L’Iri ha rivoluzionato il Paese, chiuderlo è stato un errore

C’era una volta l’Iri, tra gli anni 30 del secolo scorso e sino a tutti gli anni 90 proprietario e gestore delle grandi imprese statali al di fuori del settore energetico e principale strumento delle politiche pubbliche nell’industria. Con Eni ed Enel era il più esteso Stato imprenditore al di fuori delle economie socialiste. Oltre allo Stato imprenditore, esistevano solo quattro gruppi industriali privati di rilevanti dimensioni: Fiat, Olivetti, Montedison e Pirelli. Questi grandi gruppi, sommati all’universo delle medie e piccole imprese, avevano realizzato il miracolo economico italiano del secondo dopoguerra e portato l’Italia al secondo posto tra i Paesi manifatturieri d’Europa, generando benessere diffuso.

Il sogno avverato del boom economico si interrompe tuttavia negli anni 70 per trasformarsi, nell’ultimo ventennio, nell’incubo del declino e della marginalizzazione del Paese in un’economia mondiale globalizzata. Gli anni 70sono il primo decennio di transizione. Le crisi petrolifere sottraggono ricchezza all’Occidente in favore dei Paesi arabi e diffondono nelle nostre economie un’elevata inflazione. Il decennio segna anche la fine dell’indipendenza dei manager delle imprese pubbliche dalla politica. Con i bilanci che vanno in rosso per via della congiuntura, occorre ricorrere ai soldi dell’azionista pubblico, che non sono gratis e non sono paragonabili a quelli dell’azionista privato, desideroso di ritornare alla profittabilità. Si passa dunque da un modello di impresa pubblica profittevole, che può permettersi di usare la politica come taxi, per usare le parole di Enrico Mattei, a un modello di impresa pubblica bisognosa e dunque subordinata, nel quale è la politica a usare l’impresa come taxi.

È un modello di sicuro successo per i politici e di sicuro fallimento per le imprese pubbliche, destinate ad allargare il loro perimetro con acquisizioni in perdita, ad accrescere le perdite anche a parità di perimetro e a essere guidate da vertici sempre più mediocri. Cosa si sarebbe potuto e dovuto fare per interrompere questa spirale perversa? Una soluzione poteva essere ripristinare il modello originario dell’impresa pubblica, quello dell’Iri di Beneduce e dell’Eni di Mattei, indipendenti nella gestione, che non pochi successi avevano portato alla nostra crescita economica. Una cura difficile e che richiedeva probabilmente medici diversi da quelli all’epoca disponibili. L’alternativa consisteva nel rinunciare all’impresa pubblica e nel trasferire l’arduo compito al settore privato dell’economia. Beneduce e Mattei da un lato, Margaret Thatcher dall’altro.

Le privatizzazioni italiane non sono state altro che il tentativo di passare dal modello perduto Beneduce-Mattei a un più recente modello Thatcher, considerato di successo all’inizio degli anni 90. Si trattava di un passaggio legittimo, ma che tuttavia abbiamo maldestramente compiuto, scegliendo di non riprodurre il modello britannico in alcuni suoi caratteri che erano invece essenziali. Due in particolare: in primo luogo, realizzare liberalizzazioni serie, passare da monopoli pubblici alla concorrenza e a una seria regolazione dei mercati e non invece a monopoli privati maldestramente regolati o non regolati del tutto come le autostrade e gli aeroporti. In secondo luogo, l’adozione di un modello di public company a gestione manageriale e con azionariato diffuso e popolare e non la conservazione di un vetusto capitalismo familiare a carattere essenzialmente oligarchico.

Che il modello italiano precedente non potesse essere conservato così com’era lo dicevano le perdite crescenti degli enti pubblici delle partecipazioni statali. Senza ricordare casi disastrati come Efim ed Egam, è utile riportare qualche numero chiave dell’Iri. A metà anni 70 aveva un patrimonio netto di circa 2.500 miliardi di lire, costituito da 1.800 miliardi di fondo di dotazione e circa 700 di riserve derivanti da utili accantonati e sino al quel momento prevalentemente favorevoli. Da allora, e sino alla trasformazione da ente pubblico a società per azioni fatta in emergenza dal governo Amato nel 1992, è un continuo accumulo di perdite che richiedono continui adeguamenti del fondo di dotazione a copertura. Tra il 1976 e il 1992, l’Iri perde complessivamente 27 mila miliardi di lire e il fondo di dotazione viene incrementato a tappe per complessivi 24 mila miliardi. Non sufficienti, tanto che al momento della societarizzazione debbono essere aggiunti ulteriori 5.700 miliardi per evitare che la nuova società parta con un patrimonio netto negativo. Questo quadro è incompatibile con le regole europee sugli aiuti di Stato e incoerente con la sottoscrizione, sempre nel 1992, del Trattato di Maastricht, fondamento per la realizzazione della moneta unica e l’avvio di un indispensabile percorso di aggiustamento dei conti pubblici.

Si arriva così all’accordo Andreatta-Van Miert del 1993 che porta al progressivo ridimensionamento dell’Iri tramite le privatizzazioni e alla sua chiusura e liquidazione alla metà del 2000. Questo processo porta nelle casse dell’Iri introiti per complessivi 84 mila miliardi di lire tra privatizzazioni dirette e di secondo livello, cioè effettuate dalla holding controllante, i quali permettono un integrale rimborso dei consistenti debiti e inoltre il pagamento al Tesoro azionista di complessivi 25 mila miliardi tra il 1998 e il 2001 a titolo di liquidazione e dividendi. A tale cifra si aggiunge un patrimonio netto di oltre 9 mila miliardi delle partecipazioni residuali che al momento della liquidazione sono trasferite in proprietà al Tesoro. Sommando i due valori si ha un ordine di grandezza simile ai conferimenti complessivi effettuati dallo Stato a partire dalla metà degli anni 70, per cui si può sostenere che complessivamente il contribuente italiano non abbia perso nulla nel tempo come azionista involontario di questa grande avventura industriale.

Tuttavia se lo Stato come azionista dell’Iri non ha perso nulla e grazie all’Iri ha creato per decenni occupazione, crescita, sviluppo e incamerato imposte societarie e consistenti contributi sociali e imposte dai dipendenti (arrivati negli anni 80 a 550 mila persone), si può difficilmente sostenere che la sua chiusura sia stata un’operazione di successo per la collettività. Non potendo conservare uno strumento pubblico inefficiente le strade era solo due: o il ritorno all’efficienza della gestione pubblica, e dunque al modello Beneduce-Mattei, oppure il passaggio all’efficienza privata con l’adozione integrale e non parziale del modello Thatcher. Ma in questa seconda ipotesi, solo dopo aver ottenuto la concorrenza in un determinato mercato attraverso processi di liberalizzazione si sarebbe potuto privatizzare, evitando di trasformare monopoli pubblici in monopoli privati più pericolosi e incompatibili col benessere collettivo. Inoltre, i mercati a debole concorrenza dovevano essere sottoposti ad adeguata regolazione economica tramite appositi organismi indipendenti dalla politica.

Invece in Italia abbiamo scelto di privatizzare prima di liberalizzare, facendo quest’ultima cosa solo quando obbligati dalle norme comunitarie e dunque liberalizzando il meno possibile, il più tardi possibile e nel modo peggiore possibile. E al fine di poter fare opportunisticamente male le cose, non abbiamo neppure rispettato le stesse norme che ci siamo dati, senza peraltro prenderci cura di abrogarle. La legge 464 del 1994 prevedeva che non si potessero avviare processi di privatizzazione nelle public utilities prima della costituzione delle Autorità di regolazione indipendenti nei relativi settori. Eppure si è provveduto alla fine degli anni 90 a cedere il controllo tanto di Autostrade Iri quanto di Aeroporti di Roma senza la creazione dell’Autorità di regolazione dei trasporti, istituita solo a fine 2011 e operativa con evidente efficacia solo dal 2013. Inizialmente è stata inibita dall’occuparsi delle concessioni autostradali in essere e delle maggiori gestioni aeroportuali che beneficiano di contratti di programma in deroga: proprio i segmenti per i quali la sua attività doveva precedere ogni privatizzazione.

In questo modoabbiamo permesso che le gestioni meno rischiose in assoluto siano divenute anche quelle più remunerative, creando disincentivo all’assunzione del rischio da parte degli imprenditori. Se il massimo rendimento si ha gestendo un grande aeroporto, e in conseguenza si perde gestendo una compagnia aerea, chi mai vorrà rischiare soldi privati nella seconda? Negli anni 90 ci siamo incamminati dall’Italia di Beneduce e Mattei verso la Gran Bretagna di Margaret Thatcher, ma dobbiamo aver sbagliato strada deviando verso la Russia degli oligarchi.

Privatizzazioni addio: lo Stato torna padrone

La scorsa settimana, questo inserto ha pubblicato per la prima volta il discorso dell’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi sul panfilo Britannia, davanti a banchieri inglesi, politici e finanzieri italiani. Era il 2 giugno 1992 e cominciava la stagione delle privatizzazioni, che si sta ufficialmente chiudendo ora. Il governo Conte 1 ha abbandonato per la prima volta gli (irrealistici) impegni presi con Bruxelles a dismettere beni pubblici per un punto di Pil all’anno, circa 18 miliardi, per ridurre il debito. E il Conte 2 sta estendendo il ruolo dello Stato in economia: mentre il Tesoro resta azionista del Monte dei Paschi, si è fatto carico di Alitalia (nazionalizzazione mascherata da “prestiti ponte”), dell’Ilva, della Banca Popolare di Bari… Scelte dettate non da un disegno di politica industriale – come quello dell’Iri originale, raccontato nelle prossime pagine da Ugo Arrigo – ma dalla scelta politica di salvare posti di lavoro garantiti da aziende decotte. Lo Stato rimedia non a fallimenti di mercato (i privati producono quantità sub ottimali di un certo bene o servizio), ma a fallimenti nel mercato (i privati non riescono a gestire aziende in modo sostenibile). In compenso lo Stato si prepara a rimettere a gara tratti di autostrade già ammortizzati, che dovrebbero essere gratuite per gli utenti e che invece continueranno a garantire ingiustificabili profitti ai soliti concessionari privati.

Il discorso di Draghi aiuta a inquadrare questo dibattito su due piani. Primo: lo Stato deve gestire alcuni pezzi di economia? E, se sì, qual è il modo di farlo senza scaricare costi esorbitanti sui contribuenti?

Secondo: lo Stato è fatto, nel concreto, di partiti e manager nominati dai partiti. Le privatizzazioni servivano, oltre a ridurre il debito, a rompere quella morsa di corruzione, clientelismo e debito pubblico che nel 1992 ha portato l’Italia a un passo dalla bancarotta. Siamo consapevoli dei rischi che corriamo a tornare indietro? Quali precauzioni stiamo prendendo? Per ora, quasi nessuna.

Ponte sullo Stretto. La guerra per tenere in vita la Spa inutile

Aprile 2019: “Caro Luigi, come ti ho detto per le vie brevi, è intenzione di questa Presidenza del Consiglio chiudere tempestivamente e definitivamente la liquidazione della Società Stretto di Messina spa. Ti ribadisco, pertanto, la necessità di conoscere quanto prima l’avviso che codesto Dicastero, in qualità di azionista, vorrà esprimere”.

Giugno 2019: “Caro Luigi, è ormai un lungo lasso di tempo, sono nuovamente a chiederti di esprimere l’avviso di Codesto Dicastero…”.

Novembre 2019: “Caro Luigi, come ti ho già rappresentato ad aprile e giugno, è necessario conoscere le valutazioni del ministero, in ordine alla chiusura di Sdm. Ti rinnovo, pertanto, la richiesta (…) non essendo a tutt’oggi pervenuta alcuna comunicazione al riguardo”.

Nella storia delle grandi opere italiane non mancano mai aspetti grotteschi. Quella del Ponte sullo Stretto di Messina li racchiude tutti. A scrivere le 3 lettere è il segretario generale di Palazzo Chigi, Roberto Chieppa. Il destinatario, che non ha mai risposto, è Luigi Carbone, capo di Gabinetto del ministro dell’Economia. Si conoscono bene, entrambi appartengono alla schiera dei Consiglieri di Stato padroni dei gangli amministrativi. Ad attivare Chieppa è l’ultima delibera della “Sezione di controllo delle amministrazioni centrali della Corte dei conti”, che a ottobre 2018 chiede di nuovo di chiudere la Stretto di Messina (Sdm), società concessionaria dello Stato per la costruzione dell’opera. Lo chiede dal 2016, ma nessuno sembra volerlo fare.

Per capire la storia, serve fare un passo indietro. Nel 2005 il consorzio Eurolink (capeggiato da Impregilo, con Condotte e Cmc) vince la gara per il ponte con un ribasso d’asta irrealistico, il 17%, ma poco importa: l’obiettivo è prenotare le preziose penali previste in caso di mancata costruzione. La cifra è già calcolata: 700 milioni. Il primo contratto tra la Stretto di Messina ed Eurolink viene firmato a marzo 2006, con il governo Berlusconi ancora in piedi per l’ordinaria amministrazione. Un mese dopo, l’Unione di Prodi vince le elezioni e blocca tutto. Tre anni dopo il governo Berlusconi modifica il contratto inserendo una clausola mostruosa che assicura il pagamento della penale anche se il progetto definitivo non viene approvato dal Cipe. Nel 2012 il governo Monti ferma l’opera, stabilendo per decreto di dovere a Eurolink solo le spese sostenute più un 10 per cento. Eurolink fa causa a Sdm, a Palazzo Chigi e al ministero delle Infrastrutture chiedendo 700 milioni. Paradosso: nel frattempo Impregilo si fonde con Salini e oggi, grazie a “Progetto Italia” (il colosso in cui è entrata anche la pubblica Cassa Depositi e Prestiti) lo Stato si ritrova azionista di peso in una società che chiede danni allo Stato.

La vera assurdità si raggiunge però con la Stretto di Messina. Ad aprile 2013, la società, partecipata per l’82% dall’Anas e per il 13% da Rfi (entrambe controllate dalle Ferrovie dello Stato, e quindi dal ministero dell’Economia) viene posta in liquidazione perché l’opera non è più prevista. Vincenzo Fortunato, già magistrato amministrativo e potentissimo capo di gabinetto al Tesoro con Tremonti, è nominato commissario. Deve “concludere le operazioni entro e non oltre un anno”. Invece, Sdm è in liquidazione da 7 anni con Fortunato ancora commissario e un compenso di 120 mila euro lordi annui, con 40 mila euro in più di eventuale parte variabile.

Secondo la Corte dei conti la società va però chiusa: non fa nulla, se non resistere in giudizio alle pretese di Eurolink e pagare avvocati esterni, costa troppo (1,5 milioni nel 2016) e ha pure fatto causa ai ministeri e a Palazzo Chigi chiedendo quasi 300 milioni. Dal 2016, con tre diverse delibere, partite dalle complesse istruttorie del magistrato Antonio Mezzera, la Corte chiede invano di intervenire. L’ultima è dell’autunno 2018. Mezzera spiega che porre fine alla liquidazione farebbe risparmiare molti soldi e decadere qualsiasi pretesa risarcitoria di Sdm verso lo Stato. Una soluzione ottimale per tutti. E invece Fortunato ha risposto che così i soci di Sdm erediterebbero solo i debiti della società, ma non i crediti che vanta verso Eurolink, a cui a sua volta ha fatto causa. Una giustificazione curiosa e – spiega Mezzera – smentita dall’Avvocatura di Stato, che è di altro avviso.

Alle richiestedei magistrati contabili nessuno ha risposto. L’atto, per dire, è stato inviato il 13 novembre 2018 al Tesoro, che aveva 30 giorni per spiegare la scelta di “non ottemperare ai rilievi della Corte”. Ogni amministrazione, spiega la delibera della Corte, si è mossa in maniera disordinata. Il Tesoro ha ventilato un tavolo di lavoro a Palazzo Chigi; il ministero delle Infrastrutture e l’Avvocatura dello Stato hanno chiesto una norma che fissi tempi certi per la chiusura di Sdm e disciplini la sorte dei rapporti pendenti. Per il Tesoro, però, deve occuparsene Palazzo Chigi. Che, invece, ritiene spetti al Tesoro in quanto azionista e al Mit in quanto vigilante. Con questo rimpallo si è andati avanti per mesi. Nel frattempo la sezione di controllo ha inviato gli atti alla Procura contabile affinché valuti l’esistenza di un danno erariale.

Magari è un caso, ma da Palazzo Chigi si è deciso di accelerare. Il Tesoro, però, come mostrano le comunicazioni, non ha nessuna fretta.

Spadafora tira dritto su Cozzoli e ora punta alla banca dello sport

Il capo di Sport e salute sarà Vito Cozzoli, il caso è chiuso. Sulla scelta dell’ex braccio destro di Luigi Di Maio al Mise si era scatenata la rivolta dei parlamentari M5s, sempre più ai ferri corti col ministro Vincenzo Spadafora. C’è voluto l’intervento di Vito Crimi per ricomporre la situazione. Ma se una casella si sistema, già cominciano le manovre sulla prossima: il ministro ha messo nel mirino l’Istituto del Credito sportivo e la poltrona di Andrea Abodi, ex presidente della Serie B, dirigente apprezzato un po’ ovunque in politica, nominato un paio d’anni fa da Luca Lotti (ma con trascorsi più a destra). Era già pronto un comma ad hoc per azzerarne il Cda.

Intanto si è chiusa (o non si era mai aperta) la partita su Sport e Salute, la società governativa creata dall’ex sottosegretario Giancarlo Giorgetti per ridimensionare il Coni, che però ha fatto fatica nella sua rivoluzione, come dimostrano le dimissioni dell’ex n.1 Rocco Sabelli e la ripresa di Malagò. Sin da quando erano trapelate le candidature si era capito che il favorito fosse Cozzoli, voluto da Spadafora e sponsorizzato da Di Maio. Il ministro si è preso una decina di giorni, non privi di tensione: l’opposizione dei parlamentari non era tanto sulla persona quanto sul metodo. Il “reggente” Crimi ha dovuto appellarsi al buon cuore dei colleghi: “Statemi vicino”. Così ieri è arrivata l’indicazione. Presto Cozzoli si insedierà. Da lui Malagò si aspetta dialogo. I parlamentari invece che porti avanti la riforma, “altrimenti non avrà il nostro sostegno”, avvertono in una nota. Ma bisognerà fare i conti anche col Pd, sostenitore del Coni, che fin qui non ha ottenuto nulla, e con il Cio che minaccia sanzioni per intromissioni politiche. Almeno pare scongiurato il rischio di un voto contrario in commissione: il parere non è vincolante ma sarebbe stato come una sfiducia.

Le tensioni restano, e di mezzo ora potrebbe finirci anche una banca. Quella dello sport che gestisce un patrimonio di 900 milioni e muove finanziamenti per 300 l’anno. È occupata da Abodi ma Palazzo Chigi la reclama: prima ha chiesto la testa del dg D’Alessio, poi ha provato a cambiarne i vertici. Lo ha fatto nell’unico modo possibile, visto che gli incarichi scadono nel 2022 e non sono revocabili: con un articolo nella legge olimpica che portava il Cda da 5 a 3 membri, di fatto azzerandolo. Lo stesso metodo già adottato con Sport e salute e che aveva costretto Sabelli alle dimissioni. Stavolta, però, è arrivato il parere negativo del Mef. Questione solo rinviata, come i malumori nel M5S

’Ndrine, affari e ultrà neonazi: “Coi mafiosi siamo tutti amici”

Frodi fiscali per 160 milioni all’ombra della ’ndrangheta. Società cartiere, traffico di rifiuti e di quadri, prestanome, usura, minacce di sequestri di persona. Tasselli di un puzzle che precipitano Milano in un mondo di mezzo dove imprenditori spregiudicati e boss fanno affari. Ci sono figure note come Domenico Bosa, detto Mimmo Hammer, rappresentante del movimento neonazista meneghino Hammerskin e tra i capi della curva nord dell’Inter, già in contatto con trafficanti di droga montenegrini oltre che con uomini della cosca Flachi e della famiglia Pompeo.

Il giudice ha ordinato 18 misure cautelari con accuse che vanno dall’associazione all’usura e all’autoriciclaggio. L’indagine, coordinata dalla Dda di Milano, è stata condotta dai finanzieri del Gico, con lo Scico e i colleghi di Lecco e ha portato al sequestro di 34 milioni. Figura centrale è l’imprenditore Alessandro Magnozzi, dominus della frode all’Iva nel mondo delle telecomunicazioni. A lui il giudice, oltre all’associazione a delinquere, contesta l’aggravante mafiosa per i rapporti con i fratelli Antonio e Bartolo Bruzzanti legati alla cosca Morabito di Africo (Reggio Calabria). Con Bruzzaniti Magnozzi discute di un traffico di rifiuti che “potrà fruttare 4 milioni di euro all’anno”. In agenda ha anche il nome di Edoardo Novella, coinvolto in indagini di mafia e assolto, figlio di Carmelo il padrino lombardo che voleva l’autonomia dalla Calabria e per questo fu ucciso nel 2008. La frode si alimentava con decine di società, i soldi erano destinati all’estero. A questo però va aggiunto un particolare che poi particolare non è: gli interessi della mafia. L’indagine mette sul tavolo diversi personaggi che hanno fatto la storia criminale di Milano e brutti episodi di recupero crediti che coinvolgono lo stesso Bosa al quale viene contestata l’accusa di estorsione con l’aggravante mafiosa. A rivelarlo l’imprenditore Maurizio Varesi che con il gruppo di Magnozzi aveva un debito di 80 mila euro. Varesi racconta di un incontro con l’imprenditore e Bosa. “Magnozzi – spiega – mi disse: Maurizio ti devi far trovare, se ti dobbiamo sparare non abbiamo problemi a farlo. Mi fecero capire che mi avrebbero sequestrato”. Prosegue Varesi: “Bosa era legato alla famiglia Pompeo. Mi disse: non ti picchio qua solo per rispetto di Alessandro, comunque io voglio i miei soldi”. Tra i soci di Magnozzi c’è Gianpietro Paleari, già titolare della Brianza carta. Paleari emerge nell’indagine Fior di Loto dei primi anni Novanta collegato al boss Santo Pasquale Morabito. I contatti di Paleari con diversi malavitosi milanesi permetteranno a Magnozzi di intessere rapporti con i referenti della cosca Morabito. Non sarà un caso, secondo i pm, che Maria Morabito, nipote del superboss Giuseppe Morabito detto u Tiradrittu e moglie di Antonio Bruzzanti, sia stata assunta dalla Sistema Srl, società riconducibile a Magnozzi e amministrata dal siciliano Salvatore Bonaffini già condannato per mafia. Dirà un imprenditore: “Questi sono mafiosi della madonna, gente che mette milioni così sull’unghia”. Altra società cartiera, la Akanemo Srl, è amministrata dal calabrese Iginio Panaiia finito nel 2013 in una faida armata con la famiglia pugliese Magrini. Varesi spiegherà: “Magnozzi disse: noi lavoriamo con tutte le famiglie mafiose”.

La metropoli nel caos. “Mancano ambulanze. Pochi i kit per le analisi”

La città è deserta, nessuno può entrare né uscire. Si evita anche di mettere piede fuori di casa, se non per fare scorta di generi alimentari. In attesa del piano di evacuazione concordato dalla Farnesina con Pechino, gli italiani di Wuhan cercano la normalità perduta, il respiro consueto della metropoli da 11 milioni di abitanti, capoluogo della provincia di Hubei, che nel tempo è diventata la loro casa.

Dopo cinque giorni la pioggia ha lasciato il posto a un timido sole e “siamo andati fuori e così anche i nostri figli si sono potuti sfogare”, racconta Lorenzo Mastrotto, manager di una società della meccanica. La dispensa va tenuta d’occhio, ora che i rifornimenti dall’esterno devono fare i conti con la chiusura imposta dalle autorità. “Al momento nei supermercati si trova di tutto”, continua Mastrotto. Ma quando si esce dalla porta di casa ci si avventura “in una città deserta”.

“I colleghi raccontano di una Wuhan blindata, un posto da cui nessuno può entrare né uscire. I mezzi di trasporto e i luoghi pubblici sono stati chiusi per evitare la diffusione del virus”. Marcantonio D’Antoni, 27 anni, designer di Catania, lavora a Wuhan. E’ tornato in Italia il 6 dicembre. “Quando ero lì ancora non si parlava dell’epidemia”, prosegue il ragazzo che nella metropoli, chiamata la “Chicago cinese” per i corsi d’acqua e i laghi che ne costellano il tessuto urbano, lavora per la Mogu Integrated Design. Le avvisaglie del fatto che qualcosa non andava sono arrivate dopo Natale: “Il primo messaggio in chat in cui un collega mi ha parlato del virus è del 27 dicembre – racconta al Fatto – Già erano cominciati i problemi, ma loro erano tranquilli perché Wuhan è una città industrializzata, non un villaggio rurale. Non si sentivano in pericolo. Dicevano: ‘Qui siamo al sicuro, non preoccuparti’. Poi si è scoperto che non era così”.

Chi la vive descrive la difficile condizione delle strutture sanitarie. “Dei 10mila posti letto proclamati nei giorni scorsi, solo una piccola parte risulta davvero pronta – racconta Francesco Barbero, infermiere di area critica che sul sito del virologo Roberto Burioni, Medical Facts, tiene un bollettino con il medico Xiaowei Yan – e le sirene che si sentono per la città sono in realtà trasferimenti tra i diversi ospedali. Poche le ambulanze operative per le urgenze”.

Le attrezzature scarseggiano, spiega ancora Barbero, anche quelle indispensabili per l’individuazione del morbo: “Il test ‘ vero’ spetta solo a chi presenta esami alterati e segni di lesione polmonare alla lastra – continua il paramedico –. Dato il limitato numero di kit disponibili, i medici sono chiamati a esercitare grande parsimonia”.

L’Organizzazione mondiale della sanità ha espresso “ fiducia” nella capacità dimostrata da Pechino di prevenire e controllare l’epidemia, ma la percezione di chi lavora sul campo è diversa: “I dati pubblicati finora rappresentano evidentemente solo la punta dell’iceberg – scrivono Barbero e Xiaowei Yan – aggiungendo confusione e incertezza davanti alle tante incognite di questo virus”. Lo stesso sindaco di Wuhan ha ammesso che i numeri del contagio potrebbero essere ben più alti”.

La chiusura della città impedisce anche i rifornimenti: “Le mascherine per i nostri colleghi sono arrivate alle porte di Wuhan, ma nessun corriere vuole rischiare di venir bloccato in uscita e quel prezioso carico sembra destinato alla polvere. L’unico aiuto arrivato conteneva uno stock di occhiali di protezione. Speriamo nella giornata di domani”.

Il virus di Wuhan dilaga. Paura per i 70 italiani

Centosei morti, e i numeri sul pallottoliere continuano a scorrere. I nuovi casi confermati in Cina sono 1.771, e portano il totale nel Paese a 4.515, di cui 976 persone in gravi condizioni. E anche l’Europa ora ha paura del “demone”, come lo ha ribatezzato il presidente Xi Jinping. Il virus 2019-nCoV partito dalla città cinese di Wuhan spaventa la comunità internazionale, con gli Stati che si organizzano per far rientrare i connazionali. Mentre le autorità sanitarie lavorano a un protocollo sui controlli e il monitoraggio, la Farnesina sta organizzando un trasporto aereo dei 70 italiani presenti nel capoluogo della provincia di Hubei, nella Cina centrale, tutti “in buona condizione di salute”. “Ci sono procedimenti che devono essere ancora attuati e che non dipendono interamente dall’Italia, ma si fa il massimo per fare il prima possibile”, ha detto il capo dell’Unità di Crisi della Farnesina Stefano Verrecchia, sottintendendo che la decisione ultima spetta a Pechino e aggiungendo che si è “optato per organizzare un trasferimento aereo” anche in collaborazione con altri Paesi Ue.

“Il protocollo per il rientro e le relative misure sanitarie saranno valutati a breve”, spiegano dal ministero della Salute. Anche gli altri Stati si attrezzano. Nei loro piani gli Stati Uniti avrebbero già dovuto riportare a casa i mille americani di Wuhan, e anche il Giappone è pronto da giorni, ma nessuno a ieri sera era rientrato. L’Ue ha attivato il meccanismo di protezione civile e cofinanzierà il trasporto aereo di chi vuole essere rimpatriato. Un primo volo decollerà oggi da Parigi e dovrebbe imbarcare 250 francesi, altri 100 cittadini di altre nazionalità partirebbero in settimana. L’Oms, dopo aver alzato il livello di allerta, ha invitato alla “calma”. I numeri dei contagi fuori dalla Cina restano relativamente contenuti: circa 50 in 8 paesi dell’Asia, Canada, Usa, Australia, Giappone, Francia e Germania.

Ma i tre casi tedeschi alimentano le preoccupazioni sulla resistenza del virus alle lunghe distanze. È il primo contagio da uomo a uomo sul suolo europeo, il terzo fuori dai confini cinesi. Inizialmente è stato colpito un impiegato 33enne in un’azienda automobilistica della Baviera, in contatto con un collega rientrato dalla Cina. “Non comporta un cambiamento delle misure contro l’epidemia”, il commento di Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità. Un quarto caso è stato accertato in Francia, su un turista cinese di 80 anni, che si trova in rianimazione in “condizioni gravi” a Parigi.

Il virus di Wuhan fa tremare anche l’Italia. A Pistoia una donna cinese di 53 anni ricoverata con i sintomi del morbo è risultata negativa al test, mentre in serata sono emersi timori per un caso sospetto a Napoli, dove secondo la stampa locale sono stati ricoverati due sposi cinesi originari della provincia di Hubei.

Guerra a Tripoli, l’anno è iniziato con più sbarchi: 870 da inizio gennaio

“Ci hanno messo quattro giorni per concedere un porto sicuro, e allora denuncio per sequestro di persona il presidente del Consiglio Conte e il ministro dell’Interno Lamorgese. È sequestro di persona solo quando sono coinvolto io? E allora ci vediamo in tribunale”, Matteo Salvini, sotto inchiesta per sequestro di persona per il caso Gregoretti, attacca sulla vicenda della Ocean Viking.

La notizia è di ieri: la nave Ocean Viking di Sos Mediterranee e Medici Senza Frontiere potrà sbarcare a Taranto le 403 persone soccorse nel Mediterraneo. I moli pugliesi infatti sono stati indicati dalle autorità italiane come “porto sicuro”. A Taranto si stanno approntando i servizi per accogliere tra l’altro 12 donne incinte, 132 minori non accompagnati e 20 nuclei familiari. Arrivano da Marocco, Guinea, Senegal, Burkina Faso, Kenya, Nigeria, Mali e Somalia.

Si sta per risolvere anche la vicenda della Alan Kurdi che viaggia con 77 persone. Stavolta il via libera è arrivato da Malta. Il comandante Julian Pahlke critica, però, il meccanismo adottato per individuare il porto sicuro: “Eravamo davanti alle coste italiane, ma ci è stato assegnato un porto sicuro a Malta e dobbiamo navigare per 10 ore. L’Europa deve accordarsi su un meccanismo che non costringa ogni nave a negoziare singolarmente”. Si sta ancora cercando una destinazione per la Open Arms che deve sbarcare 237 persone.

A gennaio la situazione degli sbarchi è stata più delicata dei mesi precedenti. Vista la situazione sempre più pericolosa in Libia centinaia di persone hanno deciso di partire, spesso anche con mezzi di fortuna che non sono in grado di affrontare il mare in burrasca dell’inverno. Secondo Alarm Phone, il servizio telefonico cui si rivolgono le persone in difficoltà nel Mediterraneo, negli ultimi cinque giorni si sono contate segnalazioni di emergenza partite da nove imbarcazioni che trasportavano 650 persone.

I dati del Viminale confermano la situazione degli sbarchi: nei primi 28 giorni di gennaio gli sbarchi sono stati 870, molti meno del 2018 (3.176), ma più del 2019 (155). Il picco si è registrato il 15 (185) e il 16 (152) scorsi. La maggior parte degli immigrati a gennaio arrivano da Algeria (249), Costa d’Avorio (126), Bangladesh (91), Iraq (62), Guinea (58) e Iran (48). Tensioni politiche ed emergenze alimentari spesso si riflettono sugli arrivi.

Mare Jonio, s’indaga sulla Finanza per lo stop alla Ong

Non è una semplice richiesta di archiviazione. Gli atti firmati dalla Procura di Agrigento sul caso della Ong Mediterranea e del soccorso operato dalla sua nave, la Mare Jonio, fotografano un’intera stagione politica. E non è una scena edificante.

Partiamo da un dato. L’inchiesta sulla Mare Jonio – dopo le denunce della Ong – ha partorito un ulteriore fascicolo d’indagine: nel mirino della magistratura questa volta è finita la Guardia di Finanza che, nel marzo dello scorso anno, impartisce a Pietro Massone, il comandante della Mare Jonio, l’ordine di fermarsi e non entrare in acque territoriali italiane. Un ordine talmente infondato, come Il Fatto anticipò già in quei giorni, che per la Procura configura un vero e proprio reato.

In quei giorni la Mare Jonio trasporta 49 naufraghi soccorsi poche ore prima. Massone viene indagato per aver disobbedito all’ordine impartito dal pattugliatore della Guardia di Finanza “Apruzzi”, quando la nave è da poco entrata in acque Sar italiane, ovvero lo specchio di mare che prevede il coordinamento dei soccorsi da Roma. L’imbarcazione viene successivamente sequestrata – lo è ancora oggi – dalla Finanza: “Come da disposizioni”, si legge nel decreto di sequestro, “si stabiliva un contatto radio… venivano chieste informazioni generiche, quali numero dei componenti dell’equipaggio, migranti a bordo e porto di destinazione. In maniera collaborativa (la Mare Jonio, ndr) forniva le informazioni richieste… ”. La Gdf però va oltre, informando il comandante che “non è autorizzato dalle Autorità italiane a entrare nelle acque territoriali e che” se avesse disubbidito all’ordine, “sarebbe stato perseguito per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.

Ascoltando gli audio, la Procura scopre che la Gdf ha addirittura parlato, per ben due volte, di un divieto (mai) disposto dall’autorità giudiziaria. Divieto comunque impossibile, perché l’autorità giudiziaria non può disporlo un ordine simile. Un vero pasticcio, probabilmente motivato dalla concitazione di quelle ore, in cui Matteo Salvini, in quel momento ministro dell’Interno, emana una direttiva per rafforzare la (fantasiosa quanto inesistente) strategia dei “porti chiusi”. Il comandante della mare Jonio non rispetta l’alt della Gdf e tira dritto: viene indagato per aver disobbedito all’ordine impartito da una nave militare. E con il capo missione, Luca Casarini, viene indagato anche per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

La Procura – che ha chiesto l’archiviazione per entrambi i reati – ha verificato che la Libia non aveva mai offerto un porto sicuro. Di più: da quando può gestire i soccorsi, avendo implementato una zona Sar (ricerca e soccorso, ndr), non avrebbe mai offerto, neanche una sola volta, un porto sicuro a una ong.

E ancora: in quelle ore il ministero degli esteri, pur non avendone titolo, chiede un porto sicuro alla Tunisia, che non risponde. Qualunque risposta sarebbe risultata però inutile: secondo i magistrati la Tunisia, non disponendo di una zona Sar, non può offrire alcun porto sicuro.

La richiesta di archiviazione esplora anche la possibilità, per la Mare Jonio, di portare i 49 naufraghi a Malta. Secondo i pm non era l’opzione giusta: l’unica scelta corretta, in ossequio alle normative internazionali, era proprio di trasportare i 49 naufraghi verso la Sicilia e chiedere un porto sicuro alle autorità italiane.

L’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Salvatore Vella e la richiesta di archiviazione potrebbero presto rappresentare un precedente giuridico che non sarà più possibile ignorare: la Libia, sostiene la Procura, non ha mai offerto un porto sicuro e – non soltanto per il conflitto riesploso nei mesi scorsi – non è in condizioni di offrirlo. Anche la Tunisia, che non ha una zona Sar, è nelle stesse condizioni. E l’alt all’ingresso delle nostre acque, impartito a una nave italiana da un pattugliatore della Gdf, per l’accusa costituisce addirittura un reato.

“Solo la logica perversa di qualche politicante – hanno commentato Casarini e Marrone – ha trasformato il soccorso in mare in un possibile reato. Abbiamo sempre creduto che i crimini contro l’umanità li commette chi fa morire in mare o nei lager libici donne, uomini e bambini”.

Mail Box

 

Quanta commozione e umanità nel Giorno della memoria

Nel Giorno della memoria, con viva commozione, ho assistito ad alcune delle iniziative di commemorazione delle vittime della Shoah a Viterbo. Dinanzi alle pietre d’inciampo che ricordano Vittorio Emanuele Anticoli, Letizia Anticoli e Angelo Di Porto, vittime viterbesi della Shoah, i volti e le voci dei giovanissimi studenti hanno rievocato le esistenze spezzate da quell’indicibile orrore, e ci hanno convocato all’impegno qui e adesso per fermare ogni strage, per soccorrere ogni persona, per difendere la vita, la dignità e i diritti di ogni essere umano. Massimamente luminosa e struggente è stata la testimonianza di Salvatore Federici, superstite che ancora denuncia e contrasta la barbarie di cui fu vittima, testimone che ancora prosegue la lotta per una società giusta, libera, solidale. Poi mostre, riflessioni, tante iniziative: corale è stata la commemorazione. La memoria delle vittime della Shoah ci convoca a inverare ogni giorno, nel nostro concreto agire, il valore dell’universale benevolenza, il valore dell’umanità che riconosce, rispetta, difende e sostiene ogni persona. Chi salva una vita salva il mondo. Solo facendo il bene ci si oppone al male.

Peppe Sini

 

Regionali, le “fregnacce” della Lega non convincono più

Caro Direttore, il nostro gruppo a lei così affezionato mai si è così divertito seguendo sino alle 4 del mattino i tanti show speciali delle Regionali. Che soddisfazione seguire le facce dei vari relatori e direttori dei “giornaloni”: Vespa all’inizio ringalluzzito e man mano perdutosi in un “annaspamento” di parole e di atteggiamenti; Sorgi inconcludente e privo di sintesi; Sgarbi sbiancato, ammutolito e penoso; Mentana perdeva sicurezza vedendosi svilire la sua maratona da giornalisti-showmen incapaci… Per noi che scriviamo, veri vincitori risultano essere in ordine di merito: il direttore del Fatto Quotidiano, Conte, Di Maio e le Sardine, e sconfitti il Pd e, in assoluto, il cazzaro (non ha più scampo! Le sue fregnacce non potranno più attecchire).

Emanuele e Marco Sansolini

 

Informazione di qualità e firme preziose: ben “Fatto”

Buongiorno, leggo il vostro giornale da anni. Il Fatto è di 24 pagine ed è un pregio: si riesce a leggerlo al mattino e ad avere una panoramica completa di tutto quello che sta succedendo nei vari campi, dalla politica allo spettacolo. L’ironia e la concretezza contraddistinguono i vostri articoli. Io lo leggo tutto, dalla prima pagina all’ultima, e ho imparato a conoscere i vostri giornalisti e firme, come Montanari e Mercalli; apprezzo la vostra pagina culturale, snella ma sempre attuale e sul pezzo. Utilizzo il giornale anche a scuola: gli articoli che sono pertinenti al percorso scolastico vengono fotografati, letti, analizzati e utilizzati anche in verifiche. Il vostro giornale mi è stato utile anche nel darmi l’idea di praticare il voto disgiunto in Emilia-Romagna, dove ho votato domenica scorsa. Il risultato politico è stato quello che speravo. Grazie.

Roberta Zecca

 

Ora bisogna capire chi sono davvero Santori & C.

Guardare alle elezioni basandosi solo sulle aspettative di Salvini mi sembra fuorviante. Che le Sardine siano state importanti per il Pd è vero, ora bisognerebbe capire chi sono e se hanno interessi e prospettive comuni. Quando si decide di allargare la rete si arriva a raccogliere molta immondizia.

Ps. Bravo Gomez l’altra sera sul 9.

Vareno Boreatti

 

Assange, i giornalisti devono difendere la stampa libera

Tra i volti di coloro che si sono spesi contro l’inqualificabile trattamento riservato a Julian Assange ho riconosciuto quelli di Sandro Ruotolo, Barbara Spinelli e Marco Travaglio. Avrei voluto riconoscerne molti altri, ma non posso esimermi dal manifestare la mia massima stima a questi tre giornalisti italiani, che dimostrano di concepire la libera informazione come la prima forma di democrazia e di libertà per tutti.

Claudio Rossi

 

La Sinistra è morta, le idee egalitarie pure

Ormai ogni sigla dichiaratamente di sinistra tende a scomparire nelle competizioni elettorali. La demonizzazione di ogni idea o pulsione egalitaria è stata ben progettata e realizzata negli ultimi quarant’anni. Oggi sono anche i più poveri, i precari, gli ultimi a volere le diseguaglianze perché in ognuno c’è il sogno di “potercela fare”. I comunisti sono cancellati, ma anche i socialdemocratici e ogni ipotesi di redistribuzione del reddito. E dio sa quanto abbia bisogno il capitalismo di una redistribuzione della ricchezza per uscire dalle secche della stagnazione cronica.

Sergio Torcinovich

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’infografica a corredo dell’articolo “Abbiamo avuto tante spese… Le banche stangano i correntisti” pubblicato il 24 gennaio è stato riportato il canone annuale di Fineco invece dell’Indicatore dei costi complessivi (Icc), che è rimasto immutato. Ce ne scusiamo.

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