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Nessuna “omologazione”: i 5S sono rimasti fedeli a loro stessi

Gentile Direttore, è deprimente dover accettare che una forza politica come il Movimento 5 Stelle fondato per dare potere alle realtà territoriali, senza la figura di un capo politico, i cui parlamentari sarebbero stati tassativamente solo dei portavoce, che ogni decisione importante sarebbe stata sottoposta al voto online degli iscritti, una volta al potere abbia abbandonato i principi fondanti, compreso quello che non avrebbe fatto alleanze di governo. L’omologazione con la vecchia politica, che tutta definiva il M5S antipolitica, è stata rapidissima e si sono create le condizioni per cui si è cominciato a parlare di “capo politico”, di “carisma” con nomine calate dall’alto. La punizione per l’abbandono delle regole fondanti è subito arrivata dalle urne, ma con le dimissioni Di Maio non ha chiarito le cause di questo declino, se non riferendosi a “traditori” interni. Immaginiamo, senza schemi fissi in testa, uno scenario possibile dopo i risultati delle ultime elezioni politiche, che dettero il 33% al M5S (primo partito in Italia), in cui si doveva mantenere per prima cosa la promessa elettorale di non fare alleanze di governo e, in mancanza di governabilità, chiedere una nuova legge elettorale che la consentisse (proporzionale con premio di maggioranza e divieto di presentarsi in coalizione). Sono sicurissimo che, in quella situazione politica, in piena vittoria elettorale, il traguardo di una nuova legge elettorale sarebbe stato raggiunto e con esso un governo capace di attuare il proprio programma. Il peccato originale è quello di non mantenere la parola e la politica in questo è campione del mondo, ma se lo fa chi propone trasparenza, onestà, coerenza, rispetto del programma politico, il tonfo è assicurato.

Paolo De Gregorio

 

Mi scusi, Paolo, ma a me risulta che senza un leader nessuna forza politica, per legge, può presentarsi alle elezioni. Quanto all’“omologazione”, non riesco a vederla, visto che molte bandiere dei 5 Stelle sono diventate leggie con l’ostilità di tutti gli altri partiti. Gli errori dei 5 Stelle sono ben altri.

M. Trav.

 

Elezioni regionali, Sardine: una boccata d’aria fresca

Alcune riflessioni sulle votazioni: l’uscita di Renzi dal Pd ha fatto un gran bene al Pd medesimo. Il voto in Calabria è meno chiaro. Complessivamente mi sembra che non abbia vinto nessuno, ma si siano solo evitati alcuni gravi rischi.

Il crollo dei 5 Stelle va letto, come per tutti gli altri partiti o movimenti, nella perdita di identità che è penalizzante sempre. Hanno sbagliato prima ad assecondare la Lega, adesso devono fare attenzione a non assecondare troppo il Pd. Quota 100 va difesa a oltranza e rinnovata alla scadenza. La legge Fornero va abolita. Il sistema pensionistico va rivisto. I No Tav hanno ragione e andavano difesi. Non credo che la gente volesse il taglio dei parlamentari. Quello che molti di noi vorrebbero è l’eliminazione dei privilegi e la riduzione dei compensi che sono veramente esagerati, la concessione ad Autostrade va tolta, mancherebbe altro. Le Sardine hanno portato un vento di freschezza, benvenute!

Sono riuscite a dare a molti uno scossone, convincendoli anche ad andare a votare, il che è servito a evitare danni peggiori.

Grazie Sardine!

Albarosa Raimondi

 

Piombino, rischiano gli operai ma anche il territorio

Vorrei esprimere tramite il vostro giornale tutta la mia solidarietà, da cittadino di questo territorio di Piombino, per l’iniziativa di un gruppo di lavoratori ex acciaierie: tre giorni di sciopero della fame con un presidio nella piazza principale della mia città. Chiedono al governo di smuovere la situazione di questo storico stabilimento, il secondo in Italia dopo Taranto. La situazione comincia a preoccupare su varie prospettive lavorative, bonifiche, e di sviluppo per Piombino.

Massimo Aurioso

 

Il messaggio di Gratteri sarebbe utile nelle scuole

Caro direttore, ho avuto modo di vedere il video della conferenza-denuncia del Procuratore Gratteri, dando il via all’arresto di quasi 350 persone. Credo che sarebbe utilissimo proiettare quel video in tutte le scuole del Paese.

Pasquale Mirante

 

Emilia-Romagna, bisogna ringraziare chi ha votato

Parto da un dato: finché le persone decidono di scendere in piazza per dimostrare civilmente i propri sentimenti e le proprie aspettative, per denunciare gli errori di chi ci governa e per sfidare chi ritiene negativo, la società civile mantiene accesa la speranza che la politica faccia ciò che deve. Quindi ben vengano le Sardine, i giovani che si organizzano sono il futuro. Pazienza se De André ha sempre temuto gli uomini che si organizzano, per questa volta mi permetto di essere in disaccordo con lui. Arrivare a ringraziarle per l’esito del voto emiliano-romagnolo, però, mi sembra troppo. Non perché non sia vera la riconoscenza politica che il Pd deve loro, ma perché ringraziarli e basta nasconde il nocciolo della questione: se a qualunque chiamata elettorale almeno il 67% degli aventi diritto andasse a votare, forse le Sardine sarebbero persino solo un contorno.

Barbara Tronch

Notte delle edicole. Il Fatto è con loro: se ci sono risorse vadano ai giornalai

 

Cara Redazione, Il Sindacato Nazionale Giornalai d’Italia insieme agli edicolanti di diversi comuni italiani ha indetto stasera (ieri sera, ndr) “La Notte delle edicole”. Un’iniziativa per sensibilizzare e richiamare l’attenzione sulla drammatica situazione che sta travolgendo tutte le edicole italiane. Nella mia città, Sassari, alcune edicole rimarranno aperte al pubblico oltre l’orario di chiusura, indicativamente fino alle ore 22:30, con le insegne accese per tutta la notte. Condividete quanto dicono gli edicolanti e cioè che l’edicola è un luogo di incontro sociale e un presidio territoriale insostituibile? Vi impegnerete anche voi al loro fianco?

Emanuele Loisi

 

Caro Emanuele, se anche non fossimo d’accordo con quanto scrive il Sinagi, glorioso sindacato degli edicolanti, saremmo comunque obbligati a solidarizzare con questa proposta: i giornali si vendono ancora in edicola. Ma non abbiamo bisogno di nessuna costrizione: abbiamo già scritto al Sinagi offrendo la nostra collaborazione per far si che l’annunciata ecatombe delle edicole italiane, che chiudono a migliaia, sia perlomeno frenata. E vogliamo mandare un messaggio di solidarietà agli edicolanti che recentemente hanno rimproverato aspramente gli editori per il loro disinteresse nei confronti della rete di vendita e per la loro sufficienza rispetto al problema. “Non capire quello che stiamo dicendo da anni, o meglio fregarsene come il mondo editoriale sta facendo – scriveva il Sinagi qualche settimana fa – è assurdo e autolesionista”. Aggiungendo: “Signori editori, pensate forse che con qualche supermercato in più e qualche esercizio commerciale disposto a vendere parte delle testate editoriali riuscirete a cavarvela? Follia o illusione, senza edicole, non esisterà più nulla”. Noi siamo totalmente d’accordo con queste parole. Senza edicole moriranno anche i giornali, che già sono attraversati dalla crisi più acuta della propria storia. Senza edicole si spezza un legame di fiducia, di scambio diretto tra quello che noi facciamo e voi lettori per il tramite dell’edicolante, sentinella della libertà di informazione.

Il Fatto Quotidiano non riceve alcun finanziamento pubblico e non si metterà in fila per mendicare la propria dose di pre-pensionamenti come si accingono a fare altre gloriose testate. Se risorse pubbliche devono essere messe in circolo, che vadano a sostegno dell’edicola e di un mondo che ha bisogno di rinnovarsi e di essere aiutato a farlo.

Salvatore Cannavò

Forza Italia Viva, tra ipotesi e realtà basta un Brunetta

Siamo corsi a cercare la smentita, il rifiuto indignato, la presa di distanza, eventualmente la querela o meglio la causa civile, strumento che l’interessato, quando si sente offeso, preferisce di gran lunga alla tutela del proprio onore (per fare cassa). Niente. L’account Twitter del giovane Bismarck italiano, Matteo Renzi, a parecchie ore dall’uscita dell’imbarazzante chiamata in causa, era fermo a un’intervista di Mediaset al politico a cui Matteo Renzi si ispira di più: Matteo Renzi. Renato Brunetta, che ha l’abilità di stressare ogni concetto a un tale grado di apparente illogicità da permettere alla verità di manifestarsi, ieri ha rilasciato un’intervista a Repubblica in cui suggeriva anzi disponeva la destituzione immediata dell’attuale governo e la sua sostituzione con “un governo di centrodestra” composto da Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Noi con L’Italia (?) e, naturalmente, Renzi. “A livello programmatico”, protocollava Brunetta, “c’è quasi perfetta coincidenza”, e poi parliamoci chiaro, anche lasciando da parte gli ideali comuni a renziani e berlusconiani, facendo i conti del macellaio “il centrodestra ha attualmente 275/280 deputati”: ne basterebbero altri 45, tra deputati di Italia Viva e grillini usciti dal Movimento”, per fare un nuovo governo. “Perfettamente legittimo”, peraltro, non come l’attuale “governo dei perdenti” (infatti è composto dai due partiti arrivati primo e secondo alle elezioni; mentre il Renzi 2, o Berlusconi 5, o Salvini 1, sarebbe formato dai due partiti arrivati terzo e quarto più il rabbocco di Iv, la start-up personale del Raffaele Fitto del Pd, data al 3,9%, più qualche homeless ex grillino).

Come detto, Brunetta ha il dono luciferino della sintesi, e quello che sembra un avvitamento mentale nichilista da romanzo russo è in realtà il ponte in fiamme che unisce fantasia e realtà: non è forse Renzi, come Berlusconi, “contro questa oscena riforma della prescrizione”? E non era Renzi che parlava di “Partito della Nazione?”. L’indicibile prende forma, anche se a dire il vero qualche sospetto che Renzi non fosse di sinistra e che fosse più affine a Salvini, Carfagna e Verdini di quanto lo sia a Zingaretti, noi l’abbiamo sempre avuto.

Negli stessi minuti in cui Repubblica registrava il pronunciamento del comandante Brunetta, Ettore Rosato e Maria Elena Boschi, i due pezzi grossi italiavivini (pensate gli altri), manifestavano davanti a Montecitorio insieme a Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e altri amatori della giustizia (tra cui “gli avvocati penalisti”, timorosi di finire sotto i ponti senza le impugnazioni infinite dei loro clienti per ottenere la prescrizione), al grido di “Non faremo un passo indietro!”, “È una battaglia di civiltà!”, e “Il governo ha 7 giorni di tempo per trovare una mediazione”.

Vedete com’è strana e bella la politica italiana: può anche succedere che un partito del 3,6%, siccome non si è nemmeno presentato alle Regionali, alla luce dei risultati delle Regionali detti le condizioni al governo sui temi della Giustizia, ambito peraltro estraneo a eventuali conflitti d’interesse di Renzi (come di Berlusconi); che Forza Italia (6,9%), che ha per capo un uomo ridotto alla statua di cera di sé stesso, poiché ha vinto in Calabria pretenda di prendere il potere nazionale e ricostituire il centrodestra insieme al perdente Salvini, che un governo l’ha appena fatto saltare; e che siccome ha vinto il Pd, che finalmente si è liberato da quella palla al piede di Renzi, allora il Pd se ne deve andare dal governo per far posto a Renzi. La prospettiva di Forza Italia Viva è talmente assurda, talmente priva di logica e cinica in modo ributtante, che ci chiediamo come mai non sia stata ancora ufficializzata.

Abbiamo smesso di sognare la California

Nel 1966 i Dik Dik cantavano “ti sogno California e un giorno io verrò”. Nonostante si fosse in piena guerra del Vietnam, l’America, col suo Stato più famoso e significativo, rimaneva un mito, come lo era stata già dai primi del Novecento per i nostri emigranti.

Oggi la California è ritenuta la quinta economia mondiale, ma negli ultimi anni, seguendo un processo di disintegrazione del ceto medio che riguarda tutto il mondo occidentale e che nemmeno Trump è riuscito a fermare, i poveri si sono quadruplicati. In California, su una popolazione di circa 40 milioni di abitanti, 4 milioni e 100 mila persone non hanno avuto da mangiare per tutto l’anno. Solo grazie al Calfresh, che non sono altro che dei bollini federali per andarsi a comprare da mangiare, queste persone hanno potuto sopravvivere. Nella Contea di Sacramento, capitale della California, ogni giovedì c’è la distribuzione del cibo. Non ci vanno solo i barboni, ma famiglie con bambini che hanno i genitori che lavorano, ma a malapena riescono a campare. Nelle scuole il governo della California ha dovuto intervenire per pagare ai bambini poveri il lunch, altrimenti ci si sarebbe trovati che i bambini ricchi mangiavano e gli altri stavano a guardare (dati del 2017 del Dipartimento di Stato della California). In intere zone degli Stati del sud l’analfabetismo è al 38 per cento. In California dove è nata l’avanzatissima e ricchissima, ma solo per alcuni, Silicon Valley, tutti i giorni a ogni incrocio ci sono persone che espongono cartelli “Just hungry, please help” (“Ho fame, aiutatemi”). A Palo Alto, una delle città più ricche degli Stati Uniti, gli ingegneri informatici pur guadagnando più di 100 mila dollari sono costretti a vivere in macchina.

Questa è oggi la mitica California. Tutto ciò non ha impedito a Donald Trump al convegno di Davos (World Economic Forum) di affermare che “l’economia americana è diventata un geyser ruggente di opportunità”. Può darsi. Trump è stato eletto nel 2017, ma tagliando le tasse ai ricchi non si vede dove possa mai aver trovato i soldi per aiutare i poveri. Evidentemente anche nell’America di Trump la forbice fra le classi sociali si sta allargando. Alcuni, pochi, entrano a far parte dei ceti benestanti, altri sono costretti a stare agli angoli delle strade chiedendo l’elemosina. Del resto in quasi tutte le grandi città americane gli homeless, d’inverno, dormono per strada approfittando del superplus di calore che viene dalle grate dei grandi alberghi o delle case ricche. L’America è fatta così. Peraltro da un Paese dove uno dei prossimi candidati alle Presidenziali, Michael Bloomberg, dispone di un patrimonio di 50 miliardi di dollari che è disposto a investire pur di essere eletto, c’è da aspettarsi di tutto. Il peggio.

E allora non lamentiamoci troppo del modello europeo dove esiste un welfare piuttosto efficiente e nemmeno dell’Italia che a questa visione sociale aderisce. E non spariamo a zero, come fa la destra, sui provvedimenti che l’attuale governo ha preso e sta prendendo per cercare di attenuare, pur avendo la palla al piede dell’enorme debito pubblico che è stato accumulato soprattutto negli anni Ottanta a opera del famoso CAF, e che oggi si sta cercando di glorificare nella persona di Bettino Craxi, le grandi disparità fra ricchi e poveri che esistono anche da noi e forse soprattutto da noi più che in altri Paesi europei. Help.

Renzusconi: è l’ora della successione?

Così Renato Brunetta: “Renzi faccia un governo con noi, centrodestra unito… Sui programmi con Italia Viva c’è quasi perfetta coincidenza”.

È significativo che lo si consideri plausibile. Sin dagli albori dell’avventura renziana, da parte dei suoi critici da sinistra, si è evocato il fantasma del “renzusconi”, ossia del connubio tra Renzi e il Cavaliere o della convergenza delle rispettive politiche. Allora, mi parve una ingenerosa semplificazione.

Certo, si avvertivano affinità di natura stilistica e comportamentale: i due si piacevano e soprattutto Berlusconi mostrò simpatia per il giovane fiorentino (il “royal baby”, copyright di Giuliano Ferrara); l’ego ipertrofico di entrambi; un populismo più o meno light; la personalizzazione della leadership. Non però una stretta coincidenza delle politiche. Quelle praticate da Renzi semmai risentivano del mood tardo-blairiano all’epoca in auge nella sinistra europea, in verità, già anticipato da Veltroni primo segretario del Pd. Sia nel modello politico iper-maggioritario e presidenzialista (mirato al bipartitismo), sia nelle policies… molto lib e poco lab. Un mood già sfasato e tardivo, quando – Veltroni si insedia nel 2008 – già prendeva corpo la grande crisi, che mostrava il volto problematico della globalizzazione, la quale portava con sé una domanda di protezione, sociale e non, paradossalmente raccolta poi (a suo modo) dalla destra.

Seguì il tempo del patto del Nazareno, a patrocinare il quale concorse significativamente Verdini, l’allora uomo-macchina del Cavaliere. E tuttavia quel dialogo, per sé, ci poteva stare se limitato alle regole e alle riforme istituzionali. Un dialogo che si interruppe per l’elezione al Quirinale di Mattarella, che, a differenza di altri papabili, non dava garanzie a Berlusconi di prestarsi ad avallare una sua via d’uscita dai problemi giudiziari. Ciononostante, chi è stato in Parlamento nella legislatura 2013-2018 sa bene che Forza Italia non fece vera opposizione ai governi Renzi e Gentiloni. A conferma che lo spirito del Nazareno non smise di aleggiare ben oltre il tavolo delle regole. Non a caso, nello scampolo finale di quella legislatura, FI cooperò con il Partito democratico nel varo del Rosatellum, scritto manifestamente traguardando a una futura maggioranza Pd-FI.

Il terremoto elettorale, l’eclatante risultato dei 5Stelle e la sonora sconfitta di Pd e FI fecero naufragare quel disegno.

Ma che vi si facesse affidamento è dimostrato da un episodio: l’improvvisa, clamorosa rinuncia di Maroni a un secondo mandato alla guida della Lombardia, con il retropensiero di poter giocare un ruolo chiave nel governo nazionale a venire (si parlava di lui addirittura come premier terzo tra Pd e FI).

Veniamo all’oggi. Con l’inesorabile tramonto di Berlusconi e la scissione di Renzi, si passa dal connubio più o meno stretto alla sostituzione/successione. Questa volta anche nelle politiche e soprattutto nel posizionamento, che sempre più accredita Italia Viva come nuova Forza Italia.

Solo per titoli: sulla giustizia (il voto con la destra sulla prescrizione); sulla guerra al fisco; sulle concessioni autostradali; nell’apprezzamento per il Cavaliere come politico “innovatore” in opposizione alla vecchiezza del Pd; nel giudizio su Craxi (“un gigante”); nella reazione berlusconiana di Renzi alle indagini della magistratura che riguardano lui, i suoi familiari e i suoi seguaci. E anche – va notato – nel reclutamento di parlamentari eletti in altre liste. Una pratica nella quale eccelleva il Cavaliere e, in forma più artigianale, Mastella. Generosamente si accredita Italia Viva come un partito quando, in realtà, allo stato, si tratta di un mero manipolo di eletti protagonisti di una transumanza parlamentare.

Non c’è bisogno di sospettare una liaison tra i due Matteo, basti notare che, dal punto di vista di Salvini, un Ghino di Tacco come Renzi, se non ci fosse, sarebbe da inventare. Uno che, ogni santo giorno, mette in fibrillazione la maggioranza che lui stesso aveva propiziato – ora riesce chiaro – esattamente allo scopo di terremotarla sin dal giorno dopo. Del resto, a rivendicarne il “machiavellismo” è stato lui stesso. La traiettoria e l’approdo di Renzi gettano una luce retrospettiva sulla stagione nella quale fu dominus colpevolmente incontrastato nel Pd: un chiaro deragliamento dal solco dell’Ulivo.

Queen Elizabeth scende in mensa

Ai piani bassidi Palazzo non si era mai vista, almeno a sentire i senatori. Che ieri si sono trovati a mensa la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati che dopo il pasto si è pure concessa un caffè al bar dei dipendenti. La sua presenza al piano terra di Palazzo Madama non è certo passata inosservata e infatti è immediatamente scattato l’allarme rosso con un gran trambusto di commessi e camerieri. Che prima del suo arrivo al ristorante che si trova al piano delle scuderie, hanno avuto un gran daffare per preparare il tavolo che avrebbe accolto lei e i suoi ospiti, la segretaria generale Elisabetta Serafin, il questore anziano Antonio De Poli e poi, già mangiato, Giacomo Caliendo, amico e collega di vecchio conio della presidente. Il menu del giorno non ha deluso: spaghetti con le alici, parmigiana di melanzane e tanto altro, compresa l’assai democratica trippa al sugo, richiestissima. Al tavolo d’onore, ovviamente riservato, un servizio degno della consueta eleganza della presidente in tailleur damascato sulle tinte bianconere. Lei ha dispensato saluti e grandi sorrisi a tutti, prima di entrare e anche all’uscita guardata a vista da due agenti di scorta che presidiavano l’ingresso del ristorante. Cose mai viste, in effetti.

È peggio della Sars del 2003, anche per l’economia

Gli aerei non volano. La catena di caffè chiude. Il colosso del fast food serra i battenti. È la Cina del Coronavirus: città fantasma, supermercati vuoti, scuole sbarrate. L’effetto domino causato dalla malattia che si sta rivelando più insidiosa della Sars, per Pechino rappresenta un problema con varie sfaccettature. La Borsa di Hong Kong riapre dopo la festività del Capodanno lunare e crolla del 2,8%, la produzione dei grandi marchi si blocca, in attesa di vedere come andrà a finire. Toyota fino al 9 febbraio ha stabilito che le fabbriche cinesi resteranno inattive; Lufthansa, Swiss, British Airways hanno sospeso i voli da e verso la regione. Persino Ikea abbassa la saracinesca di metà dei suoi negozi. McDonald’s e Starbucks seguono a ruota: la catena del “mokaccino” mette una croce sulle sue 2.000 caffetterie e già prevede che il virus “inciderà in modo significativo” sui risultati del 2020. Lufthansa sta valutando di servire Pechino e Shanghai attraverso lo scalo di Seul. American Airlines sospende i voli dal 9 febbraio al 27 marzo fra Los Angeles, Shanghai e Pechino; regolari i voli da Dallas e Los Angeles verso Hong Kong.

Anche il mondo dello sport deve rimandare i suoi appuntamenti: la Federazione internazionale degli sport invernali ha annullato le gare di discesa e SuperG maschile, in programma il 15 e 16 febbraio, a Yanqing, tra i test preolimpici in vista dei Giochi di Pechino 2022. Per la prima volta la Cina era inserita nel calendario di Coppa del mondo di sci alpino; sorvegliato speciale anche il Gp di Formula 1 del 19 aprile, a Shanghai. I numeri non sono confortanti: in Europa ci sono “cinque casi in Francia, quattro in Germania e un caso in Finlandia” secondo la commissaria europea alla Salute, Stella Kyriakides, che ha informato il Parlamento europeo riunito in plenaria a Bruxelles. “La malattia evolve molto velocemente e c’è la potenzialità di una grande minaccia”, ha detto. I contagi in Cina sono arrivati a 6.078, i decessi sono 132, cifre fornite dalla Commissione sanitaria nazionale (Nhc); sono più di quelli del 2002-03 che riguardarono la Sindrome respiratoria acuta grave (Sars), ferma a 5.327 nelle statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). A proposito di Oms, dopo lo “scivolone” dei giorni scorsi sulla valutazione del rischio, oggi è prevista una nuova riunione di esperti per stabilire se l’epidemia “costituisca un’emergenza sanitaria internazionale”. Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Ghebreyesus, rientrato da Pechino dice che “fuori dalla Cina abbiamo avuto finora solo 68 casi, pari all’1% del totale, e nessuno morto”. Il merito, per il funzionario, è “degli sforzi straordinari fatti dal governo cinese per fermare la diffusione del virus”. Ghebreyesus pensa a una sorta di “semaforo giallo”, un allarme di natura intermedia che comunque farebbe allineare i Paesi negli interventi per evitare il contagio. A Wuhan, dove tutto è iniziato, il fatto che il governo abbia addossato all’amministrazione comunale la responsabilità delle comunicazioni a rilento non ha placato la rabbia verso il governo centrale. La città è diventata un set da film catastrofico con blocchi agli ingressi e strade deserte. Gli studenti delle scuole elementari e medie stanno a casa; proseguiranno le lezioni dal 10 febbraio con corsi on line.

Gli italiani a Wuhan rientreranno solo se non infetti

Non rientreranno tutti. Qualcuno ha deciso di restare. Sono dieci su 70, forse meno. Per gli altri il piano è pronto. A riportare a casa gli italiani di Wuhan sarà un aereo civile la cui partenza è attesa per oggi alla volta del lo scalo militare della metropoli cinese incubatrice del virus 2019-nCoV. Che oltre la Grande Muraglia ha ucciso almeno 130 persone.

È stato comunicato in serata il risultato del tavolo di coordinamento cui lavorano rappresentati dell’Unità di crisi del ministero degli Esteri, Stato maggiore della Difesa e Comando Operativo Interforze di viale XX Settembre ed esponenti del dicastero della Salute. Il volo sarà di tipo civile, ma sarà operato dalla Difesa, avrà a bordo personale medico ed è stato organizzato dai ministeri con l’Istituto Nazionale per le malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”. Allo stato, il rientro è previsto entro venerdì, ma non ci sono certezze. “Non si sa ancora se ripartirà il giorno stesso o il successivo”, facevano sapere fonti vicine al dossier. “Sono in corso valutazioni, deciderà la task force”, chiosa in serata il ministro della Salute, Roberto Speranza.

Il tutto condizionato all’ok a operare il volo atteso dalle autorità di Pechino. “Noi – assicurava a metà giornata Stefano Verrecchia, capo dell’unità di crisi della Farnesina – stiamo lavorando con la nostra ambasciata in Cina per ottenere queste autorizzazioni che sono complesse”. Al punto che in serata l’interrogativo restava aperto.

Dal tavolo interministeriale erano attese indicazioni precise circa il protocollo da seguire per gestire al meglio gli italiani rimpatriati. L’ipotesi circolata attorno alle 19 è che in caso di quarantena, i connazionali potrebbero trascorrere gli eventuali 14 giorni di sorveglianza sanitaria necessaria per monitorare un’eventuale incubazione in una struttura militare. A dare per certo il periodo di isolamento era in serata Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute. Sarà il suo dicastero a decidere la struttura che ospiterà i connazionali e la scelta dipenderà dalle loro condizioni e necessità. A disposizione ci sarebbero le caserme, il che escluderebbe l’eventualità che gli evacuati possano essere ospitati in strutture sanitarie o che facciano rientro a casa, dove risulterebbe difficoltosa la sorveglianza quotidiana da parte delle Asl. Nel centro prescelto sarà servito ovviamente anche cibo ma è escluso che le persone possano condividere i pasti: in quel caso infatti dovrebbero togliersi la mascherina interrompendo l’isolamento e mettendo a rischio la procedura di sorveglianza. La certezza, al momento, è una: da Wuhan i cittadini italiani potranno partire solo dopo visita medica che escluda problemi, quindi solo se sani. Ma “non abbiamo ancora tutti gli elementi, dagli orari al numero di persone, non escludiamo niente”, spiegava Speranza.

Il virus spaventa – oltre 6.000 i contagi in Cina, 68 nel resto del mondo – e i dirigenti scolastici chiedono lumi. L’Associazione Nazionale Presidi ha chiesto all’Iss un protocollo su come comportarsi in caso di rientro a scuola di studenti in arrivo dal Paese del Dragone. “Ci sono attualmente circa 600 cittadini Ue che intendono lasciare laCina e ora non possono farlo”, ha detto il commissario europeo alla Gestione delle crisi Janez Lenarcic, in conferenza stampa a Bruxelles. Tra questi non ci saranno alcuni degli italiani che vivono nella metropoli focolaio del Coronavirus. Alcuni potrebbero decidere di restare per motivi “familiari o personali”, si apprende da fonti della comunità italiana. Secondo Sileri “saranno una cinquantina quelli che torneranno”.

In serata, intanto, è partito il primo volo per la Francia, dove si è registrato il quinto contagio. Oggi, ha annunciato il premier Boris Johnson, potranno rientrare nel Regno Unito coloro che tra i 200 britannici residenti a Wuhan decideranno di farlo.

“Il ‘mostro’ di Fenoglio fece armi per il Vietnam”

Il 22 gennaio 1999, chiudeva per sempre l’Acna di Cengio, in Valle Bormida, al confine fra Liguria e Piemonte. Era l’azienda chimica, nata per produrre esplosivi nel 1882, che passò tristemente alle cronache come “fabbrica della morte e dei veleni” non soltanto per l’inquinamento spaventoso della Val Bormida, ma anche per i diversi lavoratori morti per tumore alla vescica e nelle esplosioni avvenute nel corso degli anni in alcuni reparti. Già Beppe Fenoglio, d’altro canto, rammentava in Un giorno di fuoco la devastazione provocata dall’Acna: “Hai mai visto il Bormida? Ha l’acqua color sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata che ti mette freddo”.

In occasione dell’anniversario della chiusura della fabbrica, il dì 22 gennaio a San Giorgio Scarampi nell’alta Langa astigiana, è stato ricordato uno dei protagonisti della lotta ambientalista in Valle Bormida: don Pier Paolo Riccabone, morto a 74 anni nel marzo 2001.

Un “prete giusto”, proprio come quello raccontato da Nuto Revelli. Si batté con generosità, come rammentano gli organizzatori della serata, “per ridare dignità alla gente della Valle Bormida per troppo tempo sottomessa alle logiche di profitto di una fabbrica che ha distrutto la natura e l’agricoltura di una terra altrimenti ricca di risorse”. È stato anche proiettato il film documentario di Andrea Icardi e Franco Vaccaneo dedicato al sacerdote, prodotto dalla Scarampi Foundation, un’associazione culturale di cui don Pier Paolo è stato il fondatore assieme a Vaccaneo.

La chiusura oltre vent’anni fa dell’Acna e l’avvio della bonifica del territorio fra Liguria e Piemonte e del fiume Bormida, che a quanto pare si concluderà nei primi mesi di quest’anno, tuttavia, non mettono ancora fine a questa storia terribile. Tanto che incombe persino lo spettro della guerra del Vietnam e delle armi chimiche usate dagli americani.

In un intervento pubblicato pochi giorni fa da L’Ancora , settimanale diocesano di Acqui Terme, Ilvo Barbiero, presidente dell’Associazione Culturale Valbormida, ha scritto infatti che “Come emerge da un esame del materiale contenuto nel Centro di Documentazione ‘Patrizio Fadda’ di Monesiglio, su una rivista locale, Liguria Val Bormida e Dintorni, numero 1 del 2002, in un’intervista a un pensionato Acna viene detto che ‘durante la guerra del Vietnam, lo stabilimento produceva defoglianti’. Evidentemente l’esercito americano commissionava i defoglianti, il famoso agente orange a base di diossina, a multinazionali della chimica nazionali, che incassavano lautissimi compensi, ma delegavano la produzione a fabbriche estere dove l’ambiente sociale, volontariamente o per costrizione, ne rendeva possibile la produzione”. Non solo. L’Acna, dagli anni Venti in avanti, fu “una fabbrica di armi chimiche proibite, perché disumane, dalle convenzioni internazionali. (…), come emerge anche dal libro Veleni di Stato di Gianluca de Feo”, che “ha esaminato documenti dei Servizi segreti inglesi, contenuti nei National Archives, desecretati dopo la fine della guerra fredda”. Inoltre, scriveva Emiliano Di Marco sul sito Agora Vox, “un dossier del Simon Wiesenthal Center segnalerebbe che Eni e Montedison durante la stagione Raul Gardini e Gabriele Cagliari (proprietari dell’Acna fino alla chiusura) avrebbero fornito armi e brevetti all’Iraq e altri Paesi mediorientali. I gas ottenuti dai brevetti, oppure forniti direttamente agli ‘stati canaglia’, sarebbero poi stati usati negli anni 90 nelle stragi di curdi in Iraq”.

Tutto ciò significa, conclude Barbiero, che “dal punto di vista più immediatamente operativo, appare ora indispensabile rivedere tutto il progetto di bonifica”. Come è indispensabile aprire gli armadi della vergogna della nostra storia industriale.

“Se continuano a non pagare a febbraio fermiamo il Mose”

“I commissari ci hanno detto che in cassa non c’è un euro. La cassa del Consorzio Venezia Nuova è vuota. Per questo abbiamo scritto una lettera al premier Giuseppe Conte. Il problema non è solo quello che lo Stato ci deve pagare, ma la prospettiva futura, visto che ci è stato chiesto di ultimare i lavori del Mose. E di farlo in fretta”. Denis Rizzo, del Consorzio Kostruttiva, è uno dei sei firmatari dell’ultimatum per le promesse mancate riguardanti il sistema di paratoie mobili che dovrebbe salvare Venezia dall’acqua alta. “Lavorare va bene, ma non c’è un’impresa al mondo che lavorerebbe gratis. Soprattutto quando il governo assicura che i soldi ci sono”.

Una bella grana è piombata sui tavoli di chi ha in mano le sorti del Mose. Innanzitutto il commissario straordinario, Elisabetta Spitz, nominata dopo l’acqua alta eccezionale del 12 novembre scorso che raggiunse i 187 centimetri. Poi i tre amministratori straordinari del Consorzio, Giuseppe Fiengo, Francesco Ossola e Vincenzo Nunziata, il provveditore interregionale alle opere pubbliche Cinzia Zincone, il ministro Paola De Micheli e i suoi colleghi di governo.

Le imprese chiedono di essere pagate, altrimenti a febbraio si fermeranno. In gioco ci sono un migliaio di posti di lavoro. Prima dello scandalo e degli arresti, nel 2014, tutto era controllato dal gruppo Mantovani, Condotte e Grandi Lavori Fincosit. Ma le inchieste e la crisi le hanno praticamente fatte sparire e così il Consorzio si è affidato a imprese minori, alcune delle quali facevano già parte del sistema. Sono state esse a far ripartire i cantieri, con l’affidamento diretto e una suddivisione dei compiti alle tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia. Altre opere sono invece andate in gara con un iter diverso.

La lettera, in rappresentanza di tutte le imprese, è firmata da Devis Rizzo per Kostruttiva, Massimo Paganelli per Vittadello, Renzo Rossi per Rossi Costruzioni, Giovanni Salmistrari che è anche presidente dell’Ance di Venezia, Giacomo Calzolari presidente di Clodia e Luigi Chiappini di Nuova Coedmar.

“Il vero motivo è la prospettiva futura, dopo aver appreso pochi giorni fa, ufficialmente, che non ci sono denari – spiega Rizzo –. È vero che sono stanziati, ma con gli stanziamenti non si fa cassa e così le imprese non vengono pagate”. Eppure a novembre sia Conte sia il ministro De Micheli hanno assicurato che i soldi ci sono. “È vero, il Cipe ha stanziato 413 milioni, poi altri 138 milioni erano nella disponibilità del Provveditorato. Ma siccome non sono stati spesi, sono ritornati a Roma. Nella lettera abbiamo spiegato che se ci fermiamo noi, si bloccano anche i test delle paratoie”.

Le imprese avevano concordato un primo cronoprogramma all’inizio dell’estate 2018. Durante il 2019 hanno firmato nuovi “Protocolli di affidamento” di “progettazione ed esecuzione di tutti i lavori a finire, compreso quelli relativi alla linea di manutenzione delle paratoie”. In agosto altri protocolli hanno fissato gli affidamenti alle “Imprese (responsabili) di Bocca”. Che ora scrivono: “L’assenza dei necessari finanziamenti, nonché la mancata certezza degli effettivi termini di liquidazione delle attività a oggi eseguite, si ripercuoterebbero in maniera assolutamente negativa sulla prosecuzione dei lavori, mettendo a repentaglio la continuità aziendale delle imprese coinvolte e, conseguentemente, il mantenimento degli attuali livelli occupazionali che a oggi consistono all’incirca in un migliaio di posti di lavoro”.

Senza una risposta concreta, “con la fine del prossimo mese di febbraio verranno sospese tutte le attività operative in essere, garantendo esclusivamente le condizioni di minimo presidio”.