Lega, cosa pensa Giorgetti: “Salvini ha troppi nemici”

“Un fronte di scontro lo puoi reggere, due forse, tre no”, dice il leghista Giancarlo Giorgetti con tono grave di un messaggio per Matteo Salvini. “Questa la può attribuire a me oppure a Otto von Bismarck”, scherza. Giorgetti crede in due cose: la squadra di Southampton, che fu fondata in una parrocchia; la pesca al lago, che il nonno ha tramandato al padre e così via. E poi una terza, più politica: “I cortigiani non aiutano il capo, lo affondano. Io sono leale e Matteo lo sa”. A suo modo, quel modo di concetti articolati e un po’ sospesi, Giorgetti racconta il legame con Salvini dopo una settimana di retroscena che li ha raffigurati in ruvidi confronti e nel giorno del consiglio federale che, come fanno i partiti che restano partiti, farà un esame della sconfitta in Emilia-Romagna.

I fronti di scontro di Salvini, abile procacciatore di consensi, secondo la logica di Giorgetti, possono impedire al medesimo Salvini di passare da uomo di comizio a uomo di governo. Non puoi pensare di amministrare l’Italia o di sedere sul trono di Palazzo Chigi sfidando l’alleanza atlantica, cioè gli Stati Uniti; i burocrati di Bruxelles, cioè l’Unione europea; la gerarchia ecclesiastica, cioè la Chiesa di Papa Francesco.

Per un anno con l’incarico di Sottosegretario a Palazzo Chigi e ancora adesso con l’eterna patente di numero due del Carroccio, Giorgetti è sempre intervenuto a riparare lì dove Salvini strappava. È Giorgetti che ha mantenuto i contatti con il Vaticano nel tripudio di rosari baciati, santini sventolati, crocifissi in pugno. È Giorgetti che ha rassicurato la Banca centrale europea dell’amico Mario Draghi durante il capzioso balletto euro sì, euro no. È Giorgetti che ha ripristinato il dialogo con gli americani – già con il viaggio di marzo – inviperiti per le posizioni italiane troppo blande con Russia e Cina. “Avvisai Matteo di prestare attenzione a Gianluca Savoini”, e Matteo niente, ingenuo, non l’ha fatto e s’è beccato lo scandalo Moscopoli che ha sfregiato la Lega.

Per le rimostranze su Huawei e le tecnologie 5G di Internet o per fiutare i movimenti nei palazzi romani, spesso l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg si rivolge a Giorgetti. È accaduto pure di recente. Giorgetti è convinto che soltanto uno stolto possa contestare a Salvini il 32 per cento in Emilia o sindacare una strategia di campagna elettorale. Per la Lega, però, è scoccato il momento di decidere che tipo di proposta di governo preparare, come occupare la destra italiana, un territorio già ampio e in espansione, che Giorgia Meloni contende e i reduci di Forza Italia non abbandonano. “Salvini è un generoso. È come un corridore chino sul manubrio, che pedala, pedala, cerca di andare sempre più forte, ma rischia di non vedere cosa gli succede attorno, chi gli copre davvero le spalle, chi gli può tirare la borraccia”.

Il consiglio federale è convocato anche per lanciare un nuovo manifesto politico, che ha il sapore di qualcosa di antico, ma che significa scegliere un gruppo di dirigenti per mettere per iscritto la Lega di domani, un movimento che si candida a guidare l’Italia e non può permettersi più di spaventare Washington o Bruxelles e di assecondare rigurgiti xenofobi e fascisti.

A Salvini spetta il compito di nominare la prima linea del Carroccio, rompere gli equivoci e interrompere (per un attimo) la propaganda per ricaricare la Lega e se stesso. Un posto per Giorgetti c’è. E la prossima volta, chissà, suggerirà a Salvini di non sbattere contro i citofoni. Perché per strappare un voto ci vuole una frase a effetto, ma per governare ci vuole calma. Al lago, se non stai fermo, non prendi neanche una carpa.

Sulla prescrizione litiga pure Forza Italia

Forza Italia tenta l’accerchiamento alla riforma Bonafede sulla prescrizione. Con una manovra a tenaglia su più fronti, dentro e fuori il Palazzo. Il progetto di legge di Enrico Costa, che era appena tornato in commissione Giustizia, ora è stato di nuovo calendarizzato per l’Aula della Camera lunedì 24 febbraio. Dall’altra parte, però, per abolire la legge che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, il partito di Silvio Berlusconi si muove anche a livello locale. L’Ars, l’assemblea regionale siciliana, ha iniziato il percorso per chiedere un referendum per l’abrogazione, su proposta del forzista Gianfranco Miccichè. Per approvare un referendum serve il voto di almeno cinque consigli regionali e ora il partito azzurro confida di trovarne altri quattro, magari dove il centrodestra è al governo: Lombardia, Veneto, Liguria e Abruzzo, ad esempio.

“La legge che abolisce la prescrizione è un calcio in faccia al diritto, qualcosa bisognava fare perché non si può assistere immobili a questo scempio”, afferma Miccichè.

FI, del resto, è sempre assai sensibile a questo tema, visto che Silvio Berlusconi ha usufruito della prescrizione svariate volte, l’ultima delle quali per la compravendita di senatori durante il governo Prodi 2, reato per cui in primo grado era stato condannato a 3 anni per corruzione, mentre la prescrizione è sopraggiunta in appello e confermata dalla Cassazione.

Sull’iniziativa di Miccichè, però, i berluscones si spaccano, perché per alcuni si tratta di “una forzatura” se non addirittura “un’invasione di campo”. Insomma, si preferiva seguire la strada parlamentare. “Dopo essere stata rispedita in commissione, ora la mia proposta tornerà in Aula, questo mi sembra il percorso più lineare. Anche perché all’interno dei partiti di governo sul tema vedo parecchia frustrazione”, osserva Enrico Costa. Con la sua iniziativa legislativa, il deputato azzurro è riuscito a incunearsi perfettamente nelle contraddizioni della maggioranza. Più volte, infatti, il leader di Italia Viva Matteo Renzi ha minacciato di votare la legge Costa “se le forze al governo non riescono a superare la riforma Bonafede”. E infatti i renziani la settimana scorsa, quando la maggioranza ha rispedito il ddl in commissione, non hanno partecipato al voto.

Insomma, il clima sulla giustizia è caldo e un chiarimento è necessario: se lo scontro permane, il governo rischia. “Il M5S deve capire che quella era una loro legge, ma non di questo governo. Siamo in una coalizione e le cose vanno affrontate con spirito collaborativo. Noi facciamo molti passi indietro, ma anche da parte loro ci vuole disponibilità”, osserva il dem Walter Verini.

Insomma, per il partito di Zingaretti sulla prescrizione ognuno deve ritirare le proprie bandiere identitarie per trovare una sintesi, altrimenti “facciamo il gioco dell’opposizione che punta a dividerci”. Sull’argomento ieri è intervenuto anche il premier Giuseppe Conte. “Prescrizione? Per me è più importante la riforma del processo penale”, ha detto il presidente del Consiglio. Mentre i 5 Stelle continuano a dividersi tra i “trattativisti” e i “duri e puri”.

Il primo giorno del “Conte 3” Così ripartono i giallorosa

Finora, avevano dovuto trattare con lui soltanto – si fa per dire – sulla faccenda della prescrizione. Ma da ieri, il resto dei giallorosa, con Alfonso Bonafede dovrà averci a che fare per ogni cosa. Così, l’esordio del nuovo capo delegazione si trasforma in un test per la “fase due” della maggioranza. Quella che arriva dopo le Regionali e lo scampato pericolo della vittoria di Matteo Salvini. Ma anche quella che inizia dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico dei 5 Stelle. “Si erano allontanati, no?”, è la domanda con cui a sinistra provano a sondare se si troveranno di fronte “un altro” Movimento. “Per biografia Bonafede è più vicino a Conte, giusto?”, si ragiona ricordando il comune passato all’Università di Firenze. In sostanza, si cerca di capire se la fine dell’era Di Maio significa qualcosa anche per lo stato dei rapporti interni alla maggioranza. Perché la parola d’ordine del “Conte 3” – almeno nelle intenzioni del premier e del capo delegazione dem Dario Franceschini – è “basta bandierine”.

Tradotto significa che non bisogna ricominciare con le prese di distanza quotidiane, con i battibecchi a suon di agenzie, con i veti e i ricatti. “Bisogna governare da alleati”, è il mantra anche di Nicola Zingaretti, il segretario del Pd che dopo la vittoria in Emilia vuole aprire il “cantiere” di un nuovo contenitore del centrosinistra che sogna così grande da tenere dentro Cinque Stelle e pure le Sardine. Non proprio l’aria che si respira dall’altro lato del tavolo, dove le dimissioni di Di Maio hanno inciso praticamente zero sul cambio di linea politica: il reggente Vito Crimi, se possibile, è ancora più oltranzista del ministro degli Esteri: “Se scegliamo un campo, non esistiamo”, ha ripetuto l’altroieri al Fatto. Così, giovedì, in Parlamento hanno fatto rumore le parole con cui il presidente della Camera Roberto Fico – uno che al dialogo con i dem lavora dal primo giorno – ha chiesto ai 5 Stelle di restare “uniti” nel sostenere il governo Conte fino al 2023. Una ovvietà che ovvia non è, se ha sentito il bisogno di dirlo.

Ieri, però, il clima era quello da primo giorno di scuola: vestito nuovo e buonissimi propositi per l’anno che inizia. Si è volutamente evitato di mettere sul tavolo le questioni più spinose – su tutte l’annosa riforma della prescrizione e la revoca delle concessioni autostradali – e si è preferito guardare avanti: non è un caso che il premier, postando su Twitter la foto del vertice e invitando i commensali a “procedere spediti, determinati, compatti”, abbia coniato il nuovo hashtag #Agenda2023. Il cronoprogramma è ancora tutto da definire. Anche perché il Pd vorrebbe prima rimettere mano ad alcune delle questioni ereditate dal governo gialloverde: i decreti Sicurezza innanzitutto, ma pure Quota 100 e il Reddito di cittadinanza, due punti su cui ovviamente i Cinque Stelle non intendono mollare. Conte però assicura che l’agenda della maggioranza sarà pronta nei prossimi giorni. Perché “non è che gli italiani ci hanno dato fiducia per prenderci del tempo e fare discussioni politico-filosofiche”, aggiunge, consapevole che la “verifica” secondo gli annunci sarebbe dovuta arrivare già prima delle regionali e invece è andata per le lunghe, complice la campagna elettorale che non permetteva a nessuno dei partiti di fare scelte complicate. Un rischio che ora si ripropone, con gli Stati generali che impegneranno i 5Stelle nei prossimi mesi. E su cui Conte non sembra disposto a transigere: “Ho parlato già con esponenti dei M5S, ho avuto un incontro con Vito Crimi. Si sono dati dei tempi per quanto riguarda la completa riorganizzazione interna, ma il governo non può attendere e loro mi hanno garantito di essere nella condizione di dare il loro contributo”.

“Passata la paura di Salvini, il rischio ora è la restaurazione”

Vitalizi, prescrizione, Craxi statista e Davigo rinnegato: tira un’arietta di restaurazione? Per capire come e perché abbiamo interpellato Marco Revelli, sociologo e professore all’Università del Piemonte orientale. Che comincia così: “Passata la grande paura di un precipizio autoritario – la vittoria di Matteo Salvini in Emilia-Romagna avrebbe avuto un terribile effetto domino – riemerge una deriva che risiede saldamente nell’autobiografia della nostra nazione”.

A quale deriva si riferisce?

A quella restauratrice di una politica opaca e compromissoria. Un modo di concepire l’agire pubblico come inevitabilmente contaminato da corruzione e privilegi. Un’idea bassa della politica che dagli anni 90 ha connotato trasversalmente il cattivo bipolarismo italiano, evidente nel polo berlusconiano ma non estranea al centrosinistra.

Il Senato ripristinerà i vitalizi così come li abbiamo sempre conosciuti, senza la sforbiciata imposta dal ricalcolo su base contributiva in vigore dal gennaio 2019.

Sono un aspetto forse secondario anche se significativo di un cattivo costume. Sono un tema di agitazione politica soprattutto in un momento di crisi e scontento popolare. Indicano certamente un privilegio di casta, anche se naturalmente non incidono più di tanto sul bilancio dello Stato. Quel che colpisce è la sordità di quella parte di classe politica che li difende verso la sensibilità del popolo. Abolirli sarebbe un buon segnale verso un elettorato in buona misura esasperato e che non smette di manifestare con l’astensione il proprio disamore.

Il partito di Berlusconi pluriprescritto vorrebbe giocare la carta del referendum contro la nuova legge sulla prescrizione.

Mi pare un tentativo di schierarsi da parte degli imputati privilegiati: non so quanto i cittadini li seguiranno in caso di referendum… Una volta che il processo è iniziato la prescrizione è a mio avviso scarsamente difendibile. Lo è da una lobby, quella degli avvocati, che sulla tendenza a prolungare i processi fino a farli sfociare in un nulla di fatto in qualche caso ha costruito la propria fortuna. Mi riferisco soprattutto agli avvocati che hanno assistito uomini di potere come Berlusconi: quante ne ha scampate di condanne grazie alla prescrizione? Onestamente non credo che il rimedio contro la lunghezza dei processi, che pure è un problema, sia la prescrizione. Per un innocente l’idea di non essere condannato grazie alla prescrizione è un affronto.

Che pensa del balletto su Autostrade?

Una vicenda surreale. Le barricate che vengono erette contro la revoca, che a me sembra un provvedimento dovuto non solo di fronte alla tragedia del ponte Morandi, costata la vita a 43 persone e in cui sono emerse in modo scandaloso le responsabilità dei concessionari. È dovuto anche di fronte allo stato deprecabile della manutenzione dell’intera rete autostradale. Di fronte a queste inadempienze la revoca, o l’annullamento, mi pare un provvedimento sacrosanto. Non farlo sarebbe una difesa d’ufficio di gestori che non hanno rispettato il contratto.

Le Camere penali volevano impedire a Piercamillo Davigo, inviato dal Csm, di parlare all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario a Milano.

Un comportamento che esprime una concezione mercantile della professione: più che alla giustizia si pensa all’impunità dei propri clienti. È una brutta reazione corporativa, che tradisce quello che dovrebbe essere il mandato sociale della professione di avvocato.

C’è un clima di riabilitazione della figura di Craxi?

Sì, si è sedimentata – a destra come a sinistra – l’idea che Tangentopoli è stato un incidente di percorso determinato da un manipolo di giacobini fanatici, i magistrati del pool, che non sapevano come va il mondo. Perché la politica è quella incarnata da Craxi e poi da Berlusconi. Ho trovato grottesco il pellegrinaggio ad Hammamet: il sindaco di Bergamo, la delegazione ufficiale di Forza Italia, Pittella…. Mi hanno colpito molto le parole di Giancarlo Giorgetti – erede del partito del cappio – che ha detto che nel suo pantheon ci sono Craxi, Sturzo e Bossi. Con questo povero Sturzo a far la parte del Cristo tra i due ladroni. Hanno costruito un pezzo del loro capitale politico su quei cappi, che naturalmente nessun magistrato di Mani Pulite si sarebbe mai sognato di avallare: ecco cos’è il trasformismo.

Torniamo al passato?

Nell’area che va dall’Italia Viva renziana al Pd riconfigurato da Zingaretti, passata la grande paura di Salvini, si fa finta che tutto possa tornare come prima. Questa grande voglia di bipolarismo mi pare nasconda una grande voglia di Seconda Repubblica. Che è stato un sistema malato di corruzione e consociativismo transpolare, cioè di collusione tra i due poli che ha tagliato fuori il sentimento popolare. Temo si voglia tornare a quel demi-monde che si pensava finito nel 2011. È un errore catastrofico in un universo politico così frammentato. Anche il maggioritario sarebbe una catastrofe perché è un sistema che frustra la domanda di rappresentanza, anche considerando il taglio del numero dei parlamentari. Scansato il mostro Salvini, i nuovi mostri sono il ritorno al passato con bipolarismo e maggioritario.

Il compagno Mauro inciampa sui Cesaro

C’è un filo criminale che avrebbe unito il sindaco comunista e anticamorra del napoletano Mauro Bertini con gli imprenditori Raffaele e Aniello Cesaro, i fratelli imputati di camorra del più potente esponente di Forza Italia in provincia di Napoli, il senatore Luigi ‘a Purpetta’ Cesaro.

Due mondi che avrebbero dovuto osteggiarsi e che invece sarebbero scesi a patti per spartirsi un bottino: 175.000 euro di tangenti, che i due Cesaros avrebbero corrisposto a Bertini per avere in cambio mani libere e delibere compiacenti sulla realizzazione dei capannoni del Piano di insediamento produttivo di Marano (Napoli), un affarone da 40 milioni di euro.

Da ieri Bertini, 75 anni, dagli anni 90 dominus di Marano, più volte sindaco e ora consigliere, è agli arresti domiciliari con accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione. L’ordinanza firmata dal Gip di Napoli Maria Laura Ciollaro ricostruisce così i flussi degli incassi di denaro: 75.000 euro nel febbraio 2006 attraverso assegni, 50.000 euro in contanti nel 2008 e altri 50.000 euro nell’aprile 2009 per fermare una campagna denigratoria. Sotto processo a Napoli Nord dopo un lungo periodo di detenzione iniziato nel 2017, sono proprio i due fratelli Cesaro a vuotare il sacco ed a raccontare i dettagli di come, dove e quando avrebbero corrotto l’ex sindaco, che secondo un verbale di Aniello Cesaro del 19 luglio 2019, quando ricevette gli assegni “si lamentò di non aver ricevuto denaro contante”, e per fortuna un loro sodale, Angelo Simeoli, si offrì subito di monetizzarli: “Mauro, tranquillo, te li cambio io”.

L’assunto di fondo delle indagini condotte dai Ros di Napoli agli ordini del tenente colonnello Gianluca Piasentin, e coordinate dal pm Dda Mariella Di Mauro, è che dietro al Pip di Marano e ad altre operazioni edilizie come l’acquisto pubblico di Palazzo Merolla e la riconversione della Masseria Galeota si siano celati i reinvestimenti del clan di camorra dei Polverino.

Il pm aveva chiesto un nuovo arresto per Raffaele e Aniello Cesaro ma il Gip l’ha negato perché il codice vieta le contestazioni a catena rispetto ai fatti già affrontati nell’ordinanza di arresto del 2017. Quell’indagine, e i suoi filoni stralcio, hanno lambito Luigi Cesaro, indagato per minacce a un tecnico comunale e poi per voto di scambio in favore del figlio, consigliere regionale alle elezioni 2015.

Deputato al momento dei fatti e poi eletto senatore, la posizione di Luigi Cesaro è nel limbo perché la Procura per quasi due anni non ha ottenuto una risposta dal Parlamento alla richiesta di utilizzare le sue intercettazioni indirette. Montecitorio e Palazzo Madama infatti si sono rimpallate a lungo la decisione. Passata poi definitivamente al Senato, in spregio a giurisprudenza che fissava la competenza alla camera di appartenenza al momento della notizia di reato. Una vicenda surreale rivelata dal Fatto quotidiano.

Dopo gli arresti di Aniello e Raffaele Cesaro, il pm ha scavato nelle loro relazioni con Bertini. La cui ultima elezione a consigliere nel 2018 è stata descritta così sul sito di Rifondazione: “Significativa affermazione della coalizione di sinistra alternativa che con il candidato sindaco compagno Mauro Bertini, già Sindaco Comunista per 10 anni, arriva al 16,51 % con l’appoggio di due liste, L’altra Marano al 10, 8% e Potere al Popolo al 4,1%, eleggendo 3 consiglieri. La scelta di non procedere con logiche settarie di autosufficienza ma cercando di unire la sinistra in alternativa al Pd si è dimostrata efficace sul piano elettorale”. Già.

Una cuccia di Stato maggiore nel cortile di Palazzo Esercito

È un recinto piuttosto anonimo, tra qualche palma non troppo in salute. Niente di lussuoso, ma certo in una location esclusiva nel pieno centro di Roma. Trecento metri a sinistra c’è il Quirinale, cento metri più a destra la caserma “maggiore Alessandro Negri di Sanfront” che ospita i corazzieri. Il luogo è certamente uno dei più protetti e sorvegliati d’Italia, il palazzo che ospita, tra gli altri, lo Stato Maggiore della Difesa in via XX Settembre. Qui passa, non sempre, le sue giornate un inquilino illustre a quattro zampe, potremmo dire un gallonato, anzi il più gallonato d’Italia: il cane del generale Ezio Vecciarelli, capo di Stato maggiore della Difesa.

Il cortile è discreto, dà accesso direttamente all’ala di Palazzo Esercito che da non molto tempo ospita anche lo Stato maggiore della Difesa. Dall’inizio del 2019 in questo tranquillo e riparato angolo della Roma umbertina ha trovato frequente per quanto precario alloggio anche il miglior (suppongo) amico di Vecciarelli. Il generale è al vertice della Difesa italiana dal 6 novembre 2018. Poco dopo, a dicembre, una ditta di Rignano Flaminio, la Az. Service L., riceve l’incarico di realizzare l’alloggio, diciamo così, di servizio per il comandante in capo a quattro zampe. Un alloggio sobrio, come si conviene alla dignità dell’occupante, senza troppi fronzoli così da non dare troppo nell’occhio. Un po’ di riservatezza serve, alla fine questi palazzi proteggono i segreti più delicati della nostra Difesa.

L’ordine per la costruzione dell’alloggio di servizio del nostro Fido-in-capo viene fatto secondo le regole del buon governo tramite il Mercato elettronico della Pubblica amministrazione, a trattativa privata. Spesa totale: 4.250 euro, oltre al 22 per cento di Iva. La descrizione della commessa non parla esplicitamente della destinazione del manufatto da costruire. “Realizzazione nuova recinzione nell’area limitata presso il cortile n. 3 di Palazzo Difesa” si dice nell’ordinativo alla ditta.

Non è chiaro a che titolo il Fido-in-capo abbia titolo a una cuccia di servizio a spese dello Stato. Forse risulta “per trascinamento” del diritto all’appartamento di servizio che invece spetta sicuramente al generale Vecciarelli. Al capo di Stato maggiore della Difesa viene assegnato un alloggio cosiddetto ASIR (alloggio di servizio di rappresentanza), uno dei soli sei sopravvissuti al taglio dei 55 lussuosi alloggi che venivano assegnati fino a pochi anni fa ad alcuni generali. Tra l’altro è curioso notare come tra chi ha diritto a un alloggio di rappresentanza vi siano i capi delle Forze armate ma non il ministro della Difesa al quale spetta solo un alloggio cosiddetto ASI (alloggio di servizio connesso all’incarico).

La differenza è sostanziale: gli ASIR sono alloggi principeschi che arrivano anche a 500 mq di superficie e buona parte delle spese, compreso il personale domestico e di pulizia, sono a carico dello Stato. Gli altri (come quello assegnato all’ex ministra grillina Elisabetta Trenta che ha provocato tanto scandalo) sono normali appartamenti senza ulteriori benefit.

Tra le spese a carico della collettività, tuttavia, non risulta ci sia anche il recinto per il cane. I decreti e le circolari che regolano gli alloggi di servizio non ne fanno cenno. In realtà le norme non consentirebbero neppure ai militari di portare i propri amici a quattro zampe sul posto di lavoro. Ma alla Difesa ricordano come un altro capo di stato maggiore, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, si facesse spesso accompagnare dal gatto che aveva l’abitudine di zampettare sul tavolo delle riunioni. Chissà, forse anche il trasportino del micio era a carico del bilancio della Difesa.

P.S. La Difesa, interpellata con una email inviata al capo dell’Ufficio comunicazione, generale di brigata Vincenzo Romano, per avere conferma di quanto riportato è rimasta senza risposta. Una vecchia, brutta abitudine dei militari.

Fondazione Open, bancomat e primarie. I giudici: “Ecco perché ha agito da partito”

“Due giudici fiorentini decidono che Open non è una fondazione, ma un partito. E quindi cambiano le regole in modo retroattivo. Aprendo indagini per finanziamento illecito ai partiti! Ma come? Se era una fondazione, come può essere finanziamento illecito a un partito? E allora chi decide oggi che cosa è un partito? La politica o la magistratura?”. Così Matteo Renzi il 27 novembre scorso tuonava dalla propria pagina Facebook all’indomani delle perquisizioni disposte dalla Procura di Firenze nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open. È l’indagine nella quale sono stati iscritti l’ex presidente della Open, Alberto Bianchi, per traffico di influenze e finanziamento illecito e Marco Carrai, che ne è stato membro del cda, ma per il solo finanziamento illecito.

Anche Carrai nei mesi scorsi è stato perquisito. Provvedimento contro il quale l’imprenditore amico del leader di Italia Viva ha fatto ricorso al Tribunale del Riesame che lo ha respinto. Ma è interessante leggere le sette pagine di motivazioni, depositate pochi giorni fa, per trovare una risposta alla domanda: perché i giudici hanno equiparato la Fondazione Open a un partito politico?

Davanti al Tribunale del Riesame, i difensori di Carrai hanno puntato sulla legge numero 3 del 9 gennaio 2019, nota come “Spazzacorrotti”, fortemente voluta dal M5S, e che riguarda “misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”.

I legali quindi hanno depositato i pareri affidati ai professori Giulio Ponzanelli, Domenico Pulitanò e Giovanni Maria Flick. “Affermavano i difensori – è scritto nelle motivazioni – che tutti e tre tali studiosi erano giunti al medesimo risultato: è certo che almeno sino all’entrata in vigore della legge numero 3 del 9 gennaio 2019, la Fondazione Open non potesse essere considerata né quale ‘partito politico’, né quale ‘articolazione di partito politico’, sicché era da escludere che ad essa, per i fatti avvenuti tra il 2012 e il 2018, potesse applicarsi la norma penale relativa al finanziamento illecito ai partiti”.

Sono motivazioni che non hanno convinto i giudici del Riesame, i quali scrivono che la Fondazione Open “sulla base degli esiti dell’attività investigativa svolta” appare aver “agito come ‘articolazione’ di partito politico”.

Ed elencano anche gli elementi sui quali basano questa convinzione. Dalle indagini e dalla documentazione sequestrata – si spiega – emergono infatti riferimenti: alle primarie del 2012, al “comitato per Matteo Renzi Segretario”, e anche “alle ricevute di versamento da ‘parlamentari’”. Inoltre emerge che la “Fondazione ha rimborsato spese a parlamentari”, ai quali sono state messe a disposizione anche “carte di credito e bancomat”. Nel cda della Open in passato sedeva anche l’ex ministro Luca Lotti, non indagato: lui aveva a disposizione un bancomat che però, secondo quanto spiegano al Fatto fonti vicine alla Open, non l’avrebbe praticamente mai usato.

Su Carrai, invece, i giudici scrivono: “Il ricorrente ha svolto un ruolo di primaria importanza nel reperimento dei finanziatori della Fondazione e nel collegamento tra costoro e gli esponenti politici rappresentati dalla Fondazione”.

Per il Tribunale del Riesame, quindi, il decreto di perquisizione disposto nei confronti di Carrai è legittimo. E lo stesso esito hanno avuto i ricorsi presentati da alcuni imprenditori perquisiti senza essere indagati in qualità di finanziatori della Fondazione.

La guerra siciliana sui tagli agli assegni finisce alla Consulta

Appena 56 giorni. Tanto ha resistito la legge light sul taglio ai vitalizi della Regione Siciliana, sbandierata a fine novembre dal presidente del Parlamento regionale Gianfranco Micciché come un successo senza precedenti. In un momento di incontrollabile entusiasmo, l’ex ministro berlusconiano aveva chiesto pure di chiedere scusa ai siciliani, per troppo tempo bollati come spreconi. Peccato però che quella legge adesso finirà davanti alla Corte costituzionale.

Lo ha deciso il Consiglio dei ministri durante la seduta del 23 gennaio su proposta del ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia. Alcune disposizioni contenute nel testo violerebbero “il principio di uguaglianza e ragionevolezza, sancito dall’articolo 3 della Costituzione, nonché i principi di coordinamento della finanza pubblica”.

L’inghippo sarebbe legato ai tempi d’applicazione di questa legge: in vigore soltanto per cinque anni, passati i quali tutto ritornerà come prima. Il taglio dei vitalizi, recepito in Sicilia in estremo ritardo dopo l’accordo Stato-Regioni dell’aprile 2019, prevede poi una riduzione a scaglioni in maniera progressiva: 9% fino a 37 mila euro annui, 14% da 37 mila a 62 mila euro e 19% oltre i 62 mila euro.

Per allinearsi alle direttive nazionali la Sicilia ha pure creato una commissione parlamentare speciale, presieduta da Stefano Pellegrino, deputato regionale di Forza Italia indagato per corruzione elettorale.

Unica forza politica a mettersi di traverso il Movimento 5 Stelle. Compatto in aula sia nell’astenersi dal voto, poi passato lo stesso con 38 consensi arrivati da centrodestra e centrosinistra, che nel denunciare la presenza di un emendamento che consente un aumento sul calcolo della pensione. “In commissione ci hanno fatto perdere sei mesi – spiega al Fatto Jose Marano (M5S) – Poi hanno calendarizzato e discusso la legge, proposta da Pd e Forza Italia, il giorno stesso”.

I grillini adesso proveranno a far passare in aula un testo per eliminare “il vergognoso timer dei 5 anni”. Eventuali ulteriori ritardi rispetto all’accordo Stato-Regioni, come stabilito dalla legge di Bilancio, potrebbero portare anche uno stop dei trasferimenti erariali sull’asse Roma-Sicilia.

Nell’isola, l’istituto che assegna il vitalizio a favore degli ex deputati tuttavia è stato abolito a gennaio 2012, con l’introduzione di un sistema previdenziale contributivo, simile a quello previsto per i dipendenti statali: cioè più contributi versi più alta sarà la pensione. Il vero nodo è quindi legato ai privilegi dei decenni precedenti. La Regione per pagare i vitalizi degli ex deputati – per percepirlo bastava una legislatura – sborsa ogni anno quasi 18 milioni di euro, con l’assegno che viene erogato non solo agli ex parlamentari, ma anche a un esercito di eredi inseriti tra le categorie protette: 117 vedove e tre figlie fanno parte dell’ultimo elenco, aggiornato a gennaio, per un totale mensile di circa 500 mila euro. Tra gli eredi del vitalizio c’è, per esempio, la figlia del deputato Natale Cacciola, eletto nel 1947 con il Partito Nazionale Monarchico. Ma anche la moglie e la figlia del defunto Luigi Carollo, militante del Partito comunista e per due mandati all’Assemblea regionale. O la vedova del meccanico Michele Semeraro, anche lui deputato alla fine della Seconda guerra mondiale nella lista Blocco del popolo ideata dal duo Togliatti-Nenni.

Tra i beneficiari anche volti più recenti del panorama politico. L’ex presidente Raffaele Lombardo, condannato in appello per voto di scambio e attualmente sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Stesso reato che vede alla sbarra l’ex Pd Raffaele Pippo Nicotra. La fetta più grossa degli assegni si aggira sui 6.000 euro. Con la legge voluta dall’Ars, ma solo per cinque anni, la sforbiciata sarebbe di circa mille euro. Il grosso, quasi 8.000 euro mensili, è destinato a chi ha ricoperto almeno cinque mandati. Tra i recordmen, il geometra messinese Luciano Ordile, deputato dal 1971 al 1996 con la Democrazia cristiana ed ex assessore regionale.

Vitalizi, ha deciso chi li prende “Commissione da azzerare”

Ora che lo scandalo è esploso, il Movimento 5 Stelle si aspetta almeno un gesto di sensibilità: dimissioni spontanee. In alternativa, lo scioglimento della Commissione contenziosa (l’organo di giustizia interna di Palazzo Madama) che si appresta ad annullare il taglio dei vitalizi per gli ex senatori. Deciso dopo non poche resistenze a Palazzo Madama, alla fine del 2018 e operativo dal 1º gennaio 2019. Richieste, quelle del M5S, che arrivano dopo le anticipazioni del Fatto Quotidiano del dispositivo della sentenza già messo nero su bianco prima della camera di consiglio del 20 febbraio, giorno fissato per la lettura del verdetto. E rivolte anche alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. La quale prova a schivare la grana: “La Commissione contenziosa e il Consiglio di garanzia sono organi giurisdizionali e, come tali, autonomi e indipendenti”, recita un suo comunicato: “In ragione di ciò, non è consentito al presidente del Senato qualsivoglia tipo di intervento o ingerenza sulle loro attività sia di merito che di composizione di organo già costituito, salvo le dimissioni dei componenti”.

Presa di posizione chiara, anche se l’imbarazzo a Palazzo è grande, e lo dimostra il silenzio tombale dei partiti che ieri non hanno in alcun modo commentato la notizia. Perché non solo la sentenza era già bella e scritta, ma pure il comunicato ufficiale pronto per essere mandato in stampa intorno alle ore 19 del giorno 20. Due paginette, anche queste in possesso del Fatto, per spiegare i contenuti della decisione “assunta sui ricorsi proposti avverso la deliberazione del consiglio di presidenza del Senato della Repubblica n. 6 del 2018”, ossia la delibera con la quale era stato imposto il ricalcolo degli assegni vitalizi con il metodo contributivo. “È grave che la sentenza sia arrivata già scritta quando la camera di consiglio deve ancora celebrarsi”, tuona il capogruppo a Palazzo Madama del Movimento 5 Stelle, Gianluca Perilli. Il quale affonda il colpo sollevando anche un’altra questione non da poco: la presenza, nell’organismo chiamato a decidere dei ricorsi degli ex senatori contro i tagli, di membri in palese conflitto di interessi. Primo tra tutti, Giacomo Caliendo, presidente della commissione in questione, che appena abbandonerà lo scranno parlamentare beneficerà del trattamento di vantaggio che si appresta oggi a elargire a tutti i colleghi.

Da sempre esponente di Forza Italia, Caliendo è stato sottosegretario alla Giustizia nel IV governo Berlusconi, proprio come la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, pure lei forzista. Come azzurro doc è anche il suo capo di gabinetto Nitto Palma che con l’ex Cav. è addirittura stato ministro Guardasigilli. Gente, insomma, che si conosce bene e da tempo. Una compagnia che si è ritrovata al Senato e a cui è stato poi aggregato un’altra vecchia conoscenza di Nitto Palma: l’ex magistrato Cesare Martellino chiamato anche lui dalla Casellati a far parte di questa discussa commissione contenziosa (è stato incaricato di fare il relatore proprio sulla questione dei ricorsi). Che naturalmente restituirà anche a Palma, parlamentare dal 2001 al 2018, il vitalizio per intero: 6.217 euro e 16 centesimi al mese invece dei “miseri” (si fa per dire) 5.428,25 euro che dopo il taglio operativo dal 1º gennaio finiscono comunque nelle sue tasche.

E pensare che a opporsi al ripristino dei vecchi vitalizi è stata persino l’Avvocatura del Senato che con fermezza ha chiesto alla Commissione Caliendo che venissero respinti i ricorsi degli ex senatori in quanto “infondati”. Anche alla luce del parere del Consiglio di Stato che era stato acquisito dall’Amministrazione di Palazzo Madama e che aveva dato piena legittimazione al taglio varato dai due rami del Parlamento. Tanto da indurre l’Ufficio per gli affari legali di Palazzo Madama a sentenziare che “le due deliberazioni delle Camere in materia di ricalcolo dei vitalizi non esplicitano alcuna finalità punitiva e, pertanto, non hanno fondamento le doglianze” dei ricorrenti. Ma Caliendo ha tirato dritto. Ricevendo applausi a scena aperta dagli ex parlamentari in fiduciosa attesa, la maggior parte dei quali rappresentati dall’avvocato Maurizio Paniz. “Ho la massima fiducia in coloro che sono stati chiamati a giudicare”, commenta Paniz. Che, dettaglio non trascurabile, beneficerebbe anche lui della controriforma dei vitalizi essendo stato deputato, naturalmente berlusconiano, dal 2001 al 2013.

Scusaci, Savastano

“Mo ce ripigliamm’ tutt’ chell che è ’o nuost’” (ora ci riprendiamo tutto quello che è nostro). Lo dice Pietro Savastano all’inizio della seconda stagione di Gomorra, quando annuncia ai fedelissimi riuniti in un garage la riconquista di Napoli. La frase ci è tornata alla mente quando Ilaria Proietti ci ha portato la notizia del ritorno dei vitalizi cancellati appena un anno fa. Dal verdetto del sedicente “Organo di giustizia interno” del Senato trasuda la stessa sete di vendetta e di rivalsa che aleggia nel Palazzo da quando s’è sparsa la voce che i 5Stelle sono morti, dunque la ricreazione è finita e tutti possono tornare alle antiche arti prensili. Solo che questa Restaurazione non è fiction: è tutto vero. L’“autodichia” (giustizia domestica) senatoriale è presieduta da Giacomo Caliendo, compianto sottosegretario alla Giustizia di B. e habitué della P3, dunque promosso al vertice dell’insigne sinedrio da Maria Elisabetta Alberti Casellati e dal di lei capo di gabinetto Francesco Nitto Palma, già intimo di Previti e guardasigilli di B.. Queen Elizabeth, fra l’altro, è già seduta su un mega-vitalizio che, contro le regole, le cumula pure i quattro anni del Csm.

Il 20 febbraio sarebbe fissata l’udienza del tribunalino “casa & bottega” per vagliare i ricorsi di 700 ex senatori vilmente colpiti negli affetti più cari (i portafogli) dalla delibera della Camera voluta dai 5Stelle e recepita obtorto collo dal Senato, che impone il ricalcolo contributivo dei vitalizi e li sforbicia a chi prendeva più di quanto dovuto per i contributi versati. Come per i comuni mortali. Lì dovrebbero votare in cinque: oltre Caliendo, i laici Cesare Martellino, ex magistrato anche lui in ottimi rapporti con Previti e con B. (che lo nominò nel 2001 a Eurojust al posto di Caselli) e Alessandro Mattoni (avvocato); e i senatori Alessandra Riccardi (M5S) e Simone Pillon (Lega). Ma la camera di consiglio sarà finta, perché Caliendo ha già scritto la sentenza e persino il comunicato stampa. Peggio dei giudici di Asti che han condannato un tizio prima dell’arringa dell’avvocato. La sentenza, poi, è uno spasso: “Il vitalizio ha una connotazione previdenziale”, cioè è una pensione. E va restituito integralmente ai 700 ricorrenti con tanto di arretrati, in base ai sacri “principi della Corte costituzionale” (e pazienza se la Cassazione ha già dichiarato inammissibile il ricorso di un ex). Ciliegina sulla torta: con la sentenza del Caliendo solitario, il vitalizio senza tagli lo percepiranno lo stesso Caliendo (quando finalmente lascerà il Senato) e Nitto Palma (subito, visto che è già ex). Ci scusiamo con la famiglia Savastano per l’offensivo accostamento.