Altra mega perdita per Deustche Bank

La Germania avrà anche i conti in ordine. Ma quanto a banche sta messa maluccio. Per il quinto anno consecutivo Deutsche bank, chiude il bilancio in profondo rosso. Il primo istituto di credito del Paese archivia il 2019 con 5,7 miliardi di perdite, il secondo peggior risultato nella storia del gruppo. Il dato supera le previsioni più nefaste (5 miliardi), ma include buona parte (il 70%) dei costi di ristrutturazione previsti nel piano 2019-2022, presentato a giugno scorso.

“La nostra strategia funziona”, ha spiegato l’amministratore delegato, Christian Sewing, evidenziando come il risanamento non abbia richiesto sacrifici agli azionisti. Tuttavia negli ultimi cinque anni Deutsche bank ha perso 15 miliardi, cassando oltre 9 miliardi di utili realizzati nel quinquennio precedente. A pagare il conto degli errori di gestione sono soprattutto i dipendenti: nel 2019 l’istituto tedesco, che dà lavoro a 87.600 persone, ha tagliato altri 4.100 posti di lavoro e, a giugno, ha annunciato 18mila esuberi, di cui buona parte in Germania.

Il giro d’affari non è più quello di una volta (-8% a 23,2 miliardi). E l’impressione è che la banca non riuscirà facilmente a buttarsi alle spalle un decennio in cui il titolo in Borsa ha perso l’82% del suo valore. “Per noi resta un titolo sotto osservazione – ha spiegato in una nota JP Morgan – abbiamo bisogno di risultati nei prossimi trimestri che diano credito alla svolta sul giro d’affari”. Anche perché intanto i rivali americani, con cui Deutsche bank avrebbe voluto competere, hanno ormai ampiamente recuperato dopo la crisi del 2008.

Tutta colpa di derivati e crediti inesigibili che il colosso tedesco sta smaltendo a fatica. Titoli tossici che sono arrivati ad esporre la banca per l’incredibile cifra di 43 mila miliardi di dollari. Ma Deutsche bank, forte di 1500 miliardi di attivi, non è un istituto qualsiasi. È una di quelle banche che, secondo il Fondo Monetario Internazionale, potrebbero far vacillare l’intero sistema finanziario. Di qui la corsa a rimettere ogni cosa al suo posto ipotizzando le nozze, poi sfumate, con la connazionale Commerzbank, e creando una bad bank con 74 miliardi di crediti a rischio, tagliando pesantemente i costi e cedendo 50 miliardi di crediti inesigibili alla statunitense Goldman Sachs. Nonostante la pulizia di bilancio, l’istituto fatica a ritornare alla redditività. E la credibilità resta ai minimi storici dopo una serie di imbarazzanti scandali. Nel 2015 Db è coinvolta nelle indagini sulla manipolazione del tasso di riferimento sui mutui (il Libor) con tanto di multe e risarcimenti per due miliardi e mezzo. Nel 2018, la Federal reserve americana le contesta “ampie carenze” sui sistemi di controllo nelle filiali d’Oltreoceano. E, infine, più recentemente l’istituto deve affrontare anche i guai giudiziari con i Panama Papers da cui emergono gli “aiutini” ai clienti per riciclare denaro attraverso società create nei paradisi fiscali. Per non parlare dell’inchiesta sui rapporti “sospetti” (230 miliardo di dollari di transazioni) con la Danske Bank, accusata di aver riciclato, attraverso la filiale estone, miliardi di dollari provenienti da attività illecite di operatori russi.

Pop Bari, il summit in Bankitalia dei vertici: “È andata benissimo”

Quando gli investigatori della Guardia di Finanza entrano nell’ufficio di Gianluca Jacobini, all’epoca condirettore generale della Banca Popolare di Bari, sulla sua scrivania trovano sei block-notes con una lunga serie di appunti scritti a mano. È una delle perquisizioni disposte dalla Procura di Bari che da tempo, con il procuratore aggiunto Roberto Rossi e i sostituti procuratori Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano, stanno facendo luce sulla conduzione della banca. Uno di questi block-notes, secondo gli specialisti del Nucleo speciale di Polizia Valutaria, è di sicuro interesse investigativo. Sulla prima pagina, un post-it fucsia. All’interno una data: 10 giugno 2013. E poi quattro numeri messi in fila che per gli investigatori spiegano bene il senso delle parole successive: “2358”. Il numero corrisponde all’articolo del codice civile che vieta a qualsiasi società di “accordare prestiti, direttamente o indirettamente, e fornire garanzie, per l’acquisto o la sottoscrizione delle proprie azioni, se non alle condizioni previste”. In sostanza – tranne in casi esplicitamente previsti – una banca non può accordare a un proprio cliente un prestito per acquistare le azioni della banca stessa. Ed ecco cosa trovano gli investigatori della Gdf durante le perquisizioni disposte nel 2016, nel block-notes con post-it fucsia. Un appunto – secondo l’accusa scritto da Gianluca Jacobini – dove si legge: “Intercettare clienti che vogliono diventare soci, accedendo al pacchetto soci, inserendo la possibilità di avere un finanziamento pari a due volte le azioni”. Non è esattamente – per usare un eufemismo – la prassi prevista per legge. Piuttosto, rilevano gli investigatori, si tratta di una posizione “fortemente distonica” rispetto alle normali regole prudenziali che ogni banca dovrebbe rispettare. Ma alla BpB le regole non dovevano erano sempre rispettate, se un mese fa Bankitalia ha deciso di commissariarla e il governo ha varato un decreto per salvarla.

C’è un secondo episodio che il Fatto è in grado rivelare. Già nel 2013 Bankitalia non era d’accordo sulla conduzione familiare della BpB. Si concentra sulla figura di Marco Jacobini che, si legge nella contestazione numero 3 dell’ispezione condotta quell’anno, non dovrebbe incarnare il ruolo di amministratore delegato: “La scelta di non sostituire Marco Jacobini – eletto presidente del Consiglio – nel ruolo di ad, ha amplificato l’esigenza di presidiare accuratamente i potenziali conflitti d’interessi inevitabilmente discendenti dal suo rapporto di parentela con due dei vicedirettori generali e con il consulente legale della banca. Le misure adottate (allontanamento dalla riunione o astensione del presidente) hanno reso farraginoso l’iter decisionale su tematiche poste nella responsabilità dei citati vicedirettori…”.

I due vicedirettori sono i figli di Marco Jacobini, Gianluca e Luigi. Nonostante questa e altre contestazioni, di lì a poco, Bankitalia consente alla Popolare di Bari di acquisire una banca fortemente indebitata (e commissariata), l’abruzzese Tercas, togliendo così una grana a Palazzo Koch, ma che affosserà i conti di Bpb. Marco Jacobini resterà invece al suo posto fino al 2019. Ma c’è di più.

Durante le successive ispezioni di Bankitalia – la prima tra il 24 aprile e il 27 maggio 2016, la seconda tra 20 giugno e il 10 novembre 2016 – Marco Jacobini incontra il capo della Vigilanza di Palazzo Koch. Parliamo di Carmelo Barbagallo, che Jacobini incontra a Roma, dopo aver richiesto un appuntamento a un alto funzionario di Bankitalia. È l’8 novembre 2016. Mancano 2 giorni al termine delle ispezioni. Dopo l’appuntamento Jacobini chiama sua moglie per raccontarle l’esito dell’incontro: “È andata benissimo…”, esordisce, prima di spiegarle che Barbagallo gli ha detto cha la Popolare ha bisogno di un cambio: il ruolo di ad deve andare a suo figlio Gianluca, al quale Marco deve lasciare il posto per diventare presidente onorario, mentre Luigi dovrebbe lasciare la banca. Pochi minuti dopo, Marco chiama proprio suo figlio Luigi per dirgli che l’incontro è andato bene e che Barbagallo gli ha detto di aspettare l’arrivo della relazione e che “poi se la vedrà lui personalmente”. Non sappiamo se Jacobini abbia millantato e, nel caso abbia detto il vero, cosa intendesse per “poi se la vedrà lui personalmente”. Il fatto certo, però, è che il suo telefono agganciava una cella di Roma e che secondo gli investigatori della Guardia di Finanza Jacobini s’è realmente recato nella sede della Banca d’Italia. Di certo, c’è anche un altro fatto: nonostante i ripetuti inviti a lasciare il suo posto – formali e non, sempre che il patron della Popolare di Bari non abbia inventato il dialogo con Barbagallo –, Marco Jacobini è rimasto ai vertici della banca fino al luglio dello scorso anno. E il commissariamento arriva nel dicembre scorso.

Wuhan, 70 italiani ancora “in ostaggio”

Manca l’ok di Pechino. Ma non solo. I 70 italiani che a Wuhan attendono il ponte aereo organizzato dai ministeri di Esteri, Difesa e Salute dovranno aspettare ancora. Nella serata di ieri, mentre l’Oms dichiarava il virus 2019nCoV “emergenza globale”, erano diversi i tasselli che attendevano di andare al loro posto.

I tecnici di Farnesina, via XX Settembre e Lungotevere Ripa sono in costante contatto da oltre 48 ore, ma il puzzle è di quelli difficili. Primo problema: Pechino non ha dato ancora l’autorizzazione al volo civile, organizzato dal Comando Operativo Interforze e operato dalla Difesa, la cui partenza era stata annunciata per ieri alla volta della metropoli focolaio del Coronavirus. Mentre sembra certo che lo scalo di destinazione sarà quello di Wuhan, uno dei dubbi riguarda i connazionali che in Cina hanno famiglia: potranno partire su base volontaria, solo se non contagiati e senza sintomi, ma le procedure per il rilascio del via libera all’espatrio dei consorti di nazionalità cinese sono elaborate e stanno richiedendo più tempo del previsto. In serata alcune fonti escludevano, nell’ambito delle coppie di nazionalità mista, la partenza delle persone in possesso di passaporto di Pechino.

Sul fronte interno il ministero della Salute, di concerto con quello della Difesa, sta definendo i contenuti del protocollo con il quale verranno gestiti i connazionali. Al loro arrivo, spiegava in mattinata il viceministro della Sanità Pierpaolo Sileri, “verranno accolti con una quarantena la cui durata presumibilmente sarà di 14 giorni, ovvero quanto il periodo di incubazione massimo previsto. Avrebbe senso che questa quarantena fosse gestita in un unico posto per tutti, è da vedere poi se ti tratterà di un ospedale o meno”. Altro punto ancora da definire.

Se, infatti, è certo che lo scalo di destinazione sarà di tipo militare, non è stata ancora individuata ufficialmente la struttura (o le strutture) che ospiteranno i rientranti durante il periodo di osservazione. L’aeroporto di Pratica di Mare figura tra le ipotesi, anche se non si esclude l’ospedale “Lazzaro Spallanzani”, il polo specializzato nelle malattie infettive in prima linea in questi giorni di emergenza, e perfino di poterli sistemare in alcuni residence.

È ancora sul tavolo anche l’idea di attrezzare una caserma dell’esercito: mentre l’opzione ospedale militare del Celio sembrava farsi sempre più remota, vista la collocazione della struttura in pieno centro a Roma, in serata prendeva corpo l’ipotesi che a ospitarli possa essere la Cecchignola, struttura nel quadrante sud della Capitale vicina al Grande raccordo Anulare.

Le istituzioni hanno fornite informazioni diverse anche sul numero effettivo degli italiani pronti a lasciare Wuhan. Se in mattinata, attorno alle 11, la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa parlava di “60 italiani” (annunciandone il rientro “nelle prossime 24 ore, salvo poi rettificare che era stato “posticipato”), un’ora più tardi Sileri affermare che a tornare “sono circa una quarantina mentre circa 10 hanno deciso per ora di restare Wuhan”.

Oltre la Grande Muraglia i numeri continuano a correre: i contagi sono oltre 8.100 (la maggior parte resta concentrata nella provincia epicentro di Hubei, in cui sorge Wuhan), le vittime 170. In serata l’Oms ha alzato il livello di allerta: “La Cina – ha detto il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus – ha preso straordinarie misure per fare fronte all’emergenza del virus 2019-nCoV, ha isolato il virus, lo ha sequenziato e ha condiviso i dati con tutti”. Il che ha consentito di circoscrivere i casi all’estero a 98 in 18 paesi, e senza al momento fare vittime. Per l’Organizzazione, però, non è possibile immaginare quanto grande sarà questa emergenza. Da qui la decisione di dichiarare l’emergenza internazionale. Anche se, ha concluso Ghebreyesus, “non c’è ragione per limitare viaggi e scambi internazionali” .

Conte: “In Italia accertati due casi”. Sono turisti cinesi

Il virus “2019-nCov” è arrivato in Italia. “Abbiamo per la prima volta due casi accertati di due turisti cinesi venuti nel nostro Paese da pochi giorni”. Lo ha annunciato in tarda serata il premier Giuseppe Conte in una conferenza stampa organizzata con il ministro della Salute Roberto Speranza. “Faremo tutte le verifiche del caso per tracciare il percorso di queste due persone”, ha proseguito il presidente del Consiglio, che ha interrotto la verifica di maggioranza a Palazzo Chigi per comunicare la notizia. La coppia, soccorsa mercoledì all’hotel “Palatino” di via Cavour, era in Italia da circa 10 giorni. “È già stata attivata la sorveglianza sanitaria sulle persone venute in contatto con la coppia – ha comunicato in serata l’assessorato alla Sanità della Regione Lazio – Sono scattate tutte le misure previste dai protocolli sia per quanto riguarda alcune persone dell’albergo, sia riguardo gli altri componenti del gruppo di turisti. Al momento sono tutti asintomatici e non destano preoccupazione”.

“La situazione è sotto controllo: queste due persone sono in isolamento allo Spallanzani”, ha detto ancora Conte, riferendosi all’ospedale di Roma specializzato in malattie infettive fin dal primo momento in prima linea contro il virus 2019-nCoV.

L’esecutivo, ha proseguito il premier, ha già individuato i prossimi passi: “Domattina ho convocato un Cdm (alle 10, ndr) in cui adotteremo ulteriori misure per mettere tutte le strutture competenti a disposizione, compresa la Protezione civile”. Per adesso è stato chiuso il traffico aereo da e per la Cina.

L’annuncio è arrivato al termine di una giornata costellata dagli allarmi. Nel primo pomeriggio il sindaco di Civitavecchia, Ernesto Tedesco, ha bloccato i 1.143 passeggeri della nave da crociera ‘Costa Smeralda’ che all’ora di pranzo erano già pronti, valigie e zaini in spalla, a sbarcare nel porto a 80 km da Roma, dopo una mattinata che, da sola, sembrava essere già stata un incubo. Inutilmente, col senno di poi. Perché la donna 55enne cinese febbricitante che, suo malgrado, ha seminato il panico fra gli oltre 6.000 passeggeri – più l’equipaggio – non è affetta da Coronavirus. E nemmeno suo marito. Come avevano anticipato i primi screening operati dal personale sanitario.

L’assoluta certezza è arrivata solo in serata, quando sono stati comunicati i risultati dei test effettuati presso i laboratori dello Spallanzani, giunti intorno alle 20. Troppo tardi anche solo per prendere il treno per la Capitale, figuriamoci per far ripartire una nave da crociera, che infatti salperà questa mattina alla volta di Savona, saltando la tappa di La Spezia.

Eppure ieri intorno alle 13 “l’incubo” sembrava già finito. La febbre che ha colpito la donna proveniente da Guangdong era solo un’influenza, e lo screening effettuato dai sanitari aveva convinto a dare l’ok allo sbarco.

Tutto concordato. Con i passeggeri sul ponte, però, accade qualcosa. Il sindaco leghista Ernesto Tedesco arriva al porto trafelato, scende dall’auto e ferma tutto: “Non vi faccio sbarcare”. . Poco dopo arriva una nota: non sale e non scende nessuno finché nonci sono i risultati dei test. Quelli veri. A bordo, nel frattempo, c’è aria di sommossa. “Stiamo con i bambini piccoli, abbiamo finito i pannolini e chiuso i conti. Cosa facciamo”, urlano alcuni passeggeri all’indirizzo dei membri dell’equipaggio, impotenti. “Non ce la faccio più, diteci cosa succede”, dice una signora disabile, in lacrime. Di fatto, dalle 13 alle 18, oltre mille persone sono rimaste sul ponte della nave.

La sera le cose sono migliorate. Intorno alle 18, i mille hanno potuto avere indietro le loro cabine. Poi la comunicazione che la nave non avrebbe lasciato Civitavecchia, con cena offerta e pernottamento a chi si sarebbe voluto trattenere anche in caso di nulla osta (poi arrivato) allo sbarco.

Nasce “lavialibera” (e non vive di sola antimafia)

“Matteo Salvini è classificato come figura ad alto rischio, perciò lo proteggiamo da tutti gli attacchi”. Sui contenuti di Giorgia Meloni “ci hanno detto di essere più morbidi”. E i post che inneggiano al boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, non possono essere rimossi “perché non è classificato come figura dell’odio”.

A raccontarlo è Marina, una delle community manager assunte da una società incaricata da Facebook del monitoraggio dei contenuti. Il suo lavoro è controllare messaggi, foto e video spesso segnalati come violenti: “Vediamo donne drogate, uomini ammazzati, suicidi: molti di questi contenuti arrivano dal mercato sud americano o messicano. Le violazioni commesse dagli italiani riguardano soprattutto l’hate speech: odio a valanga su tutti, in particolare immigrati e rom”. Spesso i contenuti sono talmente forti e il lavoro è talmente stressante che lei e i suoi colleghi devono ricorrere all’assistenza di uno psicologo che opera all’interno della struttura. A raccogliere e diffondere la testimonianza di Marina (nome di fantasia per proteggerne l’anonimato) è lavialibera, nuova rivista bimestrale lanciata da don Luigi Ciotti per riprendere il percorso intrapreso con Narcomafie nel 1993. Come Narcomafie tuttavia, questo nuovo giornale, diretto da Elena Ciccarello, continuerà a occuparsi soprattutto di mafia e antimafia: il primo numero è dedicato in gran parte a Cosa Nostra e alla Sicilia per fare il punto della situazione a 25 anni dalla nascita di Libera e per capire come sono cambiate sia l’organizzazione criminale, sia l’Isola stessa e i suoi abitanti: “I palermitani, dopo la terribile violenza della mafia, sono stati costretti a diventare migliori”, spiega il sindaco di Palermo Orlando in un confronto con Letizia Battaglia dedicato alla loro città. Ciotti ha voluto estendere l’interesse del giornale anche alla questione ambientale, sull’onda dell’enciclica Laudato Si’ di papa Francesco (ma anche dei giovani dei Fridays for Future), e a quella migratoria. “Ha ragione papa Francesco quando dice che la crisi sociale e quella ambientale non sono crisi diverse – ha spiegato Ciotti alla presentazione della rivista –. Bisogna parlare ai giovani a partire dal loro paesaggio esistenziale”. Quindi, oltre a un’attenzione al linguaggio e alle tecnologie, lavialibera darà loro spazio con la rubrica Generazione Z. “Il nostro è un progetto crossmediale perché sappiamo che i ragazzi si informano su canali diversi dalla carta. Vogliamo intercettare il loro interesse – ha spiegato Ciccarello –. Una follia in un momento in cui i giornali chiudono e le statistiche raccontano come l’attenzione per le notizie duri pochi secondi. Una follia perché punta sull’approfondimento, sull’attenzione prolungata, sulle inchieste e una serie di strumenti che da una parte raccontano storie e dall’altra forniscono chiavi di lettura”.

“Davigo è un nostro avversario, ma il bavaglio è inaccettabile”

L’avvocato Davide Steccanella è noto per i suoi libri (Gli Sfiorati è l’ultimo romanzo pubblicato per Bietti) e non condivide le posizioni di Piercamillo Davigo sulla giustizia. Ma è perplesso sulla richiesta della Camera penale di Milano al Consiglio superiore della magistratura di non mandare il magistrato di Mani Pulite, ora membro del Csm, a inaugurare l’anno giudiziario a Milano.

“Premetto che condivido in toto l’ultimo comunicato della Camera penale milanese”, dice Steccanella, “laddove stigmatizza il fatto che ‘un componente del Csm abbia pubblicamente affermato che gli avvocati sono sostanzialmente dei venduti, che per una parcella in più fanno scelte processuali inutili per i clienti e che dovrebbero pagare personalmente per poter esercitare il diritto di impugnazione del proprio assistito, così la smetterebbero con bieche tattiche dilatorie come impugnare una sentenza di condanna’. E anche io ritengo che ‘quelle affermazioni offensive dell’intera avvocatura abbiano screditato una figura essenziale per il corretto funzionamento dell’intero procedimento’. Io stesso avevo commentato negativamente in un articolo sul sito Giustiziami l’intervista del dottor Davigo perché contribuiva a rafforzare nell’opinione pubblica l’idea ‘che sarebbe auspicabile che i processi venissero fatti senza l’intralcio degli avvocati’, con l’effetto di ‘avere inculcato nei cittadini l’immagine di un processo farsa, se non si conclude con la condanna, e che il lavoro di chi è chiamato a far rispettare le leggi nell’interesse del proprio cliente sia non solo inutile, ma addirittura dannoso per la collettività’. Anche la recente riforma della prescrizione è stata fatta passare, al di là del merito, come il rimedio agli intralci creati da avvocati prezzolati che hanno interesse a che il proprio cliente la faccia franca, e questo francamente l’ho trovata una propaganda inaccettabile oltre che incivile e avvilente”.

Continua Steccanella: “Ciò posto, non ritenevo e non ritengo che sia una questione ‘personale’ di questo o quel singolo magistrato, ma un problema più delicato di cultura giuridica che dovrebbe recuperare quei principi cardine sui quali si è sempre fondato il nostro sistema penale, come la presunzione d’innocenza e l’eccezionalità della privazione della libertà personale prima di una condanna definitiva, concetti che paiono da troppo tempo passati di moda. In questo senso comprendo il significato della richiesta della camera penale, ma trovo altrettanto legittima la scelta da parte del Csm di inviare chi vuole a quella che è pur sempre una ‘parata’, nel senso etimologico del termine. Però devo dire che non mi è piaciuta neppure la risposta di ‘irricevibilità’ da parte del Csm, dove mi è parso di cogliere un certo senso di lesa maestà che certamente non aiuta a rasserenare gli animi già tesi. Creare un Palazzo di giustizia diviso tra due tifoserie dove da una parte ci sarebbero i ‘buoni’ e dall’altra i ‘cattivi’ non giova a nessuno e tanto meno alla credibilità del sistema, perché le sentenze dovrebbero essere pronunciate in nome del popolo italiano e non di una delle due parti in contesa”.

“I vertici Eni hanno fatto spiare i pm che indagavano su di loro”

L’Eni spiava i magistrati che accusavano l’ad Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni di corruzione internazionale per la maxi tangente da 1,092 miliardi di dollari che, secondo l’accusa, il colosso italiano avrebbe pagato per ottenere il giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria. A rivelarlo davanti ai magistrati milanesi, che ieri hanno depositato il verbale dei suoi interrogatori, è Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, a sua volta indagato (tra le diverse accuse che gli sono mosse) per aver cercato di sabotare l’inchiesta milanese contribuendo a far aprire, presso la Procura di Siracusa, un fascicolo farlocco su un presunto (e finto) complotto proprio contro Descalzi. Non solo. Amara ha già sostenuto che l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, imputato nello stesso processo con Descalzi, sarebbe stato contattato per ritrattare la sua versione contro l’ad dell’Eni con la promessa di una riassunzione nel colosso petrolifero. E ancora: Amara riferisce che “attraverso Denis Verdini, gli è stato nuovamente proposto di scaricare la responsabilità del finto complotto su Massimo Mantovani (ex capo dell’area legale dell’Eni, ndr) e Vella (Antonio, manager Eni, ndr)”. Amara sostiene di aver ricevuto “un appunto manoscritto in originale redatto da Verdini” che gli è stato “consegnato nel corso dell’incontro avvenuto con Verdini da Ignazio Abrignani”, ex deputato.

Verdini è imputato a Messina in un processo per finanziamento illecito. “Denis – dice Amara – mi scrive le dichiarazioni che avrei dovuto rendere nel processo a suo carico a Messina… nel contesto mi ribadisce che qualora avessi parlato della vicenda Eni avrei dovuto sostanzialmente dire che Vella e Mantovani volevano salvare Descalzi ed erano i reali ispiratori delle manovre, sia di quella ‘olio di palma’ che del ‘complotto’”. Rintracciato dal Fatto Quotidiano, l’ex parlamentare Abrignani, dello stesso partito di Verdini (Ala), spiega: “Non ho assistito al loro incontro e non ne conosco il contenuto, ma posso confermare che Verdini mi chiese lo studio per incontrare Amara poco prima della scorsa estate, credo tra maggio e giugno”.

Il 16 dicembre 2019 il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio e il sostituto procuratore Paolo Storari chiedono a Piero Amara: “Ha riferito circa la raccolta informazioni sul conto di magistrati e i membri del consiglio di amministrazione da parte dell’Eni. Può riferire chi sono queste persone e la fonte delle sue conoscenze?”. Amara risponde: “Ho saputo da Claudio Granata (numero due dell’Eni e braccio destro di Descalzi, ndr) e mi è stato confermato da Rapisarda (Alfio Rapisarda, responsabile sicurezza della compagnia, ndr) che l’Eni in relazione al procedimento Opl 245 (o altri procedimenti che coinvolgevano la società) ha svolto una attività di raccolta di informazioni nei confronti dei membri del consiglio di amministrazione tesa ad acquisire notizie utili per screditare le persone o sfruttare a proprio vantaggio quanto acquisito. So con assoluta certezza che questa attività è stata svolta nei confronti di Karina Litvack (consigliere di amministrazione del gruppo, ndr) (…), Luigi Zingales (ex consigliere, ndr) (in modo particolarmente pressante), nei confronti del giornalista Gatti (Claudio, ndr), nei confronti del dirigente Cao (Stefano, ndr). Mi risulta che sono state raccolte informazioni sui pubblici ministeri Paolo Storari, Sergio Spadaro e il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Ho già riferito in merito all’attività svolta nei confronti del procuratore aggiunto Ielo (Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Rona, ndr). So anche che erano state acquisite informazioni su coloro che avrebbero potuto presiedere i collegi giudicanti del processo Opl 245”. La versione di Amara ovviamente è tutta da verificare, ma il contenuto delle sue dichiarazione è davvero inquietante.

“Mi è stato detto – continua Amara – che sono state acquisite notizie, oltre che dalle banche dati, anche attraverso pedinamenti e intercettazioni ambientali in luoghi di incontro (ristoranti, bar…). Mi è stato detto che l’esito delle attività svolte sui magistrati non hanno dato alcun risultato utile per l’Eni”.

I verbali di Amara sono stati depositati ieri dal pm Fabio De Pasquale nel processo sulla maxi tangente dell’Opl 245 dopo che mercoledì aveva deposto in aula il super testimone dell’accusa, il nigeriano Isaac Eke, che Armanna aveva indicato in precedenza con il nome di Viktor. Secondo Armanna, Eke gli aveva riferito che 50 milioni della presunta tangente erano rientrati in Italia, consegnati, nel 2011, al dirigente Eni Roberto Casula. Eke, che in una lettera aveva confermato di aver conosciuto Armanna nel 2009 e si era detto disponibile a testimoniare, in Tribunale a Milano ha negato tutto, ammettendo di aver fugacemente incontrato Armanna un paio di volte tra il 2014 e il 2015, quindi in un periodo ininfluente per le indagini. Negli atti depositati da De Pasquale, però, si scopre che la posizione di “Viktor” appare nella “bozza di memoria che Armanna, su indicazione di Granata, predispose nel maggio del 2016”. È una memoria che, secondo Amara e lo stesso Armanna, era stata predisposta proprio per ritrattare le accuse contro Descalzi in seguito alle pressioni di Eni. “Un ultimo appunto a pagina 4 riporta il nome ‘Victor’”, dice Amara, “anche di questo appunto all’epoca non capii il significato, mentre oggi le cose mi sono certamente più chiare”.

L’Onu lascia il suo campo a Tripoli: “La situazione è troppo pericolosa”

Lo zucchero con cui Marco Minniti, dal Viminale, voleva rendere più appetibile la pillola dell’accordo coi miliziani libici per bloccare i migranti era un impegno sempre più forte dell’Onu nel Paese per garantire la sicurezza di tutti. Da ieri questo tentativo di tenere assieme intervento umanitario e controllo ferreo delle frontiere europee si dimostra impossibile, ammesso che lo sia mai stato prima. L’Onu, infatti, ha annunciato che sta lasciando il “campo” di Tripoli in cui ospita i migranti in transito: la situazione s’è fatta troppo pericolosa.

Così ne ha parlato ieri Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa di rifugiati: “Le Nazioni Unite hanno valutato che il sito di raccolta e partenza in cui operavamo dal dicembre 2018 potrebbe diventare un obiettivo militare. Non abbiamo altra scelta che sospendere le attività nella struttura”. La decisione, ha spiegato anche una nota dell’Onu, serve soprattutto a garantire la vita dei rifugiati e dei richiedenti asilo (circa 1700 quelli arrivati nel centro negli ultimi giorni): secondo l’Unhcr, infatti, le operazioni di addestramento dei soldati di Tripoli – l’esercito fedele al premier al-Serraj – e le relative esercitazioni si svolgono assai vicino al sito delle Nazioni Unite; non è affatto escluso, dunque, che i militari del generale Haftar tentino un attacco in quella zona. Ovviamente l’agenzia delle Nazioni Unite sta lavorando per evacuare le persone presenti nel centro in strutture meno pericolose o in Paesi terzi.

La scelta di Unhcr arriva mentre in Italia riprende vigore, per così dire, il dibattito sul memorandum tra Italia e Libia, che si occupa soprattutto di gestione dei migranti, firmato dal governo di Fayez al-Serraj con l’esecutivo Gentiloni nel 2017: il 2 febbraio, se l’Italia non dovesse ritirare la sua adesione, il Memorandum verrà rinnovato senza modifiche per altri tre anni (e d’altra parte sarebbe difficile contrattarle con l’attuale governo libico, in altre faccende affaccendato, e ancor più renderle operative, se del caso).

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sostiene che ora verrà avviato con al-Serraj “un negoziato sulla condizione dei migranti” in Libia, ma intanto le 46 associazioni sociali riunite nella campagna “Io accolgo” (da Sant’Egidio a Intersos a Legambiente), alcuni parlamentari di maggioranza e persino le Sardine chiedono di ritirare l’adesione dell’Italia al Memorandum entro domenica. Non pare intenzione del governo.

Le piazze, gli appelli e il mini-programma. Le Sardine lanciano un amo ai giallorosa

Il difficile dialogo tra 5 Stelle e Pd in Toscana potrebbe avere mediatori convincenti. Quel che infatti appariva improbabile fino a qualche giorno fa adesso è per lo meno una possibilità su cui lavorare. E anche se le Sardine rimangono “fieramente apartitiche”, sono proprio i ragazzi delle piazze toscane a lanciare l’amo per una convergenza unitaria anti-Salvini. In questi giorni il coordinamento regionale ha diffuso un appello senza riferimenti diretti a partiti e leader, ma che suona come una richiesta ai giallorosa: “Tuteliamo la pluralità dei soggetti politici progressisti, ma ci appelliamo alla loro responsabilità affinché, tutti, contribuiscano a collaborare per il buon governo che è stato e che dovrà resistere di fronte alle sigle che cercheranno di ridurre la politica ad uno sterile scontro tra guelfi e ghibellini”.

L’appello è di certo rivolto al centrosinistra tradizionale che alla fine dovrebbe sostenere Eugenio Giani, ma non solo. Daniele Tarantino, referente di Massa delle Sardine, lo spiega chiaramente: “La funzione del manifesto è anti-Lega. In piazza con noi sono scesi molti elettori anche dei 5 Stelle e quindi penso che centrosinistra e M5S debbano correre insieme. Non saremo noi a immischiarci ai tavoli istituzionali, ma uniti sono sicuramente più forti”. Anche Danilo Maglio, referente fiorentino, lascia intendere il senso dell’appello pur senza nominare il M5S: “Non ci rivolgiamo solo alla sinistra, ma a tutte le forze progressiste anti-Lega”. Stessa convinzione della pistoiese Francesca Cimò secondo cui quello delle Sardine è “un appello all’unità rivolto a qualsiasi realtà”, perché l’obiettivo primario “è arginare il populismo di destra” e serve “una riflessione su quanto sia conveniente dividersi”. Più esplicito Mattia Ciappi, referente senese: “Credo che l’elettorato dei 5 Stelle in Toscana sia in gran parte di sinistra. Una convergenza sui temi si può trovare. Mi auguro che il Movimento non ripeta l’errore di andare da solo e instauri un dialogo costruttivo con il centrosinistra”.

Le prime risposte politiche sono arrivate ieri da entrambe le parti: dal Pd il candidato Eugenio Giani ha detto che, sebbene sia rimasto poco tempo, va cercato un “dialogo con il Movimento 5 Stelle” per “costruire qualcosa insieme” e anche il sindaco di Firenze Dario Nardella ha incontrato il capogruppo M5S in consiglio comunale, Roberto De Blasi, per “intensificare il dialogo”. Tra i grillini, per la prima volta, la candidata Irene Galletti parla di “confronto” aperto. Nel mezzo le Sardine che a un’alleanza tra i giallorosa ci sperano, provando a pungolarli tra qualche settimana. Nell’ultima riunione di Viareggio sono state annunciate tre manifestazioni pre-elettorali a Pisa, Grosseto e Firenze e i leader toscani si sono dati un metodo di lavoro: ogni coordinatore provinciale sta elaborando dei “mini-programmi” sui temi più rilevanti nelle proprie città come le grandi opere (Firenze e Prato), l’edilizia scolastica (Massa Carrara) e la lotta alle disuguaglianze. Una volta individuate le proposte, sfideranno la coalizione che sostiene Giani a inserirle nel programma elettorale.

“La Marina italiana guidava la Guardia costiera della Libia”

Chi ha guidato realmente la Guardia costiera libica in questi anni? La risposta è nella richiesta di archiviazione che la Procura di Agrigento ha depositato nei riguardi di Luca Casarini e Pietro Marrone, rispettivamente capo missione della Ong Mediterranea e comandante della nave Mare Jonio, entrambi indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E si tratta di una risposta tanto più inquietante se si pensa che, all’interno dello stesso provvedimento, la Procura assicura – come anticipato due giorni fa dal Fatto Quotidiano – che la Libia non ha mai fornito un porto sicuro né, all’epoca dei fatti, era in condizioni di offrirlo.

“Dagli elementi probatori acquisiti – scrivono nella richiesta di archiviazione il procuratore aggiunto Salvatore Vella e la pm Cecilia Baravelli – sembra che Nave Capri, e quindi la Marina Militare Italiana, svolga di fatto le funzioni di centro decisionale della cosiddetta Guardia Costiera libica”. È quel che accade, secondo la Procura, il 18 marzo 2019 quando la Mare Jonio soccorre 49 persone prossime al naufragio: “La nave Capri è una unità della Marina Militare Italiana dislocata nel porto di Tripoli nell’ambito della ‘Operazione Mare sicuro’, ufficialmente per il supporto logistico e addestramento a favore della Marina e della Guardia Costiera Libica”. In realtà avrebbe svolto il ruolo di “centro operativo di comando”.

La procura scopre che il 18 marzo 2019, alle 10:54, la nave della ong Sea Watch aveva già avvertito la Guardia costiera libica dell’avvistamento di un gommone in difficoltà. Poi, alle 13. 18, la Mare Jonio “informava via email Imrcc Roma (la nostra Marina militare, ndr) dell’avvistamento effettuato da Moonbird (l’aereo di un’altra ong che si occupa di monitorare imbarcazioni in pericolo di naufragio, ndr) comunicando” la sua posizione. e “che stava dirigendo verso la zona dell’avvistamento, in attesa di istruzioni da Immrc Roma”. Sette minuti dopo la Marina italiana avverte la Guardia costiera libica indicando la posizione e il numero delle persone a bordo del gommone.

La Libia si “riservava di assumere la responsabilità dell’evento Sar”. La Procura commenta: “Dalle 10:54 alle 13:25 la Guardia costiera di Tripoli non aveva dichiarato alcun evento Sar, né aveva assunto la responsabilità per le ricerche del gommone e il salvataggio delle persone a bordo, nonostante avesse due imbarcazioni in mare”. A quel punto “Roma – si legge ancora – informa la nave Capri della comunicazione ricevuta da Mare Jonio, affinché informi, a sua volta, l’ufficiale di collegamento della Guardia costiera libica”. Risultato: “Alle 14 sembra che” la Guardia costiera libica “assuma formalmente la responsabilità dell’evento” e, di lì a poco, “ordina a tutti i natanti in zona di tenersi lontani almeno 8 miglia dall’ evento”. Una comunicazione, sottolinea la Procura, in “contrasto con quanto normalmente previsto in tutto il mondo per l’attività di ricerca e soccorso”.

Se non bastasse, quando la Mare Jonio cerca di entrare in acque italiane, in modo corretto secondo la procura, riceve l’ordine di fermarsi e il divieto d’ingresso, disposto dal pattugliatore della Gdf Paolini: “Non siete autorizzati all’ingresso in acque nazionali italiane, non siete autorizzati da Autorità giudiziaria italiana… se doveste entrare… sarete perseguiti per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. “In realtà – continua la procura – nessuna autorità giudiziaria aveva negato l’autorizzazione all’ingresso” anche perché “non è previsto da alcuna norma che una nave battente bandiera italiana debba avere una preventiva autorizzazione per fare ingresso nelle acque territoriali italiane”.

L’ordine è definito negli atti illegittimo e per questo motivo la procura ha chiesto l’archiviazione per il comandante Marrone, indagato per aver disobbedito. Infine, la procura ha specificato con una nota che non ha iscritto nel registro degli indagati alcun finanziere per questa vicenda – oggetto d’indagine a Roma per una denuncia presentata dalla ong Mediterranea – e che la “Gdf ha sempre operato nel contrasto all’immigrazione clandestina con impegno e dedizione pur in un quadro normativo non sempre chiaro e in un contesto sociale caratterizzato da forti tensioni”.