Tragico Fred, fine del mito che sapeva ridere di sé

Che notte, che notte quella notte del 3 febbraio 1960. Forse l’aspettava davvero qualche bionda, dopo aver fatto lui il pieno, in un club di via Margutta. Appena tre chilometri lo separavano dall’Hotel Rivoli, ai Parioli, dove alloggiava: una manciata di minuti, a quell’ora con le strade vuote. Che nebbia, che nebbia quella notte, chissà se dovuta ai fumi dell’alcol. Ma per un appuntamento, con il centro di Roma semideserto all’alba, si può anche schiacciare un po’ sul pedale di una Ford Thundebird rosa. A spuntare all’improvviso, da destra, non è però la gang di Billy Carr. È un enorme Lancia Esatau 864, che lo stritola di colpo nell’abitacolo, a un incrocio di viale Rossini, a un passo dalla meta. Il botto è spaventoso. Si ferma una macchina, scende un soccorritore, arriva una pattuglia di carabinieri, scende pure l’autista del camion. Lo stupore nel rendersi conto che la faccia spaccata sul cruscotto è inconfondibile: è Fred Buscaglione. Il corpo ancora vivo, pesante e insanguinato – in cappotto e giacca blu coi bottoni dorati – estratto tra vetri e lamiere e caricato al volo su un bus che riparte verso il policlinico. Sono le 6 di mattina. Una dolorosa agonia a bordo della linea 90, tra le sirene spiegate degli “sbirri”. Avrebbe preferito essere lasciato al volante della sua cabrio sportiva biposto, con cravatta e borsalino, e magari una bionda di passaggio a dargli un ultimo bacio. Aveva appena 38 anni.

Se l’era cucito addosso il film, Freddy dal whisky facile. Solo l’anno prima ne aveva girati nove. Ma la corsa era cominciata molto tempo prima, nel dopoguerra. La lunga e umile gavetta per bar e club, in Italia e all’estero, in cui ha continuato a esibirsi anche da celebre. Il sodalizio con il suo braccio destro, Leo Chiosso, autore di gran parte dei i testi; il successo istantaneo e la brusca accelerata verso la popolarità, la ricchezza, il gossip. Era il compositore più colto e originale dell’epoca insieme a Carosone, ritiratosi dalle scene solo qualche mese prima, in maniera molto meno vistosa. Anche Buscaglione, come il maestro napoletano, aveva cominciato da piccolo suonando il violino, il piano e la tromba per i soldati in guerra. Anche lui si era riappropriato alla sua maniera del repertorio swing e dixie statunitense, farcendolo con sequenze di stacchi e cambi di tempo nei fast Eri piccola, Che bambola, Teresa non sparare o impreziosendolo con deliziosi arrangiamenti di fiati nei bluesy Guarda che luna, Criminalmente bella, Una sigaretta.

Una musica mascherata da fumetto, come il suo personaggio. Il gusto caricaturale del cartoon, nello spartito e nel look, si sposava alla perfezione con le rime baciate e alternate, grottesche e iperboliche, dell’amico Chiosso: il suo inimitabile fraseggio comico sarà decisivo nella creazione del gangster col cuore di pastafrolla. Voce bassa e roca, sigaro e baffetto alla Clark Gable, abito rigato e pistola nel gilet. Un fuorilegge pieno di vizi umani, le donne in primis, ma mai violento o volgare; un bandito spaccone e innamorato, che ama il charleston e il cabaret. Bugiardo, ma a fin di bene; ubriaco, per dimenticare una delusione d’amore; cinico, per camuffare la bontà d’animo. Un “dritto” un po’ Sugar Bing un po’ Porfirio Villarosa, che rifiuta Ava Gardner per due risate con Gianni e Pinotto; un “duro” tra un Marlowe pasticcione e un simpatico Al Capone, che canta in tv presentato da Mario Riva, circondato da un coro di bambini.

Anche Buscaglione, come Carosone, all’apice del successo annunciò a sorpresa l’intenzione di ritirarsi, avendo capito di aver dato la sua parte al tritacarne dell’industria discografica, e che di lì a breve la notorietà si sarebbe spenta con la stessa velocità con cui era divampata: “Tra due anni smetto. Prima che la gente mi volti le spalle Fred il duro sparirà, e io tornerò ad essere solo Ferdinando Buscaglione”. Non ha fatto in tempo a mantenere la parola. Chissà se Tu vo fa l’americano fosse dedicata al collega polentone, che nell’immaginario cinematografico dei polizieschi d’oltreoceano ci sguazzava, pur prendendolo in giro. I concerti nei night, i rumors dei rotocalchi sulla fama di tombeur de femmes, le burrascose nozze con una contorsionista d’avanspettacolo: tutto alimentò la suggestiva corrispondenza tra realtà e finzione, e quindi il carisma di un artista senza eredi ma che ha generato un’infinita scia di epigoni, nell’atteggiamento e nell’abbigliamento, da Pincketts a Carotone. “Come Buscaglione” si dirà 31 anni dopo, quando identica sorte toccherà a Rino Gaetano, schiacciato in auto alle 6 di mattina, nella Capitale, da un altro tir. Pochi mesi prima aveva registrato l’ultimo show in cui cantava proprio le canzoni di Buscaglione, di cui era fan. Senza volerlo Buscaglione ha indorato di mito anche il finale, come un vero regista. Non sembrano passati 60 anni da quella tragica notte. Forse un malore, un attimo di distrazione, un colpo di sonno. Uno così non poteva mica morire di vecchiaia.

A Vox gli stranieri piacciono. Basta che paghino

Vox – si sa – non ama gli stranieri, portatori di ogni tipo di sciagura oltreché ladri di lavoro a casa d’altri. Con questo genere di slogan e la conseguente propaganda, il partito spagnolo d’ultradestra si è aggiudicato 52 seggi in Parlamento alle elezioni di novembre, dopo essere entrato nei governi della regione andalusa e in quello della Comunità di Madrid. Ma – evidentemente – per il leader, Santiago Abascal e il suo vice Iván Espinosa de los Monteros, gli stranieri non sono tutti uguali.

Soprattutto se sono fonte di denaro, come nel caso del Consiglio nazionale delle Resistenza d’Iran che oltre ad aver sovvenzionato la nascita nel 2013 della formazione politica nazionalista spagnola con un milione di euro, scrive il quotidiano El Pais, avrebbe anche passato uno stipendio fisso di circa 5.000 euro lordi al mese ai due voxiani, da febbraio a ottobre del 2014. Vale a dire, in piena campagna elettorale per le Europee.

In quell’occasione, il neo-nato partito di estrema destra si era fermato a 50mila voti dall’ottenere uno scranno al Parlamento europeo con un 1,56% di preferenze da parte degli spagnoli, risultato che tuttavia non era bastato a far arrendere il leader di allora, nonché fondatore di Vox, Alejo Vidal-Quadras il quale aveva giurato che alle successive urne “sarebbe stato un successo”. Ed è proprio mentre il partito nazionalista inizia la sua scalata a las Cortes, attraverso Vidal-Quadras, che poi lascerà il partito in polemica con Abascal, che arriva il denaro dai finanziatori iraniani: 65mila euro. È l’ex leader, infatti, a prendere contatti con il Cnri, ai cui raduni e convegni internazionali volti a captare sostegno transazionale alla causa anti-regime, partecipa come conferenziere. Ciò non significa che Abascal non fosse a conoscenza della provenienza del denaro che aveva coperto anche le caparre per l’affitto della prima sede di Vox a Madrid. “Era al corrente di tutto, gli spiegai le mie relazioni con il Cnri e gli dissi che ci avrebbero finanziato. Non aveva niente in contrario, ne fu felice, non sollevò alcuna obiezione”, dichiarò Vidal-Quadras al Pais l’anno scorso, quando il quotidiano lo intervistò in relazione allo scoop sulla prima tranche di finanziamenti. D’altronde, stando alle ultime rivelazioni, la suddivisione degli “stipendi” sarebbe stata stabilita durante una colazione proprio in casa di Espinosa, il quale avrebbe intascato il denaro fatturandolo come guadagno della sua azienda. La “donazione” sarebbe arrivata attraverso 141 bonifici sul conto del partito da 35 finanziatori internazionali a cui il comitato di resistenza aveva chiesto denaro in una quindicina di paesi, tra cui anche l’Italia, oltre alla Svizzera, la Germania, il Canada e gli Stati Uniti. Al contrario, al conto che Vox aprì nel 2014 per finanziare la campagna elettorale arrivarono soltanto due bonifici da 2.000 euro l’uno.

Nonostante le rivelazioni del quotidiano spagnolo, i conti di Vox, solo dal 2019 presente in Parlamento e alla regione andalusa – motivo per cui non aveva diritto allora alle sovvenzioni pubbliche – ancora non sono passati al vaglio della Corte dei Conti spagnola. Ciò che finora risulta dai dati pubblicati sul suo sito, è che la formazione si regge sul denaro di affiliati e simpatizzanti (58%) e donazioni private (41%). Ad ogni modo, se è vero che i finanziamenti anonimi in Spagna sono vietati dalla legge del 2007, quelli da persone giuridiche, associazioni e società civile sono proibite dal 2015, un anno dopo le sovvenzioni iraniane.

Il piano del secolo di Trump è un “passo a due” con Bibi

Sorridono entrambi favore delle telecamere, è un incontro tra vecchi amici. Conoscono perfettamente il ruolo di ciascuno. Il presidente degli Stati Uniti sarà applaudito oltre dieci volte da una platea adorante mentre sciorina la sua “Visione del Futuro” per il conflitto più lungo del Medio Oriente. Parlando a fianco del premier israeliano Benjamin Netanyahu Trump ha svelato suo “Accordo del Secolo”. Ha usato parole forti per descrivere la sua “visione”. “In questo giorno facciamo la Storia perchè la mia visione presenta un’opportunità vantaggiosa per entrambe le parti, una soluzione a 2 Stati realistica che possa risolvere il rischio che uno Stato palestinese costituisca una minaccia per Israele”.

Come previsto è stata tolta dal tavolo Gerusalemme, che per Trump “è e resta la capitale indivisibile dello Stato di Israele”. Stando alle carte che circolano fra Washington e Gerusalemme l’annessione in Cisgiordania riguarda soprattutto la Valle del Giordano. Qui i palestinesi si vedono tagliati oltre 400 chilometri quadrati di territorio, circa il 38% di tutta l’Area C. Il presidente ha voluto ribadire il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan (strappate alla Siria nel 1967), a dispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite.

Lo “stato” palestinese dovrebbe nascere nel restante territorio. Donald Trump ha annunciato che, se ci sarà l’accordo tra le parti, gli Usa apriranno un’ambasciata a Gerusalemme Est, confermando che quest’ultima potrebbe essere la capitale del futuro Stato palestinese. Senza affermare la contraddizione con ciò che aveva appena detto. Confermato l’impegno economico per i 50 miliardi di dollari per investimenti in Palestina che dovrebbe essere finanziato dai Paesi Arabi amici degli Usa, in testa Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Oman, pubblicamente ringraziati da Trump.

Come spenderli, dove e in quanto tempo però, resta ancora avvolto nella nebbia. Secondo Trump con quella pioggia di dollari “si possono creare un milione di posti di lavoro in pochi anni”. “Non perdete questa occasione storica”, è stato l’invito conclusivo di Trump. Lo “stato” palestinese sarà a sovranità limitata e non avrà il controllo sui suoi confini né Forze armate, non potrà allearsi con altri Stati. All’Anp viene anche chiesto di risolvere il problema con Gaza e di disarmare Hamas, che controlla la piccola enclave costiera da 13 anni e dispone di un arsenale militare inquietante. Se fosse stato possibile Israele l’avrebbe già fatto da tempo.

I palestinesi, e in prima fila il presidente Abu Mazen, appaiono compatti per respingere in blocco la “visione” di Trump. L’anziano leader ha addirittura rifiutato di parlare al telefono con la Casa Bianca l’altro ieri. A Ramallah non hanno dubbi: “Era tutto preparato da mesi, non siamo mai stati consultati e ci viene proposto un piatto dagli ingredienti infidi e cotto anche male”, reagisce duro al telefono Saeb Erekat, storico capo dei negoziatori palestinesi.

Il podio a Washington è poi passato nelle mani di Netanyahu. “Grazie, grazie, grazie”. È stato il succo del suo discorso perchè nemmeno nei suoi sogni più rosei gli era mai apparsa una soluzione del genere così a breve. “Un vero passo avanti per una soluzione con i palestinesi”, l’ha definita dispensando sorrisi. E dal suo volto traspariva una piena soddisfazione mentre definiva Trump “un presidente eccezionale”.

Manifestazioni spontanee ieri sera a Ramallah e a Gaza contro l’Accordo del secolo. E dopo anni di gelo il leader di Hamas nella Striscia ha addirittura proposto all’Anp di “coordinare gli sforzi contro il Piano di Trump”.

Libia, la diplomazia ciarla, il cessate il fuoco non c’è. A Tripoli uccisi 3 bambini

La diplomazia annaspa e in Libia ammazzano bambini. La tregua tanto auspicata dopo il summit di Berlino del 19 dicembre fra i leader europei non ha mai retto, e attorno a Tripoli le forze del generale Haftar proseguono l’assedio per stanare il governo di Al Sarraj. Ieri il sito Libya Akhbar, citando una fonte ufficiale del ministero della Sanità, ha raccontato che nella capitale tre bambini sono rimasti uccisi e un altro ferito da colpi d’artiglieria. Due delle vittime avevano 9 e 12 anni e sono state colpite nel quartiere di Badri, a cinque km dal centro. Difficile trovare riscontri. Da dove sono partite le cannonate? Chi le ha sparate? La guerra è fatta anche di comunicati: “Il golpista Haftar continua ad attaccare i civili indiscriminatamente, compresi i bambini. È l’ennesima prova che lui è dalla parte della guerra, non della pace”, scrive in un tweet il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu.

In questo contesto appaiono surreali le conversazioni fra i capi di Stato, come quella avvenuta ieri fra Donald Trump e il presidente Erdogan. Secondo una nota della Casa Bianca i due “hanno discusso la necessità di eliminare le interferenze straniere e mantenere il cessate il fuoco in Libia”. Ma il cessate il fuoco non c’è mai stato e lo stesso Erdogan ha spedito miliziani siriani in aiuto del governo di al Sarraj, a sua volta supportato da Egitto, Emirati Arabi e Francia. Il ministro degli Esteri Di Maio ribadisce la linea italiana: “Ho sentito i ministri omologhi di Germania e Austria. Abbiamo discusso delle azioni da intraprendere in ambito Ue a seguito della conferenza di Berlino e di iniziative che possano garantire il rispetto dell’embargo sulle armi. Siamo preoccupati per le violazioni della tregua registrate nelle ultime ore; l’unica strada, lo ribadisco, è quella del dialogo, a partire dal prossimo incontro del Comitato militare misto. Non esiste una soluzione militare”.

Così, si guarda al fronte libico che non promette bandiere bianche, ma facce dipinte e coltelli fra i denti. Il Comitato 5+5 all’inizio di febbraio a Ginevra dovrà monitorare l’applicazione di un cessate in fuoco mai entrato in vigore. Haftar porrà come condizione per negoziare la partenza dalla Libia dei consiglieri militari turchi e dei mercenari siriani.

Parigi, pompieri in fiamme. La polizia li spegne a botte

Questa volta i cannoni ad acqua e i gas lacrimogeni della polizia non sono stati usati contro i soliti casseurs ma contro i pompieri che ieri, da tutta la Francia, sono andati a manifestare nelle strade di Parigi. Un incredibile corpo a corpo in un clima di tensione: da un lato i vigili con addosso l’uniforme blu a strisce gialle e il casco di protezione, dall’altro i poliziotti in tenuta antisommossa e manganelli in mano. I pompieri en colère, arrabbiati, si erano riuniti nel primo pomeriggio nella place de la République, la piazza di tutte le proteste, per opporsi alla riforma delle pensioni facendo risuonare le sirene e accendendo i fumogeni rossi.

Un gruppo di vigili si è dato simbolicamente fuoco prima di farsi spegnere dai colleghi con gli estintori. Un gesto forte per far valere le loro rivendicazioni: innanzi tutto quella di conservare il regime pensionistico speciale che permette loro di andare in pensione a 57 anni e che rischiano di perdere con la riforma voluta da Emmanuel Macron, già adottata in Consiglio dei ministri venerdì scorso. Il malessere dei “soldati del fuoco” in Francia va però molto al di là della questione delle pensioni. I vigili professionisti (che rappresentano il 16% dei 248 mila totali) manifestano dal mese di giugno scorso per rivendicare condizioni di lavoro migliori e sono già scesi nelle strade a ottobre.

Denunciano la mancanza di mezzi e effettivi, mentre aumentano le richieste di intervento. I pompieri chiedono anche maggiore protezione di fronte all’aumento dei casi in cui vengono aggrediti dalle stesse persone che vanno a soccorrere. Ma soprattutto rivendicano due misure: che la loro professione venga riconosciuta a rischio, come vale già per i colleghi gendarmi e poliziotti, e l’aumento del cosiddetto “bonus fuoco”, un premio in busta paga che rappresenta oggi il 19% del loro stipendio e che vorrebbero far salire al 28%. I primi scontri si sono verificati a due traverse dalla République, poco dopo la partenza del corteo diretto alla Nation, quando un gruppo di 200, 300 vigili ha tentato di forzare un cordone di sicurezza e i poliziotti hanno risposto con i lacrimogeni.

Altri tafferugli sono scoppiati sul boulevard Voltaire, con una cinquantina di vigili che hanno lanciato oggetti contro gli agenti. Più lontano, al livello della Porte de Vincennes, dei vigili hanno bloccato il traffico e invaso il périphérique, il raccordo di Parigi. Sono stati allontanati dalla polizia intervenuta con i cannoni a acqua. Mentre il corteo degenerava nelle strade, una delegazione di rappresentanti sindacali è però riuscita a strappare una prima promessa al ministro dell’Interno, Christophe Castaner: l’aumento del bonus fuoco al 25% dello stipendio.

Non abbastanza per mettere fine alla protesta: i pompieri assicurano che torneranno a manifestare. E non sono i soli. Dopo un mese e mezzo di proteste, un nuovo giorno di sciopero nazionale è stato indetto per oggi dal sindacato CGT. Insegnanti, ferrovieri, avvocati sono di nuovo attesi nelle strade.

Tre anni con la Brexit. Noi, da “italiani expat” a immigrati in sospeso

Fine luglio 2016. Mia figlia, 4 anni, mi chiede: “Ma perché oggi al parco un bambino ha urlato a Sophia che deve tornare al suo paese?”. Sophia di anni ne ha tre e stava parlando in bulgaro con la madre. Il bambino che l’ha aggredita, inglese, è poco più grande. È passato un mese dal 23 giugno, giorno del referendum con cui il Regno Unito ha deciso di lasciare l’Unione europea. Nelle settimane precedenti al referendum ero inquieta, come per le tante campagne elettorali italiane che ho seguito, quando mi illudevo sempre di “no” e poi Berlusconi vinceva ancora e ancora, e mi risvegliavo il mattino dopo pesta di risentimento e sgomento, chiedendomi in che diavolo di paese vivessi. Anche a Londra ero rimasta ipersensibile ai segnali, diffidente verso le rassicurazioni dei colleghi inglesi: “Non succederà niente, siamo un popolo di conservatori”.

La notte del voto ero rimasta incollata alla tv fino alle 3 del mattino, quando era ormai chiaro che aveva vinto il Leave, che quel popolo di conservatori era così conservatore da voler tornare all’impero britannico, che la scommessa sul Remain del premier David Cameron era stato un azzardo madornale. Mia figlia si era svegliata alle 5 e avevamo fatto colazione guardando quell’alba storica dalle finestre della cucina, le porte chiuse per non svegliare mio marito, italiano anche lui: quando la Storia ti arriva addosso devi essere riposato. Nel 2016 lavorava ancora al Daily Telegraph, uno dei quotidiani del Leave, la cuccia di Boris Johnson. Dopo pranzo mi aveva chiamato con la voce tremante dalla rabbia: al Telegraph festeggiavano a fiumi di champagne e il suo capo, figlio privilegiato dell’élite inglese, Eton/Oxford come Boris, gli aveva detto, guardando lo staff del dipartimento tecnologia, zeppo di europei: “Don’t worry, we’ll keep you”. Non vi preoccupate, vi teniamo. Lo ricordo bene, il sorriso del paese che in poche ore diventa un ghigno. Le bandiere nazionali inglesi che spuntano alle finestre e nei taxi.

All’uscita da scuola francesi, spagnoli e italiani che parlano solo di Brexit, si consultano in capannelli vocianti: Tu resti? La mamma di I, cresciuta nella Germania dell’Est ed europeista militante, manda la figlia a scuola con la spilletta Bollocks to Brexit sulla giacca e non rivolge più la parola al papà di C, candidato dell’Ukip di Nigel Farage. Il papà di E, trader francese, disgustato, vuole tornare a Parigi, ma ammette di aver fatto milioni speculando sul Leave. Gli inglesi stanno alla larga, perché nulla li imbarazza più di una discussione politica.

L’esodo inizia dopo pochi mesi. Una coppia di amici si trasferisce ad Amsterdam al seguito della Agenzia europea del farmaco. Parecchi tornano in Italia, perché “è un casino ma almeno sai di che morte muori”. Si liberano posti nelle esclusivissime scuole francesi. Arrivano i primi schiaffi in piena faccia: a luglio 2017 il primo ministro Theresa May ci chiama “cittadini di nessun luogo”. Aumentano gli episodi di razzismo, le aggressioni fisiche e verbali. La retorica sovranista di troppi politici. Eravamo expats, diventiamo immigrati.

Dall’Italia vogliono sapere: ma voi potete restare? mancherà il cibo? Le medicine? Io mi chiedo: cosa ne sarà della Londra aperta e tollerante che ci ha accolto?

Un’amica vende la casa dei sogni: è in un quartiere gentrificato da una vasta comunità di giovani famiglie europee, che a Londra hanno anche questo ruolo, mediano fra le mille culture. Se ne sono andate tutte, sono rimasti solo ebrei ortodossi e musulmani integralisti, la sua biondissima bambina l’unica nella sua strada che non dovrà presto coprirsi i capelli. Per tre anni tutto è sospeso. Cambi lavoro? Compri casa? La risposta, sempre la stessa: “Aspetto di capire come va con Brexit”. La politica britannica si italianizza: il parlamento è bloccato, il governo incaprettato. Theresa May una figura tragicomica; il paese della razionalità e dell’humour diventa l’oggetto degli sberleffi da tutto il mondo. Da vicino è un villaggio straziato dalla divisione fra Leavers e Remainers, in una campagna elettorale perpetua ed estrema. Quando diventa primo ministro, l’estate scorsa, Boris Johnson cerca di sbloccare l’impasse sospendendo il Parlamento, una deriva autoritaria che porta in piazza migliaia di cittadini. “Sto rivalutando i vostri politici” confessa un collega inglese.

Mio marito decide di prendere la cittadinanza britannica. Da qualche parte abbiamo la foto ufficiale della cerimonia, la bambina radiosa per il giorno di vacanza, noi con il sorriso incerto di chi raggiunge un traguardo che non cercava. Dovrei farlo anche io, sarebbe saggio. Ma non riesco a rassegnarmi a giurare fedeltà a una regina, ad assoggettarmi alle leggi per l’immigrazione di un paese che apre le porte solo a quelli che gli fanno comodo. Mi è pesato perfino richiedere il settled status, il permesso di restare dove prima godevo dei diritti dell’Europa unita. Ho dovuto farlo, venerdì qui si ammaina la bandiera europea. Ci aspetta un’altra alba insonne, altri anni di incertezza. Sdrammatizziamo con il lessico famigliare. Dal giorno del referendum, in casa, quando qualcuno fa uno sbaglio l’altro butta lì un semiserio davidcameron!, tutto d’un fiato. È tutto relativo, no?

Hanno chiesto di essere assunti: licenziati grazie alla “profilazione”

“Per anni Fiat ci ha fatto lavorare con partita Iva, ma ci ha trattati da dipendenti. Quando abbiamo fatto causa per essere assunti, ci ha mandati a casa”. Chi parla fa parte di un gruppo di dodici ex agenti di vendita di un concessionario romano: hanno rivendicato un diritto in Tribunale e poco dopo sono stati messi alla porta. Per Fiat Center – segmento commerciale del Lingotto – è stato facile liberarsene: non erano “subordinati”, ma in questi anni la loro attività era stata analizzata in dettaglio e questa profilazione, all’occorrenza, ha permesso di tirar fuori le motivazioni per allontanarli. Qualcuno non avrebbe promosso abbastanza servizi finanziari, altri non avrebbero svolto sufficienti test drive. Per quasi tutti, il gradimento dei clienti non sarebbe soddisfacente. Questo è scritto nella revoca dei mandati, arrivata nel mezzo di una causa di lavoro. Loro, però, non sapevano nemmeno di avere risultati troppo bassi di customer experience.

Sulla carta erano autonomi, ma in realtà – dicono – erano soggetti a molti obblighi e subivano un pressante controllo. “I responsabili – si legge nei ricorsi curati dall’avvocato Giacomo Summa – controllavano i venditori, girando per il salone”, stando attenti a “come rispondevano al telefono, come accoglievano il cliente e come effettuavano le trattative”. Arrivavano rimproveri anche quando non c’era il giusto approccio. Quando un cliente andava via con un preventivo in tasca, tra l’altro, il venditore doveva ricontattarlo entro due giorni. Gli operatori del call center Fiat, perciò, telefonavano ai clienti per accertarsene e per chiedere una valutazione sull’agente di vendita. Non sono mancati gesti ritenuti ritorsivi. “La distribuzione dei clienti – hanno scritto – aveva frequentemente una funzione disciplinare”: ai venditori che non si erano comportati abbastanza bene ne “venivano assegnati di meno o meno interessanti”. Le cause sono partite da un anno e mezzo. Nel frattempo, alcuni hanno accettato un risarcimento, gli altri hanno rifiutato la conciliazione e tra maggio e dicembre 2019 sono stati “licenziati”. Ora sperano nei giudici, fiduciosi per un precedente favorevole di una collega. Fca, interpellata, non ha commentato.

I contratti di agenzia, molto usati nei concessionari, sono previsti dalla legge ma molto abusati. Lavoro autonomo utile spesso solo per risparmiare sui costi: niente contratti e libertà di licenziare senza articolo 18 (o indennizzi). Per certi versi, è simile a quanto avviene ai rider del cibo a domicilio: le piattaforme non li assumono, li pagano a consegna, eppure stilano la classifica dei più bravi e meno bravi, così da favorire i primi e penalizzare i secondi.

All’Africa non servono gli aiuti, ma il commercio

Nel 2020 ricorrono i 60 anni dell’“Anno dell’Africa” nel corso del quale 17 Paesi africani ottennero l’indipendenza. Sarà l’occasione per riflettere sui perduranti rapporti di dipendenza tra Europa e Africa. Tony Blair, durante il recente Uk-Africa Investment Summit, ha invocato un aumento degli investimenti britannici (tra il 2014 e 2018 questi sono stati 14 miliardi di dollari, a fronte dei 72 miliardi cinesi e dei 34 miliardi francesi), e l’apertura di un “nuovo capitolo” nelle relazioni con il continente in vista della Brexit. Il presidente francese Macron ha ammesso che il colonialismo è stato “un errore profondo della Repubblica” e ha annunciato l’abolizione del “franco coloniale” Cfa, la contestata valuta legata all’euro utilizzata in gran parte dell’Africa francofona. È in corso la ratifica dell’African Continental Free Trade Area, potenzialmente la più ampia area di libero scambio al mondo per numero di partecipanti. Sempre questo anno, dopo vent’anni, si chiuderà la complicata revisione dell’accordo di Cotonou che lega l’Unione europea a 78 Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (Acp), la stragrande maggioranza dei quali africani.

I rapporti economici fra Paesi africani ed europei si basano su un commercio ineguale. Gli Stati africani esportano quasi solo materie prime e risorse minerarie (70 per cento delle esportazioni). Gli europei esportano in Africa quasi solo prodotti industriali. Negli ultimi anni la bilancia commerciale è stata favorevole agli europei (principale partner commerciale africano). Le cose non vanno meglio dal punto di vista dei flussi finanziari. Secondo il rapporto Honest Accounts, tra rimpatrio dei profitti, elusione da parte delle multinazionali, rimborso del debito, traffici illegali, nel 2015 sono defluiti dall’Africa circa 40 miliardi di dollari in più di quanti ne siano entrati. Vengono drenate materie prime, risorse naturali e denaro. I saldi migratori negativi, se da un lato contribuiscono ad alimentare le rimesse degli immigrati, dall’altra privano molti dei Paesi africani dei giovani più motivati.

La strategia dell’Unione europea sembra oggi non si discosti di molto da quella adottata fin dagli anni 80: il decennio perduto nel quale la crisi del debito ha gettato i Paesi africani in pasto alle politiche di “aggiustamento strutturale” e di austerità richieste dal Washington Consensus. La strategia prevede aiuti allo sviluppo che condizionano le scelte politiche degli Stati riceventi, senza però migliorare significativamente il tenore di vita degli africani. Per il prossimo settennio (2021-2027), l’Unione conta di incrementare gli aiuti verso i Paesi africani del 23 per cento, da 26 a 32 miliardi di dollari, soprattutto a sostegno del controllo delle frontiere (per esempio esportando tecnologie per il riconoscimento digitale). L’Europa continua a sventolare “la progressiva rimozione delle barriere al commercio” come pilastro della revisione degli accordi di Cotonou. Libero commercio e aiuti allo sviluppo sono le due gambe sulle quali poggia l’Eurafrica.

La “condizionalità” politica che spesso accompagna gli aiuti europei è stata criticata da molti (e rende appetibili in confronto gli aiuti cinesi). D’altra parte sono sempre più diffuse le critiche all’azzeramento delle barriere doganali e al libero movimento dei capitali. Nana Akufo-Addo, presidente del Ghana, Paese che insieme alla Costa d’Avorio esporta il 65 per cento del cacao utilizzato al mondo, fa notare che di un commercio che vale oltre 100 miliardi di dollari l’anno, ai due Paesi non restano che 6 miliardi. Ghana e Costa d’Avorio stanno tentando di imporre una tassa all’esportazione del cacao pari a 400 dollari per tonnellata e ipotizzano la creazione di un meccanismo per coordinare prezzi e produzione del cacao sul modello Opec. Se gli aiuti dell’Ue al Ghana ammontano a 323 milioni di euro per i sei anni (2014-2020), la tassa all’esportazione, qualora andasse in porto, avrebbe permesso al Ghana di incassare 360 milioni di dollari in più per il solo 2019.

Proprio la necessità di sostenere i prezzi delle materie prime, di riorientare economie totalmente dipendenti dalle esportazioni, di impedire il libero rimpatrio dei profitti delle multinazionali, di proteggere le imprese africane da una competizione impari, sta animando la discussione sul profilo futuro dell’African Continental Free Trade Area. L’idea che i Paesi esportatori di materie prima dovessero coordinarsi per ottenere prezzi alti e stabili per le materie prime, nonché per strappare vantaggi tariffari per le industrie nascenti non è nuova. Risale alla United Nations Conference for Trade and Development (Unctad), creata nel 1964 sotto lo slogan “commercio e non aiuti.” Il dilagare di un quarantennio di neoliberismo, a partire dagli anni 80, ha fatto passare l’idea che aprirsi agli investimenti internazionali, smantellando en passant industrie e servizi di Stato, fosse l’unica soluzione per competere nell’economia globalizzata.

Buona parte della soluzione alle questioni migratorie, aggravate dai cambiamenti climatici e da una popolazione africana che potrebbe raddoppiare a 2,5 miliardi nel 2050, passa dal rimettere in discussione il dogma libero commercio tra ineguali, supportando allo stesso tempo i governi africani nello sforzo di ottenere prezzi più alti e stabili per le loro esportazioni.

La direttiva Ue sulle sofferenze bancarie ignora il rischio riciclaggio

La direttiva europea che istituisce il mercato dei crediti in sofferenza (Npl) sarà votata il 17 febbraio senza affrontare il tema del rischio riciclaggio. Prevenire è meglio che curare, il popolo lo sa, Bruxelles no. Non si spiega altrimenti la fretta con cui si porta avanti il tesio che spalanca le porte della finanza al rischio di riciclaggio a vantaggio della criminalità organizzata. La stessa direttiva sembra essere consapevole, ma ritene opportuno affrontare questo “problemino” solo alle calende greche. L’articolo 56 ter, infatti, stabilisce: “È opportuno che nel riesame della presente direttiva la Commissione includa anche una valutazione approfondita dei rischi di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo associati alle attività svolte dai gestori di crediti e dagli acquirenti di crediti, nonché della cooperazione amministrativa tra autorità competenti”. Valutazione che a oggi non esiste e chissà quando arriverà.

Il rischio è assai fondato. Vale la pena ricordare che la Direttiva europea Npl fa gola ai fondi speculativi, permettendo loro di vendere circa 500 miliardi di euro di crediti bancari acquistati a saldo negli ultimi 7 anni.

Sarebbe opportuno che gli europarlamentari si confrontassero oltre che con i lobbisti anche con esperti criminologi. Stefano Martinazzo, responsabile Forensic Accounting & Litigation di Axerta S.p.A., tra i massimi consulenti della Magistratura in casi di riciclaggio, spiega che per combatterlo nelle compravendite Npl occorre che i vari passaggi siano tracciabili da una entità centrale attrezzata (che ancora non esiste), e che sia verificabile tutta la catena delle società coinvolte: “La compravendita di Npl non è a rischio zero e ciò rende necessario il potenziamento della vigilanza comunitaria su tutti gli operatori e le operazioni”. Secondo il criminologo Giacomo Di Gennaro dell’Università di Napoli Federico II si tratta “di un provvedimento criminogeno. In Europa, evidentemente, non hanno idea della capacità che le mafie hanno di mimetizzare le proprie presenze nelle diverse opportunità sia economiche che finanziarie”. La relatrice della direttiva, Irene Tinagli (Pd) e gli Eurodeputati valutino bene i rischi di un simile provvedimento

Il paradiso fiscale perduto. Ora Lisbona tassa le pensioni

Dal 2009 il Portogallo è considerato il bom retiro dei pensionati italiani: sole, spiagge, cielo blu ma soprattutto un fisco amico che permette la miracolosa trasformazione della proprio reddito da lordo a netto, in barba al cuneo fiscale e ai vari balzelli che in Italia defalcano la pensione. Un paradiso fiscale messo, ora, a serio rischio dal governo portoghese e che rischia di infrangere i sogni di migliaia di over 65 nostrani. La Finanziaria 2020 del governo presieduto dal premier socialista Antonio Costa intende, infatti, elevare da 0 al 10% la tassazione su chi in futuro deciderà di diventare “residente non abituale”, ossia chi sposta la sua residenza all’interno dello Stato portoghese e vi trascorre almeno sei mesi e un giorno nell’arco di un anno. Oltre a prevedere un versamento minimo di 7.500 euro l’anno. L’attuale normativa portoghese prevede, invece, che i soggetti non residenti siano assoggettati a imposizione solo sulle fonti di reddito prodotte dentro i confini lusitani. E a far fede sulla reale residenza, il requisito indispensabile richiesto, basta un contratto d’affitto e qualche scontrino.

“Gli stranieri con lo status di residenti non regolari non saranno più esentati dalle tasse e dovranno pagare tasse con un’aliquota del 10% sulle loro entrate”, ha spiegato Catarina Mendes, leader del gruppo socialista in Parlamento che già lo scorso anno aveva provato, senza successo, a far approvare lo stesso emendamento. Ma quest’anno non dovrebbero esserci problemi: i socialisti possono contare su 108 seggi sul totale di 230. Nell’andirivieni tra Roma e Lisbona c’è anche una bella fetta di italiani che incassano la pensione senza trattenute fiscali, godendosela in un Paese a poche ore di volo da casa con un costo medio della vita più basso di quello italiano e livelli sanitari sopra la media Ue.

Secondo l’Inps, gli italiani che vivono in Portogallo a tasse zero nel 2019 sono state 2.897 con una pensione di 2.719,99 euro lorda al mese che, nel loro caso, equivale all’importo netto. Niente a che vedere con l’assegno medio erogato in Italia che nel 2018 è stato di 1.196,98 euro, ma con una forbice enorme: il 61,3% delle pensioni non arriva a 750 euro. Mentre in Portogallo allo stesso pensionato arriverebbero in tasca 900 euro.

La trasformazione del Portogallo in una sorta di paradiso fiscale per pensionati risale al 2009 quando il Paese, in piena crisi finanziaria e alla ricerca di nuove entrate, ha varato un programma di incentivi che consentiva ai pensionati di percepire per intero i loro assegni previdenziali senza pagare un euro di tasse. Il programma ha avuto enorme successo e almeno 27 mila stranieri hanno fatto i bagagli riorganizzandosi una seconda vita a Lisbona, Porto o in Algarve, dove c’è l’enclave degli italiani che possono fare affidamento su imprese gestite da connazionali che offrono servizi tutto compreso: dall’accoglienza alle pratiche burocratiche, dalla ricerca degli alloggi alla gestione del divertimento.

A contrastare questa “fuga” degli over 65 e cercare di riacchiappare un po’ di quattrini dei 400 mila pensionati italiani all’estero (che costano all’Inps oltre un miliardo di euro all’anno) ci ha provato la legge di Bilancio 2019 che ha introdotto un’imposta sostitutiva del 7% per cinque anni a chi decide di prendere la residenza nei piccoli Comuni del Sud Italia con meno di 20 mila abitanti. Chiaro l’obiettivo: drenare la fuga verso l’estero e incentivare un ripopolamento delle aree di emigrazione più disagiate. Una sorta di flat tax rivolta anche ai pensionati stranieri che, tuttavia, non ha affatto convinto i pensionati a tornare in patria. Del resto, è difficile trovare allettante la proposta italiana quando, oltre al Portogallo, anche le vicinissime Spagna o Tunisia offrono aliquote sulla tassazione delle pensioni più basse, se non nulle. E in alcuni casi addirittura per sempre.