Taranto, Genova e New York: le Sardine ripartono in treno

Matteo Salvini è pronto a sbarcare in Puglia il prossimo 19 febbraio, ma ad attenderlo, a Taranto, ci saranno ancora una volta le Sardine. “Siamo una città di mare e siamo una terra accogliente, non si viene a speculare sulla nostra terra, abbiamo chiesto alle Sardine emiliano-romagnole di fare rotta al Sud perché sapevamo che Salvini dopo la sconfitta avrebbe puntato sulle comunità più deboli, come la nostra”, spiega MariaStella Baglioni, Sardina tarantina. “L’ipotesi che qualcuno possa venire a fare campagna elettorale cercando di dividere i malati dagli operai qua non è accettabile, ogni famiglia sa bene cosa vuol dire avere un malato e un operaio, siamo una città piagata e piegata che sta tentando in tutti i modi di alzarsi, non ci serve un suo ennesimo colpo a effetto”.

È la cronaca a offrire al leader del Carroccio un’occasione su cui ritiene doveroso fiondarsi: lo sbarco a Taranto di poco più di 400 immigrati, di cui almeno 130 minori e 12 donne incinte, provenienti dalle zone sub-sahariane. Il tweet in merito ha scatenato la reazione delle Sardine pugliesi: “Andranno per il momento al Cara di Bari e molti di loro saranno ricollocati in base al programma della ripartizione europea in altri Stati membri, è già accaduto, nessuno dei migranti salvati in mare e sbarcati a Taranto, poi passati per il centro di identificazione dell’hot spot del porto ionico, è rimasto in questa città. Lui è stato ministro dell’Interno e queste cose dovrebbe saperle”. Sul posto e l’orario del fish-mob i tarantini stanno ancora valutando il da farsi, così come i “colleghi” liguri alla prese con l’organizzazione del primo e unico Sardina express.

L’idea è nata a Genova dopo una partecipata assemblea: un treno intero, ogni vagone un tema come l’ambiente, la sicurezza sul lavoro o l’educazione alla non violenza, in viaggio da Levante a Ponente fino al confine con la Francia. Un convoglio di partecipazione e arte, una sorta di favola contemporanea. Poi però è subentrata la dura realtà. Prendere un treno intero costa sui 50mila euro, una cifra irraggiungibile per le Sardine genovesi che hanno provato a contattare varie personalità per chiedere aiuto ma senza, finora, particolare successo.

Il crowdfunding bolognese è stato un successo, ma per ripetere la raccolta di fondi online servirebbe più tempo: si sta pensando infatti se rispetto alla data lanciata del 1º marzo non convenga posticipare. Altra soluzione possibile è quella di invitare tutte le sardine a munirsi autonomamente di biglietto ferroviario e percorrere la tratta prescelta tra Ventimiglia e Sarzana. “Vorremmo portare chi vorrà partecipare, lungo tutta la costa ligure, per giungere magari oltre il confine francese. Avremo bisogno dell’aiuto di tanti, si tratta di un progetto di inclusione di respiro europeo, un viaggio rappresentativo della memoria e delle migrazioni, un viaggio tra le bellezze della nostra Liguria e la bellezza della Costituzione e della carta di Nizza. Un viaggio per ricordarci la ferocia delle frontiere e il diritto delle persone a spostarsi, un viaggio di resistenza, consapevolezza e speranza” sottolinea la Sardina Roberto Revelli. Da Taranto a Genova passando per New York: martedì sera oltre 50 persone si sono incontrate per mangiare una pizza a Manhattan nella pizzeria Gino Sorbillo. I migranti italici hanno discusso delle recenti elezioni in Emilia-Romagna e Calabria, di Italia e di come muoversi nei prossimi mesi.

Le Sardine atlantiche, la cui portavoce è Simona Giunta, tra un bicchiere e una fetta di pizza hanno individuato le priorità per il futuro del movimento. “Organizzeremo appuntamenti culturali in tutta la città di New York senza tralasciare le periferie, vogliamo dire un chiaro no al razzismo, vogliamo costituire un gruppo attivo sui social per contrastare la propaganda delle destre e dei populismi”. Il presidente Donald Trump è avvisato, mai sottovalutare una Sardina.

“Destra o sinistra? Il 5 Stelle esiste solo se va da solo”

Il primo reggente a 5Stelle ha voglia di ricordare: “Sono stato uno dei primi candidati governatori e il primo capogruppo in Senato, ogni volta che bisogna aprire una strada tocca a me…”. Prestigioso forse, ma anche irto di rischi per il viceministro dell’Interno Vito Crimi.

Come vanno i primi giorni da reggente? C’è la fila per richieste e lamentele?

La gran parte dei messaggi che ho ricevuto sono da persone che si mettono a completa disposizione e raccontano le proprie competenze, perché possano essere utili.

E gli altri?

Martedì sera abbiamo avuto un’assemblea congiunta dei parlamentari, all’insegna del massimo ascolto e dell’inclusività. Eppure qualcuno è uscito dicendo: “Non c’è ascolto”. Forse alcuni non hanno davvero voglia di risolvere i problemi.

C’è anche la diversità di opinione. E lei dovrà gestire un M5S che da inizio legislatura ha perso 31 eletti.

Nella scorsa legislatura ero sempre senatore, e il gruppo ha perso il 30 cento degli eletti. Ma da quel momento abbiamo volato: in Aula eravamo dirompenti.

Quindi non teme danni da altre uscite o espulsioni?

Non ho alcuna preoccupazione. Siamo il Movimento.

Però dovrà preoccuparsi degli iscritti. C’è scollamento tra base e eletti.

Tra gli attivisti vedo un grande entusiasmo che sta cercando una via per poter essere espresso. E dobbiamo rilanciarlo.

Vi percepiscono lontani, rinserrati nei Palazzi.

Noi dobbiamo essere presenti, supportarli e metterli a conoscenza di ciò che facciamo. Io domani (oggi, ndr) sarò a Napoli per un evento del Viminale, e la serata la passerò con gli attivisti: sono cose che dobbiamo tornare a fare. Dobbiamo presenziare meno a eventi pubblici dove è bello sentirsi importanti, e riscoprire la sobrietà.

Lunedì le hanno citato le parole del premier Conte, sulla necessità di un fronte progressista con dentro il M5S, e lei è stato netto: “Ai cittadini non importa dove ci collochiamo, gli interessa se abbassiamo le tasse”.

Nel momento in cui si parla di collocazione politica, è come dire che il Movimento non esiste. Siamo nati quando è fallito il bipolarismo. Abbiamo un nostro campo, fatto dei nostri valori: dall’acqua pubblica alla tutela dell’ambiente, fino al reddito di cittadinanza. Io gli altri li sfido su questo.

Per governare bisogna scegliere da che parte stare.

Il punto sono gli obiettivi da realizzare. E comunque non c’è governo possibile senza il M5S, non ci sono altre geometrie. Siamo il punto fermo di questa maggioranza.

Però Beppe Grillo vi vorrebbe stabilmente nel centrosinistra. Conterà, no?

Io ricordo che tanti anni fa Beppe chiese la tessera del Pd, per correre alle primarie. Ma cercava semplicemente uno spazio per delle idee, non una collocazione.

Ne dovrete parlare negli Stati generali.

Auspico che il dibattito non sia su questo, altrimenti sarebbe povero.

E di cosa discuterete? Tra l’altro, li avete appena rinviati.

Dovremo dare il massimo per il referendum sul taglio dei parlamentari del 29 marzo. La nuova data verrà decisa in base alla location e ai costi. Detto questo, dovremo concentrarci su valori, obiettivi e regole, come stabilito con attivisti ed eletti.

Spieghi meglio.

Dobbiamo fare una verifica sui nostri valori, capire se e come li abbiamo declinati. Poi dovremo individuare nuovi obiettivi da realizzare, quindi ci occuperemo di regole e organizzazione.

Negli Stati generali deciderete se mantenere un capo politico o passare a un organo collegiale?

Sì. Ma a mio avviso ogni organizzazione collettiva ha bisogno di una figura apicale: non è possibile avere solo un organo collegiale.

E il nome, o i nomi? Dopo gli Stati generali?

Sì. Prima le esigenze e le cose da fare, poi i nomi per farle.

Cambiare le regole significa cambiare lo Statuto.

Solo se sarà necessario.

Nello Statuto si parla anche della piattaforma web Rousseau. Molti parlamentari ne contestano peso e utilizzo.

Rousseau nasce con e per il M5S. È la naturale estensione di ciò che siamo stati, della partecipazione.

Chiedono di farlo gestire ai parlamentari.

Certe cose più lontano stanno meglio dai politici, meglio è. I dati delle persone e altre informazioni non devono essere a disposizione degli eletti.

È meglio che siano nelle mani di Davide Casaleggio?

Lui non fa attività politica, quindi non li usa a fini politici.

È un discorso lungo. Le dà fastidio essere descritto come un dimaiano, quindi influenzabile?

Io ci sono da sempre nel M5S: mi spiace che si usino espressioni come i dimaiani

Di Maio pare contrario ad accordi con il Pd nelle regioni. Lei? E come deciderete?

Abbiamo un regolamento chiaro: individueremo i nostri candidati consiglieri e presidenti in Rete come sempre. Il regolamento consente comunque al capo politico di proporre un candidato esterno, ma in questo caso deve essere sottoposto agli iscritti.

Gli accordi sono possibili.

Non voglio parlare di accordi, ma di progetti. Quello è ciò che conta.

La telefonata tra i “delegati”: in Toscana i giallorosa ci provano (forse corre Renzi)

La parola d’ordine è una sola: provarci. Ad aprire uno spiraglio e poi una trattativa per vedere insieme – in un’unica coalizione – gli alleati di governo, Pd e Movimento 5 Stelle, anche alle prossime elezioni regionali in Toscana. A settembre, dopo la formazione dell’esecutivo giallorosa, erano caduti a uno a uno i paletti che per anni avevano diviso i due acerrimi nemici: la candidatura alle Olimpiadi del 2032, le grandi opere (aeroporto e Tav di Firenze) e, da parte dei dem, il “no” a inceneritori a favore dell’economia circolare. “La trattativa era già intavolata, poi è arrivata la batosta in Umbria” racconta un esponente del Pd toscano. E il fallimento di fine ottobre aveva fermato tutto. Di Maio aveva imposto il “no” alle alleanze a livello locale e in Toscana Italia Viva aveva imposto l’aut aut al Pd: “O con noi o con loro” diceva il deputato renziano, Gabriele Toccafondi.

Adesso, però, nonostante Eugenio Giani non sia un candidato digeribile per i 5Stelle, le elezioni in Emilia-Romagna e la vittoria alle Regionarie della candidata vicina a Roberto Fico, Irene Galletti, hanno riaperto i giochi. Il dialogo è partito e i due “delegati” di Pd e M5S sono il vicesegretario dem Valerio Fabiani e il consigliere regionale vicino a Galletti, Gabriele Bianchi: i due, a metà ottobre, avevano partecipato a un evento congiunto a Firenze dopo la formazione del secondo governo Conte e nei mesi scorsi hanno più volte condiviso battaglie su legalità e antimafia. Martedì si sono sentiti anche al telefono per provare a far dialogare Galletti e Giani ma al momento i 5 Stelle toscani attendono le prossime mosse dei vertici nazionali. E allora a lanciare il sasso ci pensa Fabiani: “A livello nazionale siamo alleati e non avversari – spiega l’uomo di Zingaretti in Toscana – dobbiamo confrontarci perché ciascuno di noi sa bene che, nelle regioni cosiddette rosse, il Movimento 5 Stelle si è sviluppato dove la sinistra è apparsa debole e afona. Per entrambi la sfida è quella di riorganizzare il campo dei progressisti, elaborare una proposta nuova, democratica, per combattere disuguaglianze e cambiamenti climatici. Anche in Toscana”. Opinione condivisa, a sorpresa, da Base Riformista, la corrente di ex renziani rimasti nel Pd che in Toscana fa capo a Luca Lotti e Andrea Marcucci: “Rispetto la discussione interna nel Movimento 5 Stelle – dice al Fatto il deputato livornese, Andrea Romano – ma sarebbe auspicabile che i grillini fossero parte dell’alleanza di centrosinistra che in Toscana sosterrà Eugenio Giani. Anche perché se loro non vogliono allearsi, lo faranno i loro elettori che voteranno per il centrosinistra come è successo in Emilia. Basterebbe seguire quello che vuole Beppe Grillo: far diventare il M5S un partito ecologista di centrosinistra”. Nel Movimento 5 Stelle, dopo i primi giorni di chiusura totale, adesso la linea si sta ammorbidendo: se Galletti continua a dire “no” all’alleanza organica con il Pd, dai meet up della costa (soprattutto Livorno e Pisa) e nelle chat degli attivisti l’invito è quello almeno di “andare a vedere le carte”. Il candidato Giani si dice disponibile e oltre ai 5 Stelle, sta lavorando ai fianchi anche le sardine: “Hanno esercitato un ruolo importante per la vittoria di Bonaccini e del centrosinistra in Emilia Romagna – ha detto due giorni fa – mi auguro che possa avvenire altrettanto in Toscana. Faranno una lista in mio sostegno? Decideranno”. L’incognita nel centrosinistra rimane la lista civica del candidato presidente: Giani la vorrebbe sul modello di quella che ha trainato Bonaccini in Emilia mentre Renzi si sta opponendo con tutte le sue forze. In Toscana infatti esordirà Italia Viva, che di fatto potrebbe subire la concorrenza della lista intitolata a Giani. Per questo l’ex premier potrebbe correre in prima persona come capolista nel collegio di Firenze. Con quali esiti, non è dato saperlo.

“De Luca a casa e se ne parla”. Ma in Campania M5S è diviso

Sono a uno snodo cruciale le aperture del M5S nazionale a un dialogo con il Pd per le elezioni in Campania. Con o senza veti o pregiudizi a un eventuale bis del governatore dem uscente Vincenzo De Luca, si vedrà.

Ieri il blog delle Stelle ha aperto le ‘regionarie’ per la ricerca dei candidati consiglieri. Le proposte vanno chiuse entro il 10 febbraio. E domenica mattina, all’Hotel Ramada di Napoli, appuntamento aperto a tutti gli attivisti grillini per sette ore di dibattito non stop su “percorso e modalità da intraprendere” in vista del voto di primavera. Perché “è indispensabile confrontarci – si legge sul post di convocazione firmato dai facilitatori campani Luigi Iovino e Agostino Santillo – con tutti coloro che compongono il M5S in Campania”.

C’è un’accelerazione verso la trattativa. “Bisogna sedersi a un tavolo e parlare”, mutuando le parole del ministro pentastellato dello Sport, Vincenzo Spadafora. Ma la mossa di indire le ‘regionarie’ al buio rispetto al posizionamento successivo, è stata accolta con una punta di contrarietà dalla maggioranza dei consiglieri regionali uscenti, finora per lo più vicini all’ex capo politico Luigi Di Maio. “Decisione non condivisa – spiega una loro fonte – perché non c’è accordo sul dialogo o meno con il Pd né c’è un candidato governatore. Cinque anni fa il percorso era chiaro: prima i candidati consiglieri e dopo, tra quelli in lista, la scelta del candidato governatore (così fu individuata la dimaiana Valeria Ciarambino, ndr). Oggi si scelgono solo i candidati consiglieri. Dopo, non si sa. Mentre in Puglia, Liguria e Marche hanno fatto un percorso inverso. Lì hanno già scelto il candidato governatore, ma non ancora i consiglieri”.

Non è un caso che la prima a dichiarare ieri è stata la capogruppo Ciarambino: “Non saremo la stampella del Pd e nessun dialogo se il punto di partenza è De Luca, dico no a un candidato condiviso che sia la foglia di fico di cinque anni di scempi. Non possiamo immaginare che il cambiamento significhi semplicemente far fuori De Luca, ma continuare a tenere dentro i suoi uomini e il suo sistema di potere”, e seguono i nomi che lo incarnerebbero, capitanati dal sindaco di Capaccio Paestum, il “signore delle fritture” Franco Alfieri.

Il punto resta quello anticipato dal Fatto nei giorni scorsi: l’intesa, secondo un gruppo di grillini duri e puri che ha ingoiato cinque anni di insulti e di ostilità – ricambiati – da De Luca, si può fare solo dopo un passo indietro del governatore. E così piovono da più parti solleciti a offrire a De Luca una ‘buonuscita’: un ministero o un sottosegretariato per il figlio deputato Piero, o un posto da boiardo di Stato.

“Lascio la Regione solo se divento presidente di Bankitalia”, ha detto De Luca qualche settimana fa dagli schermi di Lira Tv, dove ogni venerdì monologa senza contraddittorio. Ironizzava, ha scritto qualcuno. Forse.

Se in consiglio regionale – con l’eccezione forse di Tommaso Malerba, il consigliere al quale De Luca telefonò all’alba del Conte 2 – si respira un’aria di contrarietà al dialogo coi dem, diverso è il clima nella componente parlamentare campana. In particolare nell’ala vicina a Roberto Fico, capitanata da Luigi Gallo, dove prevalgono le ragioni del sostegno al governo giallo-rosa e della volontà di replicare lo schema in Campania intorno al nome del ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Favorevoli ad allargare il campo delle alleanze ci sarebbero anche la senatrice Virginia La Mura e la deputata Gilda Sportiello. Domenica al Ramada si potrebbe delineare un quadro chiaro, che conduca a una decisione limpida e numericamente valida. Altrimenti, ragiona uno spin doctor

grillino, la parola potrebbe passare a Rousseau come è stato per l’Umbria: far votare su tutto il territorio nazionale. Anche a quelli che della Campania, del Pd degli scandali delle primarie napoletane e delle fritture di pesce dei sodali di De Luca non conoscono una virgola.

Dopo 7 anni di caos la Sicilia torna al punto di partenza: ad aprile si vota per le Province

Come in un gioco dell’oca, sulle Province, la Sicilia torna al punto di partenza. L’Assemblea regionale siciliana ha varato la data, domenica 19 aprile, delle elezioni per il ripristino degli enti intermedi che nel marzo del 2013, l’allora governatore Rosario Crocetta giurò nel salotto televisivo di Massimo Giletti di voler abolire.

In realtà, ne commissariò soltanto i vertici, aprendo una lunga fase di costoso caos gestionale, riforme mancate e leggi regionali cassate dalla Consulta durata sette anni. Si torna alle vecchie Province, con le relative cariche e indennità, dunque, che in Sicilia dovevano garantire la manutenzione delle strade e il riscaldamento nelle scuole e che da sette anni riescono a malapena a pagare gli stipendi degli oltre 6500 dipendenti: oggi si chiamano Città metropolitane e Liberi Consorzi di Comuni, in virtù di una legge del 2015 voluta da Crocetta per ridurre i costi esorbitanti di enti che non sono previsti nello Statuto siciliano e che oggi sono quasi tutti i situazioni di pre dissesto: a Siracusa l’ex provincia ha già dichiarato il default, a Messina il sindaco metropolitano Cateno De Luca ha chiuso l’ente e messo in ferie forzate i lavoratori, annunciando il fallimento.

Nel 2017, però, un’altra legge, questa volta elettorale, previde la costituzione dei nuovi vertici, con i relativi appannaggi. L’abolizione si era ridotta insomma al solo cambio del nome e la soluzione gattopardesca non convinse la Corte Costituzionale che bocciò la legge, costringendo l’assemblea regionale a varare una nuova norma, questa volta sulla scia della legge Delrio, che prevedeva elezioni di secondo livello.

Domenica 19 aprile andranno alle urne infatti solo i sindaci e i consiglieri dei 390 comuni siciliani, e non i cittadini per eleggere i vertici amministrativi di enti rivelatisi scatole vuote e veri e propri stipendifici che continuavano a macinare costi esorbitanti: almeno 400 milioni l’anno, visto che i tentativi di ridurre la spessa hanno prodotto, nel triennio 2015-2017, un trascurabile -13,14%, come ha certificato la Corte dei Conti del 2019 sulla spesa per il personale degli Enti territoriali: la Regione Siciliana paga troppi dipendenti poco qualificati e assunti con criteri dubbi.

Non solo: la Sicilia conta 2,97 dipendenti regionali ogni 1000 abitanti, un dato un po’ più alto della Sardegna (2,37), ma lontanissimo dalla Lombardia che ne ha appena 0,33 ogni mille abitanti.

“Gli Enti intermedi in seguito alle decisioni legislative degli scorsi anni sono rimasti scatole vuote, prive di competenze e con enormi criticità economico-finanziarie – dice oggi il capogruppo di Diventerà Bellissima, il movimento del governatore Nello Musumeci –. Abolire le Province senza avere creato un’alternativa funzionante ha portato al disastro che è sotto gli occhi di tutti. La fine della gestione commissariale certamente sarà un risultato positivo, tuttavia invece che ricorrere a elezioni di secondo grado a nostro giudizio era giusto ridare la parola direttamente agli elettori”.

“A oggi – dice Giorgio Pasqua del Movimento 5 Stelle – le Province devono raggiungere un obiettivo ‘esterno’, vale a dire la sistemazione della situazione finanziaria, che grazie al governo nazionale, con la riduzione del prelievo forzoso, si dovrebbe raggiungere nel giro di uno o due anni”.

E questo, dice il capogruppo grillino in Regione, ha avuto effetti perversi sulla vita dei siciliani: “Siamo di fronte a situazioni limite, con solai e controsoffitti che cadono sulle teste degli studenti, strade provinciali sempre più dissestate e insicure, che permettono di affermare che i servizi dovuti dai Liberi consorzi ai cittadini non sono garantiti”.

La beffa: Salvini vota sì al referendum che costa 300 milioni

Un giochino da 300 milioni di euro. Questa è la cifra che Matteo Salvini farà spendere agli italiani per il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari che chiamerà l’Italia alle urne il 29 marzo. Referendum che, senza il soccorso della Lega sulle firme, forse non sarebbe passato. Perché è grazie ai sei senatori del Carroccio che è arrivata la spinta decisiva al referendum. Le 64 firme necessarie previste dalla Costituzione, che poi sono state anche superate (71), sono arrivate grazie al soccorso verde che ha sostituito i forzisti di Mara Carfagna, che all’ultimo hanno deciso di ritirarle.

E ora andrà in scena un referendum dove non c’è bisogno del quorum e per cui si prevede di spendere circa 300 milioni, la stessa cifra spesa nel 2016 per la riforma costituzionale di Matteo Renzi. Il paradosso è che sarà una consultazione del tutto inutile, dato che il risultato è scontato. Già oggi i sondaggi danno il Sì al taglio al 90 per cento. Gli italiani, dunque, in larga maggioranza diranno Sì alla legge che porterà i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Una norma così popolare per cui nessun partito ha il coraggio di schierarsi contro, anche chi forse vorrebbe, come Leu e Sinistra italiana. O un pezzo di Pd.

Ma torniamo alla Lega. Che, specularmente ai dem, è stata protagonista di un doppio salto carpiato. Quando era in maggioranza con i 5 Stelle ha sostenuto la riforma, continuando a votarla anche dall’opposizione, con l’ultimo voto a Montecitorio. Salvo poi chiedere il referendum confermativo. Che serviva a Salvini solo per aprire una finestra elettorale per un’eventuale crisi di governo dopo le Regionali in Emilia. Crisi che, data la vittoria del centrosinistra, non ci sarà. Alla Lega però era utile allungare la vita all’attuale legislazione, così da invogliare i parlamentari ad andare al voto con il vecchio numero di poltrone. “Io sono sempre a favore dei referendum, perché sono sempre per far decidere il popolo…”, ha detto il leader leghista per giustificare una scelta che andava contro i suoi stessi voti in Parlamento. E ora cosa farà il Carroccio in vista del 29 marzo? Il partito è diviso tra chi vuole scendere in piazza a sostegno del taglio “per intestarsi una legge assai popolare” e “non lasciare la piazza al solo Movimento 5 Stelle”, e chi invece vuole tenersi alla larga.

Già perché, al momento, se nessun partito è contrario al taglio, gli unici che faranno campagna per il Sì sono gli autori della norma: i pentastellati. Gli altri daranno indicazioni di massima, ma non si metteranno a far comizi. A sinistra non la farà il Pd che, al contrario della Lega, ha sempre votato contro durante il Conte 1 per poi sterzare a favore col Conte 2. Tra i dem si sarebbe preferita una riforma organica, con modifiche all’intero sistema, compresa la legge elettorale. Ma dato che la riduzione dei parlamentari faceva parte dell’accordo di governo, hanno dovuto abbozzare. E votare Sì. Anche se al suo interno non sono mancate le voci critiche. Come quella di Tommaso Nannicini, che è tra i promotori del Comitato del No, messo in piedi dalla Fondazione Luigi Einaudi. Lo stesso accade in Sinistra italiana e Leu, dove si è votato a favore del taglio in cambio di precise garanzie sulla legge elettorale. “Faceva parte dell’accordo di governo: l’appoggio al taglio ma al contempo una legge elettorale che garantisse la rappresentanza alle forze minori. Noi gli accordi li abbiamo rispettati, gli altri per ora no…”, afferma Loredana De Petris, che col Conte 1 aveva votato contro. Insomma, da queste parti si voleva utilizzare la legge come merce di scambio sul sistema di voto.

Nonostante la compagine forzista sia la più nutrita tra i firmatari pro referendum, in FI la linea è quella di sostenere il taglio. “L’ordine di scuderia è per il Sì, perché la diminuzione dei parlamentari fa parte del nostro dna. Anche se avremmo preferito una riforma più strutturale, perché ora si dovranno ridisegnare i collegi”, sostiene il deputato Giorgio Mulè. Di tutt’altro avviso il suo collega di partito Andrea Cangini, schierato per il No. “Nell’ultimo voto a Montecitorio hanno votato contro solo in 14. Chiaro che andare contro il populismo spaventa tutti e così sarà al referendum. Opporsi al taglio è impopolare e invece dovrebbe essere sacrosanto, perché qui si vuole mortificare la rappresentanza democratica e le istituzioni con la demagogia. Per un risparmio minimo che, come ha detto Cottarelli, sarà dello 0,007% della spesa, un caffè al giorno”, osserva Cangini. All’opposto c’è infine FdiI che, nei 4 passaggi parlamentari, ha votato sempre a favore del provvedimento. “Senza di noi questa legge non sarebbe mai passata”, ha esultato Giorgia Meloni dopo l’approvazione alla Camera. E ora anche FdI è pronta ad andare all’incasso a sostegno del referendum. “Non deve passare la narrazione che sia merito solo di Grillo e Di Maio…”, dicono.

La Casta ha vinto: il Senato ridà il vitalizio a 700 politici

Un insolito Massimo Teodori in scarpe da tennis minaccia di fare fuoco e fiamme perché la battaglia va combattuta fino allo stremo, come ai tempi belli dei digiuni radicali. Giuseppe Gargani, tutt’altro genere, da buon Dc si accomoda su una poltrona, elegantissimo ma pure lui in trepida attesa. Il più tranquillo di tutti però è l’avvocato Maurizio Paniz che ha già vinto perché sono quasi tutti suoi clienti gli ex parlamentari che hanno perso il sonno da quando un anno fa sono stati tagliati i loro onorevoli vitalizi. E che, tanto per dire quale sia posta in gioco, lunedì sera sfidando freddo e pioggia e pure qualche acciacco legato all’età, si sono affollati di fronte alla porta della commissione del Senato che dovrà decidere. Anzi, che ha già deciso senza nemmeno aspettare la camera di consiglio convocata per il 20 febbraio: riavranno i loro assegni fino all’ultimo centesimo.

La sentenza è infatti già scritta e da tempo: il Senato ripristinerà i vitalizi così come li abbiamo sempre conosciuti e cioè senza la sforbiciata imposta dal ricalcolo su base contributiva in vigore dal 1 gennaio 2019. E gli oltre 700 ex senatori colpiti negli affetti e soprattutto nel portafogli dalla mannaia contro cui hanno fatto ricorso possono dunque tornare a brindare. A decidere l’organo di “giustizia” interna di Palazzo Madama ai cui vertici la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati ha voluto giusto un anno fa il suo collega di partito Giacomo Caliendo, già sottosegretario alla giustizia con Berlusconi come lei. A fare da braccio destro a Caliendo l’ex magistrato Cesare Martellino che invece è in rapporti di antica amicizia con il capo di gabinetto di Sua presidenza, Nitto Palma. Neanche a dirlo anche lui tra gli ex senatori che beneficeranno della decisione della commissione da cui a novembre si dimise la pentastellata Elvira Evangelista proprio per prendere le distanze dal curioso intreccio di amicizie e conoscenze che si è coagulato nell’organismo. “Un conflitto di interessi” lo aveva addirittura chiamato senza giri di parole Paola Taverna, la pasionaria del Movimento 5 Stelle che della lotta ai vitalizi ha fatto una battaglia identitaria. E che adesso, a meno di ripensamenti dell’ultima ora che sembrano improbabili, rischia di essere cancellata con un tratto di penna. Il conto da pagare per il Senato è salato: 22 milioni all’anno che riprenderanno a essere erogati ai senatori fuori corso a cui verranno restituiti pure gli arretrati.

Ma partiamo dalla fine. Perché la commissione Caliendo (di cui fanno parte oltre ai due membri laici Martellino e Alessandro Mattoni anche i senatori Simone Pillon della Lega e Alessandra Riccardi del M5S) ha già pronto il suo verdetto nonostante l’istruttoria si sia conclusa appena poche ore fa.

Eccolo qui: la delibera del 2018 con cui il Senato si è adeguato ai tagli imposti mesi prima dalla Camera sarà cancellata perché “si sostanzia in una totale rimozione di provvedimenti di liquidazione a suo tempo legittimamente adottati in riconoscimento e attuazione del diritto assicurato dalle norme allora vigenti e impone, anche dopo più decenni, una nuova liquidazione sulla base di una diversa disciplina che introduce criteri totalmente diversi, con assoluta negazione del legittimo affidamento”. E ancora. La delibera del 2018 è un intervento “non in linea con gli insegnamenti della Corte Costituzionale” perché, per la commissione Caliendo, il vitalizio sarebbe equiparabile alla pensione. Anzi un po’ meno, ma fa lo stesso. “Il vitalizio ha una connotazione previdenziale, quanto meno prevalente che lo rende soggetto alle regole e ai principi affermati dalla Corte Costituzionale… che ammette che tali trattamenti possano essere modificati solo a certe condizioni e ponendo limiti a mutamenti peggiorativi”.

In soldoni vuol dire che il Senato, se proprio lo vorrà, potrà al massimo pretendere dai suoi ex inquilini un contributo più “ragionevole” del taglio oggi in vigore e che sia soprattutto limitato nel tempo. La delibera del 2018 che ha invece imposto per sempre il ricalcolo su base contributiva facendo dimagrire sensibilmente gli assegni va dunque cestinata.

La commissione contenziosa, si legge sempre nel dispositivo che il Fatto è in grado di anticipare, “accoglie i ricorsi e annulla le disposizioni nella parte in cui prevedono una rideterminazione degli assegni vitalizi anziché la loro riduzione”. In alto i calici, non è più tempo almeno per gli ex senatori, di tirare la cinghia.

Il reo è nudo

Il pellegrinaggio ad Hammamet col contorno di pregiudicati e miracolati che insegnano la legalità e riscrivono la storia in tv, sui giornali, nei libri e perfino al cinema, mentre chi raccontò Tangentopoli tace e acconsente. Poi l’incredibile bombardamento trasversale contro la blocca-prescrizione, invocata da vent’anni da tutte le persone di buon senso e in buona fede a tutela delle vittime e ora osteggiata come mai nessuna legge, neppure quelle ad personam di B.. E ora, per tacere dei casi personali e del ritorno dei vitalizi, la pretesa della casta avvocatesca di imbavagliare e financo punire Piercamillo Davigo, reo di esprimere le sue idee documentate sulla giustizia, dunque inviso ai “liberali” alle vongole che vorrebbero addirittura levargli la parola all’inaugurazione dell’Anno giudiziario nella Milano dove per tanti anni onorò la Giustizia (come se l’Anno giudiziario lo inaugurassero gli avvocati). Sembrano fatti casuali, ma basta unire i puntini per vedere il disegno complessivo: la Nuova Restaurazione accompagnata da un terribile puzzo di fogna putrida che ricorda i tempi loschi della Bicamerale.

Allora (1996-’98) si chiuse violentemente e rapidamente la stagione di Mani Pulite, infatti destra e sinistra inciuciarono per allungare i processi e mandarli in prescrizione. Questa volta si tratta di archiviare con la stessa violenza e rapidità la lunga parentesi “populista” e “giustizialista”, iniziata nel 2007 in piazza Maggiore a Bologna e in decine di altre collegate con centinaia di migliaia di “vaffa” ai pregiudicati in Parlamento e ai privilegi di casta. I poteri marci, riavutisi dalla grande paura del 2018, approfittano dell’implosione dei 5 Stelle (momentanea o definitiva, si vedrà) per rialzare la testa, affilare le zanne, allungare le grinfie, regolare i conti e dichiarare che la ricreazione è finita, come se l’ansia di pulizia che si è sfogata in questi anni nel voto “grillino” (ma anche in tanti movimenti “carsici” della sinistra apolide, dai Girotondi alle Sardine) fosse evaporata nelle urne europee e regionali. Nemmeno Conte, Di Maio e Bonafede sospettavano che toccare la prescrizione – in uno con la riforma del voto di scambio, l’aumento delle pene per gli evasori e la revisione delle concessioni autostradali – avrebbe scatenato una simile onda d’urto. La Bongiorno, santa patrona del potere reale (da Andreotti a B.& Fini a Salvini), li aveva avvertiti: “É una bomba atomica”. Aveva ragione, anche se lei la vedeva con gli occhi dei giapponesi come una tragedia, e noi con quelli degli Alleati come una liberazione. Il sistema dei poteri marci si regge su tre capisaldi: mafia, corruzione, evasione.

E sull’impunità per tutti e tre, difficilissimi da scoprire e ancor di più da punire. Approfittando dell’ignoranza di Salvini, in tutt’altre faccende affaccendato fuorché in quelle di studiare e lavorare, e dell’incredulità del centrosinistra per il ritorno al governo, i 5Stelle li hanno resi più facili da scoprire e da punire con il nuovo reato di scambio politico-mafioso, la Spazzacorrotti, la blocca-prescrizione e le manette agli evasori. Così chi campa di voti mafiosi, tangenti ed evasioni è entrato nel panico. Tantopiù che la truffa delle concessioni autostradali, smascherata dal crollo del ponte Morandi e dalle altre porcherie emerse dalle indagini, ha messo in crisi il quarto caposaldo dei poteri marci: il capitalismo di rapina che fa soldi con i beni pubblici.
Il re, anzi il reo, è nudo. E ora presenta il conto. I risultati li vedete ogni giorno sui media, con odi alla prescrizione, ditirambi per i Benetton, epicedi a Craxi morto per legittimare i ladri vivi e screditare chi risponde colpo su colpo facendo contro-informazione e contro-opinione: Davigo, Gratteri, Di Matteo e, nel nostro piccolo, il Fatto. Se riescono a mettere a tacere queste e poche altre voci, parleranno soltanto loro, a reti ed edicole unificate. Ogni amnistia richiede prima l’amnesia. Per tornare alle ruberie e ai privilegi dei bei tempi che furono, prima che la gente aprisse gli occhi e smettesse di votare i loro manutengoli, bisogna cancellare la memoria. E oggi isolare le voci stonate dal coro è molto più facile che ai tempi della Bicamerale e delle altre restaurazioni gattopardesche (la rielezione di Napolitano e il governo Berlusconi-Letta nel 2013 e il referendum Renzi nel 2016): il coro s’è allargato e chi potrebbe stonare è passato dall’altra parte o a miglior vita, o semplicemente si è ritirato per stanchezza e sfiducia. Noi no. Noi abbiamo un dovere verso i lettori e le vittime: come Marco Piagentini, che 11 anni fa perse la moglie e due figli nella strage di Viareggio e ora rischia di vedere ucciso anche il processo ai responsabili. Il suo appello a Sono le Venti (sul Nove) perché nessuno tocchi la legge Bonafede, a nome delle vittime delle stragi raccolte nel coordinamento “Noi non dimentichiamo”, è uno sprone ad andare avanti. E dovrebbe esserlo anche per le Sardine, se usciranno dall’agnosticismo sui temi della legalità; e per i 5Stelle, che stanno sperperando il patrimonio di fiducia e speranza di milioni di persone in misere guerricciole di portineria, incuranti della posta in gioco che va ben oltre le loro trascurabili persone. Noi del Fatto continueremo a ripetere che non si stava meglio quando si stava peggio; che Craxi era un corrotto latitante e un pessimo politico, come pure Andreotti, Forlani e tutto il resto della banda, di ieri e di oggi; che la prescrizione durante il processo è una vergogna che salva decine di migliaia di colpevoli e punisce decine di migliaia di vittime (i processi vanno sveltiti, ma senza prescrizione); che Davigo e gli altri magistrati preparati non solo possono, ma devono parlare in pubblico per smontare le fake news del partito dell’impunità; e che la Restaurazione non la vogliamo, né ora né mai.

L’emancipazione passa per la cruna dell’ago

Ogni lettura dovrebbe lasciare una riflessione in eredità. Nel caso di Le ricamatrici di Winchester, decimo romanzo della 57enne Tracy Chevalier che esce dopo vent’anni dal best-seller La ragazza con l’orecchino di perla (oltre 5 milioni di copie), due citazioni colpiscono: ars longa, vita brevis, l’arte è lunga, la vita breve e Sic parvis magna, dalle piccole cose nascono le grandi.

Sono molte infatti le opere di Chevalier in cui l’arte è co-protagonista, compresa quella a cui sta lavorando ora sulle perle di vetro decorative di Murano, usate dal 500 sino a inizio 900 come merce di scambio, idea suggeritale da un fan italiano e accolta dall’autrice di romanzi storici di Washington, dall’84 cittadina londinese, che da sempre si lascia guidare dalla curiosità, come quando visitando una mostra sui dinosauri col figlio scoprì la paleontologa britannica Mary Anning (1799-1847) da cui fu conquistata. Il risultato fu uno dei suoi romanzi più belli, Strane creature.

In queste pagine l’arte ha la forma dei cuscini ricamati da un gruppo di donne, a cavallo tra i due conflitti mondiali, sotto la guida di Louisa Pesel, figura realmente esistita, nella cattedrale gotica di Winchester, che ospita le spoglie di Jane Austen. Pezzi unici, di strabiliante bellezza e varietà cromatica, tutt’oggi in uso, pensati per agevolare i fedeli nell’atto della preghiera.

Chevalier ha esplorato la pittoresca cittadina di Winchester per documentarsi, imparando anche a ricamare. Non stupisce, non solo perché per hobby cuce trapunte, ma perché da sempre esplora i luoghi che fanno poi da sfondo ai suoi romanzi e si cimenta – per prepararsi alla stesura di La ragazza con l’orecchino di perla s’iscrisse a un corso di pittura – in ciò che faranno i suoi protagonisti per sentirli più vicini, veri. Lei, per cui l’arte è simbolo della creatività umana che si fa imperitura, ha anche un’altra semi costante: mettere in scena figure femminili in lotta per l’indipendenza contro una società patriarcale, pronte a rivoluzionare se stesse, e a posteriori il mondo, attraverso piccoli, ma significativi, gesti. Sic parvis magna, infatti.

È quello che fa la dattilografa 38enne Violet che si trasferisce da Southampton a Winchester per sganciarci dalla dispotica madre. Timida, riservata, dall’aspetto dimesso, Violet, a cui a cui le trincee del ’15-’18 hanno strappato un fratello e un fidanzato, è una delle 2 milioni di anglosassoni che venivano definite surplus women, donne in eccedenza, destinate a restare nubili data la penuria di materia maschile caduta sul campo. Uno zero in una società fondata sul matrimonio. Deprimente, sì. Quando s’imbatte nella carismatica Louisa qualcosa in lei si desta: la volontà di lasciare un segno tangibile di sé. Un cuscino che porti le sue iniziali, mezzo per conquistare l’eternità.

La concentrazione che impongono ago e filo le regalerà nuova energia e tra un punto croce e un punto riso imparerà a emanciparsi, intrecciando una nuova idea di vita e futuro di cui lei è il fulcro, supportata da amicizie come quella con l’outsider Gilda, lesbica in tempi in cui l’omosessualità era tabù, e dall’incontro con Arthur, vent’anni più di lei, campanaro, mestiere raro e affascinante, luce in un cuore crepato dalla solitudine. Che è quello in cui è abile Chevalier: illuminare vite (stra)ordinarie che non sono la nostra ma che leggiamo come lo fossero.

“I talent? Troppo stressanti. La vera cucina è isolamento”

Acinque anni le macchinine, le costruzioni, i videogiochi non avevano lo stesso fascino (e sapore) dei “cappelletti o le lasagne preparati in casa con mia nonna: mi piazzavo accanto a lei e tiravo la sfoglia”. E così Lorenzo Tirabassi ha capito che da grande non sarebbe diventato mai un pilota, un costruttore o un professionista del game. Bensì uno chef. E il suo fisico è come una carta d’identità: massiccio, sorridente, aspetto gaudente, davanti a un gran piatto è capace di arrossire. Si emoziona. E proprio per una forte emozione è diventato, suo malgrado, famoso durante un’edizione di Hell’s Kitchen, il programma condotto da Carlo Cracco, con Carlo Cracco in versione iper-agitata: in semifinale Lorenzo Tirabassi si è sentito male, battiti a mille, la camicia stretta intorno al collo gonfio, ed è finito in ospedale. Stop. Ritirato. Basta show, “ora solo cucina. Ora lavoro in un hotel di San Cassiano (Alta Badia)”.

Come sta?

Bene, assolutamente. Quella è stata una crisi per il troppo stress, finite le riprese ho ricominciato con il mio percorso. Però ancora oggi mi riconoscono, quel sentirmi male deve aver colpito.

Tra grida e lanci di piatti, lei è stato un culmine.

In televisione si vede solo una parte della realtà, tante situazioni che credevo importanti non le hanno mai mandate in onda.

È una sintesi.

Infatti, però mi dispiace perché ho ricevuto molti complimenti da Cracco.

Cracco molto presente.

Non tanto, lui spesso resta nella sua stanza, poi quando è il momento esce e interviene (ci pensa); non posso raccontare molto del dietro le quinte, ho firmato un contratto.

Quel contratto è certamente scaduto.

È una mia forma di correttezza.

Quando è arrivato in trasmissione cosa ha pensato?

Subito? Chi me lo ha fatto fare. Non sono molto estroverso, e pure un po’ permaloso, e la telecamera perennemente addosso è uno stress e poi altera la vera concezione dello stare in cucina.

Cioè?

La nostra è una professione dura, isolante, l’opposto della quotidianità delle persone: noi lavoriamo nei momenti di pausa altrui, e ci fermiamo quando tutto il resto del mondo lavora.

E poi?

Non è così remunerativa: in Emilia-Romagna uno chef prende tra i 1.200 euro e i 1.500, e io lo so bene, per un monte di ore di lavoro e responsabilità. Chi esce da questi programmi, o anche solo chi partecipa, crede di essere già uno stellato, ma non è vero.

La tv semplifica.

Alcuni ragazzi poi hanno smesso di perseguire il sogno del ristorante.

Si sentivano Cracco.

Ripeto: io lavoro anche 16 ore al giorno e con 15 minuti di pausa.

Oramai nei programmi si esaltano abbinamenti strani.

Solo strani? A volte vedo piatti che non stanno né in cielo né in terra, delle soluzioni terribili, eppure sento “bravo” o “buono”.

È mai nauseato dal cibo?

Solo quando sono costretto a cucinare sempre le stesse cose: io assaggio tutto prima di servire. È la regola base.

Cos’è la cucina per lei?

È memoria, è il ritrovare o creare emozioni: ancora adesso ho in testa il cinghiale con la polenta che si cucinava a casa e non riesco più a ritrovare quell’abbinamento.

Vorrà aprire un suo ristorante…

Come chiunque al mio posto, però ci vuole testa e intendo cimentarmi con il catering: di sola alta ristorazione non si può vivere.

Un suo deficit.

Sui dolci non sono un granché; quando ho visto Iginio Massari a MasterChef (il guru mondiale della pasticceria) il cuore mi è finito in gola, temevo di ritrovarlo a Hell’s Kitchen.

Dopo il programma la fama le sarà servita in qualcosa…

In realtà, mentre ero in trasmissione mi ha pure lasciato la fidanzata. Quindi insomma. Però ho solo 27 anni, c’è tempo.