Mazzette Eni in Nigeria, il super teste si smentisce

Una delle udienze più pirotecniche mai viste a Milano, con una buona dose di servizi segreti, nigeriani e italiani. Così il processo Eni-Nigeria s’avvia verso la conclusione. Due testimoni picconano gli argomenti dell’accusa: uno, il poliziotto nigeriano Isaac Eke, smentisce se stesso; l’altro, l’agente segreto dell’Aise Salvatore Castilletti, sconfessa Vincenzo Armanna, imputato nel processo ma anche grande accusatore della compagnia petrolifera italiana. A questo punto, la storia della mega-tangente (1 miliardo e 92 milioni di dollari) che Eni avrebbe pagato nel 2011 per ottenere, insieme a Shell, l’immenso campo petrolifero nigeriano Opl 245, o è una grande bufala messa in scena dall’ex manager Eni Vincenzo Armanna, oppure è una colossale vicenda di corruzione (anche giudiziaria). Intanto gioiscono le difese degli imputati (le società Eni e Shell, l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, i manager Roberto Casula e Ciro Pagano, gli intermediari Luigi Bisignani e Gianfranco Falcioni, l’ex ministro del petrolio della Nigeria Dan Etete e altri).

Isaac Eke – alto dirigente della polizia ora in pensione e collaboratore, a quanto è dato di sapere, dei servizi segreti della Nigeria – è comparso ieri come testimone davanti al Tribunale presieduto da Marco Tremolada. Armanna aveva raccontato ai pm, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che un certo Victor Nawfor, addetto alla sicurezza della residenza dell’allora presidente nigeriano Goodluck Jonathan, gli aveva riferito che 50 milioni di dollari della supertangente erano stati consegnati nel 2011 a Casula, responsabile Eni in Nigeria. Nel gennaio 2019, Victor Nawfor era stato ascoltato come testimone, ma aveva smentito Armanna, dicendo che neppure lo conosceva. Era il Victor sbagliato, aveva replicato Armanna, che aveva poi indicato il vero Victor in Isaac Eke, il quale il 12 novembre 2019 ha firmato una lettera, certificata da un notaio, in cui dice di aver conosciuto Armanna “durante una cena nel 2009”, di essergli stato presentato come Victor Nawfor e di essere “pronto a testimoniare a Milano”. In aula, smentisce se stesso. Nega di conoscere Armanna, che ammette di aver incontrato fugacemente solo un paio di volte nel 2014 e nel 2015, all’Hilton Hotel e in un ristorante di Abuja (Armanna è stato in Nigeria dal 2009 al 2014 e dopo non è più entrato in quel Paese). Nega di aver scritto la lettera, firmata soltanto per fare un piacere a un suo amico, Tymi Aya. Alla domanda finale del pm, se sia stato contattato da qualcuno in Nigeria prima di venire a testimoniare in Italia, Eke risponde di essersi incontrato con il generale Mohammed Monguno, attualmente consigliere della sicurezza nazionale nigeriana, ovvero il “capo dei servizi segreti”. A questo punto, in Nigeria come in ogni Paese di Common Law, per Eke sarebbero scattati gli arresti immediati per aver mentito al giudice (o nella lettera acquisita dal Tribunale, o nella testimonianza in aula). In Italia invece il testimone lascia l’aula e, se i pm lo vorranno incriminare per falsa testimonianza, l’accusa lo raggiungerà quando sarà tornato nel suo Paese. Il giudice non accetta neppure la richiesta di confronto immediato in aula tra Eke e Armanna, come prevede il codice italiano per due testimoni che si contraddicono.

La parola passa a Castilletti, nel 2011 rappresentante dell’Aise (il servizio segreto italiano per l’estero) ad Abuja. Armanna aveva dichiarato che Castilletti avrebbe potuto confermare la versione di Victor sui milioni che giravano per i manager italiani in Nigeria. È accolto in aula con tutte le precauzioni dovute a un alto funzionario dell’Aise: l’aula è sgomberata al momento del suo ingresso e il testimone risponde alle domande nascosto da un paravento. Naturalmente nega di essersi mai occupato di contratti petroliferi, dice di conoscere Opl 245 solo “per aver letto i giornali”; di aver svolto soltanto il suo compito istituzionale, la sicurezza degli italiani in Nigeria; di aver avuto contatti nel Paese africano solamente con Casula, rappresentante Eni in Nigeria, e di aver incontrato Armanna solo un paio di volte; di non ricordare un viaggio di Scaroni e Descalzi in Nigeria per partecipare a un evento elettorale del presidente Goodluck e di non essersene occupato (benché a un evento elettorale simile ci fossero stati 15 morti).

L’udienza si è conclusa con la decisione di far entrare nel processo i documenti provenienti da una rogatoria negli Usa su denaro pagato da Dan Etete a manager Shell; e di sentire come testimone Piero Amara, ex legale esterno di Eni diventato un grande accusatore della compagnia che – racconta – paga i testimoni per far loro ritrattare le accuse.

Un’altra “piazza Craxi”. Vicino a “piazza Pertini”

Il Fatto Quotidiano lancia una petizione (che ha già raccolto 40 mila firme) per dedicare una strada di Milano all’ex procuratore Francesco Saverio Borrelli, il capo del “pool” Mani Pulite che perseguì i reati di Tangentopoli? Nella profonda campagna veneta, a Ospedaletto Euganeo (Padova), a pochi chilometri da Este, una giunta comunale di centrodestra decide di intitolare una piazza a Bettino Craxi, l’ex segretario del Partito socialista italiano diventato il simbolo della corruzione e del finanziamento illecito della politica.

Quattro dei cinque componenti della giunta, compresi il sindaco Giacomo Scapin e il vicesindaco Rodolfo Moretti, si sono riuniti alle 11.45 del 18 gennaio scorso, esattamente un giorno prima della ricorrenza della scomparsa di Craxi ad Hammamet, in Tunisia, il 19 gennaio 2000. Il sindaco ha ricordato che nel 1996, sul lato ovest del municipio, era stata individuata “la nuova piazzetta Giuseppe Parini”. “Ma nei fatti non ha mai avuto una successiva apposita intitolazione” e allora l’“Amministrazione ritiene di titolare o meglio di reintitolare questo spazio di uso pubblico in nuova ‘piazzetta Bettino Craxi’”.

Ma perché proprio Craxi? Primo, per “la sua vicinanza e completamento alla attuale Piazza Sandro Pertini”. Tutti e due socialisti, devono aver pensato in municipio, che male c’è? Passi per il nome del poeta (a cui è intitolata la vicina scuola media) sostituito dal politico, ma accostare i due politici è quanto meno irridente.

Per intitolare una piazza, il personaggio deve avere meriti di indiscusso valore. La giunta comunale allega un “breve curriculum” alla deliberazione inviata al prefetto di Padova, al ministero dell’Istruzione e alla Soprintendenza ai Monumenti di Venezia. E qui arriva Wikipedia: “Subì due condanne definitive per corruzione e finanziamento illecito e morì mentre erano in corso altri quattro processi contro di lui. A diversi anni dalla morte, la sua memoria suscita sentimenti controversi. Per i suoi detrattori egli morì da criminale latitante, per i suoi estimatori egli fu vittima di una giustizia politicizzata che lo costrinse all’esilio”.

Profilo perfetto no? Il sindaco Scapin, della lista civica di centrodestra, dopo le prime reazioni ha frenato: “Non si tratta di una decisione già presa, è solo l’avvio di un iter. Per alcuni Craxi è stato un grande statista, per altri un latitante. È ora di discuterne con un occhio storico e non solo politico”. Ma poi aggiunge: “Siccome lì c’è piazza Pertini e via Moro, avevo pensato di dedicare la piazzetta a un altro personaggio-chiave della Storia italiana. Ma se la maggioranza non sarà d’accordo ci fermeremo”.

“Mossa scomposta: chi meglio di lui può parlare qui?”

Professor Dalla Chiesa, il Csm ha definito irricevibile la richiesta delle Camere penali di sostituire Piercamillo Davigo alla cerimonia d’inaugurazione dell’Anno Giudiziario a Milano: è d’accordo?

Completamente. Non stiamo parlando di una persona sprovvista di un profilo etico per parlare di giustizia. Da questo punto di vista Davigo, per il modo in cui ha interpretato la sua funzione, è inattaccabile. Non è certo uno di quei magistrati che proprio al Csm, in tempi recenti, con le loro condotte discutibili hanno provocato un crollo di fiducia nel sistema della giustizia. Capirei la perplessità e anche una sollevazione davanti a persone di quel genere, ma non è certo questo il caso. Siamo di fronte a un servitore dello Stato, prima magistrato inquirente poi presidente di sezione in Cassazione, che al Csm è stato eletto con moltissimi voti: sarebbe come dire che quella parte di magistratura che lo ha votato non ha diritto di parola. Può darsi che le sue idee siano diverse da quelle di una parte dell’uditorio, per questo si può pensare di togliergli la parola? E di tacitare, con lui, l’organo di autogoverno della magistratura che lo ha inviato? Lui dirà ciò che pensa, gli avvocati hanno tutto il diritto di presentare le proprie posizioni e opinioni.

La Costituzione tutela la libertà di manifestazione del pensiero.

Si potrebbe obiettare che non si fa parlare uno che non sia inattaccabile, perché magari ha pendenze con la giustizia… Magari può capitare, o è capitato, con qualche ministro o sottosegretario inquisito, in passato: non ricordo ci siano mai state lamentele.

Il dottor Davigo è uno dei simboli di Mani Pulite.

Certo! E aggiungo che dopo quella stagione gli si può imputare solo di aver continuato a fare il suo lavoro. La richiesta delle Camere penali dal punto di vista dei rapporti istituzionali è scomposta, fuori dai canoni della correttezza. A meno che non pensino che Davigo venga mandato a Milano in segno di sfida. Come lei diceva, Piercamillo Davigo è stato il simbolo di una Milano, e di un Paese, che per un certo periodo ha pensato che si potesse liberarsi dell’affarismo e della corruzione, per il bene dello Stato e dei cittadini che dell’affarismo pagano il prezzo. Per un certo periodo l’Italia ha sognato che non ci fosse più cittadinanza per gli impuniti tra i corrotti. Poi è andata diversamente. Aggiungo che Davigo è un magistrato che di diritto ne sa parecchio: lo chiamavano addirittura il dottor Sottile per questo!

C’è un’aria di revisionismo su quella stagione?

Sì, ma non per un film che a mio modo di vedere ha cercato di raccontare e non di giustificare Craxi. Sotto la cenere però c’è un fuoco che continua a covare: ci sono ferite che alcuni chiamano Craxi, chiamando, in realtà, in causa se stessi. È più facile che ammettere di avere avallato o a volte praticato determinate condotte pubbliche. La figura di Craxi diventa uno schermo per molti che hanno condiviso certi comportamenti. Stessa cosa valeva per Andreotti: ci ricordiamo come i più radicali tra i berlusconiani in Parlamento difendevano Andreotti? Mica difendevano Andreotti, difendevano loro stessi.

Una delle posizioni più discusse di Davigo è quella sulla prescrizione.

Io penso che le sue posizioni su questo tema siano largamente condivise nel Paese, forse ancor più che nel Parlamento. Nel dibattito pubblico di nessun Paese come qui da noi c’è una difesa del principio della prescrizione intesa come privilegio. L’idea che un processo possa non farsi anche se c’è un imputato ed è iniziato un dibattimento è assurda.

Perché privilegio?

Hanno approfittato della prescrizione coloro che avevano un nome riverito, che potevano permettersi ottimi avvocati capaci di utilizzare tecniche dilatorie. L’imputato è un cliente dell’avvocato, che mette a disposizione competenze tecniche al servizio della persona che difende. L’avvocato cerca di far ottenere l’esito processuale migliore per il suo cliente: tra questi c’è anche la prescrizione. Non è una cosa da criminalizzare, il punto è che non si deve tornare indietro. Le rivendicazioni su una prescrizione a maglie larghe sono rivendicazioni di ceto.

Avvocati, voglia di bavaglio: “Davigo non venga a Milano”

Vietato mettere in discussione gli avvocati. La Camera penale di Milano ha provato – senza riuscirci – a far estromettere Piercamillo Davigo, attuale consigliere del Csm, dall’inaugurazione dell’Anno Giudiziario milanese per un’intervista rilasciata al Fatto il 9 gennaio su prescrizione e riforme per accelerare i processi. Poiché ha criticato gli avvocati, la Camera penale milanese ha pensato che dovesse essere punito, ha “auspicato una rivalutazione” della sua presenza sabato a Milano nel palazzo di giustizia che lo ha visto in prima fila nella lotta alla corruzione con Mani Pulite. Il Csm ha respinto questa richiesta senza precedenti e l’Anm la bolla come una “provocazione”.

Il Comitato di presidenza del Csm (composto dal vicepresidente David Ermini e dai capi di Corte Giovanni Mammone e Giovanni Salvi) ha definito “irricevibile” la richiesta “sia per i suoi contenuti, volti a sanzionare la libera manifestazione del pensiero, sia perché irrispettosa delle prerogative di un organo istituzionale”. Usa la parola “irricevibile” anche la Giunta dell’Anm che parla di una pretesa “contraria a elementari regole di correttezza istituzionale” dato che Davigo “interverrà in rappresentanza dell’istituzione consiliare tutta”. Il sindacato delle toghe passa anche al contrattacco: “Invece di confrontarsi con il merito delle dichiarazioni altrui si pretende che al soggetto venga tolta la parola. L’iniziativa, mera provocazione, contraddice i valori che predica di tutelare”.

Nella lettera della Camera penale si demolisce l’intervista di Davigo a Marco Travaglio perché, tra l’altro, “l’avvocato nel processo penale viene marchiato come soggetto sodale con gli interessi più negativi e lucrativi nell’innescare meccanismi difensivi pretestuosi e dilatori”. Il consigliere aveva difeso il blocco della prescrizione avversato strenuamente dagli avvocati e aveva avanzato alcune proposte per accelerare i processi: dalla cancellazione del divieto di aumentare la pena in appello per chi fa ricorso alla modifica del meccanismo delle multe per i ricorsi inammissibili, responsabilizzando i difensori. Ma il passaggio che più ha fatto infuriare riguarda il gratuito patrocinio per i non abbienti: “La non abbienza è una categoria fantasiosa – aveva detto Davigo – perché molti imputati risultano nullatenenti. Così lo Stato paga i loro avvocati a piè di lista per tutti gli atti compiuti e quelli compiono più atti possibili per aumentare la parcella. Molto meglio fissare un forfait una tantum secondo i tipi di processo: così gli avvocati perdono interesse a compiere atti inutili. E lo Stato, con i risparmi, può difendere gratis le vittime, che invece la dichiarazione dei redditi la presentano e di rado accedono al gratuito patrocinio”.

Si dice “orgogliosamente al suo fianco” Autonomia e Indipendenza, la corrente di Davigo che si chiede: “Ma come? coloro che asseritamente difendono il sacro principio del contraddittorio non sopportano che un magistrato esprima una propria opinione tecnica e pretendono che venga zittito?”. Anche Area, la corrente progressista difende Davigo pur avendo posizioni, evidenzia, tante volte distanti: “Le idee non condivise si contrastano con argomenti, tutto il resto è frutto della degenerazione culturale che il nostro Paese sta vivendo”. Interviene, inoltre, il consigliere del Csm Fulvio Gigliotti, laico M5s che “rigetta” la sollecitazione dei penalisti milanesi perché mette in discussione “in un colpo solo l’equilibrio delle delibere di un Organo a rilevanza costituzionale e la libertà di opinione, oltre che la figura di un degnissimo magistrato che ha contribuito a scrivere pagine tra le più significative della storia giudiziaria del Paese”.

Che l’aria sia avvelenata dal dibattito sulla prescrizione ricco di mistificazioni, lo dimostra anche la diffusione di un video di Davigo vecchio di 10 anni. Il magistrato usa un’iperbole per evidenziare le falle, a suo avviso, del sistema penale: un imputato condannato per omicidio volontario del coniuge si può vedere ridurre la pena anche a 5 anni, cioè a meno degli anni che ci vogliono per una causa di divorzio. Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, la rete dei centri antiviolenza sulle donne addirittura si spinge ad affermare che si tratta di “un’esternazione pericolosa che scivola nell’istigazione al femminicidio”. Davigo rompe il silenzio solo sul video: “Vale per mettere in risalto come il sistema penale in Italia sia stato scardinato”. Alla cerimonia di sabato a Milano ci sarà anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha scelto quella sede prima che la Camera penale chiedesse la messa al bando Davigo.

SOS. Barbara Alberti nella trappola GF Vip: domani ti rapisco io!

Stanotte ho sognato di essere il protagonista di Reality, il film di Matteo Garrone. Non so se avete presente la scena in cui questo pescivendolo che sogna di entrare nella casa del Grande fratello scavalca la recinzione di Cinecittà e si intrufola nella casa, di notte, mentre un manipolo di subumani si tuffano in piscina o improvvisano balletti scemi. Ecco, ho sognato di intrufolarmi anche io in quella casa, approfittando del colpo di sonno dell’autore del turno di notte, e di rapire Barbara Alberti. Rapirla di un rapimento salvifico, sia chiaro, di uno di quei rapimenti fatti a fin di bene, tipo portare via la figlia sedicenne da una festa prima che perda la verginità con uno youtuber deficiente. Ho sognato di portarla con me in una splendida magione coloniale ai Caraibi, di imbavagliarla con un foulard di seta e di legarla al letto per poi attendere la fine del Grande fratello vip imboccandola con prelibatezze esotiche, leggendole tutta la letteratura che desidera, mentre due stalloni cubani le massaggiano la schiena per impedire alle piaghe di deturpare la sua vecchiaia scintillante.

Le laverei le trecce nell’acqua di fonte e le asciugherei col mio alito ogni mattina, per non sciuparle. Tutto, pur di portarla via di lì. Pur di non vederla frugata e valutata dal pubblico del televoto, pur di non assistere allo scempio immeritato della sua persona e della sua storia, pur di non leggere su twitter @Lumachina79 che tra lei e Pasquale Laricchia, preferisce Pasquale Laricchia “perché sarà ignorante ma almeno è più sincero”. A ogni tweet così, c’è una femminista che brucia. Una libreria che chiude. Un sorriso che si spegne, da qualche parte nel mondo. E un Pasquale Laricchia che si riproduce alla velocità della cimice asiatica, finché i concorrenti del Gf del futuro non saranno eliminati non con una nomination, ma col Baygon. Vi sembrerà un futuro distopico, forse, ma a me pare un futuro plausibile e imminente. Io lo so che Barbara Alberti è entrata lì con le migliori intenzioni. Anzi, lei è entrata lì dentro proprio per la sua grandezza: perché la sua superiorità intellettuale si nutre da sempre di contaminazioni col basso, senza snobismi e steccati culturali. Perché è così intelligente da non temere di sporcarsi le mani, perché è libera in maniera trasgressiva e fanciullesca e i compartimenti stagni devono farle schifo almeno quanto i borghesi, i fascisti e i capelli spettinati. Eppure, nella sua esperienza al Grande fratello vip, succede quello che a una come lei non dovrebbe mai succedere e cioè che non è lei a contaminare ma lei a farsi contaminare. Il meccanismo, la compagnia, lo studio, la platea la stanno stritolando e masticando a piacimento, attingendo con cinismo dalla sua intelligenza candida o feroce, a minuti alterni. Ed è così che si ride con lei se chiede che non la si interrompa quando lava i piatti perché “è come interrompere qualcuno che sta scopando” o quando spiega La Traviata a Fabio Testi o Antonella Elia convinti che stia parlando di una serie su Netflix o quando interroga Patrick sulle sue apnee notturne. Il divertimento però dura poco. Il sentimento che prevale, a vederla lì dentro in chi la venera da sempre, è la malinconia. Immalinconisce guardarla imputata nel processo televisivo serale, con Wanda Nara e Pupo chiamati a esprimere un parere su di lei, che è come chiedere a un gatto un parere sulla Cappella Sistina. Immalinconisce il giudizio impietoso e aizzapopolo su sue frasi sparse, isolate, pronunciate da chi non ha la furbizia di capire che se non applichi i filtri del politicamente corretto dentro un reality, finisci scannato come un maiale.

Immalinconisce vederla costretta a giustificarsi davanti al tribunale dei social perché ha detto che Pasquale Laricchia “ha lo sguardo da assassino, è stupido, è molesto”, perché l’assenza di filtri non è un alibi, in quei contesti, e finisce che una donna meravigliosa, nella narrazione cinica e semplificata del reality, appare come una vecchia stronza. E Laricchia un gigante. Immalinconisce vederla condividere la tavola con Antonio Zequila, infilarsi nel gossip tra Licia Nunez e Imma Battaglia, vederla bollata come “demente” da una tizia che ha in curriculum Uomini e donne. Immalinconisce sentire Signorini che chiama i concorrenti “vippponiiiiiii” e sapere che nel grande mucchio degli sfigati di questa edizione c’è anche lei. Che non doveva. Che a 75 anni, per i tanti che non sanno nulla di lei e la identificavano al massimo per le trecce che le incorniciano il viso, ora sarà la vecchia stronza buttata fuori a furor di popolo o “la macchietta naïf simpatica, ma mezza matta che vince, che facciamo un selfie?”. Immalinconisce il suo sguardo attonito quando in diretta si rivede nei video che hanno montato, quando sembra non riconoscersi e un po’ vergognarsi, quando sembra capire di essere l’ingranaggio di una macchina impietosa, che cannibalizza la sua genuinità e le toglie verità, spessore e grazia, tramutandosi in quel “Maleducata!” gridato a lei da Signorini qualche sera fa. “Io sono iperbolica!”, ha cercato di spiegare a chi le rimproverava quelle parole dure su Laricchia. Ed è nel suo essere inconsapevole di avere davanti dieci persone convinte che “iperbolica” sia una parabola per captare segnali alieni nello spazio che sta il sunto di tutto.

Non ha sopravvalutato se stessa, Barbara Alberti, andando lì. Ha sopravvalutato la compagnia e il contenitore, li considera innocui, perfino divertenti. Non ha considerato, l’immensa Barbara, che nell’epoca dei “professoroni” sbeffeggiati dai forconi e dalla politica, non sono più i Laricchia o gli Zequila gli insetti curiosi, da guardare con la curiosità dell’entomologo, ma lei. Troppo anti-borghese, coraggiosa, colta e sarcastica per non essere “freezata” per sempre in un personaggio che non le somiglia. Domani provo a rapirla, lo giuro.

Porto Genova, Tir al posto del parco. E Spinelli ringrazia

Non ci sarà un parco, ma un parcheggio per camion di fronte alla settecentesca Villa Bombrini di Genova. Lo hanno deciso Regione e Comune a dispetto del piano urbanistico e degli Accordi per Cornigliano con cui nel 2005 fu disciplinata la restituzione alla città di alcune aree Ilva. Gli enti hanno accolto una richiesta di Aldo Spinelli (poi defilatosi) e di alcune associazioni di autotrasportatori che hanno ventilato il caos dati la carenza di parcheggi per i tir in transito nel porto e il venir meno a breve della maggior area adibita a questa funzione. Si tratta di uno spazio a Campi, che lo stesso Spinelli (finanziatore della fondazione Change del governatore Toti) comprò dal Comune anni fa. All’imprenditore è arrivata un’offerta importante di Amazon, incompatibile col parcheggio. Da qui la richiesta di un’alternativa. Da accogliere, perché, sostiene il sindaco Bucci, “Amazon non c’entra”, quello spazio serve per montare gli impalcati del ponte, sebbene lo stesso Bucci, commissario per la ricostruzione del Morandi, non abbia esercitato poteri coercitivi in tal senso e l’opera in 4 mesi sarà finita. I camion a Bombrini resteranno invece 30 mesi. Il tempo per il Comune di comprare una centrale elettrica di Arcelor, smantellarla, bonificarla e farci il parcheggio. Tempistica incongrua secondo i consiglieri regionali Pd Giovanni Lunardon e Pippo Rossetti, che paventano il sacrificio permanente di uno spazio destinato al verde pubblico. Tanto più che un’area parcheggio camion c’è già, individuata dagli accordi del 2005 che stanziarono 70 milioni. Soldi mai spesi, però, perché l’area fu affittata per farne un deposito container, illegittimamente secondo Tar e Consiglio di Stato. Solo nel 2018 la controllata della Regione che la gestisce ha dato lo sfratto, peraltro avviando una gara che prevede il mantenimento del deposito. L’attuale occupante può sperare così nella botte piena e nella moglie ubriaca: è il gruppo Spinelli.

“Cambiamo”?. A Latina c’è un patto tra clan e politica

Un “patto per la politica” tra la candidata e alcuni membri del clan Di Silvio. Secondo la Squadra mobile di Latina è ciò che è avvenuto durante la campagna elettorale del 2016 a Terracina tra l’ex consigliera Pdl della Regione Lazio, Gina Cetrone, e Agostino Riccardo del clan egemone nel basso Lazio. La notizia poteva rimanere nelle cronache locali se non è che la Cetrone, imprenditrice con un passato nel centrodestra e arrestata ieri, si fosse avvicinata al partito di Giovanni Toti, “Cambiamo”. Alla voce “lavoro” della propria pagina Facebook, infatti, la donna scrive: “Coordinatore Regionale ‘Cambiamo! con Toti’”, dal “3 ottobre 2019, ad oggi”. Anche se il governatore della Liguria prende le distanze: “Non me la ricordo. Non ha mai avuto incarichi, non è neanche iscritta al partito”, spiega al Fatto.

Intanto, ieri, su richiesta della Dda coordinata dal procuratore facente funzioni di Roma, Michele Prestipino, oltre alla Cetrone è finito in carcere anche il marito Umberto Pagliaroli e tre esponenti del clan Di Silvio di Latina, con le accuse di estorsione e violenza privata, aggravate dal metodo mafioso, per fatti del 2016.

Agli “attacchini” avversari: “Non mi coprite Gina”

C’è dunque il capitolo della politica. E il sottocapitolo della campagna elettorale del 2016 per il rinnovo del consiglio comunale di Terracina e l’elezione del nuovo sindaco della città. Chi rivela il “patto per la politica” è Agostino Riccardo, che dopo l’arresto ha iniziato a collaborare con la giustizia. Il 16 luglio 2018 agli investigatori racconta: “Contrattai la spesa da investire nella campagna elettorale e l’impegno a far visualizzare i manifesti. Questo servizio consisteva nel fatto che nessuno, sapendo che noi siamo i Di Silvio, poteva attaccare i manifesti sul nostro candidato. L’accordo fu di 10 mila euro solo per l’affissione dei manifesti, altri 10 mila erano per pagare le auto dei ragazzi che lavoravano (40 il conducente e 20 di benzina al giorno), 1a colla per i manifesti (8 euro al pacco) e i soldi per mangiare giornalmente”. “L’intero pacchetto – aggiunge – venne chiuso complessivamente a 25 mila euro. Il pagamento fu un po’ diverso dagli accordi…”. Del denaro il collaboratore di giustizia parla in una telefonata intercettata il 31 maggio 2016 proprio con la Cetrone. “Lo sai, te voglio bene come ’na madre, devo pagà gli operai Gi’”. E a conferma ci sono anche le immagini di alcuni dei Di Silvio intenti all’esposizione dei manifesti dei candidati. Quando quelli della Cetrone venivano coperti Agostino Riccardo interveniva. “Alla Fiora non c’è un mio manifesto. Ci sono 100 elettori e non un mio manifesto”, gli scrive la donna il primo giugno 2016. Così il collaboratore di giustizia ha raccontato di un incontro con gli addetti alla campagna elettorale degli avversari: “(…). Dissi: ‘Fateve il lavoro vostro e noi ce famo il nostro, non mi coprite Cetrone sennò succede un casino”.

La guerra tra bande: “La politica era nostra”

La “gestione della campagna elettorale” della Cetrone – secondo la Squadra mobile – “ha costituito oggetto di uno scontro tra due fazioni criminali”: i Di Silvio e i Travali. Sempre Agostino Riccardo parla di una riunione: “(..) Si stabilì che tutta la politica sarebbe stata nostra”.

L’imprenditore vittima: “Vennero a Pescara

Agostino, della Cetrone, sembra aver curato anche alcuni affari. Da qui la presunta estorsione a un imprenditore, Mario Bartoccini. Quest’ultimo ai pm dice: “Sono stato vittima di un’estorsione da parte di tre soggetti che si sono presentati come appartenenti a una famiglia zingara di Latina, i quali hanno operato su mandato di Pagliaroli e Cetrone”. L’uomo dice di esser andato a casa della Cetrone alla quale doveva saldare una fattura. Lì trova anche Agostino con altri due. La partita si chiude il giorno dopo, quando l’imprenditore viene raggiunto a Pescara. “Ho consegnato a Pagliaroli la ricevuta del bonifico in favore della società di Gina Cetrone – racconta l’uomo – Agostino mi ricordava che avrei dovuto pagare a lui e ad altri due zingari il loro disturbo, quindi gli consegnai 500 o 600 euro”. E aggiunge: “Ho ritenuto che l’atto intimidatorio (…) fosse un gesto di disperazione da porte della Cetrone, che mi ha indotto a ritenere, per quanto riferitomi il giorno prima, come pure lei fosse vittima degli zingari”.

“Non ha mai ricoperto alcun incarico”

Sentito dal Fatto, il governatore Giovanni Toti spiega: “Non ricordo di averla conosciuta, forse l’ho incontrata a qualche riunione”. C’è una vostra foto insieme però: “Non ho dubbi che l’ho incontrata come incontro centinaia di persone. Non so quali rapporti avesse con i nostri del partito a Latina, ma non è mai arrivata al comitato promotore nazionale. Non ho mai preso in esame nessuna sua tessera. Non mi risulta formalizzata la sua iscrizione”. Insomma la Cetrone si dice coordinatrice del partito, ma non è iscritta? “Le iscrizioni sono aperte da poco – continua Toti –. Evidentemente non ha fatto in tempo. Lei per la precisione, da quanto mi è dato sapere, ha compilato il form di iscrizione, ma non ha mai versato la quota e quindi non è mai stata ufficialmente registrata”. Il comitato promotore regionale di “Cambiamo” precisa: “Non ha ricoperto incarichi, ha solo fornito la propria disponibilità a collaborare sul territorio”.

Il leghista e la foto hot in Consiglio: “Sono per la famiglia tradizionale”

Si sa: le tradizioni, per la Lega, sono importanti. L’ampolla del Po, il matrimonio celtico, il caffè dopo pranzo e qualche bella donna da sbirciare durante la noia del Consiglio comunale. Ad ammetterlo è il consigliere leghista di Biella Franco Mino, che in queste ore si è sudato un po’ di notorietà grazie a una foto che lo immortala mentre scruta una procace fanciulla sullo schermo del suo cellulare, proprio mentre è seduto tra i banchi del Consiglio.

Un peccato d’eros virtuale perdonabile – in politica se ne fanno di peggio – ma reso più serio dall’autodifesa di Mino: “In riferimento a questa foto chiedo scusa se per sfortuna non ho aperto la prima pagina di Facebook di una fotografia con un uomo, ma io non seguo le tendenze di moda, rimango saldamente ancorato alle vecchie tradizioni (uomo, donna; mamma, papà;)”. Ed ecco allora che la foto hot diffusa dall’ex consigliere Roberto Pietrobon diventa – nelle intenzioni del leghista – quasi atto politico, rivendicazione ideologica e morale in favore della famiglia tradizionale. Guai a fare pensieri sconci, insomma, anche perché Mino già avverte: “A conclusione di quanto precedentemente postato per questa balordaggine affibbiatami con commenti denigratori su Facebook da parte di una decina di balordi dislocati in tutta Italia ho dimenticato di dire semplicemente che stavo sfogliando la bacheca di Facebook prima che iniziasse la seduta consiliare. Tutta questa è stata una strumentalizzazione di infimo livello”. Colpa di Facebook dunque? Di certo il rapporto tra Mino e il social network è tormentato. Una settimana fa, il nostro incappava in alcune foto di una cena leghista pubblicate l’anno scorso: “Facebook le mette tra i miei ricordi. Come fa a sapere che io c’ero visto che non appaio nelle foto e mai le ho postate scrivendo che c’ero?”. Soluzione: qualcuno dei convitati lo aveva taggato (segnalato come presente pubblicando le foto), ma non se ne era accorto. D’altra parte i leghisti a Biella sembrano proprio cercarsi guai. Qualche mese fa la maggioranza guidata dal sindaco Claudio Corradino negò la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, salvo proporla il giorno dopo a Ezio Greggio. Tre giorni fa invece il vicesindaco Giacomo Moscarola se ne è uscito così: “Vincere in Emilia è un po’ come quando vuoi trombarti 20 ragazze nuove e, visto che non te la dà nessuna, ti accontenti dell’unica che ormai te la dà da anni”. Forse Mino voleva semplicemente non essere da meno.

C’era un’inchiesta per droga mentre Salvini citofonava

Scampanellando in quel condominio di via Grazia Deledda al Pilastro, periferia di Bologna, Matteo Salvini è andato a sovrapporsi a un’indagine giudiziaria per droga, in corso proprio da quelle parti. Non è chiaro se la “giustizia porta a porta” del capo leghista nella campagna per le Regionali emiliano-romagnola, lo scorso 21 gennaio, oltre a scatenare un putiferio, richieste di risarcimento e l’apertura di un fascicolo da parte del Garante della Privacy, abbia perfino intralciato l’attività di polizia giudiziaria. Non sarebbe male per l’ex ministro dell’Interno che mette la “sicurezza”, vera o presunta, al centro della sua propaganda.

La situazione imbarazza un po’ tutti nell’Arma dopo il coinvolgimento del terzo, incredibile protagonista della scenetta del citofono, finita sul Web poi rimossa da Facebook. Dopo Salvini e la signora che l’ha portato davanti al portone di via Grazia Deledda, una donna che vive il lutto di un figlio malato e poi morto di eroina, ecco il maresciallo dei carabinieri. È un sottufficiale “in convalescenza” non certo alle prime armi, anzi piuttosto noto a Bologna, già comandante di varie stazioni prima di una recente inchiesta per stalking e depistaggio che l’ha portato alla sospensione dal servizio poi revocata dal Riesame (attende la Cassazione), una storia a metà strada tra la goliardia pesante e cose peggiori che se confermata sarebbe tutt’altro che edificante. L’Arma lo tiene lontano dall’attività operativa e ieri ha confermato di aver avviato le “procedure preliminari volte a chiarire i termini della vicenda” della sceneggiata salviniana al Pilastro, “con esclusivo riferimento all’asserito coinvolgimento del carabiniere, che, per quanto ad ora risulta, era in licenza di convalescenza, dunque non in servizio all’epoca dei fatti”. Per dire che non ha il divieto di fare il galoppino dei Salvini boys.

Non è la prima volta che il “capitano” leghista finisce per inguaiare uomini delle forze dell’ordine che per un motivo o per l’altro esagerano mettendosi a sua disposizione. È successo anche ai poliziotti che la scorsa estate, quando era ancora ministro dell’Interno, hanno portato suo figlio sulla moto d’acqua della polizia a Milano Marittima (Ravenna) e a quelli che hanno intimidito il giornalista di Repubblica che riprendeva la scena: la Procura di Ravenna ha chiesto l’archiviazione, il giudice deve pronunciarsi e poi si apriranno eventuali procedimenti disciplinari.

In questo caso, a quanto pare, il maresciallo ha messo in contatto lo staff di Salvini con la “mamma antidroga”. Così almeno ha detto lei: “Ho ricevuto una telefonata dal maresciallo dei carabinieri, sarei stata avvisata dell’arrivo di Salvini da un suo collaboratore. Si fida ciecamente di me perché sa che ho tutto in mano sulla situazione dello spaccio, foto e prove”. Nel video, poi rimosso da Facebook, prima dello show del citofono la signora del Pilastro lo cita: “Qua segnalo al maresciallo XXX quello che capita”. La mattina dopo la signora ha ritrovato la macchina con due finestrini spaccati. Nella denuncia ai carabinieri ha dichiarato che l’incontro con il leader della Lega è avvenuto dopo la telefonata del maresciallo. Secondo il Corriere di Bologna il sottufficiale, come riferito dalla donna, avrebbe detto che “lo staff di Salvini mi ha chiesto il contatto di una persona che conosce le dinamiche del quartiere e io ho pensato a lei”. Abbiamo chiesto al maresciallo di raccontarci come è andata ma, anche comprensibilmente, non intende parlare, nemmeno tramite colleghi e comuni conoscenti.

Salvini al Pilastro è arrivato sull’onda di una falsa notizia di cronaca: la denuncia, rivelatasi poi falsa, di una violenta aggressione a una ragazza. La polizia di Bologna ha denunciato la 15enne per procurato allarme e simulazione di reato. La signora l’ha portato davanti al citofono e lui ha suonato a una famiglia italo-tunisina: “Lei spaccia? Suo figlio spaccia?”. Non l’hanno fatto entrare. Lì abita una coppia italo-tunisina con un figlio di 17 anni, che si è sentito additato come spacciatore e si è affidato all’avvocata Cathy La Torre che annuncia un’azione per danni contro Salvini. Non è su di lui, ma un’inchiesta per droga c’è. Peraltro il fratello maggiore che non abita lì, come ha spiegato egli stesso, è già stato condannato per spaccio. Non è chiaro se la signora si riferisse a lui, né cosa sapesse il maresciallo delle eventuali attività di spaccio e delle indagini in corso. La Procura non sembra intenzionata a contestargli omissioni né altri illeciti penali, l’Arma deciderà cosa fare.

Stadio della Roma, Raggi ancora archiviata

Non c’è stato abuso d’ufficio. Si chiude con l’archiviazione l’accusa contro la sindaca Virginia Raggi, coinvolta in uno dei filoni dell’inchiesta sul nuovo stadio della Roma, progettato a Tor di Valle. Il gip Costantino De Robbio ha accolto la richiesta della pm Elena Neri, spiegando che “non ci sono elementi per desumere che la sindaca abbia intenzionalmente agito per favorire qualcuno e non sembrano potersi ricavare da un ulteriore eventuale approfondimento delle indagini”.

L’inchiesta nasce dalla denuncia presentata nel giugno 2018 dall’architetto Francesco Sanvitto, presidente dell’associazione Tavolo della libera urbanistica, che accusava la sindaca di aver violato “l’art. 62 comma 2bis del dl 2017/50”, perché non avrebbe “sottoposto al Consiglio Comunale” il “verbale conclusivo della Conferenza dei Servizi” sulla variante del progetto, saltando questo passaggio e pubblicandolo direttamente “nell’Albo Pretorio”.

La pm Neri giudica inconsistente l’esposto, e ne chiede una prima archiviazione, ma trova l’opposizione di Sanvitto che fornisce agli inquirenti nuovi elementi. Aggiunge che nella fase antecedente alla procedura (giugno 2017), il presidente del consiglio di municipalità IX Marco Cerisola, avrebbe riunito il consiglio “senza la previa convocazione della commissione urbanistica” e in seguito deliberato con parere favorevole tramite la “commissione Sport, Cultura e Spettacolo”, agendo con “sospetta urgenza” e chiedendo una “valutazione della commissione edilizia”.

Il gip dispone una proroga delle indagini, e la Procura decide di ascoltare Cerisola, Cinzia Esposito, direttore del dipartimento programmazione urbanistica del Comune, e Paolo Mancuso, presidente della commissione urbanistica del Municipio IX.

Al termine delle indagini, la Procura chiede una seconda archiviazione ritenendo “priva di ogni fondamento” la violazione dell’articolo 62. Il passaggio in Consiglio Comunale avviene a seguito della “fase delle osservazioni/controdeduzioni”, in modo da consentire “all’Assemblea di deliberare dopo aver avuto modo di valutare le osservazioni di tutti i cittadini”, che “solo attraverso la pubblicazione possono aver avuto contezza del contenuto dell’atto”. “L’iter della variate è ancora nella fase iniziale – scrive la Neri –, e l’approvazione avviene alla fine di un iter, attraverso una delibera della Regione Lazio”. Sul secondo punto invece, non ci sarebbe stata nessuna “forzatura” del Municipio IX a “favorire la manifestazione d’interesse del Comune”, anche perché non è “necessaria al completamento della procedura in senso positivo”. “L’urgenza e la modalità” con la quale Cerisola avrebbe convocato la commissione, sarebbe da “ricercarsi nell’interesse per il Municipio di prendere parte al procedimento partecipativo”. “Dopo mesi e mesi di fango da parte di chi mi attaccava con menzogne e ricostruzioni fantascientifiche, è arrivato finalmente il momento del riscatto. Mi sono comportata correttamente e ho gestito onestamente il dossier. Avanti a testa alta”, ha commentato la sindaca.