“Nel mezzo del cammin di nostra…” ci ritrovammo tutti in un musical

Torna sui palchi per la terza stagione un musical atipico, a metà strada tra la fedele trasposizione dell’opera di Dante e una regia tra il format teatrale e l’innovazione, con filmati, immagini 3d e coreografie acrobatiche. E un ruolo maiuscolo destinato al corpo di ballo: non meri esecutori, ma protagonisti anche nella trascrizione del copione.

Alla presentazione alla stampa a Milano era presente il regista Andrea Ortis e i principali protagonisti, oltre al produttore dello show Gabriele Gravina. “La Divina commedia è un format popolare e, soprattutto, aperta alle nuove generazioni – spiega Gravina – questa è una produzione completamente italiana e abbiamo pensato a una tariffa fissa per gli studenti e a dei posti riservati”.

“Sono partito dal testo trecentesco e ho messo in atto un processo di sviluppo di prosa, canto e corpo di ballo con alcuni inserti in 3d, cercando di trovare un equilibrio. – racconta il regista Ortis – Accostarsi a un’opera come la Divina Commedia è per molti italiani pesante. Il mio obiettivo è stato di rendere il suo canovaccio una storia comprensibile a tutti. C’è una visione più laica e meno cattolica e una sorta di reset intellettuale: settecento anni di parafrasi… Ognuno di noi si immagina – ad esempio – Beatrice bionda e angelica e invece troverà Beatrice con i capelli scuri, una donna energica, sanguigna, pratica. Abbiamo ridato la virtù del testo originale e contemporaneamente costruito un impianto scenico atto ad assecondare la fantasia sterminata di Dante”.

A scanso di equivoci la Società Dante Alighieri ha insignito una medaglia all’opera riconoscendone la fedeltà al testo. La voce narrante è di Giancarlo Giannini, Beatrice è interpretata da Myriam Somma, Dante da Antonello Angiolillo, Ortis è presente anche nelle vesti di Virgilio. Completano il cast Noemi Smorra, Angelo Minoli, Federica Basile, Francesco Iaia, Antonio Melissa, Antonio Sorrentino e Martina Maiorino.

Lo show ha coinvolto e ancora lo farà quest’anno le scuole con alcuni appuntamenti riservati agli studenti, “preparati” dalle docenti: “Ci siamo ritrovati con 4.500 bambini in un palazzetto nell’appuntamento prima dello show: loro sono senza filtri, sanno essere anche spietati – racconta Francesco Iaia – il loro giudizio è senza ipocrisia. Ecco perché in questa nuova edizione abbiamo deciso di scendere in platea e avvicinarci a loro. Cerchiamo di conquistarli con la passione e l’amore, quello che muove il sole e le stelle”.

“Chiamarlo musical è strano. – chiosa Ortis – C’è uno studio con molti esperti del testo di Dante, più di cento elementi orchestrali e alcune innovazioni quali inserti cinematografici. Ovviamente abbiamo focalizzato su alcuni personaggi cercando di ricostruirne le storie e i diversi passaggi. Non è un docu-teatro ma uno show creativo”.

Queste le date confermate: Brescia 31 gennaio, Padova 8 febbraio, Catanzaro dal 14 al 16, Catania 21 e 22, Bologna 7 e 8 marzo, Torino dal 24 al 29, Genova dal 1 al 3 aprile e Roma dal 15 al 19.

Un doppio Germano alla conquista dei tedeschi

Due Elio Germano in Germania al prezzo di un solo biglietto. Per la Berlinale, naturalmente, la cui 70ª edizione (20 febbaio-1 marzo) promette scintille. E, almeno sulla carta, è bello sapere che queste si tingono di tricolore, ben innalzato dal neo direttore artistico Carlo Chatrian che ha selezionato addirittura due opere italiane tra le 18 in concorso. “Abbiamo guardato esclusivamente alla qualità” ha dichiarato ieri alla conferenza stampa ufficiale il successore valdostano di Dieter Kosslick, ma è certo non accadeva da decenni che tale “qualità” fosse riscontrata in ben due produzioni dal Belpaese a fronte di migliaia di titoli visionati che ambivano a rincorrere l’Orso d’oro.

Volevo nascondermi di Giorgio Diritti e Favolacce dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo sono gli “eletti”, con l’ironia della sorte di condividere Elio Germano nel cast, così che l’attore romano si troverà a concorrere contro se stesso nel palese imbarazzo di un’ecumenica par condicio. Ma è certo che il peso specifico della sua presenza registra un divario assoluto, essendo per il quarto film di finzione del cineasta bolognese il protagonista assoluto nell’incarnazione dell’anima tormentata e del corpo deforme del pittore Antonio “Toni” Ligabue, di cui il lungometraggio è il biopic. Dalle immagini già licenziate dalla produzione si evince la misura della mimesi di Elio/Toni, non dissimile a quanto già ci ha abituato il suo amico e collega Favino “mutato” in Buscetta e Craxi. “Mi sono immaginato Toni Ligabue arrivare in moto a Potsdamer Platz, sfilare i guanti ed entrare dicendo ‘Grazie, grazie!’ con quella sua cadenza emiliano-svizzera!”, ha dichiarato Diritti dopo aver appreso la propria inclusione alla Berlinale. Volevo nascondermi è prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti con Rai Cinema e uscirà in Italia per 01 Distribution il 27 febbraio, a Berlinale ancora in corso.

Romanissimo come i suoi autori è invece Favolacce dei D’Innocenzo Bros, già “veterani” berlinesi avendo portato nel 2018 in Panorama il folgorante esordio La terra dell’abbastanza; prodotto da Pepito con Rai Cinema e Vision Distribution (che lo distribuirà nelle sale), il film è una favola dark a incastri innervata a Casal Palocco, una “terra di mezzo” fra la Capitale e il mare dove la calma apparente nasconde inquietudini profonde. Germano, sposato con il personaggio interpretato da Barbara Chichiarelli, è padre di figli dodicenni e rappresenta una delle famiglie le cui storie si intrecciano in Favolacce in una suburbia sospesa e criminale.

I “nostri” si trovano a sfidare concorrenti agguerriti, fra altisonanti maestri e semi-sconosciuti talenti che Chatrian ha inserito in un concorso qualità per una Berlinale celebrativa anche della propria metropoli (uno dei titoli è il tedesco Berlin Alexanderplatz di Burhan Qurbani, un omaggio al contrario del capolavoro di Fassbinder) e volutamente deluxe, con 18 Paesi rappresentati e 16 premiere mondiali. Da Abel Ferrara (il cui Siberia con Willem Dafoe è una coproduzione italiana) a Tsai Ming Liang, da Philippe Garrel a Rithy Panh, da Sally Potter a Hong Sangsoo, da Kelly Reichardt a Christian Petzold, dall’iraniano perseguitato dal regime Mohammad Rasoulof al tagliente duo belga Benoît Delépine & Gustave Kervern: un puzzle di autori diversamente magnifici che da tempo non si vedevano tutti insieme concorrenti a Berlino. Da notare quest’anno che sette fra i registi in concorso sono donne, includendo le co-regie. A giudicarli sarà una giuria guidata dall’attore britannico Jeremy Irons, che saluterà la sua collega connazionale Helen Mirren celebrata con un omaggio e l’Orso d’oro onorario alla carriera 2020.

Imponente di oltre 400 titoli distribuiti in 9 sezioni (fra cui la nuovissima Encounters dedicata al cinema sperimentale e fuori formato espressamente voluta da Chatrian), carica di eventi e sorprese ancora da svelare, in Berlinale 70 hanno trovato voce anche altri – e davvero numerosi – italiani. Oltre al già annunciato Pinocchio di Garrone in Berlinale Special Gala, in programma sono inclusi Semina il vento (Panorama) opera seconda del tarantino Danilo Caputo, Palazzo di giustizia (Generation 14 plus) esordio di Chiara Bellosi, La casa dell’amore di Luca Ferri e Zeus Machine. L’invincibile di Nadia Ranocchi e David Zamagni (entrambi in Forum) e il documentario Faith (Woche der Kritik) di Valentina Pedicini.

Fritti militari, ostriche per Galileo e Krug al Colle

Il pranzo è servito: ostriche e chianti (!) per le Onoranze centenarie a Galileo Galilei; Krug Brut Reserve nei ricevimenti quirinalizi; salame alla truppa del Reggimento Reale; fritto di capra a due gambe e un piede, seguito da bipede alato, per i festeggiamenti di Porta Pia… L’uomo è ciò che mangia, ma soprattutto ciò che dice di mangiare: Carta canta… e “i menu raccontano”, dal titolo dello sfizioso saggio di Roberto Liberi, Ammiraglio Ispettore Capo con la passione per la storia e la gastronomia.

Piluccando dalla sua raccolta di oltre 300 menu, l’autore ha selezionato un centinaio di cartoncini, dal 1892 al 2010, dalla Belle Époque ai gala sfarzosi a bordo dei transatlantici, dai voli in Alitalia con papa Benedetto XVI – e le sue dietetiche crespelle all’ortica – ai pranzi ipercalorici di studenti, militari e sportivi, con sigari e sigarette serviti insieme al caffè, che Cr7 se li sogna. Cucina, grafica, storia lato sensu: questo è un libro da mangiare con gli occhi, ricco com’è di aneddoti sui costumi degli italiani a tavola, inclusi esattori delle tasse, mutilati di guerra, “rimpiconiti” (rincretiniti, ndr), bocconiani e scaramantici, i cui listini sono inghirlandati di ferri di cavallo, che richiamano i genitali femminili e allontanano il demonio.

La moda di attovagliarsi per i pranzi e le cene – seduti al desco e con le portate in ordine preciso e prestabilito – è relativamente recente: fu introdotta all’inizio dell’800 dal principe Kurakin e infatti si chiama “servizio alla russa” di contro al “buffet alla francese” in voga prima, quando la colazione si faceva in tarda mattinata, il pranzo nel pomeriggio e il soupé, lo spuntino, a mezzanotte. Leggenda vuole, invece, che Umberto I non mangiasse mai, soprattutto con la consorte e in trasferta a Monza: “Si siede a tavola con la moglie, non tocca cibo, si alza, si inchina, saluta e va da Eugenia (l’amante) per cenare e trascorrere la notte insieme”. Lunga notte, causa digestione: i menu prevedevano una dozzina o più di portate, seguendo la sequenza principale di minestra in brodo-pesce-arrosto, inframmezzata da relevé (carne), entrée (budini), légume (verdure), punch a la Romaine (sorbetto) e seguita da entremets (intermezzi dolci), formaggi, gelato… La lista diventa più semplice e snella solo dopo la seconda guerra mondiale, con l’introduzione di piatti fino ad allora considerati “poveri”, come cotolette e pasta asciutta, di cui l’esercito andava ghiotto e contro cui i futuristi scrissero il loro j’accuse “Abbasso la pastasciutta”: meglio la plastica mangiabile.

Il primo a valorizzare, oltre alle vivande, le bevande fu Brillat-Savarin con la Fisiologia del gusto (1825), suggerendo di cambiare più vini nel corso del pasto, al costo di abbinamenti improbabili come il succitato chianti con le ostriche o il barolo con le triglie. Il re degli alcolici è lo champagne, raccomandato persino dai medici: il dottor Roques, ad esempio, nella sua Physiologie médicale (1821), lo decanta come “liquore vivo, etereo, incantevole (che) scuote tutte le menti: gli uomini freddi, gravi, saggi si meravigliano di ritrovarsi affabili”. Tra gli italiani spiccano il capri bianco, i vini del Vesuvio, conosciuti già da Aristotele, e il dolcetto, il cui nome non deriva solo dall’uvaggio dolce ma anche dalle colline basse (“dosset” in piemontese) dei suoi vitigni. Al contrario, di acqua minerale ce n’è poca o niente.

Per decenni le francesi sono le bottiglie più corteggiate e gettonate, così come il francese è la lingua dei menu, almeno fino al 1907 quando Vittorio Emanuele III dispone motu proprio l’uso dell’italiano nella compilazione delle liste di corte, fino all’italianizzazione forzata del fascismo, con esiti tragicomici come il “volvano di pernici” (vol-au-vent), il “filetto alla maggiordomo” e la “frittata avvolta” (omelette). Nella prima metà del Novecento anche a tavola trionfa il patriottismo, muscolare e bellicoso: la salsa è “tripolitana”, il filetto “alla Taitù”, l’insalata “del deserto”, la bomba “Tricolore”, la torta “Vittoria”, il branzino “Mare Nostrum”, le palle “di Berlino” (in omaggio all’alleato nazista) e le Polardine hanno “ricordi di cammello”.

Godibilissime, e spruzzate qua e là, le curiosità culinarie sui piatti, le loro origini e preparazioni: dalle trote in blu, bollite vive previo colpo in testa, al Pan di Spagna che in realtà è genovese; dalla finta zuppa di tartaruga, per cui si usa una testa di vitello, alle pinne di pescecane al sugo; dal ristretto di canguro al filetto alla Wellington, inventato da chef particolarmente solerti nel compiacere il proprio cliente. Così è nato il famoso taglio di carne: rigorosamente in crosta per assomigliare agli stivali del duca inappetente.

Coloni, fuoco amico sul “Piano del secolo”

Benjamin Netanyahu avrebbe voluto già nella prima riunione di governo, domenica prossima, avviare subito le procedure per l’annessione della Cisgiordania – la Giudea e la Samaria per gli israeliani – inserita nel “Piano” del presidente americano Donald Trump. Ma la decisione potrebbe ancora essere soggetta a sfide legali perché l’attuale gabinetto è un governo ad interim. I leader israeliani, incluso Netanyahu, si erano astenuti finora dall’estendere la legge israeliana in qualsiasi parte della Cisgiordania, temendo sanzioni internazionali, perché l’Onu e la comunità internazionale considerano illegali le colonie oltre la Linea Verde; questo però non ha impedito che oltre mezzo milione di coloni vi si sia insediato in questi anni. Ma il via libera di Trump è arrivato con la promessa di porre il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu in caso di una risoluzione che condanni Israele. L’entusiasmo del primo ministro – che caduta l’ipotesi della richiesta di immunità affronterà presto tre processi per frode e corruzione mentre corre come candidato al voto del 2 marzo – non è però condiviso dai leader dei coloni, il cuore elettorale dell’ultradestra nazionalista. Nel Piano della Casa Bianca si prevede uno “Stato” palestinese e su Trump e Netanyahu arriva il “fuoco amico”.

Il capo del Consiglio regionale di Binyamin, Israel Gantz, dice che i leader degli insediamenti “stanno studiando ed esaminando i dettagli del piano in profondità”. Accoglie con favore “l’importante e rara opportunità di applicare immediatamente la sovranità israeliana sull’insediamento di Binyamin e su tutta la Giudea e la Samaria, come abbiamo richiesto da tanto tempo”. “Ma detto ciò – promette – non permetteremo il riconoscimento o l’istituzione di uno Stato palestinese, e non daremo una mano a isolare e soffocare gli insediamenti e mettere in pericolo la loro sicurezza”. Anche il capo del Consiglio Regionale della Samaria, Yossi Dagan, è felice della “opportunità storica” del Piano per l’annessione ma, avverte: “Ci sono elementi che mettono in pericolo l’esistenza dello Stato di Israele”, cioè lo Stato palestinese. “Il nostro Affare del secolo|”, conclude Dagan, “è un milione di ebrei in Giudea e Samaria”. Yohai Damari, capo del Consiglio regionale di Har Hevron, che spingeva per applicare la sovranità israeliana prima delle elezioni come voleva Netanyahu, così da cavalcare il tema per tutta la campagna elettorale, non vuol sentir nemmeno parlare di Stato palestinese. Nel cuore di tenebra del movimento suprematista ebraico alcuni gruppi sono ancora più duri. Yehudit Katsover e Nadia Matar, leader dell’organizzazione “Women in Green” e del “Movimento per la sovranità” sostengono che Israele deve annettere l’intera Cisgiordania. “Uno non fa accordi sulla propria patria”, è la reazione a caldo, “è un cattivo affare per Israele e solo l’idea di uno Stato palestinese è un’idea delirante e pericolosa”.

Il leader del partito di estrema destra ‘Otzma Yehudit’, Itamar Ben-Gvir. seguace del rabbino razzista Meier Kahane e leader del movimento anti-arabo, ce l’ha con “l’euforia e gli applausi” che ci sono stati alla Casa Bianca. “L’eccitazione – dice – ha nascosto il fatto che il governo israeliano ha accettato la nascita di uno Stato palestinese, ha consegnato il Monte del Tempio (la Spianata delle Moschee, ndr) alla Giordania, lasciato la maggior parte del territorio della Giudea e della Samaria ai palestinesi e impone il blocco della costruzione degli insediamenti per quattro anni”. “Non mi sembra – conclude – una gran vittoria”.

Al Sultano non basta la Libia. Erdogan vuole tutto il Sahel

L’ennesimo tour in Africa del presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è concluso, non casualmente, alla vigilia del summit dell’Unione Africana sulla Libia. A parte la costante presenza turca nel Maghreb dovuta ai legami intessuti in epoca coloniale, negli ultimi dieci anni la Turchia è riuscita a farsi spazio nei Paesi dell’Africa orientale a maggioranza islamica, specialmente nella poverissima e fallita Somalia dove ha ottenuto ingenti commesse per la costruzione delle infrastrutture e in futuro magari per l’esplorazione delle sue acque ricche di idrocarburi.

Ma da tempo le mire espansionistiche del Sultano hanno individuato nel Sahel e nell’Africa Occidentale, sempre a maggioranza islamica, un mercato propizio e un’area dove espandere la propria influenza geopolitica e culturale attraverso una rete di scuole che diffondono il verbo dell’islam politico.

Il tour in Algeria, Gambia e Senegal questa volta aveva un ulteriore obiettivo: spingere questi Paesi ad appoggiare il tentativo di Erdogan di “salvare” il premier libico Fayez al-Sarraj dalle milizie del feldmaresciallo Khalifa Haftar e costringerlo a firmare una tregua duratura. Nel discorso tenuto davanti al presidente senegalese Macky Sall, Erdogan ha accusato Haftar di essere “un mercenario”, alludendo soprattutto al fortissimo sostegno egiziano, emiratino e saudita che ha permesso all’uomo forte della Cirenaica di diventare sempre più forte. Nella capitale senegalese, dove si è recato quattro volte negli ultimi sei anni, Erdogan e gli imprenditori turchi al seguito hanno firmato con le controparti un totale di sette accordi di cooperazione nei settori dell’istruzione, dello sport e della gestione delle catastrofi. Sall ha definito la Turchia un partner “importante e dinamico” del Senegal, elencando i molteplici progetti portati avanti come il centro conferenze internazionale “Abdou Diouf” (Cicad), l’aeroporto internazionale “Blaise Diagne de Diass” (Aibd), l’arena di Dakar, il Radisson Hotel a Diamniadio, il mercato nazionale e diversi centri commerciali. L’obiettivo è aumentare il volume degli scambi a 400 milioni di dollari.

In attesa di vedere come andrà il summit sulla Libia di oggi a Brazzaville (capitale della Repubblica del Congo) tra i leader africani, incluso Sall che, a questo proposito, ha assicurato a Erdogan di impegnarsi con i colleghi per “la ricerca di una soluzione politica alla crisi libica”, il Capo dello Stato turco è tornato in patria non del tutto contento nonostante anche la tappa in Gambia sia stata proficua in termini di accordi commerciali, sulla sicurezza, e politici. Erdogan sperava infatti di trovare una sponda nell’Algeria sia per quanto riguarda la questione libica sia per la questione energetica, che in questo caso coincidono. La Turchia non possiede nè gas nè petrolio, dipendendo dalla Russia e dall’Iraq per l’approvvigionamento. Se il problema energetico potrebbe diminuire grazie al controverso accordo con Sarraj sullo sfruttamento dei giacimenti in mare nella Zona Economica Esclusiva libica, per far sì che si realizzi e perduri nel tempo, Ankara ha bisogno che il gigante algerino stia dalla sua parte politicamente, sostenendo Sarraj. Di certo dal 19 dicembre, data del summit di Berlino durante il quale la diplomazia europea aveva spinto per la tregua, il fallimento del ‘cessate il fuoco’ viene rimpallato fra Sarraj e Haftar e chi li appoggia. Ieri è stato il turno della Francia; il presidente Macron ha puntato il dito contro il capo di Stato, Erdogan: “Non rispetta la parola data. Negli ultimi giorni vediamo navi turche accompagnare mercenari siriani sul suolo libico. È una esplicita violazione di ciò che il presidente Erdogan si era impegnato a fare nella conferenza di Berlino”

Tory e dissidi azzoppano la BBC: 450 licenziamenti

La Bbc è in crisi di credibilità, visione e leadership, dopo le annunciate dimissioni del direttore generale Tony Hall. Ma soprattutto deve risparmiare: e quindi annuncia il taglio di 450 posti di lavoro nelle News, non pochi sui 6.000 dipendenti, per recuperare 80 milioni di sterline entro 2022. Non si salvano nemmeno i mostri sacri: ridimensionato Newsnight di Bbc 2 e Bbc 5 Radio Live, cassato il World Update, il notiziario delle 10 del mattino del World Service, il prestigioso servizio di Esteri. Per la direttrice delle News Fran Unsworth non è solo questione di soldi ma di rilevanza per il futuro. “La Bbc deve affrontare il modo in cui sta cambiando il pubblico”, ha chiarito “Nei prossimi 10 anni dobbiamo rimodellarci in modo da ottenere risparmi sostanziali. Stiamo spendendo troppe delle nostre risorse sul tradizionale modello di trasmissione lineare e non abbastanza sul digitale”. Tradotto: la maggior parte della produzione giornalistica arriva ad una relativa minoranza della popolazione; facciamo programmi che raggiungono un pubblico prevalentemente anziano, non i giovani né gli utenti più poveri. Bisogna ottimizzare le risorse. Di conseguenza, i giornalisti risparmiati dovranno seguire un approccio story-led: produrre contenuti che possano essere riutilizzati su diversi canali e programmi. Per i critici della decisione significa creare una fabbrica di contenuti di bassa qualità, e sottoporre lo staff a una pressione ancora superiore a quella attuale, che già provoca errori clamorosi: pochi giorni fa un notiziario ha riportato la morte di Kobe Bryant con immagini di un’altra star del basket, LeBron James.

Alcuni dei tagli annunciati hanno già provocato la furibonda reazione di una parte del pubblico: è il caso del programma di Victoria Derbyshire, eliminato malgrado l’impatto decisivo di molte delle sue inchieste.

Trump, la guerra infinita: altro che pace, più bombe per tutti

Che sia caduto o che l’abbiano abbattuto i talebani, in fondo, conta poco per la nostra storia: quasi 19 anni dopo l’invasione, l’Afghanistan resta un posto terribilmente pericoloso per i militari Usa e per i loro commilitoni d’ogni nazionalità: gli italiani sono circa 800, il secondo contingente.

Lunedì scorso, il Pentagono riferiva che un Bombardier E-11A utilizzato per convogliare informazioni sul campo di battaglia in tempo reale, era caduto nella provincia di Ghazni, nell’Est dell’Afghanistan, un’area dove i talebani spesso sono padroni. Nessun accenno a eventuali vittime.

I talebani, ore prima, avevano rivendicato l’abbattimento di un aereo Usa, sostenendo che a bordo v’erano diversi alti funzionari Cia. Il Pentagono non confermava la circostanza. Secondo l’agenzia di stampa iraniana Mehr, che cita fonti dell’intelligence russa, fra le vittime ci sarebbe uno degli artefici del raid che, la notte tra il 2 e il 3 agosto, portò all’uccisione a Baghdad del generale iraniano Qasim Soleimani. Michael D’Andrea sarebbe stato il capo delle operazione d’intelligence Usa in Iraq, Iran e Afghanistan e avrebbe perciò avuto un “ruolo decisivo in molti atti di terrorismo, incluso l’omicidio del generale Soleimani”. Informazioni non confermate a Washington.

Ma la storia alimenta ‘teorie del complotto’ intorno alla tragica scomparsa di molti elementi delle forze speciali degli Stati Uniti. L’incidente, della cui tragicità non si hanno le dimensioni, giunge mentre vanno avanti le trattative tra Usa e talebani per un possibile parziale ritiro del contingente internazionale, in cambio d’impegni sulla sicurezza nel Paese. L’estate scorsa, i negoziati parevano vicini a un’intesa, poi saltata; a fine novembre, il presidente Donald Trump ne aveva dato per imminente la conclusione, ma i talebani lo avevano smentito. E spesso le trattative sono intervallate da offensive militari.

Che la situazione in Afghanistan non sia sotto controllo, lo conferma un rapporto della US AirForce secondo cui gli aerei da guerra americani hanno lanciato più bombe sull’Afghanistan nel 2019 che in qualsiasi altro degli ultimi 10 anni: Washington avrebbe intensificato gli attacchi nel Paese proprio al fine mettere pressione sulla controparte e sbloccare i colloqui con i talebani.

Solo nel 2019, gli aerei Usa hanno sganciato 7.423 ordigni su obiettivi in Afghanistan, Paese che venne attaccato nell’ottobre 2001 dopo la missione kamikaze degli aerei dirottati sulle Torri Gemelle di New York, l’11 settembre. Il regime dei talebani garantiva ad al Qaeda e al suo capo, Bin Laden, che si era assunto la paternità dell’attacco, protezione e santuari per l’addestramento. Oggi, i talebani restano padroni di porzioni del territorio, al Qaeda è ancora nel Paese e vi si sono rifugiati anche miliziani e foreign fighters dell’Isis. Durante la presidenza Obama, il picco massimo di raid e bombardamenti in Afghanistan s’era avuto nel 2009, con 4.147 bombe sganciate. Anche allora gli Usa volevano ritirarsi dal Paese e cercavano di creare le condizioni per farlo. Da quando Donald Trump è stato eletto alla Casa Bianca, i bombardamenti sull’Afghanistan si sono intensificati e restrizioni volte a limitare vittime civili sono state tolte. L’aumentata conflittualità coinvolge anche gli altri contingenti nazionali presenti nel Paese.

In Italia, la questione del richiamo dei nostri soldati è stata più volte sollevata, ma mai affrontata in modo decisivo. L’Onu e i gruppi per la tutela dei diritti umani hanno ripetutamente espresso preoccupazione perché il maggior numero di attacchi provoca un aumento delle vittime civili. Un rapporto dell’Onu riferisce che, nei primi nove mesi 2019, le forze filo-governative hanno ucciso 1.149 civili, 31% in più rispetto al 2018: la maggior parte dei “danni collaterali” è stata causata da attacchi aerei Usa e afghani, spesso a sostegno di operazioni condotte dall’esercito afghano. Nello stesso periodo, i talebani sarebbero stati responsabili di 1.207 vittime fra la popolazione.

La fuga di Whirlpool è certa: a ottobre

La fuga da Napoli della Whirlpool ora ha una data certa: il 31 ottobre 2020. Non più tra due mesi, come era nei piani della multinazionale, ma tra nove. Cambia poco, però, la sostanza e la conclusione è stata accettata anche dal governo, che ha già attivato Invitalia affinché cerchi una nuova impresa – non necessariamente nel campo degli elettrodomestici – che voglia prendersi il sito e mantenere i 420 lavoratori.

L’obiettivo è trovarlo entro luglio; nel frattempo ci sarà una verifica sugli altri stabilimenti per capire se l’azienda sta rispettando gli accordi firmati a ottobre 2018 al ministero dello Sviluppo economico. Accordi che, tra l’altro, prevedevano che non lasciasse la Campania. Il tavolo di trattativa, riaperto ieri pomeriggio dopo la tregua armata pre-natalizia, non ha generato lo scatto in avanti in cui speravano i sindacati. O meglio, non c’è stato verso di convincere l’azienda americana a fare marcia indietro. L’amministratore delegato della divisione italiana Luigi La Morgia ha ancora una volta definito “insostenibile” le attività di Napoli, con 20 milioni di perdite annue, nonostante i buoni risultati degli altri impianti. Le difficoltà dello stabilimento partenopeo, tra l’altro, erano note da anni, ha detto. Quindi anche prima del 25 ottobre 2018, quando comunque la Whirlpool ha assunto l’impegno di rilanciarlo. I sindacati lo hanno incalzato chiedendo dove sarà spostata la produzione delle lavatrici. La Morgia ha detto che i 17 milioni di investimenti promessi saranno ridistribuiti nelle altre fabbriche, mentre ancora non hanno deciso dove portare le produzioni.

Insomma, ieri l’azienda si è presentata all’incontro senza alcuna novità, se non la conferma della volontà di chiudere e indicando la data del 31 marzo. Una scelta definita “inaccettabile” dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. È stata necessaria una riunione ristretta per strappare un compromesso sulla data del 31 ottobre. Ancora un po’ di ossigeno per trovare una soluzione. Bocciata l’ipotesi degli svizzeri della Passive Refrigeration Solutions, specializzati in container frigoriferi, idea proposta mesi fa dalla stessa Whirlpool, ora la palla è in mano a Invitalia. L’agenzia pubblica cercherà aziende interessate (e credibili) a presentare un progetto, anche in settori diversi da quello degli elettrodomestici, purché già presenti solidamente in Italia o che abbiano prospettive di insediamento nel nostro Paese. Se sarà trovato questo nuovo soggetto, potranno essere concessi incentivi pubblici.

I sindacati, però restano fermi sulla stessa posizione: a Napoli deve restare la Whirlpool, che deve mantenere i patti e proseguire con le lavatrici. “L’azienda, come altre multinazionali, non può decidere di strappare gli accordi firmati – ha detto la segretaria Fiom, Francesca Re David – e di andare a produrre e fare profitti altrove. Il governo si è dimostrato inadeguato, in quanto ha detto che non ha gli strumenti per impedire a Whirlpool di lasciare Napoli”. Si preannuncia un nuovo sciopero.

Le acrobazie fiscali dei Ferrero. Ora gli inglesi chiedono il conto

Questa volta non basterà un Ferrero Rocher per soddisfare “quel leggero languorino” della nobildonna in giallo di un vecchio spot televisivo. In pancia gli inglesi non hanno solo un leggero appetito, ma una gran fame di recuperare denaro utile alle casse pubbliche in tempi di Brexit. Così la Ferrero (e non solo lei) rischia di pagare salato il conto delle acrobazie fiscali, perfettamente legali, di ottimizzazione internazionale delle imposte.

Il gruppo di Alba è infatti finito nel mirino della deputata laburista Rachel Reeves, che ha chiesto al governo di intervenire per impedire a società come Ferrero l’utilizzo di “stratagemmi fiscali opachi” finalizzati a pagare meno tasse. “Le regole per società come Ferrero e qualsiasi altra azienda sono semplici: le tasse vanno pagate nel Paese in cui si realizza il fatturato” ha precisato la Reeves. Ma nelle multinazionali, incluse quelle del web, le cose non funzionano così. Prova ne è il caso del patron della Nutella che ha fatto andare su tutte le furie gli inglesi.

Secondo quanto riferito dal quotidiano britannico The Guardian, lo scorso anno il gruppo di Alba ha versato all’erario inglese appena 110 mila sterline di tasse (130 mila euro). Per la deputata britannica, il dato è sconcertante visto che il fatturato della filiale d’Oltremanica ha sfiorato i 419 milioni di sterline (500 milioni di euro). La questione non è peraltro limitata allo scorso esercizio: in dieci anni, il gruppo produttore dei Kinder ha versato al fisco inglese appena 500 mila sterline (600 mila euro). Ma come è possibile che il gruppo di Alba paghi così poche tasse agli inglesi? Nonostante le corpose vendite, Ferrero non riesce forse a produrre utili?

Per il Guardian le cose non starebbero esattamente in questi termini. Ma sono il risultato di uno stratagemma fiscale semplice e pienamente nelle regole. Secondo la ricostruzione del giornale, lo scorso anno, la filiale britannica di Ferrero ha pagato 334 milioni di sterline in costi di vendita alla holding lussemburghese che controlla l’intero gruppo. In questo modo, la divisione inglese ha registrato solo 9,7 milioni di sterline di utili ante-imposte in base ai quali ha pagato 110 mila sterline di tasse (che, va detto, nel Regno Unito sono assai basse per le società). “I conti della divisione inglese mostrano come Ferrero non abbia raggiunto il break even per diversi anni – ha spiegato al Guardian il consulente fiscale Robert Leach –. Nessuna controllante si terrebbe una sussidiaria che registra perdite simili anno dopo anno. Il fatto che Ferrero invece lo faccia è a tutti gli effetti un’ammissione che sta esportando i profitti. Fondamentalmente, si tratta di cioccolata e nocciole incartate in un fantasioso involucro. Non dovrebbe costare molto. E allora chiederei alla compagnia: ‘cosa vi costa 334 milioni di sterline?’ Vorrei chiedere a Giovanni Ferrero: ‘Perché continui a vendere cioccolata nel Regno Unito, dove non fai utili?’”. Domanda legittima. Soprattutto perché, in dieci anni, la famiglia Ferrero ha incamerato 2 miliardi di euro di dividendi attraverso la holding in Lussemburgo. Un Paese dove la tassazione è assai più leggera e in cui sono emigrati anche industriali italiani come Leonardo Del Vecchio (Luxottica) o la famiglia Rocca (Tenaris).

Del resto, è noto che in casa Ferrero gli affari vanno alla grande. Solo nel 2018 la famiglia si è staccata un assegno da 642 milioni, uno dei maggiori dividendi della storia finanziaria del Vecchio continente. Denaro che accresce ulteriormente il patrimonio (29 miliardi, dato Bloomberg) di Giovanni Ferrero, l’uomo più ricco d’Italia, il 27esimo al mondo. Tutto merito del successo mondiale di Nutella, Kinder Bueno e Rocher che hanno consentito alla holding di famiglia di realizzare 674 milioni di utili grazie a 10,7 miliardi di ricavi. Sulle sua attività, “Ferrero corrisponde le imposte nei paesi in cui opera nel pieno rispetto delle norme fiscali locali e internazionali”, spiega il gruppo.

Anche in Italia dove, secondo l’ultimo, bilancio (31 agosto 2018), l’azienda, che impiega nel nostro Paese circa 7 mila persone, ha pagato 96 milioni di tasse. E cioè buona parte dei 250 milioni di imposte pagate dal gruppo a livello internazionale. In Italia il colosso di Alba, che con la sola Ferrero Commerciale Italia fattura più di 1,4 miliardi, opera in regime di collaborative compliance e ha ricevuto la tessera numero 1 dall’Agenzia delle Entrate. Che cosa significa? In buona sostanza, ha instaurato un rapporto di continuo interscambio con l’Agenzia per “prevenire” situazioni suscettibili di generare rischi fiscali prima della presentazione delle dichiarazioni. Roba da far ingolosire i sudditi di Sua Maestà.

Signorini, Wanda Nara

L’idea del nuovo Grande Fratello Vip era ambiziosa; alzare il livello del reality (qualcosa come piallare il Nanga Parbat) e alzare il livello dei Vip: si spiegano così interessanti operazioni di archeologia industriale quali il recupero di Michele Cucuzza e di Antonella Elia (opzionata, pare, anche dall’Unesco). Ma purtroppo non sempre le ambizioni garantiscono i risultati: vediamo un po’. Alfonso Signorini. Altarini, falò di confronto e di affronto, arsenico e vecchi cornetti pompati a tutta birra per vedere l’effetto che fa. Vorrebbe essere lo scoop in diretta; in realtà è la versione trash di Carramba che sorpresa!, dove solo il direttore di Chi realizza il suo sogno (essere la Carrà). Pupo. I suoi interventi a sfondo autobiografico aggiungono gossip al gossip, doppisensi ai doppisensi, pecoreccio al pecoreccio. Non ci sono più gli intellettuali organici; in compenso, fioriscono gli opinionisti organici. Wanda Nara. La consorte di Icardi si ispira a Mies van der Rohe. Meno vestiti possibile, meno pensieri possibile, meno intellegibile possibile: “Lessa is more”. Barbara Alberti. Una grande, al solito sola contro tutti. Il Gieffe non le mancherà, lei mancherà al Gieffe. Rita Rusic. Da produttrice di cinepanettoni qual è, non ha trovato un cast all’altezza. E si è autoprodotta. Antonio Zequila. È stato o no con la Marini? Il mistero tarda a diradarsi. Forse Er Mutanda sogna di oscurare la fama di Mark Caltagirone, però ha un tallone d’Achille: esiste davvero.