel raccontare lo speciale rapporto che ha con la musica nostalgica di Sibelius.

Fuori Helsinki, nelle stanze della casa-museo del coltissimo compositore, Barnes s’innamora della quotidianità familiare che riverbera dalla dimora: la scrivania di quercia russa alla quale l’autore del celebre Valse Triste lavorava, un aggeggio di ghisa che toglie il torsolo alle mele, i mobili verde scintillante della cucina. Niente appartiene a Barnes, eppure tutto gli parla anche di sé. Queste speciali visite guidate d’autore altro non sono, dunque, che dei reportage fuori e dentro l’arte – fuori e dentro la vita – e gettano una nuova luce sul luogo museo. Sia esso l’Abba Museum a Stoccolma o Villa San Michele ad Anacapri, Il Prado a Madrid o l’Opificio delle pietre dure a Firenze, la letteratura incontra l’arte e toglie un po’ di (presunte) polvere e noia da quadri e statue, rivelandoli per quello che sono: l’altro di cui innamorarsi, o meglio, l’altro in cui riconoscersi.

Pezzi da museo – A cura di Maggie Fergusson, Pagine: 270, Prezzo: 16, Editore: Sellerio

Paolo Taviani si dà a Pirandello (Per la prima volta da solo)

Paolo Tavianiè tornato a occuparsi di Luigi Pirandello a oltre trent’anni di distanza da Kaos e Tu ridi, realizzati con suo fratello Vittorio, e ha iniziato a dirigere Leonora Addio, un nuovo film che per la prima volta firmerà da solo dopo la recente scomparsa di Vittorio. L’86enne regista toscano ha ambientato le prime scene ad Agrigento nella casa natale del drammaturgo che scrisse nel 1910 l’omonima novella raccolta in Novelle per un anno dal cui nucleo nascerà in seguito il dramma Questa sera si recita a soggetto.

S’intitola Lucca Mortis il nuovo film di Peter Greenaway con Morgan Freeman protagonista e coproduttore che verrà girato a partire da marzo e sarà interpretato anche da Jessica Lange ed Elena Sofia Ricci. L’attore afroamericano avrà il ruolo di uno scrittore che vive a New York nel quartiere di Little Italy e intraprende con la sua famiglia un viaggio in Italia per visitare Lucca, ricostruire le origini dei suoi antenati e scrivere qualcosa di personale ripercorrendo la sua vita e indagando sul suo passato. Il regista gallese è stato affascinato dalla città toscana dopo varie visite e occasioni di lavoro e ha pensato e annunciato il progetto in occasione di un suo workshop di cinema nell’ambito del Lucca Film Festival.

Greta Ferro, Alessio Lapice, Eugenio Franceschini, Filippo Scicchitano, Jacopo Olmo Antinori e Lorenzo Zurzolo recitano in questi giorni sul set del thriller Weekend, diretto da Riccardo Grandi. Alcuni giovani rimangono bloccati in un rifugio di montagna sul Terminillo durante una tormenta di neve e scoprono che l’unico modo per mettersi in salvo sarà scoprire chi tra loro in passato abbia commesso un terribile crimine. Tra rivelazioni sorprendenti e inaspettate ognuno arriverà a dubitare dell’altro.

 

“A Discovery of Witches”, le streghe non si prendono troppo sul serio

L’incipit è curiosamente simile a un fatto di cronaca di qualche giorno fa. Dalla biblioteca di Oxford è scomparso un libro che tutti vorrebbero possedere: nella realtà si tratta di un frammento del Vangelo di Marco, nella serie di un potente manoscritto stregato. Ma le coincidenze si fermano qui perché la storia raccontata in A Discovery of Witches, in onda su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv, ha poco a che fare con il Vangelo e molto con la magia (la protagonista è una strega orfana di entrambi i genitori: proprio come quel maghetto con gli occhiali tondi…). Nella settimana di Luna Nera, la terza produzione italiana di Netflix disponibile da oggi, Sky decide di non lasciare al rivale il monopolio della stregoneria e porta in Italia questa serie tv britannica del 2018 tratta dalla Trilogia delle anime di Deborah Harkness. I protagonisti sono Diana (Teresa Palmer) e Matthew (Matthew Goode), lei una strega laureata in Storia che rifiuta i suoi poteri e lui un vampiro di 1500 anni che va in giro a bordo di una Tesla. I loro destini si incrociano quando Diana fa riemergere dai polverosi scaffali della Biblioteca Bodleiana il codice Ashmole 782, un tomo disperso da secoli che per le creature magiche riveste una discreta importanza. Pare infatti che le sue pagine contengano il segreto della loro origine e, dunque, della loro sopravvivenza. “Un tempo il mondo era pieno di meraviglie. Adesso appartiene agli esseri umani. Noi creature siamo quasi sparite” recita la voce di Matthew all’inizio di ogni episodio. Già: streghe, vampiri e demoni rischiano l’estinzione e per salvarsi non hanno trovato di meglio da fare che dichiararsi guerra. L’arma più potente per combatterla, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è l’Ashmole 782. A Discovery of Witches è un “fantasy drama a tinte gotiche” (copyright: Sky) che ha il merito di non prendersi troppo sul serio. Così viene più facile perdonare alla serie alcune scelte un po’ scontate, tipo il fatto che vampiri e streghe siano tutti belli bellissimi o la scena di sesso fra i canali di Venezia che apre il secondo episodio. Che poi, lo sanno tutti: per i vampiri il sesso è solo una scusa per mordersi il collo.

 

Caro vecchio pazzo “Re Lear”

Si inizia con una capziosa lusinga e si finisce all’inferno: la piccola bugia si fa veleno, il veleno metastasi e la metastasi ecatombe. Re Lear, ovvero le gare di retorica vanno sempre a finire in tragedia, soprattutto se a disputarle sono lingue lunghe, biforcute e femminili, come quelle delle figlie del sovrano.

Dark, burlesco, espressionista: questa è la versione firmata da Andrea Baracco con uno strepitoso Glauco Mauri – 90 anni il prossimo 1° ottobre – nei panni del protagonista. Il resto lo fa il testo, ché Shakespeare – dicono alle scuole di teatro – sta in piedi da solo, pur strattonato, stravolto, mutilato, riarrangiato, calpestato. Non è questo il caso, anche se la traduzione di Letizia Russo è un po’ spinta, l’adattamento infila a tradimento il monologo di Amleto in bocca a Gloucester (l’intenso Roberto Sturno), i gesti coreografati paiono a volte forzati, i monologhi dei giovani sono spesso gridati e lo spazio è mal gestito. Ma l’allestimento è coerente e regge, e lo spettacolo commuove.

La pazzia di Lear si manifesta a lacrime asciutte, quando il re non è più in grado di piangere. D’altronde il mondo va alla rovescia, e il matto ha sempre ragione (il luciferino Dario Cantarelli): la vecchiaia è stupidità, capriccio, follia, non saggezza; Lear sembra uscito da Aspettando Godot; la sincerità è crudeltà, il potere cecità, gli anziani sono bambini, le donne sterili, le figlie madri del proprio padre. Ci sono “troppe eclissi, non è un buon segno”, profetizzano gli oroscopi: il mondo va davvero alla rovescia e l’umanità dritta nella tempesta, nella lotta di padri contro figli, fratelli e coltelli.

È la terza volta in carriera, per un totale di 500 repliche, che Mauri affronta questa tragedia shakespeariana, dopo gli allestimenti del 1984 e del 1999: “Per tentare di interpretare Lear – confessa il primattore – non servono tanto le doti tecniche quanto la grande ricchezza umana che gli anni mi hanno regalato”. Il suo infatti è un re di rara umanità e dolcezza e qui, proprio dalla cupezza e durezza della messinscena, sboccia la tenerezza, fin la compassione, fin l’amore: di Lear, ma anche di Gloucester e dei suoi figli Edmund (il seduttivo Aleph Viola) ed Edgar (il tormentato Francesco Sferrazza Papa).

Lo spettacolo è alchemico, nera fattucchieria: si è molto tentati di attribuire il merito solo agli attori (oltre ai succitati, i bravi Enzo Curcurù, Linda Gennari, Paolo Lorimer, Francesco Martucci, Laurence Mazzoni, Aurora Peres, Emilia Scarpati Fanetti), ma sarebbe ingeneroso. Il regista ha previsto e orchestrato tutto: “Quello che mi ha sempre colpito di questa tragedia, che è una delle più nere e per certi versi enigmatiche, è che sotto quel nero sembra splendere qualcosa di incredibilmente luminoso e proprio questa luce sepolta dall’ombra la rende così affascinante”. Detto fatto: applausi.

Roma, Teatro Eliseo, fino a domenica.  Re Lear – con Glauco Mauri e Roberto Sturno, Andrea Baracco

Ben poco resterà di questi nostri “anni più belli”

Dal 1980 a oggi, dall’adolescenza alla maturità, passando per eventi epocali (Caduta del Muro, 11 settembre 2001), fatti politici (Tangentopoli, la discesa in campo di Berlusconi, il cambiamento del pure innominato M5S) e sintassi sentimentale: che cosa resterà di questi quarant’anni? L’amicizia, quella di Giulio (Pierfrancesco Favino), figlio di carrozziere e avvocato rampante; Gemma (Micaela Ramazzotti), orfana e appassionata; Paolo (Kim Rossi Stuart), perdutamente innamorato di Gemma e votato all’insegnamento; Riccardo (Claudio Santamaria), alias Sopravvissù, wannabe critico cinematografico. Amicizia, di più, amore, e il regista e co-sceneggiatore Gabriele Muccino inquadrandone Gli anni più belli si volge colà dove si puote, ovvero all’Ettore Scola di C’eravamo tanto amati, di cui ha voluto il produttore Marco Belardi acquisisse i diritti: apprezzabile l’ossequio, ma non ce n’era bisogno.

Al dodicesimo lungometraggio, Muccino conferma alcune innegabili virtù, a partire dalla direzione degli attori: Favino, Rossi Stuart e Santamaria su discreti livelli, la new entry Emma Marrone diligente, splendida e splendente Micaela Ramazzotti, seppure in un ruolo non inedito e perfino riduttivo. Ma se già sull’abituale facilità e felicità di regia stavolta si può eccepire, la recrudescenza dei difetti del muccinismo dà nell’occhio. Anziché “il mio film più epico” come vorrebbe il suo autore, Gli anni più belli è piccolo: scene di massa al lumicino e comunque scorciate, i protagonisti sovente soli, Roma parcellizzata in inquadrature ravvicinate ovvero produttivamente povere, la sensazione è poeticamente e stilisticamente di un soliloquio a quattro voci, di cui i macro-eventi (dal Muro all’11/9) provvedono un’incongrua e straniante punteggiatura. Poi, non latitano approssimazioni e sciatterie, dalle figlie (Nicoletta Romanoff) che fanno compagnia sul banco ai padri imputati al sommario giornalistico che termina col punto, eppure sono inezie dinanzi al basso continuo del film: urla e, a controbilanciare, dialoghi non intelligibili, romanesco fuori tempo massimo “pe’ nun sape’ né legge’ né scrive’” e riflessioni esistenziali per modo di dire. Insomma, saranno pure gli anni più belli, ma i 129 minuti chiamati a condensarli la bellezza, a braccetto con morigeratezza ed eleganza, se la dimenticano spesso.

Rimane impresso l’abbandono senza condizioni della Ramazzotti, la tenerezza che fa il poverocristo Rossi Stuart, le musiche totalizzanti di Nicola Piovani, ma manca il respiro, l’afflato e la prospettiva dell’intesa grandezza, non si ravvisano le economie di scala, né di Scola: Muccino si riscopre più piccolo, ché se A casa tutti bene non si può affrontare la Storia, a meno di non volerne fare post-it, con due camere e tinello, pardon, studio. Dal 13 febbraio in sala, basterà il richiamo di Favino, la generosità della Ramazzotti e il brand Muccino a fare gli incassi più belli al botteghino?

 

“La noia” non muore, “Narciso” ha già 90 anni

Capita di trovarli in libreria con un look rinnovato: copertine lucide, pagine fresche di stampa. Si mescolano alle novità di stagione per non mostrare le rughe. Vantano sì un’eterna giovinezza tra gli scaffali ma hanno superato gli anta. Il 2020 vede alcuni classici del Novecento festeggiare compleanni tondi con un arsenale di candeline sulla torta.

Ci sono autentici vegliardi di carta che arrivano al giro di boa del secolo di vita. Come L’età dell’innocenza di Edith Wharton, uscito nel 1920 (prima edizione italiana nel 1960) e che l’anno successivo si aggiudicherà, prima volta per una donna, il Pulitzer. Critica feroce del mondo chiuso e convenzionale dell’alta borghesia di New York della fine dell’Ottocento, il romanzo è stato portato magistralmente al cinema da Martin Scorsese. Dieci anni più tardi, nel 1930, uscivano in edizione originale il primo volume di L’uomo senza qualità di Robert Musil e Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse. Destino singolare per questi due libri novantenni: il primo uno dei vertici del Novecento, allineato ai capolavori di Proust e di Joyce, ha tanti lettori quanto gli occupanti di una cabina telefonica, mentre il secondo, brutalizzato dalla critica come “dorata melassa”, resta un romanzo di culto generazionale sul valore dell’amicizia. La storia del monaco Narciso e dell’artista Boccadoro è dalla sua uscita una specie di prontuario esistenziale per milioni di giovani. Altro novantenne di rango è Mentre morivo del premio Nobel William Faulkner, romanzo complesso per stile e tecnica narrativa che racconta il viaggio, tra rancori e tensioni, di un padre e i suoi figli verso il luogo di sepoltura della madre.

Ottanta anni fa, nel 1940, intonavano i loro primi vagiti Il deserto dei Tartari e Per chi suona la campana. “Kafkiana” è stata definita la lunga e vana attesa dell’ufficiale Giovanni Drogo nel luogo di confine della Fortezza Bastiani. I nemici, nel romanzo di Buzzati, non busseranno mai alla porta. Al contrario di ciò che avviene nelle pagine di Hemingway. Qui il corrispondente americano Robert si trova dentro la Guerra civile spagnola e sperimenta tutto l’orrore di cui sono capaci gli uomini. Sempre nel 1940 esce un testo memorabile che illumina un altro angolo di Storia, quello delle purghe staliniane, con il racconto della detenzione e degli interrogatori di un membro del Partito comunista sovietico: Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler. Ottanta primavere sulle spalle anche per Il potere e la gloria di Graham Greene, che provocò scandalo per le vicende di un sacerdote peccatore, alcolizzato e padre, nel Messico della persecuzione anticattolica. Pare fu Montini, futuro Papa Paolo VI, a salvarlo dai fulmini del Sant’Uffizio.

Se è vero che Cesare Pavese si toglieva la vita 70 anni fa, è altrettanto vero che nel 1950, quattro mesi prima del tragico gesto, dava alle stampe La luna e i falò, romanzo struggente sulle radici e la perdita delle illusioni attraverso i ricordi di Anguilla, tornato emigrante dall’America nelle Langhe, sua terra d’origine.

Sessantenni sempre sulla cresta dell’onda i nati di carta del 1960. A cominciare da Il buio oltre la siepe di Harper Lee, lettura elettiva contro l’intolleranza e il razzismo. Non si fa dimenticare il coraggio e la limpidezza morale dell’avvocato Atticus nel difendere, nell’Alabama degli Anni 30, un bracciante nero ingiustamente accusato di violenze sessuali nei confronti di una ragazza bianca. Due romanzi italiani raccontano l’amore da prospettive diverse: con uno ci si commuove per la purezza del sentimento, con l’altro si resta storditi dall’ambiguità. Uno è il premio Strega di quell’anno, La ragazza di Bube di Carlo Cassola. La storia d’amore tra Mara e il partigiano Bube fu uno dei più clamorosi bestseller del dopoguerra e un affresco non retorico sulla Resistenza e per questo oggetto a suo tempo di aspre polemiche. L’altro è La noia di Alberto Moravia: incomunicabilità, sesso e corruzione morale nella relazione tormentata e impossibile tra il pittore Dino e la sua amante Cecilia.

Mezzo secolo lo festeggiano due romanzi Usa fatti a pezzi dalla critica ma amatissimi dal pubblico. Conquistarono i lettori, nel 1970, le peripezie di volo e il percorso di formazione tra le nuvole di Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach. Spinto anche dal boom al cinema, ecco il trionfo di Love Story di Erich Segal, storia d’amore dal finale tragico tra lo studente benestante Oliver e l’italoamericana Jennifer, vinta da una leucemia fulminante. In questo 2020 festeggia i suoi primi 40 anni Il nome della rosa del compianto Umberto Eco, che si aggiudicherà nel 1981 il premio Strega. I misteriosi omicidi di monaci in un’abbazia del Medioevo portarono il semiologo ai vertici delle classiche di mezzo mondo. Nello stesso anno, nel 1980, usciva pressoché ignorato Un filo di fumo di Andrea Camilleri, romanzo storico ambientato per la prima volta in quella immaginaria Vigata che sarà tanto cara ai futuri lettori di Montalbano.

I Reali e i tabloid: Harry perde il primo round col Daily Mail

Il primo round della guerra fra Harry e i tabloid britannici lo vince la stampa, e a dirlo è l’organo garante del rispetto degli standard giornalistici, a cui Harry si era appellato lo scorso anno. La decisione è la numero 05942-19, HRH The Duke of Sussex V The Mail on Sunday dell’Ipso, l’Independent Press Standards Organisation: il tabloid non ha violato gli standard di accuratezza, non c’erano gli estremi per un reclamo formale. Il caso: a fine aprile 2019 l’edizione domenicale del Daily Mail pubblica un articolo dal titolo: “Drogato e legato… tutto quello che Harry non vi ha detto su queste immagini naturalistiche mozzafiato”. Che poi sarebbero una serie di foto di rinoceronti, elefanti e altra fauna africana postate sul profilo Instagram del Duca di Sussex. Una delle foto è tagliata in modo da non mostrare che le zampe di un elefante sono legate. Il Mail lo rivela, Harry si appella all’Ipso: secondo lui, il tabloid implica che sia in malafede. Gli va male: il comitato decreta che “non è fuorviante scrivere che le foto postate non raccontavano tutta la storia”. Il Mail gongola, perché vive di gossip, ma secondo i più alti standard di accuratezza. Harry è in Canada, dove ha raggiunto la moglie Meghan e il figlio Archie da uomo libero, o meglio liberato dagli obblighi formali della famiglia reale dopo che la regina Elisabetta, a malincuore, ha preferito liberarsene piuttosto che ritrovarsi con un nemico a palazzo. La pronuncia di Ipso è un precedente non incoraggiante: proprio contro il Mail, Meghan ha una causa aperta per violazione del copyright, della sua privacy e della legge sulla protezione dei dati personali per la pubblicazione di una sua lettera privata al padre Thomas, che intanto continua a farsi pagare per parlare malissimo di lei. Causa che rischia di finire in tribunale, con probabile lavaggio pubblico di panni sporchi, benché aristocratici.