Padre Nostro “Non abbandonarci”: un cambio lessicale ed ecumenico

 

Buongiorno, ho letto che dopo Pasqua sarà pubblicato il nuovo Messale con una diversa versione del Padre Nostro nell’ultima traduzione definita dalla Cei. L’adozione della nuova preghiera sarà ufficiale e obbligatoria a fine novembre: di diverso c’è il passo “non ci indurre in tentazione”, trasformato ora in “non ci abbandonare alla tentazione”. Spero di non apparire blasfema, ma mi sembra un restyling buonista, come se Dio avesse bisogno di essere scagionato da qualcosa: assurdo.

Sara Allievi

 

Gentile Sara, non sono un teologo e, dunque, le posso offrire solo alcune riflessioni molto personali. Come tutti, ho imparato a recitare il Padre Nostro da bambino e poi ho continuato a farlo da giovane: già nell’età della ragione, pertanto, e in un’epoca, quella della Chiesa del Concilio Vaticano II, quando credere era anche fare molta attenzione a come si pregava, alle parole che la tradizione ci chiedeva di ripetere e alla messa in discussione di abitudini, recite di formule e consuetudini che ci parevano imposte e/o anacronistiche. Quella dizione, “non ci indurre in tentazione”, mi appariva già allora contraddittoria (mi consenta: decisamente brutta), quasi che si intendesse attribuire a Dio il contrasto assurdo di volerlo vedere nel contempo anche in una versione demoniaca: quella dell’Angelo diventato Satana che ci tenta nei nostri deserti individuali. Il nuovo testo, “non abbandonarci alla tentazione”, dunque, mi pare oggi – nella Chiesa di Bergoglio molto più vicina a quel Concilio, dopo decenni di colpevole revisionismo – più consona all’immagine di un Dio davvero “Padre”. Un “cambiamento” lessicale che riflette poi anche un “cambiamento” ecumenico visto che molte Chiese cristiane, diverse da quella cattolica, da tempo hanno già adottato questa nuova formula del Padre Nostro. Così io non parlerei di “buonismo”, ma di un’evoluzione che interpreta il ruolo che davvero attribuiamo, se credenti, alla nostra fede in un Dio della misericordia e non della vendetta. Chi poi si intende di queste cose (ben più di me) si augura infine che, come sempre altre Chiese cristiane già fanno, presto alla conclusione del Padre Nostro si aggiungano queste parole: “Perché a te appartiene la gloria, nei secoli dei secoli”. Qualcosa che non è per nulla buonista, ma che invece celebra definitivamente la grandezza del Dio che questa preghiera invoca.

Ettore Boffano

La finanza verde e la montagna del sapone (verde anch’essa)

Da qualche tempo eravamo preoccupati: sì, c’è questa nuova coscienza ambientale, i giovani (e i genitori), le star del cinema, persino i giornali di editori che di mestiere vero fanno le automobili. Ci dicevamo: c’è tutta questa coscienza, ma chi ci salverà? Fortuna che ieri su La Stampa abbiamo trovato la risposta: il mercato. Ma non è che ci salverà e basta: “Ci sta già salvando”. Parola di Domenico Siniscalco, già direttore generale del Tesoro, poi ministro per un anno con Berlusconi, oggi alla banca d’affari Morgan Stanley. Dice: i governi non funzionano, fortuna “che è partita una ondata di consapevolezza finanziaria: i grandi fondi e banche emettono strumenti finanziari verdi, ancorati a risultati ambientali e anche a premiare i loro acquirenti”. Dice: “Tra qualche anno nessuno vorrà investire in aziende sporche”. Dice: “Gli asset puliti hanno superato i mille miliardi a livello globale”. Oh, ecco, questo volevamo sentire! E lasciateci dire che è un peccato che Morgan Stanley e le altre in tutti questi anni siano state impegnate, citando fior da fiore, a patteggiare indennizzi miliardari per le porcate sui mutui subprime o, e qui siamo a dicembre 2019, a farsi fare multe per aver maramaldeggiato sui titoli di Stato francesi durante la crisi greca del 2015. Vabbè, il passato è passato, ci sono tutti questi asset (autonominati) green su cui le grandi banche d’affari di sicuro non faranno scherzi perché ora c’è questa grossa “consapevolezza finanziaria”: d’altronde non vedete pure voi com’è verde la montagna del sapone?

Alle urne come al circo: se non rinnovi lo show il pubblico lascia la sala

C’è un piccolo paradosso conficcato nelle elezioni emiliane che hanno steso al tappeto il mangiasalsicce del Sacro Cuore di Maria. E il paradosso è questo: nelle elezioni locali più nazionali che si siano mai viste, le più politiche, le più ideologiche, se mi passate il termine un po’ impegnativo per la Borgonzoni, ha vinto alla fine chi ha “nazionalizzato” meno la sfida, chi ha parlato di cose sensate, possibili, concrete.

Osservate da fuori, da non emiliano-romagnolo, le forze in campo erano soverchianti in modo addirittura imbarazzante per copertura dei media (una citofonata di Salvini valeva come mille incontri pubblici di Bonaccini), questo al netto dei prevedibili leccaculismi e della piaggeria scoperta e manifesta, addirittura garrula ed entusiasta. In un Tg (?) Mediaset, un’intervista a Salvini si è conclusa con la richiesta di firmare il vetro della telecamera, come fanno i tennisti famosi a fine match, per dire. Aggiungerei il paradosso del candidato governatore impagliato, che sta appollaiato sulla spalla del capo come i pappagalli dei pirati.

Sia messo a verbale: l’Emilia-Romagna è caso particolarissimo, a sé, non può (e non deve) fornire indicazioni su tutto il resto del Paese. Però conferma una tendenza nazionale, o almeno la evidenzia: le narrazioni troppo spinte, lo storytelling estremo, la prevalenza della recita teatrale sul contenuto effettivo, pagano molto nell’immediato e poi poco, o pochissimo in prospettiva. È anche divertente seguire quello là che fa il digiuno, che citofona, cha fa colazione, pranzo, cena, che si traveste prima da poliziotto, poi da intellettuale con la giacca di velluto, le felpe, le ruspe, il mojito, la “liberazione” dell’Emilia-Romagna, coi bambini, senza bambini, con la bambina di Bibbiano che poi non è di Bibbiano, ma va bene lo stesso. Capisco bene il fascino del circo, quel momento di sospensione in cui ti chiedi: e ora entrerà l’elefante o il giocoliere monco? O il clown suonerà un citofono? Ecco, bene. Poi, però, quando devi decidere a chi dare in mano gli ospedali, per dire, voti Bonaccini e non quella che dice che chiudono di notte, il sabato e la domenica. In generale, insomma, trovo strabiliante non tanto che si equipari la politica allo spettacolo (una cosa vecchissima che ci ha insegnato per decenni nonno Silvio), ma che i politici pretendano di sfuggire alle leggi spietate del mondo dello spettacolo dove, almeno un pochino, bisogna essere credibili. Puoi inventare la storia che vuoi, se fai narrazione, ma deve almeno un po’ assomigliare al vero. L’immagine dell’Emilia-Romagna come una specie di periferia di Calcutta che Salvini e la destra hanno cavalcato per mesi non è credibile nemmeno per chi lì non c’è mai stato, è un’esagerazione grottesca, è un numero di cabaret, di quelli troppo reiterati, insistiti, sfilacciati dall’uso.

Insomma, Salvini, che era nuovissimo, a un certo punto è sembrato vecchio, già visto. Non è la prima volta che succede, come sa bene l’altro Matteo.

Sarebbe sconsideratamente ottimistico trarre qualche conclusione a livello nazionale dallo spettacolino emiliano (e dare per finito Salvini sarebbe l’errore più grave), ma il dato è abbastanza chiaro: personalizzare, trasformare un’elezione in un referendum, mettersi in primo piano con in mano il rosario o il cotechino, può funzionare la prima volta, forse la seconda, ma poi bisogna un po’ cambiare repertorio, come gli attori di telenovelas che a un certo punto si mettono a fare Beckett in teatro, e questo Salvini non lo potrà fare. Settantamila persone che lo avevano votato otto mesi fa questa volta non l’hanno fatto, e si capisce dunque la difficoltà del capopopolo che vede andarsene un po’ di popolo, pubblico che abbandona la sala, proprio mentre lui fa sforzi sovrumani, inventa nuovi numeri ed è al clou dello spettacolo.

Quando non c’erano le Sardine in piazza e votò appena il 37%

Correva l’anno 2014 (quattro governi fa, per dire) e l’Emilia-Romagna andava al voto. Anzi avrebbe dovuto. Si tennero regolari elezioni, certo. Vinte dal candidato del Pd, Stefano Bonaccini. La Lega volava oltre il 20 per cento, e Salvini esultava: “Risultato storico”. A questo giro c’è sempre Stefano Bonaccini vincente e Salvini perdente che ribadisce lo storico risultato. Cos’è cambiato? Non solo il segretario del Pd (allora Matteo Renzi, che era pure presidente del Consiglio). È cambiata l’affluenza alle urne: allora il 37 per cento, domenica il 66,7 per cento. Un successo straordinario? No, se consideriamo che quello di adesso è il dato più basso dopo quello (drammatico) del 2014. Commentando i dati dell’astensione Renzi ai tempi aveva minimizzato: “La non grande affluenza è un elemento che deve preoccupare. ma che è secondario”. Naturalmente non lo era affatto, e non basta a giustificazione del futuro leader di Italia Viva la constatazione (ovvia) che le elezioni le vince chi ha più voti. Non basta soprattutto pensando che allora Renzi era pure presidente del Consiglio e non c’è nulla che dovrebbe preoccupare di più il capo di un governo del disamore verso le istituzioni. La “non alta affluenza” era un’astensione di massa.

Quella del 2014 fu una vera e propria rivolta, in una regione che in un passato recente aveva portato a votare fino all’88 per cento degli aventi diritto. Se due elettori su tre preferiscono stare a casa vuol dire che la malattia della democrazia è grave. Poco importa chi vince. Il risultato di tre giorni fa non sancisce una guarigione, ma un miglioramento sì. Di cui bisogna dire grazie soprattutto alle Sardine, che hanno trovato la chiave per risvegliare la partecipazione, riportando i cittadini nelle piazze. Molto ha fatto anche Matteo Salvini che a forza di tirare la corda del razzismo ha terrorizzato gli elettori. Dunque ci sono gli errori di chi ha pensato di riproporre una caccia porta a porta all’immigrato, ma c’è anche l’intuizione delle Sardine. Certo, l’innesco è stato una reazione a questi metodi che vogliono passare per spicci e faciloni, in realtà sono evidentemente intimidatori. Le Sardine hanno riconsegnato a molti cittadini il desiderio di contare, di esserci, di dire la propria. Non è poco. Forse ha ragione chi dice che non bisogna porre loro domande a cui non sanno rispondere e a cui invece dovrebbe rispondere la politica. Le Sardine sono state fondamentali per il ruolo che hanno interpretato, per la funzione, come l’ha definita Stefano Bonaga, di rimettere in circolo il sentimento sopito della partecipazione. Un debito reso evidente dal fatto che dove la loro presenza è stata meno significativa, in Calabria, l’affluenza è passata dal 40 per cento al 44. Sono state l’abito di una rinnovata voglia di cittadinanza. Da un punto di vista identitario sono tutto e niente, al di là degli appelli all’educazione e alla moderazione del linguaggio. È il pericolo di chi si definisce esclusivamente in opposizione all’avversario: lo sa bene la sinistra che per vent’anni ha fatto finta di combattere Berlusconi (salvo poi guardarsi bene dal fare una seria legge sul conflitto d’interessi), dimenticando i propri valori (e abbandonando i propri elettori al loro destino). Saggiamente le Sardine si sono prese una pausa dai riflettori delle televisioni (che rischiano di cannibalizzarle a causa della loro fragilità contenutistica). La palla ora ripassa ai partiti della sinistra che dovrebbero tornare a essere autosufficienti almeno nella capacità di ristabilire le connessioni sentimentali evaporate. Non è detto che al prossimo giro ci sia l’ennesimo uomo nero contro cui mobilitarsi e le Sardine a salvarli dall’incapacità di parlare ai cittadini (o di dire qualcosa di sinistra).

La politica dei bonus resta un errore

Alzi la mano chi vuole più tasse e meno spesa pubblica. Come ovvio, tutti gli elettori preferiscono ricevere riduzioni del carico fiscale e migliore welfare e sanità pubblica, e i partiti quello promettono. Ma le risorse non sono infinite, anzi, in un Paese come l’Italia, con un debito pari a 1,3 volte la ricchezza che produce in un anno, sono decisamente scarse. L’estensione del bonus 80 euro a 4,3 milioni di italiani in più e il suo aumento fino a 100 per altri 16 milioni è un’ottima notizia se l’unico criterio di valutazione è il primo (volete meno tasse?), ma non ha alcun senso di politica economica.

I Cinque Stelle, nel programma elettorale del 2018, si dichiaravano contrari al bonus Irpef di 80 euro ai lavoratori dipendenti e promettevano di abolirlo e volevano anche riformare tutte le detrazioni da lavoro dipendente. Ora hanno cambiato idea, perché nessuno ama alzare le tasse quando è al potere. Ma le ragioni per opporsi a quella misura restano e aumentano nella versione proposta dal governo Conte2. Il nuovo bonus, sommato a quello Renzi del 2014, costerà circa 13 miliardi nel 2020 e 15-16 nel 2021. Sono tanti, tantissimi soldi, quasi il doppio del Reddito di cittadinanza destinato ai più poveri. Ma a chi va questo beneficio? Non certo ai più bisognosi, ma alla classe media, e neppure a investimenti utili a far ripartire il Paese. Quei soldi vanno a persone con un contratto di lavoro dipendente (un miraggio per disoccupati e partite Iva) e un reddito più che dignitoso.

Il 50 per cento dei contribuenti italiani che paga l’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, si colloca tra i 15 e i 50 mila euro annui lordi. Il bonus del governo Conte andrà a pioggia a contribuenti che dichiarano fino a 40 mila euro. Non sono redditi da nababbi, certo, ma la Regione più ricca d’Italia, la Lombardia, ha un reddito medio Irpef di 24.720 euro. Quindi il bonus del governo Conte va a persone che, per gli standard italiani, se la passano discretamente, soprattutto se vivono al Sud dove il potere d’acquisto è maggiore. Mentre, ancora una volta, esclude gli incapienti, quelli che non arrivano a dichiarare un reddito annuo di 8.200 euro. Persone troppo “ricche” per ricevere il reddito di cittadinanza e troppo povere per il bonus Irpef.

È una misura equa? Decisamente no, e i 5Stelle di cinque anni fa avrebbero protestato per una simile scelta che vincola miliardi da qui all’eternità (è una misura strutturale) e conferma che nessun governo ha il coraggio di revocare le elargizioni decise da quello precedente. Perfino la riforma più iniqua, Quota 100, è stata confermata.

Per quanto iniqua, è almeno una misura efficace? Quasi certamente no, anche se per il governo conta solo dare il messaggio che le tasse scendono. Sappiamo che soltanto metà degli 80 euro è stata spesa in consumi, ma studi definitivi sulla loro efficacia non ce ne sono. Uno dei problemi ancora da approfondire, per esempio, è se le imprese abbiano adattato le retribuzioni pagate a chi è vicino alle soglie che fanno scattare la riduzione del bonus. Al lavoratore può convenire ricevere uno stipendio più basso dall’impresa se il benefit fiscale è maggiore di quanto perde. E così i soldi pubblici vanno a sussidiare le aziende invece che i dipendenti.

I beneficiari dei 100 euro sono persone che possono anche permettersi di risparmiare, quindi non immetteranno tutte le risorse nell’economia, mentre contribuenti più poveri avrebbero avuto una maggiore propensione al consumo. Ma di risparmio in giro ce n’è fin troppo, in una stagione di tassi a zero o negativi il problema è trovare i rendimenti, e non capitali da investire. Inoltre il governo ha scelto un approccio che riduce l’impatto potenziale: ha fissato i criteri per l’erogazione del bonus per il 2020 ma non per il 2021, in attesa di una fantomatica riforma dell’Irpef, così da aumentare l’incertezza e rendere ancora più difficile che il ridotto carico fiscale faccia aumentare i consumi. Questa incertezza renderà minimo anche l’effetto sul consenso al governo: nessuno si fida di misure temporanee. Le risorse sono stanziate in modo permanente, ma i criteri per erogarle sono transitori: costi sicuri, ma benefici incerti.

Questa ennesima mancia costa al bilancio pubblico tre volte la spesa per l’accoglienza dei migranti (circa 5 miliardi all’anno) o due volte il reddito di cittadinanza. La sola quota 2020 vale più di quei 3 miliardi per la ricerca impossibili da trovare (ecco dov’erano finiti) e che hanno portato alle dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti.

Il bonus da 80 euro e la sua nuova versione da 100 euro si aggiungono al lungo elenco degli orrori di politica economica che hanno contribuito a devastare i conti pubblici italiani e a condannare il Paese a una stagnazione ormai senza ritorno pur di dare qualche contentino immediato agli elettori.

Capire la “Bestia” e poi evitarla

Le recenti elezioni in Emilia-Romagna ci offrono uno spunto di riflessione su un tema che travalica i confini regionali e nazionali: la comunicazione politica ai tempi del digitale.

La forte campagna mediatica condotta a colpi di tweet e di like sui social, basti pensare all’episodio “del citofono” che ha visto coinvolto Matteo Salvini, non ha prodotto i risultati sperati.

L’esito elettorale fa riflettere rispetto a una correlazione che davamo per scontata: l’utilizzo massivo di fake news nella campagna elettorale e la vittoria delle elezioni. Ecco che la sconfitta della Lega desta sorpresa.

Se è opinione generale che le ultime elezioni presidenziali americane siano state vinte da Donald Trump proprio per l’uso massiccio di informazione distorta bisogna comprendere come mai questa volta non abbia funzionato.

Prima del 2016 nessuno parlava di fake news. Il termine non esisteva: né in ambiente accademico né nei dibattiti pubblici. Questa circostanza riflette la peculiarità della situazione attuale. Nonostante ormai si parli di fake news quotidianamente e siano state spesso al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, non hanno ricevuto la medesima attenzione da parte degli specialisti. È necessario quindi riflettere sul tema per tentare di definirne la storia e le caratteristiche peculiari.

Prima della celebre coniazione di Sharyl Attkisson, giornalista d’inchiesta americana, ciò che ora ha un termine proprio veniva semplicemente chiamato nella letteratura sociologica disinformation o misinformation.

Ogni fase storica ha visto l’utilizzo frequente della propaganda, basti pensare all’uso che è stato fatto di strategie persuasive di comunicazione nel secolo scorso. Quindi che cosa è cambiato? Come mai un fenomeno tanto legato alla stampa quanto al digitale ha assunto i caratteri omnipervasivi delle fake news?

L’avvento dei social coinvolge la modalità di comunicazione politica, i rapporti tra cittadini e leader, tra rappresentanti e rappresentati, tra produttori e consumatori di notizie.

La nozione di fake news non rappresenta solo il tipo di contenuto, quello “mendace”, ma coinvolge la modalità in cui il contenuto è veicolato. Se infatti la propaganda esiste “da sempre” le potenzialità del digitale ne hanno aumentato la portata. L’estensione globale dell’informazione, la velocità nella trasmissione e la mancanza di intermediari che possano fungere da garanti hanno messo in discussione la nostra stessa capacità di distinguere le bufale dalle notizie vere.

Per rispondere alla gravità di questa circostanza sono state fornite diverse soluzioni al problema: basti pensare alla controversa legge anti-fake news di Singapore o alla recente legge francese, approvata definitivamente il 20 novembre 2018, che prevede che sia un giudice, su richiesta dei candidati alle elezioni, a stabilire se una notizia sia vera o falsa, provando così a ridare allo stato il potere sulla legittimità dell’informazione. Se esistono le leggi è tuttavia quasi impossibile applicarle.

Da un lato la diffusione di notizie si estende globalmente e attraversa paesi con legislazioni differenti, dall’altro la diramazione di queste informazioni impedisce di imputare a un singolo la responsabilità dell’emissione. Stessa sorte hanno le soluzioni proposte dai gestori di piattaforme: né i moderatori né i meccanismi di riconoscimento algoritmici sono stati in grado di impedire la diffusione in diretta del massacro di Christchurch, l’attacco in Nuova Zelanda a due moschee che ha portato alla morte di 49 persone.

L’inefficienza di queste soluzioni risiede nella modalità di risposta a questo fenomeno: politici, esperti, specialisti del settore si sono sempre interessati al lato dell’offerta di fake news: di chi le produce, le diffonde e con quali scopi. Tuttavia se risulta impossibile regolamentare questo fenomeno data la sua complessità è necessario rivolgersi al lato della domanda.

Perché oggi è sempre più diffuso il bisogno da parte degli utenti non solo di consumare fake news ma di crederci ciecamente?

È interessante notare allora che più che un’eccezione o un caso fortuito, la ragione della nostra propensione a credere in queste notizie risiede nel modo del nostro cervello di interpretare le informazioni. Di fronte a problemi cognitivi complessi il nostro cervello adotta shortcuts, scorciatoie euristiche, che ci permettono di fare inferenze sulla probabilità che uno stimolo appartenga a una determinata categoria. Di fronte a una notizia complessa adottiamo allora meccanismi di semplificazione: dopo una lettura superficiale interpretiamo il contenuto del messaggio sulla base dei nostri schemi precedenti senza verificare ogni volta nel dettaglio la veridicità della fonte.

Nel mondo digitale in cui siamo bombardati di notizie e in cui il rischio di “sovraccarico” è reale preferiamo affidarci a messaggi che fanno appello alle nostre emozioni piuttosto che quelle che veicolano un contenuto complesso. È così che invece di analizzare razionalmente il contenuto di un messaggio leggiamo solo notizie che confermano ciò in cui crediamo.

Ecco perché molti politici populisti non provano a trasmettere informazioni razionali, ma favole caricate emotivamente, al fine di lasciare un’impressione duratura ai destinatari.

Allora come mai queste elezioni sono andate diversamente da quello che ci aspettavamo?

Non è ancora chiaro come una fake news possa influenzare il risultato elettorale, è tuttavia evidente che la comunicazione politica veicolata attraverso messaggi emozionali è efficace.

L’unico modo per evitare che influenzi la nostra vita è allora reimparare a dare un peso a ciò che leggiamo, nella consapevolezza che un’educazione allo spirito critico è l’unica soluzione possibile.

San Bonaccini vale 400 milioni (per ora)

In attesa che i muti possano parlare (mentre, com’è noto, i sordi già lo fanno), San Stefano Bonaccini da Modena ha già iniziato a fare dei piccoli miracoli. Uno, non piccolo, lo ha fatto ridando un minimo di pace al ceto dirigente del Pd, preoccupato da un po’ di tempo di dover lavorare per vivere: c’è ancora speranza, dice San Stefano, agli scoraggiati e a quelli sprovveduti persino di vitalizio. C’è vita nell’urna, almeno in Emilia-Romagna (in Calabria, com’è noto, un po’ meno: giusto un po’ il sabato sera). Il vero miracolo del Beato Bonaccini, che iniziò predicando la pace e lo sport a Campogalliano, lo ha enunciato nel pomeriggio di ieri Roberto Gualtieri, il ministro dell’Economia e candidato alle Suppletive a Roma nel collegio (del centro storico) lasciato libero dal conte Paolo Gentiloni: “Ho mandato un sms a Bonaccini con la foto del monitor che ho sulla mia scrivania: in soli due giorni, per effetto del voto in Emilia-Romagna, lo spread è sceso di 20 punti. Ho fatto calcolare dai miei tecnici che questo produrrà 400 milioni di risparmi quest’anno, 1,2 miliardi nel 2021 e oltre 2 miliardi nel 2022”. Non solo Bonaccini abbassa lo spread a mani nude, ma – contando col pallottoliere di Gualtieri – con 20 puntarelli ti fa risparmiare qualche miliardo: anche questa matematica dello spread, così diversa da quella reale, dev’essere un miracolo.

Ora Bonaccini cambi musica: basta con l’asfalto e il cemento

Quale governo dell’Emilia-Romagna ora che è passata la grande paura di una destra ormai estrema insediata nella regione-madre del riformismo di sinistra e dell’associazionismo laico e cattolico? Quale governo del Paese ora che è passata la grande paura della spallata di una destra in cui Matteo Salvini gareggia con una Giorgia Meloni che si è gettata alle spalle tutto il faticosissimo lavoro compiuto da Gianfranco Fini per staccare completamente Alleanza Nazionale dal fascismo “male assoluto”, sdoganando al contrario Forza Nuova e CasaPound con Salvini che incoraggia e approva?

Qui bisogna ragionare sulle attese dei giovani, degli astensionisti “usciti dal bosco”, del vasto ed entusiasmante movimento delle Sardine che, in nome dell’antifascismo e della democrazia di base, ha dato una scossa formidabile ai rassegnati, ai frustrati, ai silenti, richiamandoli al voto e a linguaggi civili, pacati, netti, ma di confronto e non di odio, né di scontro incivile.

Fra questi semi grandeggia quello dell’ambiente e su questo punto soprattutto, la Pianura Padana (la zona europea più inquinata) e quindi l’Emilia-Romagna, hanno bisogno di una svolta politica. Stefano Bonaccini ha vinto bene, però in questo campo fondamentale, diciamolo ora che ha vinto, non poteva vantare granché (a differenza dell’assistenza, dell’accoglienza, della rete sanitaria e sociale). Né lo stesso Partito democratico, a livello nazionale, deficitario.

Diciamolo con chiarezza dopo la vittoria: la regione è con Veneto e Lombardia quella che consuma più suolo agricolo o boschivo cementificando e asfaltando (vedi tabelle). Il dissesto ha raggiunto, in una pianura completamente disboscata, livelli allarmanti con sprofondamenti di terreni anche di un metro e mezzo, un vero scasso.

La diffusione scriteriata di pozzi artesiani privati col pompaggio di miliardi di litri d’acqua di falda e di pozzi metaniferi privati hanno abbassato talmente i terreni che, in una ricerca presentata nel 1991 ai Lincei (e dico poco) un esperto affacciava il timore che questo facilitasse quanto purtroppo è accaduto nel 2012: il forte terremoto nella pianura fra Bologna e Ferrara (città semidistrutta nel lontano 1570). Quella pianura “pelata” fu riforestata (non solo rimboschita) attorno alle città.

La Regione Emilia-Romagna e i suoi maggiori Comuni, in specie Bologna, erano all’avanguardia in Europa col piano Cervallati-Fanti per il recupero e il restauro delle città storiche a uso dei residenti. Con grandi risultati. Fu anche una delle prime quattro a dotarsi ai tempi della legge Galasso (1985) del previsto Piano paesaggistico. Non è più così: la città storica è minacciata da inserimenti “moderni”, la stessa ricostruzione post-terremoto dell’antico è assai poco “filologica”.

Il piano paesaggistico prescritto, in uno col MiBact, dal codice Rutelli/Settis del 2008 (!) non è stato ancora approvato. La legge urbanistica regionale prevede un incremento del consumo di suolo del 3 per cento il che vuol dire che di sola urbanizzazione Ferrara, Ravenna, Parma, Reggio Emilia, Modena potrebbero ampliarsi di due chilometri quadrati ciascuna, escluse però infrastrutture e complessi industriali, e ti saluto il 3 per cento. Saremmo di nuovo all’attuale maxi-sfruttamento.

“Alla tutela e riqualificazione dei centri storici e del patrimonio edilizio nazionale di interesse culturale” protesta Italia Nostra, “non è dedicato neppure un articolo”. Di peggio: essa “vieta perentoriamente ai Comuni di stabilire la capacità edificatoria e di dettagliare i parametri urbanistici ed edilizi”. Siamo alla più solare “urbanistica contrattata” coi privati, siamo allo smantellamento degli standard urbanistici fissati dalla legge Achilli del 1968 (tot mq. di asili e scuole, ecc). Arretramenti che per una parte esautorano i Comuni e per l’altra “rendono incontrollabili le scelte dei più forti interessi immobiliari privati”. Italia Nostra ha fatto ricorso contro quella legge a dir poco disastrosa, ma l’istanza è stata respinta.

L’Emilia-Romagna, attraversata dal Po e dagli affluenti torrentizi di destra, è spesso oggetto di alluvioni anche gravi. Segno che qualcosa di grosso non funziona a monte e a valle.

Ai tempi dell’Autosole e di altre grandi arterie, va detto, gli alvei furono saccheggiati di sabbia e ghiaia selvaggiamente, con profitti privati da capogiro. Ma anche in anni recenti (vedi tabella) siamo qui su 4 milioni di metri cubi di inerti scavati all’anno, rendendo più veloci le piene. Problema nazionale questo, ovviamente.

Tutti problemi nazionali, quindi del Pd e dei 5Stelle: “ricostruzione” pluriennale idrogeologica del suolo, demolizione degli abusi edilizi negli alvei e nelle golene, legge nazionale di tutela delle città storiche, legge-quadro urbanistica fondata sull’interesse generale e non sulla contrattazione, rilancio dei Parchi e foreste (anche urbane in pianura, attorno alle città). E qui casca l’asino della legge Sfasciaparchi Caleo avversatissima dai naturalisti ed ecologisti e caldeggiata dal Pd che, vistala bloccata, l’ha subito ripresentata (Serracchiani). Si vuole essere alternativi a Salvini-Meloni-Berlusconi (e pure Renzi talora), notoriamente contro le Soprintendenze, contro leggi urbanistiche ispirate all’interesse generale, contro i piani paesaggistici e i Parchi che non siano luna-park. Cosa vogliono fare a livello nazionale?

“Lei spaccia?”, via il video. Si muove la Privacy

Il Garante della Privacy ha già aperto un fascicolo. Perché la citofonata fatta da Matteo Salvini a casa di Yassin, il diciassettenne che vive con la sua famiglia al Pilastro di Bologna, per chiedergli se fosse uno spacciatore, è finita sotto la lente di ingrandimento dell’Autorità guidata da Antonello Soro dove sono giunte nei giorni scorsi alcune segnalazioni: sull’episodio che ha per protagonista l’ex ministro dell’Interno verrà presentato sempre al Garante anche un reclamo, una denuncia più circostanziata rispetto alla segnalazione, da parte del diretto interessato tramite il suo avvocato.

Le polemiche per il gesto compiuto e poi rivendicato da Salvini nel corso di una campagna elettorale letteralmente condotta “casa per casa” in Emilia-Romagna, non sono dunque destinate a cessare. Anche perché chiama in causa i social, ma anche il codice: Facebook ha rimosso sulla pagina di Salvini il video che lo immortala al citofono dopo la segnalazione da parte del diciassettenne stesso per violazione della privacy e di numerosi utenti per incitamento all’odio. Sicuramente ha violato le regole della community che proibiscono la pubblicazione di informazioni personali o riservate.

Per l’avvocato di Yassin, Cathy La Torre, la rimozione del “video della vergogna” è “una prima vittoria. Agiremo per via civile e per chiedere il risarcimento di tutti che riteniamo i diritti lesi del ragazzo: la reputazione, la privacy, la sua dignità, la sua riservatezza. I diritti di base definiti dall’articolo 10 del codice civile più i diritti fondamentali descritti dal nuovo codice della privacy, in particolare gli articoli 6, 9 e 13”.

Poi ci sono anche gli eventuali profili penali, anche se ad oggi non risultano avviati accertamenti da parte della Procura di Bologna. È un fatto che l’iniziativa di Salvini ha suscitato profonda inquietudine, anche tra i giuristi. Come Roberto Bartoli professore ordinario di diritto penale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Firenze che la mette così: “Si è trattato di un’iniziativa molto invasiva e condotta nei confronti di persone sprovviste di qualsiasi forma di difesa. Quel che inquieta è che attraverso modalità nuove si realizzino cose che ricordano un passato amaro”. Ma non solo “vengono in rilievo profili che attengono alla privacy, ma pure alla possibile configurabilità del reato di diffamazione: la citofonata immortalata nel video, non ha scriminanti di alcun tipo come avviene quando si invoca il diritto di critica o di satira. Si tratta di comportamenti che si fa fatica a catalogare come espressioni della libera manifestazione del pensiero e che peraltro, potenzialmente, possono anche produrre un effetto emulativo. Questo a tacere della più ampia problematica del- l’uso dei social utilizzati e utilizzabili come un carro armato contro le persone che ne diventano bersaglio”.

La citofonata apre un fronte nuovo della propaganda politica e pone una serie di interrogativi che chiamo in causa anche il codice: comportamenti al limite anche della calunnia. Spiega Daniele Vicoli, professore di Diritto processuale penale all’Università di Bologna: “Non è lampante la configurabilità dell’uno o dell’altro reato. Ma se è vero che la calunnia prevede che l’attribuzione di una responsabilità (nel caso in questione Salvini ha chiesto al suo interlocutore se spacciasse, ndr) deve essere rivolta all’autorità giudiziaria, mi pare di aver compreso che l’azione in questione si sarebbe svolta alla presenza di agenti della scorta di Salvini che, secondo quanto previsto dal codice, hanno l’obbligo di riferirne all’autorità in questione. Qui potrebbe essere potenzialmente contestata anche l’omessa denuncia”.

I leghisti toscani a Salvini: “Qui però niente citofono”

No, il citofono no. Almeno non qui in Toscana. Dopo la sconfitta di domenica in Emilia-Romagna, nella Lega toscana sta crescendo l’insofferenza – un leghista d’antan la chiama proprio “ribellione” – per la strategia elettorale di Matteo Salvini, dopo quella della vicina roccaforte rossa. La scenetta del citofono al presunto spacciatore e lo sberleffo nei confronti del ragazzo dislessico che lo contestava insieme alle sardine bolognesi, non sono per niente piaciute a molti dirigenti toscani del Carroccio. Tant’è che qualcuno spera anche che Salvini venga il meno possibile a fare campagna elettorale in Toscana per le Regionali previste in primavera.

Venerdì sera, alla vigilia del voto in Emilia, nella sede della Lega di Sesto Fiorentino il segretario regionale Daniele Belotti ha avvertito parlamentari, consiglieri regionali e sindaci del Carroccio: “Guardate che Matteo in Toscana non verrà a fare più di cento comizi al mese – ha ammonito il deputato bergamasco –, a maggio si vota anche in Veneto, Puglia, Liguria, Marche e Campania. Quindi non potrà essere così presente…”. Chi ha partecipato al direttivo regionale racconta che da parte dei big della Lega non c’è stata alcuna reazione. Solo silenzio. Poi ieri mattina, a sconfitta emiliana acquisita, l’analisi è stata più facile del previsto: “In Emilia abbiamo perso perché Salvini ha esasperato i toni non riuscendo a intercettare il voto moderato e adesso rischiamo di ripetere lo stesso errore anche qui in Toscana – spiega al Fatto un esponente del Carroccio – molti sono contenti che a maggio il segretario non potrà essere ubiquo e verrà qui solo il minimo indispensabile”. Opinione che si ritrova anche nelle chat interne: “Non viene in Toscana? Meno male…” è stato il messaggio più critico nei confronti del leader. Qualcuno, perfidamente, ha parafrasato il motto degli antifascisti durante la guerra civile spagnola: “Oggi in Emilia, domani in Toscana?” dice un parlamentare leghista, temendo la doppia sconfitta nelle regioni “rosse”.

Oltre ai dissidi interni alla Lega, la strategia elettorale di Salvini non è piaciuta nemmeno agli alleati di Forza Italia e Fratelli d’Italia che nei prossimi giorni si siederanno a un tavolo per decidere il candidato del centrodestra in Toscana: “Le scelte strategiche non hanno pagato – dice il coordinatore regionale di FI Stefano Mugnai – non facciamo di nuovo l’errore di spaventare l’elettorato”. Opinione simile del fiorentino Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia: “In Toscana faremo sicuramente più squadra e lavoreremo insieme alla campagna elettorale – dice al Fatto – sulla scena del citofono, condivido quanto ha detto Giorgia Meloni: non l’avrei fatta”.

Le liti interne alla coalizione avranno un peso anche sulla scelta del candidato con Fratelli d’Italia e Forza Italia che stanno provando a convincere il Carroccio a candidare un leghista atipico: moderato e magari civico. E nella Lega raccontano che, già prima della sconfitta in Emilia, a sussurrare a Salvini sul candidato da scegliere in Toscana fosse una “leghista” d’eccezione: la compagna Francesca Verdini. Quest’ultima avrebbe grosse perplessità sul nome dell’ex sindaca di Cascina (Pisa) e oggi europarlamentare Susanna Ceccardi, considerata una “estremista” troppo simile alla perdente Lucia Borgonzoni. E per questo Salvini ha deciso di spostare la sua attenzione su altri nomi, più civici: il giornalista Mediaset Paolo Del Debbio (che però ha rifiutato più volte), la costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni o i sindaci di Pistoia Alessandro Tomasi e di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna. Ieri a Firenze c’è stato il primo incontro tra i coordinatori regionali del centrodestra. Il nome uscirà presto. Francesca Verdini permettendo.