C’era una volta l’Iri, tra gli anni 30 del secolo scorso e sino a tutti gli anni 90 proprietario e gestore delle grandi imprese statali al di fuori del settore energetico e principale strumento delle politiche pubbliche nell’industria. Con Eni ed Enel era il più esteso Stato imprenditore al di fuori delle economie socialiste. Oltre allo Stato imprenditore, esistevano solo quattro gruppi industriali privati di rilevanti dimensioni: Fiat, Olivetti, Montedison e Pirelli. Questi grandi gruppi, sommati all’universo delle medie e piccole imprese, avevano realizzato il miracolo economico italiano del secondo dopoguerra e portato l’Italia al secondo posto tra i Paesi manifatturieri d’Europa, generando benessere diffuso.
Il sogno avverato del boom economico si interrompe tuttavia negli anni 70 per trasformarsi, nell’ultimo ventennio, nell’incubo del declino e della marginalizzazione del Paese in un’economia mondiale globalizzata. Gli anni 70sono il primo decennio di transizione. Le crisi petrolifere sottraggono ricchezza all’Occidente in favore dei Paesi arabi e diffondono nelle nostre economie un’elevata inflazione. Il decennio segna anche la fine dell’indipendenza dei manager delle imprese pubbliche dalla politica. Con i bilanci che vanno in rosso per via della congiuntura, occorre ricorrere ai soldi dell’azionista pubblico, che non sono gratis e non sono paragonabili a quelli dell’azionista privato, desideroso di ritornare alla profittabilità. Si passa dunque da un modello di impresa pubblica profittevole, che può permettersi di usare la politica come taxi, per usare le parole di Enrico Mattei, a un modello di impresa pubblica bisognosa e dunque subordinata, nel quale è la politica a usare l’impresa come taxi.
È un modello di sicuro successo per i politici e di sicuro fallimento per le imprese pubbliche, destinate ad allargare il loro perimetro con acquisizioni in perdita, ad accrescere le perdite anche a parità di perimetro e a essere guidate da vertici sempre più mediocri. Cosa si sarebbe potuto e dovuto fare per interrompere questa spirale perversa? Una soluzione poteva essere ripristinare il modello originario dell’impresa pubblica, quello dell’Iri di Beneduce e dell’Eni di Mattei, indipendenti nella gestione, che non pochi successi avevano portato alla nostra crescita economica. Una cura difficile e che richiedeva probabilmente medici diversi da quelli all’epoca disponibili. L’alternativa consisteva nel rinunciare all’impresa pubblica e nel trasferire l’arduo compito al settore privato dell’economia. Beneduce e Mattei da un lato, Margaret Thatcher dall’altro.
Le privatizzazioni italiane non sono state altro che il tentativo di passare dal modello perduto Beneduce-Mattei a un più recente modello Thatcher, considerato di successo all’inizio degli anni 90. Si trattava di un passaggio legittimo, ma che tuttavia abbiamo maldestramente compiuto, scegliendo di non riprodurre il modello britannico in alcuni suoi caratteri che erano invece essenziali. Due in particolare: in primo luogo, realizzare liberalizzazioni serie, passare da monopoli pubblici alla concorrenza e a una seria regolazione dei mercati e non invece a monopoli privati maldestramente regolati o non regolati del tutto come le autostrade e gli aeroporti. In secondo luogo, l’adozione di un modello di public company a gestione manageriale e con azionariato diffuso e popolare e non la conservazione di un vetusto capitalismo familiare a carattere essenzialmente oligarchico.
Che il modello italiano precedente non potesse essere conservato così com’era lo dicevano le perdite crescenti degli enti pubblici delle partecipazioni statali. Senza ricordare casi disastrati come Efim ed Egam, è utile riportare qualche numero chiave dell’Iri. A metà anni 70 aveva un patrimonio netto di circa 2.500 miliardi di lire, costituito da 1.800 miliardi di fondo di dotazione e circa 700 di riserve derivanti da utili accantonati e sino al quel momento prevalentemente favorevoli. Da allora, e sino alla trasformazione da ente pubblico a società per azioni fatta in emergenza dal governo Amato nel 1992, è un continuo accumulo di perdite che richiedono continui adeguamenti del fondo di dotazione a copertura. Tra il 1976 e il 1992, l’Iri perde complessivamente 27 mila miliardi di lire e il fondo di dotazione viene incrementato a tappe per complessivi 24 mila miliardi. Non sufficienti, tanto che al momento della societarizzazione debbono essere aggiunti ulteriori 5.700 miliardi per evitare che la nuova società parta con un patrimonio netto negativo. Questo quadro è incompatibile con le regole europee sugli aiuti di Stato e incoerente con la sottoscrizione, sempre nel 1992, del Trattato di Maastricht, fondamento per la realizzazione della moneta unica e l’avvio di un indispensabile percorso di aggiustamento dei conti pubblici.
Si arriva così all’accordo Andreatta-Van Miert del 1993 che porta al progressivo ridimensionamento dell’Iri tramite le privatizzazioni e alla sua chiusura e liquidazione alla metà del 2000. Questo processo porta nelle casse dell’Iri introiti per complessivi 84 mila miliardi di lire tra privatizzazioni dirette e di secondo livello, cioè effettuate dalla holding controllante, i quali permettono un integrale rimborso dei consistenti debiti e inoltre il pagamento al Tesoro azionista di complessivi 25 mila miliardi tra il 1998 e il 2001 a titolo di liquidazione e dividendi. A tale cifra si aggiunge un patrimonio netto di oltre 9 mila miliardi delle partecipazioni residuali che al momento della liquidazione sono trasferite in proprietà al Tesoro. Sommando i due valori si ha un ordine di grandezza simile ai conferimenti complessivi effettuati dallo Stato a partire dalla metà degli anni 70, per cui si può sostenere che complessivamente il contribuente italiano non abbia perso nulla nel tempo come azionista involontario di questa grande avventura industriale.
Tuttavia se lo Stato come azionista dell’Iri non ha perso nulla e grazie all’Iri ha creato per decenni occupazione, crescita, sviluppo e incamerato imposte societarie e consistenti contributi sociali e imposte dai dipendenti (arrivati negli anni 80 a 550 mila persone), si può difficilmente sostenere che la sua chiusura sia stata un’operazione di successo per la collettività. Non potendo conservare uno strumento pubblico inefficiente le strade era solo due: o il ritorno all’efficienza della gestione pubblica, e dunque al modello Beneduce-Mattei, oppure il passaggio all’efficienza privata con l’adozione integrale e non parziale del modello Thatcher. Ma in questa seconda ipotesi, solo dopo aver ottenuto la concorrenza in un determinato mercato attraverso processi di liberalizzazione si sarebbe potuto privatizzare, evitando di trasformare monopoli pubblici in monopoli privati più pericolosi e incompatibili col benessere collettivo. Inoltre, i mercati a debole concorrenza dovevano essere sottoposti ad adeguata regolazione economica tramite appositi organismi indipendenti dalla politica.
Invece in Italia abbiamo scelto di privatizzare prima di liberalizzare, facendo quest’ultima cosa solo quando obbligati dalle norme comunitarie e dunque liberalizzando il meno possibile, il più tardi possibile e nel modo peggiore possibile. E al fine di poter fare opportunisticamente male le cose, non abbiamo neppure rispettato le stesse norme che ci siamo dati, senza peraltro prenderci cura di abrogarle. La legge 464 del 1994 prevedeva che non si potessero avviare processi di privatizzazione nelle public utilities prima della costituzione delle Autorità di regolazione indipendenti nei relativi settori. Eppure si è provveduto alla fine degli anni 90 a cedere il controllo tanto di Autostrade Iri quanto di Aeroporti di Roma senza la creazione dell’Autorità di regolazione dei trasporti, istituita solo a fine 2011 e operativa con evidente efficacia solo dal 2013. Inizialmente è stata inibita dall’occuparsi delle concessioni autostradali in essere e delle maggiori gestioni aeroportuali che beneficiano di contratti di programma in deroga: proprio i segmenti per i quali la sua attività doveva precedere ogni privatizzazione.
In questo modoabbiamo permesso che le gestioni meno rischiose in assoluto siano divenute anche quelle più remunerative, creando disincentivo all’assunzione del rischio da parte degli imprenditori. Se il massimo rendimento si ha gestendo un grande aeroporto, e in conseguenza si perde gestendo una compagnia aerea, chi mai vorrà rischiare soldi privati nella seconda? Negli anni 90 ci siamo incamminati dall’Italia di Beneduce e Mattei verso la Gran Bretagna di Margaret Thatcher, ma dobbiamo aver sbagliato strada deviando verso la Russia degli oligarchi.