Pedofilia, Barbarin è assolto: “Non toccava a lui denunciare”

Il cardinale Philippe Barbarin si è rimesso per la seconda volta nelle mani di papa Francesco. Lo aveva fatto già lo scorso marzo, dopo la condanna in prima istanza a sei mesi di reclusione (con la condizionale) per non aver denunciato gli abusi che il prete pedofilo Bernard Preynat ha commesso su decine di giovani scout dal 1971 al 1991. All’epoca il potente arcivescovo di Lione, in attesa del processo in appello, aveva incontrato il papa in Vaticano rimettendogli le sue dimissioni. Ma Bergoglio le aveva rifiutate lasciandolo libero di decidere sul da farsi.

Il prelato si era quindi ritirato nell’attesa della fine della procedura contro di lui. E la sentenza in appello che aspettava è arrivata ieri: è stato assolto. “È tempo di voltare pagina per me e per la chiesa di Lione”, ha detto il cardinale parlando per pochi minuti nei locali della diocesi di Lione. Quindi l’appello al papa: “Sono pronto, se vuole ricevermi”.

I giudici di Lione, annullando la sentenza del 7 marzo scorso, hanno scagionato il cardinale da ogni reato. Ma se Barbarin è colpevole o innocente lo deciderà a titolo definitivo la Corte di cassazione. Per le vittime di padre Preynat – anche lui in attesa di giudizio – la sentenza di ieri è molto più di una delusione: “Continueremo per la nostra strada. È un modello di società che è in discussione e oggi abbiamo constatato che la società non è all’altezza della gravità di questo flagello e delle sue conseguenze”, ha detto a France Info François Devaux, che subì gli abusi di Preynat quando aveva 11 anni. Con l’associazione La Parole Libérée, che ha cofondato nel 2015, ha deciso di fare ricorso. Durante il processo, a novembre, Barbarin, 69 anni, aveva riconosciuto di “aver sentito parlare” dei comportamenti molesti del père Preynat sin dal 2007. Nel 2010 lo aveva anche convocato e il prete aveva assicurato che dal 1991 aveva smesso di molestare i giovani scout: “Perché mi viene rimproverato di avergli creduto?”, aveva detto Barbarin ai giudici, aggiungendo: “Non riesco proprio a capire di cosa sarei colpevole”. A fine processo il pubblico ministero aveva chiesto per lui l’assoluzione, sostenendo che bisogna distinguere tra il “caso singolo” e “le colpe morali e penali commesse dalla Chiesa” di fronte alla pedofilia dei preti. I magistrati ieri hanno condiviso questa posizione, ma anche avanzato un altro argomento: non si può parlare di “omessa denuncia di aggressioni sessuali” perché il cardinale non era tenuto a denunciare i fatti al posto delle vittime. Per i giudici cioè Barbarin non ha commesso nessun reato decidendo di non agire quando, nel 2014, Alexandre Hezer, che poi sollevò lo scandalo nel 2015, gli andò a rivelare gli abusi sessuali subiti da Preynat negli anni 80 quando era bambino. Per Emmanuelle Haziza, avvocato di Pierre-Emmanuel Germain-Thill, anche lui vittima di Preynat quando aveva 9 anni, la sentenza dimostra “la scarsa conoscenza della psicologia traumatica delle vittime d’aggressione sessuale”. Si è invece mostrato soddisfatto Jean-Félix Luciani, legale di Barbarin: “Il cardinale ha fatto degli errori. La Chiesa anche ha le sue colpe. Ma lui non incarna la Chiesa. L’ingiustizia è riparata”.

Ora Barbarin, pulito da ogni accusa, è pronto a rimettere di nuovo le sue dimissioni al papa. Per le vittime di Preynat la strada è ancora lunga. Prima della cassazione, un’altra data è importante: il 16 marzo, giorno in cui i giudici di Lione dovranno rendere nota la sentenza su Bernard Preynat, che rischia fino a 10 anni di prigione. L’ex prete è comparso davanti ai magistrati, e a decine delle sue vittime, il 15 gennaio scorso, riconoscendo la maggior parte dei crimini di cui è accusato. Preynat ha ammesso che per vent’anni, mentre era parroco di Sainte-Foy-les-Lyons, ha abusato di decine di bambini tra i 7 e 15 anni, nei locali della chiesa e durante i campi scout. “Fino a cinque bambini a settimana”, ha detto. La chiesa di Lione sapeva da tempo, ma solo nel 2015 il prete è stato allontanato dalla parrocchia e solo nel 2019 gli sono stati tolti i voti.

Israele e le annessioni Fratelli arabi addio, più di Allah contano i dollari

Il via vai nella Muqata di Ramallah, in Cisgiordania, è quello delle grandi occasioni, il momento appare a tutti estremamente delicato. La piazza palestinese appare invece stanca, demotivata, poco incline a seguire i suoi leader. Abu Mazen, più raìs che presidente vista la sua svolta autoritaria in ambito interno, sente che la possibilità di uno Stato palestinese al fianco di Israele sta rapidamente scivolando via, come la sabbia dalla mano. Perché il piano mediorientale del presidente americano Donald Trump priva i palestinesi di quasi tutto ciò per cui si stavano battendo: Gerusalemme Est come capitale, la rimozione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, la contiguità territoriale, il controllo sui propri confini e la sicurezza che uno stato sovrano normalmente gode.

A Gaza la piazza appare più combattiva di Ramallah, galvanizzata da Hamas e dalla Jihad islamica. Ismail Haniyeh, capo di Hamas nella Striscia, dopo anni di insulti e scontri, ha addirittura telefonato al presidente palestinese offrendogli di fare fronte comune contro il Piano Usa. “Siamo certi che il nostro popolo non lascerà passare queste cospirazioni, tutte le opzioni sono aperte”, tuona Khalil al-Hayya, dirigente di Hamas. Gli fa eco un alto funzionario della Jihad islamica nella Striscia di Gaza, Khader Habib, col popolo “pronto a versare il sangue”. Ma è una guerra di parole.

Senza i 30 milioni di dollari donati dal Qatar che Israele fa passare ogni mese per pagare stipendi e approvvigionamenti – in cambio di uno stop ai missili – Gaza rimarrebbe alla fame e alla sete in un paio di settimane. Hamas che controlla la Striscia da 13 anni difficilmente andrà allo scontro quando sta discutendo da mesi di una hudna, una tregua di lungo termine, con Israele.

La misura più immediata che molti palestinesi vogliono a Ramallah è la fine della cooperazione di sicurezza israelo-palestinese, che vedono come una collaborazione con il nemico. Abu Mazen ha minacciato in diverse occasioni di annullare gli accordi con Israele, compresi quelli di Oslo del 1993. I due governi lavorano insieme su questioni che vanno dall’acqua alla sicurezza e il ritiro dagli accordi potrebbe avere un impatto sulla tenuta sociale in Cisgiordania. Il capo dell’Anp ha resistito finora perché il lavoro di squadra con Israele aiuta anche a tenere a bada Hamas in Cisgiordania, garantendo la sua sopravvivenza. Dimitri Diliani, membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah, riassume lo stato d’animo della gente per strada e si chiede: “Dobbiamo prima risolvere i nostri problemi con Abu Mazen? Oppure con Israele?”. Già, perché i critici del presidente notano che sta entrando nel sedicesimo anno di quello che doveva essere un mandato di quattro anni.

La disillusione è anche figlia delle tiepide reazioni degli altri Fratelli Arabi. Re Abdallah di Giordania si è incontrato con Abu Mazen a Amman, ma del colloquio non è uscita una parola. Ha parlato il ministro degli Esteri di Casa Reale Ayman Safadi, che ha messo in guardia contro qualsiasi “annessione israeliana di terre palestinesi” e ha ribadito il suo impegno per la creazione di uno stato palestinese lungo le linee del 1967. Parole caute, influenzate dai 2 miliardi dollari di aiuti Usa senza i quali il regno hashemita affonderebbe. Ambigua la reazione dell’Egitto, da sempre il “padrino” della causa palestinese. Anche il presidente Fattah al Sisi si è affidato al suo ministro degli Esteri che ha invitato Israele e i palestinesi “a fare un attento e approfondito esame della visione degli Stati Uniti per raggiungere la pace”. Il Cairo apprezza gli sforzi dell’Amministrazione Usa per cercare di risolvere il conflitto decennale, anche per via dei 3,7 miliardi di dollari di aiuti Usa l’anno. Parlando alla tv palestinese prima di intraprendere il suo tour diplomatico Abu Mazen – che sarà al Cairo domani per un vertice straordinario della Lega Araba – ha invece detto di aver sentito “promettenti reazioni internazionali”. Ma per l’Arabia Saudita e l’Oman quella di Trump “è una proposta nuova, interessante”, posizione condivisa da Bahrain e Qatar e per gli Emirati Arabi Uniti è un “importante punto di partenza” per i colloqui di pace.

Vista l’atmosfera tiepida nella regione, Abu Mazen ha deciso di andare alle Nazioni Unite, entro due settimane per rivolgersi al Consiglio di sicurezza e motivare il suo netto rifiuto al piano Usa. Nel frattempo la Tunisia – membro di turno nel Consiglio di Sicurezza – sta mettendo a punto una bozza di risoluzione da portare ai voti. In caso di voto gli Usa certamente porranno il veto al testo, ma non possono impedire ai palestinesi di portare la risoluzione all’Assemblea Generale Onu con i 193 membri, dove un voto palese mostrerebbe lo scarso credito del piano di pace di Trump. L’Assemblea tenne una sessione speciale nel dicembre 2017, su richiesta dei Paesi arabi e musulmani, sulla decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Allora l’Assemblea adottò una risoluzione che chiedeva il ritiro della dichiarazione di Trump: 128 Paesi la appoggiarono, 9 votarono contro, 35 si astennero. Trump aveva minacciato di tagliare gli aiuti ai Paesi che avrebbero votato a favore. Lo stesso messaggio che la Casa Bianca sta mandando ora ai beneficiari degli aiuti economici in Medio Oriente, specie a Egitto e Giordania. Ieri 18 feriti nelle proteste in Cisgiordania. Oggi la polizia israeliana rafforzerà i controlli sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme.

L’europa si opponga alla neo-apartheid

Prima o poi il principio di realtà doveva prevalere: proclamata solennemente dall’Onu 46 anni fa, la formula che avrebbe pacificato il Medio Oriente – “Due Stati-Due popoli” – si sarebbe rivelata caduca e improponibile, sommersa dalla forza delle armi e dai fatti creati sul terreno. Chiunque abbia visitato i territori occupati, o abbia solo adocchiato una mappa, poteva rendersene conto da anni: è inverosimile un funzionante Stato palestinese su una terra disseminata di colonie israeliane a macchia di leopardo. Fra il 1967 e il 2017, gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono saliti a circa 200, abitati da circa 620.000 israeliani, protetti dai soldati della madre patria e cittadini israeliani a tutti gli effetti. I palestinesi sono circa 3 milioni. I due popoli sono in conflitto costante. L’accesso alle singole colonie avviene attraverso posti di blocco simili ai checkpoint lungo i confini di Israele.

Eludendo le risoluzioni Onu, il Piano Trump – congegnato da Jared Kushner, genero e consigliere presidenziale – fotografa l’esistente e costruisce su di esso una “visione” che più ingannevole non potrebbe essere: ai palestinesi sarà concesso di chiamarsi Stato – si assicura nelle 181 pagine del Piano – ma a condizione che mai diventi uno Stato autentico. Non saranno edificate altre colonie, ma nessuna delle esistenti sarà smantellata o assoggettata al nuovo Stato: resteranno parte di Israele e connesse a esso tramite esclusive vie di trasporto controllate dalla potenza occupante (anche oggi è così: comode autostrade per israeliani; strade più lunghe e impervie per i nativi). Israele avrà la sovranità militare sull’intera area palestinese, controllerà lo spazio aereo a ovest del Giordano e a quello aereo-marittimo di Gaza, nonché i confini dal nuovo Stato. Le risorse naturali saranno cogestite.

Tale sarà dunque la futura Palestina: una riserva per pellerossa, un Bantustan. Non uno Stato con qualche enclave israeliana chiamata a rispondere almeno amministrativamente alla Palestina, ma una serie di enclave palestinesi incuneate nella Grande Israele. Non si sa con quali mezzi bellici Gaza sarà disarmata e le sue ribellioni sedate.

A ciò si aggiunga che la valle del Giordano sarà comunque annessa da Israele “per motivi di sicurezza”, come annunciato recentemente da Netanyahu nonché dal suo “grande avversario” Benny Gantz, suo sosia almeno per il momento.

Quando parla di Stato palestinese, Trump mente sapendo di mentire, e con un proposito preciso. Una volta appurato che i due Stati in senso classico non sono più realisticamente praticabili, la formula da aggirare a ogni costo è quella che sta mettendo radici nel popolo palestinese e in un certo numero di israeliani (a cominciare dagli arabi israeliani): il possibile Stato bi-nazionale, dove i due popoli convivano in pace e i suoi cittadini alla fine si contino democraticamente. Se dovesse nascere uno Stato unitario israelo-palestinese (federale o confederale), due sono infatti le vie: o uno Stato ebraico stile bianca Sudafrica, non democratico visto che una parte della popolazione vivrebbe senza diritti in apartheid, oppure Israele resterà democratica ma in tal caso verrà prima o poi e legalmente reclamata la regola aurea della democrazia, consistente nel voto eguale per ciascun cittadino: un uomo, un voto.

Israele sarebbe costretta a modificare la propria natura etnico-religiosa (suggellata nel maggio ’17 con una legge che degrada la lingua araba a lingua non ufficiale con statuto speciale). Sarebbe uno Stato ebraico e anche palestinese, non più scheggia americana come temeva Hannah Arendt. Un crescente numero di palestinesi, un certo numero di israeliani e parte della diaspora ebraica considera che “Due Stati-Due popoli” sia un treno ormai passato, e che l’unica prospettiva realistica – anche per superare l’ostilità iraniana – sia lo Stato bi-nazionale. Una soluzione certo delicatissima: non solo perché muterebbe demograficamente lo Stato ebraico, ma perché la trasformazione presuppone una pace duratura fra le due parti. L’Unione europea fu pensata durante l’ultima guerra mondiale ma vide la luce dopo la riconciliazione Germania-Francia. Non siamo a questo punto in Medio Oriente.

Il Piano Trump non aspira a tale riconciliazione. Promette nuove intifade e guerre. Destabilizza la Giordania, chiamata ad assorbire buona parte dei profughi palestinesi di stanza in Israele, e getta nell’imbarazzo Egitto e forse Arabia saudita.

Il piano inoltre contiene vere provocazioni, negando perfino il diritto del futuro Stato a fare appello alle istituzioni internazionali tra cui la Corte penale internazionale. Viene vietato ai suoi cittadini di rivolgersi a qualsiasi organizzazione internazionale senza il consenso dello Stato di Israele, ed è bandito qualsiasi provvedimento, futuro o pendente, che metta in causa “Israele o gli Usa di fronte alla Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia o qualsiasi altro tribunale”.

In tutti i modi, infine, si evita di accrescere il peso numerico-elettorale degli arabi israeliani (in crescita, nelle ultime elezioni). Il piano prevede che gran parte delle comunità palestinesi abitanti in Israele – il cosiddetto “triangolo” – sia assegnata al semi-Stato palestinese o altri Stati arabi. Gli arabi israeliani diminuirebbero. Avigdor Lieberman, leader dei nazionalisti di Beiteinu, propose tale trasferimento già nel 2004, avversato dalle sinistre israeliane e dagli arabi israeliani.

Il giornalista Gideon Levy sostiene che Trump ha in mente una nuova Nakba (la “catastrofe” di 700.000 Palestinesi sfollati nel 1948). Mai consultati né convocati, i palestinesi sono stati messi davanti al fatto compiuto alla pari di reietti. In cambio riceveranno croste di pane allettanti (miliardi di dollari, versati da non si sa quali Stati arabi).

Questa pace dei vincitori dovrebbe essere respinta dagli Stati europei, non solo a parole. Non limitandosi a ripetere “Due Stati-Due popoli”, mantra svigorito e ora accaparrato/pervertito da Trump. Bensì difendendo le leggi internazionali e rifiutando di considerare come antisemitismo ogni critica dell’occupazione israeliana (la definizione IHRA dell’antisemitismo, approvata dal Parlamento europeo oltre che dal governo Conte il 17 gennaio scorso). Facendo proprie le parole del nipote di Mandela, Zwelivelile, durante una recente visita a Gerusalemme: “Le enclave Bantustan non funzionarono in Sud Africa e non funzioneranno mai nell’Israele dell’apartheid”.

“Non solo emergenza docenti: gli studenti saranno al centro”

Chi è dentro la scuola la conosceva già: auricolare sempre attivo, da deputata Lucia Azzolina rispondeva a chi le scriveva dalla sua pagina Facebook. Le sue idee erano chiare: riduzione del numero di studenti per classe, meritocrazia nell’accesso all’insegnamento (leggi più concorsi e meno ricorsi) e la necessità di mettere “gli studenti al centro”. La scommessa della neo ministra dell’Istruzione (Ricerca e Università sono convogliati in un altro ministero) sarà mantenere quelle idee ora che ha preso il posto del dimissionario Lorenzo Fioramonti che, dice, “ha sprecato una grande occasione”.

Ministra, ieri ha annunciato su Facebook le materie della maturità e ha iniziato da quelle degli istituti professionali. Perché?

Voglio parlare direttamente con gli studenti, utilizzare mezzi e linguaggi vicini a loro. E che sia chiaro che non esistono scuole di serie B. È un messaggio: gli studenti meritano tutti la stessa attenzione e vanno messi al centro del sistema scolastico.

Non è stato così?

Il ministero dell’Istruzione affronta da sempre troppe emergenze sui docenti. Sacrosante. Ma così si perdono di vista gli studenti.

Da deputata ha presentato una proposta di legge per ridurre il numero di studenti per classe. Ora che è ministra lo farà davvero?

So per esperienza che è difficile lavorare in classi di 28-30 persone, ancora di più se ci sono ragazzi con disabilità o bisogni educativi speciali. Ci sono norme molto belle che prevedono la personalizzazione dell’insegnamento in base all’alunno, ma insegnare in trenta modi diversi è difficile. È chiaro che non è una misura immediatamente realizzabile, ma si può iniziare. Ho inserito nel Milleproroghe l’obbligo di non avere più di 20 studenti in una classe in cui ci siano disabili, spero il Parlamento condivida. Un primo passo verso la totale abolizione delle classi pollaio, per cui serve tempo.

Che ostacoli vede?

La proposta è stata accolta in maniera trasversale, l’ostacolo principale riguarda le risorse per realizzarla così come l’avevo pensata. Però voglio essere ottimista, non si può ottenere tutto e subito, sarebbe sciocco crederlo.

Il suo predecessore si è dimesso perché non gliel’hanno date, le risorse…

Ha perso una occasione enorme, non tutti i giorni la vita ti dà la possibilità di essere ministro dell’Istruzione, di formare le generazioni. Lo dico con rammarico. Se vuoi migliorare la scuola e dare una mano lo fai meglio da deputato o da ministro? Poi, governare un ministero significa avere concretezza, stare qui dalla mattina alla sera, all’inizio anche 20 ore al giorno. È fondamentale. Prima lavori, poi fai gli annunci, se c’è qualcosa da annunciare. La cosa positiva è che l’istruzione è stata portata al centro del dibattito.

Ma i soldi mancano, però…

Stare qui ti permette di aprire tanti cassetti e vedere cosa è stato speso e cosa no. Lo sto facendo, ci sono molte risorse inutilizzate e soldi dell’Ue che tornano indietro. Formeremo il personale e i docenti per farlo.

A quanto ammontano queste risorse?

Non lo sappiamo ancora. Appena ultimerò i conti, lo dirò. È chiaro che serviranno maggiori risorse, non lo nascondo. So però che prima di volere cose in più, bisogna vedere quello che hai e come lo spendi. Poi si cerca il resto. Altrimenti si è facilmente attaccabili. Ma sono anche fiduciosa che questo governo investirà sull’istruzione.

Sa che ci sono ancora proteste da parte dei maestri diplomati “licenziati” dopo la sentenza del Consiglio di Stato?

Sì. Già nel decreto Dignità avevamo previsto un concorso straordinario. Chi l’ha fatto è entrato in graduatoria e la maggior parte è passata di ruolo. Chi non aveva i requisiti potrà partecipare a quello ordinario per la primaria che spero di bandire a febbraio. Inoltre avrebbero potuto fare anche quello del 2016. Insomma, tre concorsi in quattro anni credo siano abbastanza.

E sulle intramontabili Graduatorie a esaurimento in cui da anni sono i docenti abilitati?

Resteranno chiuse, si chiamano così per un motivo. Il mio obiettivo è assumere le persone, non farle entrare in una graduatoria e chissà quando verranno assunte. Per velocizzare il tutto faremo una call regionale.

Cioè?

Per i posti rimasti scoperti e senza docenti di ruolo, cosa che accade soprattutto al Nord, gli uffici scolastici regionali faranno una call veloce e saranno messi a bando in pochi giorni. Sarà volontario, non ci sarà un obbligo.

Ricorda l’autonomia scolastica di Bussetti…

Nulla a che fare. Chi andrà in quella regione resterà dipendente dello Stato italiano.


Ieri i sindacati hanno annunciato mobilitazioni. Che succede?

So solo che i bandi per assumere gli insegnanti sono praticamente pronti. Quello di ieri era un tavolo tecnico in cui avevamo accolto gran parte delle richieste. Ho letto con sorpresa della minaccia di mobilitazione.


È stata accusata di aver copiato la tesi di fine corso della Ssis, la scuola per l’abilitazione all’insegnamento. È vero?

Non ho copiato. Quelle erano definizioni mediche e aspetto ancora delle scuse. Ho ricevuto centinaia di messaggi da chi ha fatto la Ssis. Chi ha esagerato, su questa vicenda, ne risponderà nelle forme e nei modi previsti dalla legge.


Quello delle scuole per le abilitazioni è una questione annosa per la formazione.

Voglio cambiare l’iter: lauree triennali uguali per tutti, ma laurea specialistica abilitante per l’insegnamento. Gli universitari potranno scegliere da giovani di fare l’insegnante come per tutte le altre professioni. Ci lavoreremo con il ministero dell’Università.

Ma insomma ’sta Brexit alla fine non era niente di che…

Così stasera, a tre anni e mezzo dal referendum, ci sarà la Brexit, anche se da ieri – dopo aver letto i giornali – non pare essere ’sta gran cosa: pagine interne, toni moderati… Repubblica ha una pagina “Brexit. Cosa cambia”. Il CorSera, invece, ci spiega che “non sono mai stati europei” (e allora?). Il Messaggero: “Bruxelles: addio agli inglesi, nuovi equilibri in Parlamento”. Il Sole: “Brexit, il terremoto che cambia i rapporti di forza nella Ue”. La Stampa è l’unica un po’ battagliera: “Effetto Brexit: Londra vieta il suo mare alla pesca Ue”. Per carità, se vogliono metterla così va bene, ma a noi piaceva di più la fase psichedelica: “Brexit svuota la tavola degli inglesi”, “Carenza di medicine”, “Brexodus: aziende e banche in fuga”, “le banche via: choc da 1.300 miliardi”. Questa cosa delle banche, un classico da oltre tre anni, fu l’occasione della mitica missione londinese Alfano-Padoan-Maroni-Sala per invitare la “City” a spostarsi a Milano insieme all’Agenzia del farmaco (vabbè…). Citiamo su questo, per puro dovere di cronaca, un pezzo di Reuters di qualche giorno fa: “Un migliaio di società finanziarie Ue pianificano l’apertura di una sede nel Regno Unito dopo la Brexit”. Ora, la vita è difficile, la geopolitica di più, il destino incerto e la cazzata sempre in agguato, ma non è questo il punto. Noi siamo stilisti e – diceva il grande Contini – “in quanto tali a-tematici”: il merito non ci interessa, solo la coerenza artistica. Quindi domani speriamo di leggere da qualche parte il titolo: “La Gran Bretagna è affondata nell’Atlantico”.

La Memoria usata come scudo umano per il cemento

“Non siamo disposti a barattare la Memoria con il Verde e la Salute”. Così scriveranno i cittadini del comitato Baiamonti Verde Comune in una lettera che manderanno all’Anpi, l’associazione nazionale partigiani d’Italia. Il comitato si è costituito per difendere quello che chiamano il “Libero Giardino Baiamonti”, cioè lo spazio verde in piazza Baiamonti che un tempo ospitava una pompa di benzina e che ora il sindaco Giuseppe Sala e la sua giunta vogliono cementificare edificandovi la terza “piramide” disegnata dalle archistar Herzog e De Meuron, simmetrica e opposta alle due che già ospitano la Microsoft e la Fondazione Feltrinelli.

Per bloccare l’opposizione alla terza “piramide”, Sala ha sfoderato la “proposta che non si può rifiutare”: collocare nell’edificio il nuovo museo della Resistenza. Come dire di no, senza passare per nemici della democrazia e amici del fascismo? La Memoria usata come scudo umano per far accettare il cemento.

Ma il comitato Baiamonti vuole provare a spezzare il ricatto, scrivendo all’Anpi una lettera che sarà mandata al presidente emerito Carlo Smuraglia, alla presidente nazionale Carla Nespolo e al presidente milanese Roberto Cenati. “Non vogliamo scambiare Verde e Salute con la Memoria”, spiega Sergio Violante, del comitato Baiamonti Verde Comune. “Vogliamo che l’area resti il ‘Libero Giardino Baiamonti’ e che la terza ‘piramide’ non sia costruita. Quanto al museo della Resistenza, è bellissimo che si faccia. Ma può essere realizzato altrove. Per esempio negli spazi del Museo del Risorgimento di via Borgonuovo: la Resistenza non è il nuovo Risorgimento? Oppure nel Palazzo Calchi Taeggi di corso di Porta Vigentina, uno spazio che è vuoto e disponibile”.

Domani i cittadini dei molti comitati nati a Milano si sono dati appuntamento nel pomeriggio al “Libero Giardino Baiamonti”, da dove alle 17 si sposteranno in piazza della Scala, davanti a Palazzo Marino sede del Comune. Ci saranno, oltre al Baiamonti Verde Comune, il comitato Città Studi, che si oppone al trasferimento delle facoltà scientifiche dell’Università Statale sull’area Expo, il San Siro che si oppone all’edificazione di un nuovo quartiere attorno al nuovo stadio che Inter e Milan vogliono costruire, e poi i cittadini di via Benedetto Marcello, della Goccia Bovisa, di Piazza d’Armi, di Isola Pepe Verde, di via dei Ciclamini. Ci saranno i ragazzi dei Fridays For Future ispirati da Greta Tumberg. E il comitato Bassini, che si oppone al taglio degli alberi nell’antico piccolo parco dove il rettore del Politecnico vorrebbe far costruire il nuovo dipartimento di Chimica, un palazzone di sei piani.

“Vogliamo coordinarci tra noi”, dice Sergio Violante, “fare rete: per avere più forza, perché finora ogni comitato andava avanti per conto suo, veniva magari ricevuto dal sindaco o da qualche assessore che cercava di dare a ciascuno uno zuccherino. Insieme, invece, possiamo avere la forza per bloccare quello che viene chiamato Modello Milano, che gode di ottima stampa in tutta Italia, ma di cui noi vediamo la realtà: la sottomissione agli interessi di pochi di una città che è entrata nel giro grande dell’immobiliare internazionale. E che continua a costruire e a consumare suolo e ad avere l’aria inquinata e velenosa. Ogni comitato ha l’obiettivo di salvare il suo pezzo di Milano, tutti insieme possiamo criticare un modello di città, chiedendo lo stop al consumo di suolo, aria pulita e partecipazione dei cittadini: qui viene sbandierata, ma a decidere sono solo e sempre i padroni dell’immobiliare”.

La verità dietro il “Polipartito” mafia & politica

Dopo la cosiddetta “supplenza della magistratura rispetto alla politica” è giunta l’ora della seconda supplenza, stavolta rispetto agli storici. La prima formula è stata coniata nella stagione delle inchieste sulla P2 e poi di Mani Pulite. A dire il vero, era e resta un po’ ambigua. Dal punto di vista dei pm somiglia a un alibi all’ingresso felpato delle indagini nel Palazzo degli intoccabili e dal punto di vista dei politici confina nell’eccezione il controllo di legalità sul potere. Come se – dopo la supplenza – si annunciasse un rapido ritorno alla regola delle indagini sui criminali semplici, ben lontano dal Palazzo.

Ora la nuova supplenza è di tipo culturale non giudiziaria. Non si serve di ordinanze e sentenze, ma di libri. Lo Stato illegale, 182 pagine, 18 euro, Editori Laterza, di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte è il miglior esempio di questo nuovo filone.

Di fronte a una cultura ufficiale restia a prendere atto dei fatti svelati nei processi, i magistrati che hanno fatto le inchieste e i dibattimenti sono costretti a sobbarcarsi il lavoro di giornalisti e storici un po’ pigri. Così i due magistrati che già nel 2018 avevano scritto La verità sul processo Andreotti, tornano sul “luogo del delitto prescritto” per raccontare oltre alla vera storia del caso che li ha visti protagonisti come Procuratore capo e aggiunto, il contesto storico nel quale si inseriva non solo il processo, ma soprattutto la rimozione che ne è seguita. Non è un caso se Giulio Andreotti incontrava nel 1980 i vertici della mafia, come non è un caso se la sentenza che ha ritenuto “commesso” il reato di concorso con l’associazione a delinquere (la Cosa Nostra di Stefano Bontate) fino al 1980 sia stata travisata dai media. Quel verdetto doveva essere noto a tutti solo fino all’assoluzione post-1980. Mentre andava nascosto per la prescrizione riconosciuta sui fatti “commessi” da Andreotti nel periodo precedente alla primavera di quell’anno.

Ora Caselli e Lo Forte inseriscono quella vicenda in una serie di fatti e la spiegano con atteggiamenti culturali radicati nell’ethos del Paese. Si va dal processo per l’omicidio Notarbartolo alla fine dell’800, al fascismo che scarica il prefetto Cesare Mori fino agli Alleati che scelgono i sindaci mafiosi per andare a Portella della Ginestra, al caso Sindona, e alla vicenda esemplare dei cugini Salvo. La storia della politica della mafia, da Vito Ciancimino a Marcello Dell’Utri, si intreccia con quella dello Stato e ne spiega alcuni passaggi oscuri. Il libro pone al centro della scena il “Polipartito”, come lo chiamano i due ex magistrati, mutuando la definizione data al fenomeno dal prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa in un colloquio con l’allora senatore Giovanni Spadolini. La storia di questo connubio di forze che rendono potente la mafia illumina l’omicidio del presidente dell’Eni Enrico Mattei, il finto “sequestro” di Michele Sindona, l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.

Il libro rivendica le statistiche eccezionali degli arresti e delle condanne alla mafia durante la stagione di Gian Carlo Caselli a Palermo, ma non tralascia le assoluzioni eccellenti di Cesare Musotto, presidente della Provincia di FI, del giudice Carnevale o dell’ex ministro Calogero Mannino. Gli autori raccontano le umiliazioni inflitte dal Csm a Giovanni Falcone e si tolgono poi alcuni sassolini dalle scarpe descrivendo le campagne di denigrazione subìte da loro stessi dopo l’avvio dei processi ai politici. Non mancano alcune note amare sulle scelte del legislatore e del Consiglio di Stato che hanno sbarrato la strada a Caselli e Lo Forte nella corsa rispettivamente per la Superprocura antimafia e per la Procura di Palermo. Tutti i fatti sono inseriti in una prospettiva unica sorretta dalla tesi esplicitata sin dalle prime pagine del libro: non esiste lotta seria alla mafia senza lotta al polipartito.

Davigo, il nuovo “bersaglio grosso”

Gran parte della politica, in Italia, tende ad autoassolversi riducendo il cancro della corruzione sistemica a isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. Un “revival” di tale tendenza è la campagna di rivisitazione del ruolo politico di Bettino Craxi. Molti ne sono i protagonisti e gli obiettivi. Fra questi la magistratura, in particolare Mani Pulite. Come ha osservato Barbara Spinelli su questo giornale, definire Craxi non “latitante” ma “esule” è come invalidare le sentenze, con effetti devastanti sulla legittimità del sistema giudiziario.

Circa 27 anni fa, la stagione di Mani Pulite segnò – per il nostro Paese – un forte recupero di legalità. Sembrava prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Poi invece ebbero il sopravvento l’indifferenza o l’ostilità verso chi dall’interno dello Stato cerca di garantire la legalità. Di qui gli attacchi – tra l’altro – alle pretese invasioni di campo dei giudici. Con esiti perversi, perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro una minore fatica nel ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste. Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine “giustizialismo”. Parola un tempo sconosciuta nel lessico giudiziario; poi introdottavi con la precisa finalità mediatica di diffondere pretestuosamente l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata; ormai adoperata con la stessa intensità dei “tackle” nelle peggiori partite di calcio, fino a farne un cardine della propaganda ingannevole basata sulla ripetizione assillante che alla fine fa sembrare veri anche i falsi grossolani.

Nei confronti della magistratura questa tecnica è stata applicata in modo implacabile da Silvio Berlusconi. Le indagini milanesi sulla corruzione erano per lui “del tutto estranee a uno Stato di diritto, sintomi di faziosità eretta a regime giudiziario e di una gestione accanita e politicizzata della giustizia penale”. A seguire, ci fu la proposta di una Commissione parlamentare d’inchiesta per “accertare se ha operato nel nostro Paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura” (così il portavoce di Forza Italia, on. Bondi). Senza negarsi proteste di piazza contro i giudici “scomodi”, con manifesti osceni tipo “fuori le Br dalle procure”. Portando ai livelli di guardia la compatibilità con le regole di convivenza istituzionale proprie di un sistema democratico.

Oggi – si direbbe – l’insofferenza verso la magistratura registra, dopo la stagione dell’esuberanza (?) berlusconiana, un’inedita declinazione, il cui “bersaglio grosso” è un singolo magistrato: Piercamillo Davigo, il “dottor sottile” di Mani Pulite, componente del Csm, spesso chiamato dai media a intervenire sui problemi della giustizia e del processo, da ultimo il tema della prescrizione. Con un linguaggio non felpato, mai in “giuridichese”, ma chiaro e netto (perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene), Davigo usa prendere posizioni argomentate e graffianti. Dissentire anche con vigore è ben possibile. Ci mancherebbe. Ma gli avvocati sono andati oltre. Quelli di Torino, Lanusei e Reggio Emilia hanno chiesto per Davigo sanzioni disciplinari; quelli di Milano che non possa partecipare alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario di sabato prossimo per la quale è stato designato dal Csm. Il “capo d’accusa” degli avvocati è tuono e tempesta: magistrato “accecato da visioni giustizialiste”, colpevole di “un violentissimo attacco allo Stato di diritto”, che nega i “fondamentali principi costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’avvocato nel processo penale”.

In realtà quelle di Davigo sono idee e proposte tecniche sempre motivate, non comprimibili nel perimetro di antichi slogan a effetto. In ogni caso, le gravi difficoltà della stagione che stiamo vivendo non consentono il lusso del silenzio. Altrimenti, mentre tutti parlano di giustizia, sarebbero solo i magistrati a non poterlo fare. Assurdo: come pretendere che i medici non parlino di sanità o i giornalisti di informazione. La speranza, dunque, è che la furia degli avvocati (i “principi” del contraddittorio) si plachi, recuperando le forme di un articolato confronto. Così da respingere ogni atteggiamento che possa essere letto come pericoloso per la libera manifestazione del pensiero.

Mail Box

Stalking contro le donne: come la Meloni tante altre

Tutto mi separa dalle idee politiche di Giorgia Meloni, ma voglio esprimerle la mia totale solidarietà come donna vittima di uno stalker. Ogni forma di violenza mi riguarda, tanto più quella perpetrata da prepotenti maschi frustrati contro donne libere, prima di ogni considerazione sul loro pensiero o status sociale. Vorrei solo che la stessa attenzione rivolta alla tutela della Meloni, fosse garantita alle tante donne anonime, vittime delle stesse o maggiori aggressioni, ma sottovalutate fino al verificarsi di episodi estremi, spesso culminanti nella loro uccisione.

Massimo Marnetto

 

La chiusura delle edicole rende più poveri i quartieri

Quanta tristezza nel vedere un’altra edicola chiusa. Una tristezza che si aggiunge per le tante librerie costrette ad abbassare la serranda. Purtroppo è la realtà delle nuove tecnologie che trasforma, giorno dopo giorno, interessi e abitudini, anche se sono convinto che il fascino del cartaceo (libri e giornali) sia tutt’altra cosa. Devo però riconoscere che il veloce evolversi di ogni tipo di comunicazione online, piano piano, avrà la meglio.

È un bene? È un male?

Non giudico, ma sono consapevole che il mondo sta cambiando. Tutto ciò però non elimina la tristezza che mi assale quando vedo una libreria o un’edicola costretta a chiudere. Si fa più povera la strada, il quartiere, la città. Quando un’edicola chiude è come una bella favola che finisce e ti rendi conto che aumenta sempre di più il numero di coloro che non possono più vivere “felici e contenti”.

Raffaele Pisani

 

Nuovi scenari politici, sta tornando la restaurazione

È in atto una nuova restaurazione. I segni sono ovunque. Il Pd che, dopo aver votato le leggi proposte dal Movimento 5 Stelle, fa un passo indietro e tenta di rimettere le cose come stavano prima; Renzi che vuol rifare il suo tentativo ultraliberista di distruzione dello Stato democratico, le plebi che votano Lega, i media tesi nella rievocazione trionfalistica di Craxi, l’Ue che ha ricominciato a chiedere la distruzione dello stato sociale e l’allungamento di altri due anni dell’età pensionabile, la disfatta del Movimento 5 Stelle che aveva promesso un mondo nuovo, arrivando persino a mostrare tentazioni filopidine, come se avessero dimenticato gli scempi che il Pd è stato capace di fare; Salvini che pretende il maggioritario e calpesta i diritti delle persone, i media ormai schierati a senso unico che oscurano fatti e persone, i corrotti che rialzano la testa e difendono il loro diritto a delinquere, gli elettori che si arrendono ai vecchi padroni senza più combattere, la Calabria che torna a votare mafia, persino le piazze delle Sardine che usano in modo spregiativo termini come populista e sovranista e chiedono censure antidemocratiche sui social. Tutto questo non fa presagire nulla di buono.

Viviana Vivarelli

 

La cremazione è una pratica degna di un Paese civile

I nostri cimiteri sono sempre più “pieni”. Le aree cimiteriali comunali, un po’ tutto lungo la penisola, presentano insufficienza di spazi per le sepolture rispetto al fabbisogno previsto. In molti casi non si provvede a nuove costruzioni di edifici o loculi destinati alle sepolture. Sono tante le salme tenute in deposito per la carenza cronica di spazi e area di inumazione disponibili. Penso alla situazione igienico-sanitaria. Vedo in giro solo una grossa speculazione mercantile sulla compravendita di attuali loculi. Per ovviare alla grave problematica della mancanza di spazi cimiteriali, l’optimum sarebbe la cremazione: una pratica igienica ed ecologica che permette di ridurre considerevolmente gli spazi e i costi destinati ai defunti.

Anche il Codice di Diritto Canonico sostiene nel canone 1176 che la Chiesa non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana.

Marco Grasso

 

Il mondo vive di paure: naturali o provocate ad arte?

Deve essere proprio vero che il mondo va al contrario.

L’anno scorso il rapporto deficit/Pil italiano era al 2,04%, il debito pubblico a 132 miliardi di euro, e pareva l’apocalisse. Oggi il rapporto deficit/Pil è al 2,4% e il debito pubblico è salito di 3 miliardi a 135, mica bruscolini, e la produzione industriale langue, ma tutto tace a Bruxelles, tutto è tranquillo e lo spread è a 133. E metteteci pure il Coronavirus cinese che sta falcidiando i Pil mondiali. Allora ci prendevano in giro ieri o lo fanno oggi?

Il fatto è che il mondo ormai vive di paure, instillate ad arte come fa comodo ai poteri forti: la paura dello spread, delle elezioni, del cambio di governo, della pandemia, della denatalità, di Salvini, della fine della prescrizione, della trappola della liquidità, dei migranti, della Brexit, dei turbodiesel, cioè la paura di cambiare qualcosa nel nostro modo di vivere, mentre delle uniche paure che dovrebbero preoccupare, come la fame, la povertà, la violenza, la mancanza di cultura e di buona sanità, la delinquenza, le mafie, la corruzione, il 5G forse cancerogeno, i social network invasivi, non frega nulla a nessuno.

Enrico Costantini

La Yamaha non fa beneficenza, ma c’è modo e modo di cacciare un mito

Cara Redazione, vi scrivo con estremo rammarico, da fan di Valentino Rossi, a cui la Yamaha sembra aver preferito il giovane talento francese Fabio Quartararo; ignorando le ragioni che hanno indotto l’azienda giapponese a una decisione così sconvolgente per gli equilibri della Moto Gp, chiedo a voi: siamo davvero giunti al termine dell’era “The Doctor 46”?

Anna Antonelli

 

Gentile Anna, il 16 febbraio Valentino Rossi compirà 41 anni. Uno in meno di Buffon, due in più di Ibrahimovic, insomma l’età dei carismatici Grandi Vecchi dello sport che non si arrendono all’incalzare dell’anagrafe e continuano a entusiasmare i loro tifosi, per il semplice fatto che sono ancora lì, adorati totem in pista o sul campo. Purtroppo, imboccare i viali del tramonto è triste. Per tutti. Per chi ama i fuoriclasse. Per gli stessi campioni che resistono all’inevitabile declino, con l’esperienza e la capacità di gestire al meglio le proprie risorse psicofisiche. Tra Valentino e la Yamaha da mesi c’era malessere. La concorrenza della vincente Honda ha dettato il prepensionamento di Rossi. La Yamaha è un’azienda, non un ente di beneficenza. E Valentino è un professionista, oltre che un valente manager. Conosce le feroci logiche del mercato e il Motomondiale ne è la vetrina. È inoltre reduce da una deludente stagione, chiusa al settimo posto in classifica generale, senza un successo, con due secondi posti in Argentina e in Texas, inanellando persino tre ritiri consecutivi. Però c’è modo e modo di cacciare una leggenda e un’icona delle due ruote. La Yamaha aveva chiesto all’inizio dell’anno a Valentino di prendere una decisione sul suo futuro: nel 2021 resti o ti ritiri? “Ho bisogno di tempo, non voglio affrettare alcuna decisione”. Il tempo non gliel’hanno dato. È arrivato invece il benservito, la prossima stagione, se vuoi, corri ma con moto non ufficiali. Da “cliente”. Offensivo, nel caso di Rossi, il centauro più amato nel mondo, capace di trascinare folle nei Moto Gp. Ha vinto 9 Mondiali, in tutte le classi, unico a esserci riuscito sinora. Ha gareggiato in 403 Gran Premi, vincendone 115. Ha staccato 65 pole position e ottenuto 96 giri più veloci. Per la Yamaha, solo un onere, non un onore “The Doctor 46”. Preferisce Quartararo, che è di origini italiane, ma questo non ci consola. Valentino ha reagito con orgoglio. Intende “continuare la mia carriera come pilota di Moto Gp anche nel 2021, ed essere competitivo quest’anno”. Cavoli amari per gli avversari. A cominciare dalla Yamaha.

Leonardo Coen