Slalom Pd, tra pressing su Bonafede e stop a Iv

Vertici, riunioni di gruppo, confronti continui tra i due referenti “tecnici” del dossier prescrizione (Alfredo Bazioli per il Pd e Lucia Annibali per Italia Viva): la giornata di ieri a Montecitorio è piuttosto agitata. Ma alla fine la prima prova della maggioranza dopo le elezioni in Emilia-Romagna, il voto sulla proposta Costa per abrogare la norma Bonafede che cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, si risolve con il rinvio in Commissione: il Pd manda la palla in tribuna e Italia viva si astiene. Zingaretti ha dato un’indicazione precisa: non infierire sulla crisi M5S, non attaccare, non esacerbare il conflitto. Il gioco dei dem, dunque, è quello di disinnescare la “bomba” azionata dal deputato di FI, senza però smettere di far pressione sul Guardasigilli, Alfonso Bonafede per ottenere una mediazione ulteriore rispetto al lodo Conte (che distingue tra condannati e assolti in primo grado).

Il nervosismo inizia a salire lunedì pomeriggio. Martedì è prevista la relazione del ministro della Giustizia alle Camere. Senza nessun vertice preventivo e preparatorio. E allora è il Pd a far notare a Bonafede che non è possibile arrivare in Aula su un tema delicato come la giustizia, senza previo confronto. La riunione a Palazzo Chigi fotografa l’impasse. Il Pd pensa all’opzione rinvio, proposta da Leu: i voti segreti in Aula sono un rischio per un partito che, nel merito, è più vicino a Costa che a Bonafede. Iv non è d’accordo. D’altra parte, Matteo Renzi si trova nella difficile posizione di dover elaborare una strategia: in caso di sconfitta di Bonaccini era pronto a cannoneggiare la maggioranza. In questo nuovo contesto non sa che ruolo giocare. “Il Pd voti la proposta Costa, altrimenti c’è il lodo Annibali”, minaccia in mattinata. Si tratta di uno stop alla norma Bonafede, contenuta in un emendamento al Milleproroghe, che va al voto in Commissione la prossima settimana. Maria Elena Boschi interviene alla manifestazione dei penalisti in piazza Montecitorio: “Sulla prescrizione non faremo passi indietro”. Il Pd riunisce il gruppo. Relazione di apertura di Bazoli che spiega lo stato dell’arte e le motivazioni del rinvio. I dem puntano a lavorare sulla modifica dei tempi dei processi. Intanto, Enza Bruno Bossio dichiara di essere pronta a votare con il centrodestra. Gli orlandiani si schierano per sostenere M5S sul no alla proposta Costa. Ma i più esprimono prudenza. Il timore di spaccarsi è troppo. Alla fine chiude Graziano Delrio, con questa indicazione.

Nel frattempo Iv fa la sua riunione. Escono insieme la Boschi e la Annibali. È quest’ultima a comunicare a Bazoli che Iv alla fine ha deciso per l’astensione.

Tutto rimandato, la trattativa è in corso. Nel frattempo, i dem cercano una strategia per gestire questa fase. Il segretario continua a pensare a un congresso. Magari senza candidati in primavera. Ma potrebbe anche slittare alla fine del 2020. Intanto, la minoranza di Base riformista si chiede che fine abbia fatto la segreteria unitaria. La pax potrebbe non durare a lungo. Renzi in serata provoca: “Il Pd la settimana prossima voti il lodo Annibali”. Non la spunterà. Lo attacca su Facebook il coordinatore di Br, Alessandro Alfieri, fedelissimo di Guerini, dopo il suo tentativo di minimizzare il ruolo del Pd in Emilia: “Non avendo presentato la lista di Iv o candidati riconoscibili, da Renzi sarebbe almeno auspicabile l’onestà intellettuale di riconoscere che il Pd è stato decisivo”. Ex amici sempre più distanti.

I giallorosa evitano il primo scoglio sulla prescrizione

Uno spettro si è aggirato ieri nell’Aula di Montecitorio, quello della prescrizione, la solita bestia nera della maggioranza per le barricate di Italia Viva e le mosse di traverso del Pd. Ed ecco che la relazione annuale del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, all’indomani della batosta elettorale del M5s alle Regionali, è quasi surreale. Il ministro non rivendica la sua legge in vigore, che blocca la prescrizione dopo il primo grado. Punta tutto sulla “spazzacorrotti”, sul giro di vite per il voto di scambio, sulla class action o sul codice rosso e revenge porn. Si concentra sul “cantiere aperto” in materia di riforma del processo penale che garantirà ai cittadini un processo giusto e celere. Ed è così che ottiene il voto favorevole di tutta la maggioranza, compresa Italia Viva (309 sì e 200 no).

Era l’accordo raggiunto in una riunione informale di lunedì sera. Il partito di Renzi, però, minaccia ancora di votare in aula il ddl Costa , che cancella la Bonafede, ma nel pomeriggio concede di non partecipare al voto sul ritorno in commissione Giustizia della proposta di legge, che passa con 72 voti di scarto. Lucia Annibali, riconosce al ministro la volontà di trattare e, però, prova a dettare il tempo massimo di mediazione secondo Renzi: 10 giorni, quelli che mancano al via libera al decreto Milleproroghe. Lì, Annibali ha depositato un emendamento, che per diversi parlamentari è inammissibile, che chiede il congelamento della riforma Bonafede della prescrizione per un anno.

Il ritorno in commissione del testo proposto da Forza Italia è stato votato per evitare, soprattutto nei voti segreti, che la maggioranza si spaccasse. Quindi, ora, si ricomincia coi vertici e la ricerca, l’ennesima, di un compromesso sulla prescrizione: il cosiddetto “lodo Conte” ingoiato dal M5S pare non bastare più. Per Italia Viva è troppo poco e per il Pd, forte della vittoria in Emilia Romagna, c’è spazio per ottenere ancora di più. Prende quota, dunque, il “lodo Conte 2”: resta il congelamento dei tempi di prescrizione per i condannati in primo grado, che invece correranno per gli assolti non solo in primo grado (lodo numero 1), ma anche in appello (lodo numero 2).

Per dare il senso di quanto la maggioranza sia impantanata sul fronte giustizia basta un accenno a quanto accaduto in Aula e fuori. Mentre il ministro Bonafede parlava alla Camera, su Radio Capital Matteo Renzi, neanche fosse lui il vincitore delle regionali, dettava le condizioni per non votare il ddl Costa a Montecitorio: “Bisogna rispettare i numeri dei 5 Stelle alle Camere, ma non ci inchiniamo alla cultura populista”. La via d’uscita dell’ex premier è l’ennesimo lodo: “C’è il lodo Annibali”, dice, cioè l’emendamento al Milleproroghe che sospende la riforma della prescrizione per un anno. Fuori da Montecitorio i penalisti protestano, al loro fianco Maria Elena Boschi: “È una battaglia di civiltà”. Il Guardasigilli in Aula sulla prescrizione non rivendica nulla, si limita a dire quello che è sotto gli occhi di tutti: “Ci sono divergenze nella maggioranza, c’è un confronto serrato e leale”. Un sassolino dalla scarpa, però, se lo toglie ed è quello sulla strumentalizzazione della sua frase in tv – “gli innocenti non vanno in galera” – riferita a chi è stato assolto non certo a chi condannato per errore: “È la prima volta che il ministero della Giustizia predispone, in modo strutturale, un capillare monitoraggio sulle ingiuste detenzioni”.

Dopo il Guardasigilli, come detto, alla Camera è la volta del ddl Costa, proposta che in commissione Giustizia era stata votata anche da Italia Viva. In apertura della seduta, per chiederne il ritorno in commissione, la maggioranza manda avanti Federico Conte di LeU: per trovare un accordo “ci manca un ultimo miglio e un rinvio potrebbe darci la possibilità di percorrerlo”. Il padre del ddl, Enrico Costa, provoca: “Fatela voi del M5S e del Pd la richiesta di rinvio, non LeU”. Interviene il dem Walter Verini: “È vero, non ci piace quella riforma della prescrizione e stiamo lavorando per modificarla. Siamo contro il giustizialismo forcaiolo, ma anche contro il garantismo a corrente alternata”. La paura delle urne, però, adesso potrebbe far diventare possibile un’intesa.

“Il Pd non può far tutto da solo, per vincere ha bisogno dei 5S”

Sostiene Massimo D’Alema: “Nel centrosinistra c’è chi pensa che i voti del M5S in crisi possano essere assorbiti dal Pd, da un lato, e dalla Lega dall’altro. Ma io non credo realizzabile questa ipotesi, basata su una visione troppo semplicistica della realtà. L’Emilia-Romagna non è l’Italia, diciamo. Il Pd da solo contro tutti farebbe nascere solamente un bipolarismo zoppo”.

L’ex presidente del Consiglio, oggi “semplice militante” della sinistra, accetta di parlare a due giorni dal voto che ha premiato Stefano Bonaccini nell’antica roccaforte rossa d’Italia. E la questione che più lo preoccupa è il futuro dei Cinque Stelle, che vivono una drammatica fase di transizione.

L’Emilia non è l’Italia, lei dice.

Diciamo le cose come stanno: dobbiamo abituarci a misurare i risultati elettorali in rapporto all’offerta politica. È una lettura che non mi piace ma è la chiave della mobilità del voto di oggi. E l’offerta dei 5Stelle in Emilia-Romagna è stata nulla, puramente testimoniale.

Dopo l’esperimento civico in Umbria col Pd, i 5S si sono lacerati sulla prospettiva delle alleanze, in questo caso con il centrosinistra. E adesso hanno il bivio decisivo degli Stati generali di marzo.

Dovrebbero riflettere sul fatto che gli schieramenti ideologici esistono e sono legittimi e che la loro analisi sovrastrutturale è fragile.

Hanno preso però il 32 per cento alle Politiche 2018 in questo modo.

L’idea vincente della crisi del vecchio bipolarismo è stato un fatto congiunturale. Ha funzionato fin tanto che a rappresentarlo c’erano Renzi e Berlusconi. Ma oggi Salvini ha rilanciato su basi nuove e preoccupanti la destra e intorno al Pd si sta ricostruendo un polo progressista. La mia convinzione è che la distinzione destra-sinistra sia più che mai vitale, non più soltanto come la intendeva Noberto Bobbio, ma anche come battaglia per un nuovo tipo di sviluppo ecosostenibile e per una società più umana. Uno vede Trump e capisce cos’è la destra oggi nel mondo.

Trump contro Greta.

È la destra che nega persino l’esistenza del cambiamento climatico, che alimenta la paura, il nazionalismo, l’etnocentrismo, il razzismo.

Il M5S ha governato con questa destra.

Sì, ma dovrebbero cercare di capire perché quel governo è caduto. A mio giudizio perché è emersa una sostanziale incompatibilità e non per un capriccio estivo di Salvini. È stata un’esperienza che ha aperto una ferita nel loro elettorato.

Ferita per certi versi ancora aperta.

Non hanno mai fatto un’analisi approfondita della crisi gialloverde. La sfida per la classe dirigente del Movimento è quella di collocarlo nel nuovo scenario senza disperdere la carica innovativa che ha saputo portare nel panorama politico italiano.

Il premier Conte ha invocato un fronte contro le destre.

Conte mi sembra il più lucido perché vede e sente questa prospettiva destra-sinistra.

In ogni caso lei non dà i grillini per morti.

Non sarebbe un fatto positivo la scomparsa dei 5Stelle. Ma dalla crisi possono uscire soltanto attraverso una coraggiosa operazione culturale e politica.

Un populismo riformista e gentile.

Il successo elettorale dei 5Stelle è nato da un messaggio contro i privilegi e di solidarietà verso i più poveri. È un messaggio che può trovare la sua naturale collocazione a sinistra. Certo che i privilegi da combattere vanno al di là del ceto politico.

Perché il Pd non può riassorbire questi voti?

Io sono fiducioso nella possibilità di rifondare il campo progressista e guardo con interesse al dibattito in corso sulla proposta di Zingaretti sul partito nuovo. È di ieri il contributo importante di Roberto Speranza che condivido. Ma c’è un pezzo di popolo – soprattutto nel Mezzogiorno – che ha trovato nei 5Stelle la risposta al suo disagio e alla sua volontà di cambiare. Se il Movimento cade, questa spinta rischia di spegnersi.

Lei dimentica le Sardine, l’ultima grande novità.

No, non la dimentico. Le Sardine hanno dato un contributo fondamentale riportando al voto un elettorato deluso dalla sinistra.

In Emilia sono state decisive.

Sì, hanno portato il confronto con la destra sul piano dei valori. Il buongoverno non basta per vincere, occorre anche una forte motivazione ideale.

La paura di Salvini.

Il leader leghista è portatore di un messaggio ideologico forte, che evoca la percezione di un pericolo. Io non penso che stia tornando il fascismo, né che la Lega sia fascista ma in Salvini emergono tratti di una cultura ed un comportamento neofascista. Questo è altro rispetto alla tradizione leghista e ha introdotto una carica di violenza nella società italiana.

In tutto questo Zingaretti vuole costruire il partito nuovo.

Sinora ha retto bene e quando ha detto ai 5S che si governa da alleati ha detto una cosa naturale. Ora ha dimostrato coraggio ad aprire una nuova fase.

Insomma, c’è da costruire una’alleanza.

Sì, questa è la prospettiva, non la liquidazione dei 5Stelle. Una alleanza tra il centrosinistra e il M5S. Non c’è alternativa, altrimenti si consegna il Paese a Salvini.

Per il momento l’unica certezza è il governo Conte.

Il governo ha fatto delle cose utili e difficili ma se non offre l’immagine di un progetto politico condiviso finisce per non riuscire a comunicare neppure le cose buone che fa.

I rumors sullo stop alla revoca fanno volare Atlantia in Borsa

A Palazzo Chigi e al ministero delle Infrastrutture continuano a prendere tempo sul dossier revoca, spiegando che mancano ancora tutti i pareri tecnici. Eppure non è solo per i nuovi equilibri interni alla maggioranza che ieri Atlantia, la holding dei Benetton ha chiuso in Borsa con un rialzo stellare (+6,3%), un miliardo di capitalizzazione in una sola seduta.

La mossa riflette le difficoltà del governo e gli inciampi dei 5Stelle. Ieri il viceministro alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri (M5S) si è lasciato sfuggire una frase sibillina: “È possibile che non si arrivi alla revoca? Per noi no, però può sempre accadere…”. Qualche ora dopo ha ritrattato (“vogliamo solo la revoca”), ma il danno era fatto.

Da settimane rumors finanziari riportano di una possibile tregua tra i Benetton e l’esecutivo. In cambio della rinuncia alla revoca della concessione, Atlantia garantirebbe un indennizzo rilevante, più investimenti e manutenzioni e un taglio dei pedaggi. I numeri circolati finora, però, lasciano intendere che la distanza sia ancora notevole. I lobbisti e gli uomini di Autostrade sono però scatenati. Ieri alle agenzie è stato fatto filtrare che Atlantia potrebbe – in caso di stop alla revoca – scendere al 50% di Autostrade. La speranza è che le difficoltà tecniche spingano il governo a propendere per l’ipotesi inversa: ridurre il peso dei Benetton in Autostrade (e in Atlantia) invece di togliergli la concessione, magari facendo entrare nell’azionariato la solita Cassa depositi e prestiti. Un piano che ovviamente non piace ai 5Stelle.

La revoca è uno degli ultimi cavalli di battaglia del Movimento dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova. Il Pd preferirebbe invece l’accordo. Italia Viva, invece, minaccia di sabotare la norma del Milleproroghe che rende più facile il ritiro della concessione riducendo di moltissimo il potenziale indennizzo ad Atlantia. Il decreto va convertito entro fine febbraio. Ma il governo non sa come procedere.

La Chiesa rivuole i cattolici in politica: Conte si prepara

Per lungo tempo la Chiesa ha cercato di organizzare un ritorno dei cattolici in politica e da un po’ di tempo Giuseppe Conte cerca una collocazione politica. Allora è più di una suggestione segnalare l’incontro che si terrà sabato nella sede di Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti. Al fianco di padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica nonché ascoltato consigliere di Francesco, il pontefice gesuita, ci saranno il premier Conte e il cardinale Pietro Parolin, il Segretario di Stato del Vaticano. L’occasione è la presentazione di un volume che riassume un seminario di Civiltà Cattolica sul significato di “essere mediterranei”, mare che fonde tre religioni monoteiste e abbraccia tre continenti, un tema ispirato dal documento sulla fratellanza che papa Francesco ha firmato negli Emirati Arabi Uniti con l’imam di al Azhar e che tanto scalpore ha suscitato fra i suoi oppositori.

Per la Chiesa il “mare nostro” è un luogo di scambio e un laboratorio per l’Europa di domani, per la politica sovranista è un immenso casello, lasciato sguarnito, che provoca l’invasione dei migranti e che minaccia l’integrità, la sicurezza, la cultura europea. “Le religioni certamente non possono né devono sostituire la politica. È altrettanto vero, però, che le religioni sono risultate utilissime a chi intendeva usarle contro altri, a scopi imperialistici, egemonici e coloniali, per dividere e non per unire”, scrive padre Spadaro nell’introduzione del volume edito da Ancora. Per banalizzare, il leghista Matteo Salvini non avrà prenotato un posto in platea. Al contrario, con scaltrezza, Conte si pone come argine a Salvini e perciò come riferimento per la Chiesa.

Conte e Parolin sono legati, per ragioni e momenti diversi, a Villa Nazareth, il collegio universitario fondato dal cardinale Domenico Tardini, fucina di classe dirigente e cattedrale del cattolicesimo democratico. Parolin era assistente spirituale degli studenti. Conte da ragazzo ha frequentato Villa Nazareth, figura ancora nel comitato scientifico e lì ha costruito un solido rapporto col cardinale Achille Silvestrini, scomparso l’agosto scorso, proprio durante la caduta del governo gialloverde e le faticose trattative per quello giallorosa. Al funerale di Silvestrini, il giorno dopo aver ricevuto il mandato dal Quirinale per forgiare l’unione tra Cinque Stelle e Partito Democratico, papa Francesco ha saluto l’incaricato Conte e gli ha donato un rosario. Il governo gialloverde nacque con l’imperativo di difendere i confini nazionali, il governo giallorosa è nato con una preghiera che si recita in forma litanica. Nel periodo di massimo splendore dei gialloverdi e con i porti chiusi e poi aperti, già un anno fa, Conte fu ospite di Civiltà Cattolica per un convegno sul ruolo della Cina, dove né il mercato né i cattolici sono liberi. Fu un episodio, nient’altro. Il Vaticano guardava con ostentata diffidenza al governo e Conte accettò l’invito per ottemperare alla tradizione della rivista dei gesuiti che da sempre dialoga con le istituzioni, come accaduto in precedenza con Paolo Gentiloni.

Il ribaltone di agosto ha ribaltato pure la prospettiva di Conte, che ha parlato subito di un nuovo umanesimo, una sorta di “orizzonte ideale”, e farcito di intenzioni “verdi” le politiche di governo. E papa Francesco, per esempio, ha convocato un vertice mondiale a Roma – il 14 maggio – per un “patto educativo per un nuovo umanesimo”.

Una settimana fa, anzichè al prestigioso consesso economico di Davos, il premier era al salone papale del convento di Assisi per aderire al manifesto per l’ambiente assieme ai francescani, all’ex deputato Ermete Realacci (Fondazione Symbola), al dem David Sassoli (presidente del Parlamento europeo), al ministro Gaetano Manfredi (Università), a un po’ di aziende pubbliche con in testa l’ambizioso Francesco Starace (Enel). Assisi e l’ecologia, una sintesi di Laudato si’, l’enciclica di Bergoglio. Siccome la Lega è il partito più antico che siede in Parlamento, i dirigenti del Carroccio dall’alba di lunedì sono impegnati nell’analisi della sconfitta in Emilia-Romagna: il rodato sistema cattocomunista ha salvato il governatore Stefano Bonaccini, dicono. A pochi giorni dal voto, la Conferenza episcopale regionale e il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e pupillo di Francesco, sono intervenuti nella campagna elettorale con un messaggio esplicito: “La discriminazione di italiani o immigrati indebolisce il cammino e lo sviluppo”.

E come non ricordare il recente confronto in Senato tra il cardinale Gualtiero Bassetti, il capo dei vescovi italiani e il prefetto Luciana Lamorgese, ministro dell’Interno, un confronto con vocaboli differenti e un sentimento comune sull’esigenza di accogliere chi attraversa il Mediterraneo rischiando la vita e l’importanza di trasformare i migranti in cittadini attivi.

Salvini non è soltanto il politico che bacia il crocifisso e poi tiene in acqua i migranti, ma è il politico che ha sfidato Bergoglio e s’è rivolto spesso – vedi il cardinale Burke – ai critici più accesi del pontificato. I vescovi italiani hanno meditato mesi, e senza risultati eclatanti, sul tipo di offerta alternativa a Salvini da proporre alla società, sul modo per resuscitare i cattolici in politica, sui danni che il sovranismo può arrecare all’unità della Chiesa. Finché Salvini non si è estromesso da sé. E forse la Chiesa e Conte hanno trovato quello che cercavano.

Che fare? Idee e proposte per l’appuntamento di marzo

 

Antonio Padellaro

Ora un “congresso” anche duro, ma l’unico leader resta Di Maio

Il Movimento deve prendere atto: 1) Che le divisioni di cui ha parlato Max Bugani al Fatto sono impossibili da occultare dietro finte facciate unitarie. 2) Che a questo punto gli Stati generali di marzo devono assumere le sembianze di un congresso, dove le varie correnti si possono eventualmente contare evitando di trasformare un confronto indispensabile, anche duro, in una parata dell’ipocrisia. 3) Tra le ipotesi di Bugani mi sembra che manchi il cuore del problema: se e a quali condizioni il M5S debba restare al governo con il Pd. Ciò non significa andare a sinistra o negare l’autonomia grillina, ma piuttosto contribuire alle riforme necessarie del buongoverno: scuola, sanità, fisco. E quindi tornare alla origini come forza popolare attenta ai bisogni della classi disagiate. 4) Il solo leader in grado di realizzare questa visione resta Luigi Di Maio. Il suo discorso di congedo, imperniato su Alleanza atlantica, Europa, euro e con il forte apprezzamento istituzionale per Mattarella e Conte sembra cucito per ricandidarlo alla testa dei 5 Stelle.

 

Nadia Urbinati

Hanno ancora un ruolo di peso, ma accettino di essere un partito

I 5Stelle dovrebbero cogliere l’occasione degli Stati generali per porsi una domanda. Non tanto: “Da che parte vogliamo stare?” o “Con chi ci vogliamo alleare?”. Piuttosto, bisognerebbe chiedersi quale parte di cittadinanza possono ancora ambire a rappresentare e perché una fascia di popolazione dovrebbe dar loro fiducia. La risposta più immediata è pensare a un Sud che ancora non ha altra rappresentanza e che non la potrà mai trovare nella Lega. I 5 Stelle hanno ancora un ruolo importantissimo da svolgere, fatto di critica alle disuguaglianze e di una politica che rappresenti chi è subalterno, chi non è considerato, chi rimane fuori. Di certo una forza che si riconosce in questi valori lo fa più da sinistra che da destra. Anche a costo di perdere qualcuno per strada: ogni forma di ri-costituzione mette dei paletti e dunque stabilisce chi sta dentro e chi sta fuori, ma in questo i 5 Stelle devono accettare l’idea di essere un partito e di dover rispondere a una parte precisa del Paese.

 

Chiara Saraceno

L’equidistanza non funziona più se stai al governo: ora scelgano

È inutile che i 5 Stelle continuino a sostenere di non essere né di destra, né di sinistra, al di là del fatto che questi termini possano avere significati diversi rispetto a un tempo. Rimango esterrefatta quando sento che le alleanze non contano e contano solo i temi, perché mi sembra che invece i fatti dicano il contrario e se ne sono accorti in molti anche dentro al M5S. Ora devono scegliere da che parte stare, per quanto sia dolorosissimo per loro: restare nell’equidistanza non giova. L’idea dei “duri e puri” che devono restare da soli ha funzionato all’inizio, ma per chi gestisce il governo è pura fantasia. Io preferirei si riconducessero al centrosinistra, ma bisogna fare attenzione quando si parla di “riformismo”, perché ormai tutti utilizzano questa parola con accezioni molto diverse: non credo, ad esempio, che i 5 Stelle intendano il riformismo di Renzi e Calenda. Agli Stati generali dovrebbero fare la scelta di campo mettendo in chiaro una scelta che avrebbero dovuto fare da tempo. Questo ritardo è la causa dei parecchi malumori interni recenti.

 

Piero Ignazi

M5S alla frutta: se non esplode subito, finisce con la legislatura

Temo che ormai il Movimento 5 Stelle sia arrivato alla frutta: oggi in politica si consuma tutto rapidamente e così credo sia successo per il ciclo dei grillini. Non hanno più niente da dire perché il tema dell’antipolitica non può essere rispolverato da chi ormai è al governo. Certamente Matteo Salvini ne accoglierebbe qualcuno a braccia aperte, ma per il futuro dei Cinque Stelle vedo sostanzialmente due ipotesi.
La prima è un Big Bang, dunque una esplosione per cui nel giro di poco ognuno andrà per i fatti suoi o si creeranno piccole componenti. La seconda è un “serrate le file” fino al termine della legislatura, con piccole emorragie come quelle già avvenute in Parlamento. Non vedo classiche scissioni assimilabili a quelle di Renzi e Bersani nel Pd. Oltretutto, nessuno ha il carisma, l’esperienza e lo spessore per prendere il posto di Grillo, che pure quest’estate era tornato in primo piano, ma che non credo abbia voglia di riprendere la guida del Movimento che ha fondato.

 

Aldo Giannuli

È ora di ricominciare da zero, ma all’interno del centrosinistra

Il Movimento 5 Stelle ha sofferto molto la perdita di Gianroberto Casaleggio, uno che era in grado di capire in tempo le dinamiche negative e aggiustarle in corsa, cosa che non è nelle corde di Luigi Di Maio. Al loro posto ricomincerei da zero, ripensando all’esperienza di questi anni, facendo autocritica e rifondando, magari persino con una nuova sigla. Non lo si fa in dieci giorni, ma gli Stati generali possono avviare un processo con l’orizzonte delle prossime Regionali. Lì il M5S può correre da solo, condannandosi a prendere botte; può non presentarsi, col rischio che l’elettore si abitui a non trovarti sulla scheda; o può decidere per la cosa più seria, ovvero un’alleanza col Pd che tenti di piazzare qualche candidato presidente decente. Quanto alla “nuova cosa”, parlare di destra e sinistra non deve essere inteso come schieramento politico, ma come insieme di valori. E in questo i 5 Stelle sono sempre stati di sinistra, dunque manterrei questa natura, dandomi però una organizzazione meno cialtronistica e adatta al nuovo contesto politico.

 

Gianfranco Pasquino

Devono restare col Pd, sapendo che non potranno avere tutto

Gli Stati generali sono una ottima occasione, una novità da sfruttare al meglio perché finalmente ci sarà un confronto vero. Certamente la scelta migliore per i 5Stelle sarebbe posizionarsi nell’ambito del centrosinistra, all’interno del quale dovrebbero segnare la loro specificità senza porre ultimatum. Non si può avere tutto: deve rimanere uno spazio di contrattazione. Ma se vogliono attuare le loro riforme, il centrosinistra è il loro spazio, o dovrebbero forse andare a destra con il sovranismo di Salvini e con Forza Italia, che è messa pure molto peggio di loro? Se poi invece a qualcuno fa piacere continuare a dire che il Movimento non dev’essere né di destra né di sinistra allora va bene, ma è una stupidata. L’ideale, d’ora in avanti, sarebbe mantenere dentro anche chi non è d’accordo, superando la logica delle espulsioni. Se qualcuno dovesse andarsene per conto suo credo si condannerebbe all’irrilevanza, indebolendo anche il Movimento.

E in Sicilia c’è la scissione pro-destra

Dove andrà il Movimento 5 Stelle in Sicilia? A prevalere sarà la linea dura o quella dei responsabili? Chi dice no a tutto o chi vuole valutare i singoli provvedimenti, anche a costo di aiutare il centrodestra e il governatore Nello Musumeci. Domande che assumono ancora più importanza dopo i risultati del voto di domenica scorsa. Con un risicato 6% dei consensi raccolto nella vicina Calabria.

Nell’isola – in cui forse pesa il trasloco a Roma di Giancarlo Cancelleri – è chiaro a tutti che la situazione è particolarmente delicata. Colpa soprattutto di qualche uscita sulla stampa di alcuni deputati. Parole come macigni, figlie di un ritorno all’anno zero a livello nazionale e su cui si allungano i sospetti su possibile fughe. Forse quattro deputati, secondo quanto trapela in questi giorni, avrebbero la valigia pronta anche se non è chiaro per andare dove. Questo e tanto altro è finito ieri sera sul tavolo di un confronto riservato ai 20 deputati M5S. Una resa dei conti al chiuso con l’obiettivo di tornare a dialogare dentro il Movimento stesso.

La prima avvisaglia sui dissapori interni era arrivata tra Natale e Capodanno. In un 28 dicembre 2019 indicato come giorno per l’elezione del sostituto di Cancelleri nel ruolo di vicepresidente dell’assemblea regionale. I deputati M5S, dopo una votazione interna, avevano deciso di puntare sul nome del deputato Francesco Cappello. E così quella che sembrava una partita già decisa ha regalato un finale non pronosticabile: Cappello sconfitto e la collega pentastellata Angela Foti eletta vicepresidente. Ma con i voti di chi? Il giallo hanno provato a chiarirlo gli stessi deputati M5S con un comunicato: “Il gruppo ha votato per Cappello. I voti per Angela Foti sono arrivati, non è un segreto, dalla maggioranza di centrodestra”. Parole di rito per smentire alcune “fantasiose interpretazioni”. Il dubbio è su chi abbia spifferato il nome di Foti alla maggioranza consumando lo smacco a Cappello.

Andando oltre le interpretazioni a rincarare la dose, alcune settimane dopo, è stata la stessa vicepresidente Foti. In un’intervista a La Sicilia, senza girare troppo attorno alle cose, ha sentenziato: “Il clima nel gruppo M5S all’Ars? È pessimo, non vedo perché nascondersi”. Parole non casuali, pronunciate a distanza di poche ore dalla scelta di Foti, e degli altri pentastellati Sergio Tancredi, Valentina Palmeri, Matteo Mangiacavallo ed Elena Pagana di astenersi in aula per l’approvazione da parte della maggioranza dell’esercizio provvisorio di bilancio fino ad aprile.

Un fronte comune mancato contro l’esecutivo che è stato ben accolto dalle truppe del centrodestra come atteggiamento responsabile. Lo stesso a cui si è appellato il grillino Tancredi su LiveSicilia: “Non ho paura di lasciare per il bene dei siciliani. Gli altri? Non sarei da solo”. I giornali diventano megafono e l’ultimo sfogo è quello di Mangiacavallo. “Qualcuno vuole un Movimento del no a tutti i costi. Noi, invece, vogliamo tornare alla valutazione delle singole proposte”. Guai però ad affiancare tutto a termini come “filogovernativi” o “stampella di qualcuno”.

Stati generali, Di Battista prepara la sua “proposta”

La partita non ha ancora un campo di gioco, delle regole e forse neppure una data. Quella del 13 marzo, soffiata alle agenzie, non è mai stata ufficializzata sul blog delle Stelle e comunque ora tira forte aria di rinvio, perché il referendum sul taglio dei parlamentari sarà il 29 dello stesso mese, e può essere la ragione per prendere tempo. Ma nel M5S la stanno già tutti preparando la corsa degli Stati generali. Formando le squadre oppure cercandone una.

 

Di Maio e i suoi apostoli della “Terza via”

Il fu capo politico si è dimesso mercoledì scorso e per ora la strategia è starsene zitto a guardare l’effetto che fa. Ora c’è un reggente, Vito Crimi, alle prese col M5S allo stato gassoso. Nell’attesa, Di Maio riflette sul suo progetto: un Movimento equidistante da destra e soprattutto sinistra, barricadero come ai tempi del 2013, con una segreteria ristretta e due capi a compensarsi l’uno con l’altro, la sindaca di Torino Chiara Appendino e magari Alessandro Di Battista. Ma l’essenziale è la direzione, opposta a quella del premier Giuseppe Conte, che martedì ha invocato un asse innovatore progressista contro le destre, con dentro il M5S. E a stretto giro gli ha replicato la dimaiana doc Laura Castelli: “Il Movimento esiste proprio per la terza via, che ha permesso a questo Paese di trovare stabilità e ha dimostrato di poter andare oltre le ideologie”. È la linea su cui Di Maio insisterà assieme a fedelissimi come Manlio Di Stefano, Francesco Silvestri e Maria Edera Spadoni. E all’ex capo si è riavvicinato il Guardasigilli Alfonso Bonafede, ieri nominato capo delegazione al governo per acclamazione.

 

La mossa Di Battista per rigiocarsela

Ora sta in Iran, concentrato su tutt’altro. Ma Di Battista è già il fattore X, l’incognita che può ribaltare i piani. A inizio anno con Di Maio è stato strappo per l’espulsione di Gianluigi Paragone, amico che l’ex deputato ha difeso. Poi i due hanno ripreso a risentirsi, con Di Battista che ha fatto la prima mossa. E l’ex capo, pragmatico, lo vorrebbe nel suo progetto: innanzitutto per mietere consenso tra gli iscritti. Di Battista lo sa, ma ha grande voglia di giocare in proprio. Così prima degli Stati generali presenterà una sua proposta politica, un documento con punti programmatici e valori con cui ripartire e volendo rifondare il M5S. “Una proposta fortemente anti-liberista”, racconta chi gli ha parlato. E ovviamente il senso di marcia porta molto lontano dal Pd. Dalla sua Di Battista ha l’ex ministra Barbara Lezzi, gli ex sottosegretari Simone Valente e Gianluca Vacca e il segretario d’Aula alla Camera Daniele Del Grosso. Mentre con l’eurodeputato Ignazio Corrao il legame è quasi simbiotico.

 

Il pontiere Buffagni e i grillini del Nord

È stato un dimaiano di ferro e ora non è certo ostile al ministro. Però il lombardo Stefano Buffagni, viceministro allo Sviluppo economico, cerca un suo percorso. Giocando comunque di sponda con Di Maio e la sua terza via. “Sono convinto che il M5S debba essere se stesso e non pensare a scelte per allargare il campo, altrimenti la gente vota l’originale, noi non siamo il Pd” ha ribadito ieri al fattoquotidiano.it. Ma Buffagni vuole farsi anche promotore delle richieste del Nord “abbandonato” come ha sostenuto, rilanciando su imprese e fisco. Temi su cui può fare asse con un dimaiano ortodosso come Jacopo Berti, capogruppo in Veneto, e con il capogruppo in Lombardia Dario Violi. E il vertice, come lo vorrebbe? Un organo collegiale, “stile Politburo ma a 5Stelle” scherzano: ma non troppo.

 

Paola Taverna e la carica dei filo-dem

Conte non è certo solo, anzi. Di parlamentari fautori della rotta a sinistra il Movimento ne conta a decine. E tra i ministri è la linea prevalente. Anche un dimaiano come il ministro Vincenzo Spadafora vuole stare da quella parte, sempre più con i dem. Ma la naturale capocordata è la vicepresidente del Senato Paola Taverna, stimatissima dal Garante che tace, Beppe Grillo. “Siamo riformisti per natura” ha ribadito sul Fatto sabato scorso Roberta Lombardi, che è pure nel comitato di garanzia con Vito Crimi. E di campo riformista come luogo naturale del M5S ha parlato a Repubblica il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, che però non vuole giocare da prim’attore. D’altronde anche Taverna pensa a una guida collegiale. Il contrario, del capo alla Di Maio.

Il salame disseta

Si pensava che il Premio Cazzata 2020 l’avesse già vinto in un mese Salvini con l’immortale annuncio “Domenica non vinciamo, ma stravinciamo in Emilia Romagna e lunedì citofoniamo a Conte l’avviso di sfratto”: sia perché domenica ha perso, sia perché i governi nascono e muoiono con le elezioni politiche nazionali. Ma ormai è così malmesso che ha perso pure quel premio. I candidati più accreditati ad aggiudicarselo sono i pidini e i giornaloni al seguito che da due giorni martellano il seguente sillogismo. Premessa maggiore: “Bonaccini batte la Borgonzoni”. Premessa minore: “I 5Stelle straperdono”. Conclusione: “Ora nel governo il Pd ordina e il M5S esegue”. Sarebbe comprensibile in bocca a Salvini, convinto non si sa da chi che il governo dipenda dal voto in una regione. Ma è bizzarro che lo dica chi ripeteva il mantra “Se perdiamo in Emilia Romagna, al governo non cambia niente”. Se l’“asse politico del governo”, che Zingaretti e Orlando vorrebbero spostare dal M5S al Pd, dipendesse dai sondaggi (che peraltro danno il M5S terzo a poca distanza dal Pd) o dalle Regionali, il Pd dovrebbe abbattere il Conte 2 e chiedere subito le elezioni con gli stessi argomenti di Salvini, visto che al momento il centrodestra è davanti ai giallorosa. Anzi, cinque mesi fa non avrebbe mai dovuto fare il governo con i 5Stelle, visto che già in agosto la somma di Pd, LeU e M5S era inferiore a quella di Lega, FdI e FI. Ma all’epoca per il Pd valevano le regole della democrazia parlamentare. E già i 5Stelle furono molto generosi, regalando a Pd e LeU metà dei ministri avendo il doppio dei loro parlamentari. È cambiato qualcosa? Zero. Dunque non si capisce di quale riequilibrio, rimpasto, cambio di asse si vada cianciando.

Ma l’abolizione della logica ha questo di bello: che poi vale tutto. Infatti anche Renzi ha il suo sillogismo. Premessa maggiore: “I 5Stelle sono finiti e non hanno futuro”. Premessa minore: “Non ha vinto il Pd, ma Bonaccini che è riformista come me”. Conclusione: “Bisogna stilare un’agenda di governo riformista contro il populismo”. E parla di elezioni dove Italia Viva era così viva da non presentarsi neppure, dunque non poteva perdere perché non giocava proprio. Uno spasso. Ma riecco Orlando, con un’altra conclusione delle sue: “Ora vogliamo una norma diversa da quella di Bonafede sulla prescrizione”. Cioè: siccome Bonaccini ha vinto anche coi voti del M5S e il M5S ha perso perché i suoi elettori han votato quasi tutti Bonaccini, il Pd cancella la legge promessa quattro anni fa dal Pd solo perché l’hanno fatta i 5Stelle. E riesuma la vergogna della prescrizione che falcidia 120mila processi all’anno.

Come se la bontà di una legge dipendesse da chi la vota o dalle elezioni in Emilia Romagna. Siamo ai livelli del falso sillogismo di Montaigne: “Il salame fa bere. Bere disseta. Dunque il salame disseta”. Ma un falso sillogismo tira l’altro. La Stampa: “La Calabria volta le spalle ai grillini: meno voti che redditi di cittadinanza”. E il Messaggero: “Calabria, un beneficiato su 3 dal Reddito ha preferito non dare il voto al Movimento”. Titoli che denotano un’idea raccapricciante della democrazia e degli elettori: quella feudale, malata, clientelare, corrotta, mafiosa che si facciano le leggi per comprare voti e i beneficiari debbano ricambiarne gli autori votandoli a scatola chiusa. Del resto, quando il Rdc partì, si disse che i 5Stelle non lo facevano perché lo ritenevano giusto e doveroso, ma per fare voto di scambio al Sud. Poi i 5Stelle persero le Europee anche al Sud, allora si disse che il Rdc era stato bocciato, ergo era un errore, anzi “un flop” (come se 500 euro al mese anziché 0 fossero niente). E ora ci si scandalizza se chi lo riceve vota per chi gli pare anziché fare come nella Napoli di Lauro: una scarpa regalata prima del voto e l’altra dopo.

Ma ormai la logica non abita più qui, neppure fra i 5Stelle. Che, con tutti i guai che hanno, continuano a scannarsi su un falso problema: se debbano allearsi di qui all’eternità col Pd, o con la Lega, o con nessuno. La risposta l’han data domenica i loro elettori in Emilia Romagna: dovendo scegliere fra un energumeno che li ha umiliati e traditi per un anno e mezzo e un governatore normale e rispettoso, hanno votato il secondo contro il primo. Ora nessuno chiede ai 5Stelle di rinunciare alla propria identità-diversità, né di sposare il centrosinistra finché morte non li separi (se al posto di Zinga arrivasse un Calenda o un Gori, ci sarebbe da fuggire a gambe levate). Ma oggi quello è il campo meno indigeribile e incompatibile con loro. Con buona pace dei (pochi) nostalgici della Lega, cui non è bastata la batosta alle Europee per l’alleanza cannibalizzante con Salvini. E con buona pace dei soloni della Salvinistra, che han sempre equiparato 5Stelle e Lega come “le due destre” e messo in guardia il Pd dal contaminarsi col M5S: ancora quattro mesi fa sfilavano luttuosi in tv, profetizzando sette secoli di sventure per la sinistra se si fosse mischiata con quei pericolosi incensurati e avesse accettato un imbroglione “senz’anima” come Conte. Quello – oracolavano – era il miglior regalo a Salvini. Infatti… Ora qualcuno si stropiccerà gli occhi per questo titolo a pag. 6 di Repubblica: “Conte adesso parla da leader: ‘Un fronte contro le destre’”. E per questo a pag. 10: “Il salto a sinistra degli ex grillini: per Bonaccini 4 su 10”. Manca solo la conclusione: “Quindi chi scriveva che i 5Stelle sono di destra e il governo Conte fa il gioco di Salvini è un pirla”.

Ps. A proposito di sillogismi, ci sarebbero pure i “giornalisti” e i “politici” che solidarizzano da tre giorni con Gaia Tortora perché ho scritto cose vere senza nominarla né pensarla, lei mi ha mandato affanculo su Twitter, dunque lei è la vittima e io l’aggressore. Ma quella non è né logica né illogica: è cabaret.

Il principe di Salerno e i suoni recuperati

“Erano soliti ghi’ dint’e paesi e alli feste ca se facevano attuorno alla città nosta e là ‘mparavano ‘e canzoni d’e campagnuole e doppo ‘e sunavano e le facevano sentì dint’ ‘e viche e le chiazze de Napule”. Nel bellissimo e corposo libretto di Napoli 1534 tra moresche e villanelle (Squi[libri] editore), la Nuova Compagnia di Canto Popolare prende a prestito la vita di Ferrante Sanseverino, ultimo principe di Salerno, per raccontare in vernacolo la storia delle canzoni del nuovo disco. La musica della N.c.c.p. è un continuo studio filologico ed etnomusicologico. Una ricerca che non si è mai fermata e che, nel 2016, ha festeggiato le nozze d’oro con il doppio album 50 anni in buona compagnia, un disco di inediti e un altro di rifacimenti dei loro brani più popolari.

Il nuovo album, prodotto da Renato Marengo, ripropone con maestria la musica popolare campana nel suo stile originale tra danze e canti antichi. Un disco equilibrato suonato da musicisti di grande esperienza. Alla fine degli anni Sessanta la N.c.c.p. rappresentava la punta di diamante del nascente Neapolitan power grazie all’intuizione del Maestro Roberto De Simone che riunì intorno al progetto quello che poi è diventato il gotha della musica popolare italiana: Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò (scomparso nel 2016) e Giovanni Mauriello ai quali si unirono Peppe Barra, Patrizio Trampetti (autore del testo di Un giorno credi cantata da Edoardo Bennato), Corrado Sfogli e Fausta Vetere. Molti di questi nomi oggi hanno scelto la carriera da solista ma sono tutti partiti da quell’intuizione. Nell’attuale formazione, del vecchio nucleo, resta l’inconfondibile voce di Fausta Vetere e le chitarre di Corrado Sfogli che ha curato l’intero progetto tra cui il testo del libretto. Storie e suoni di altri tempi che continuano a vivere grazie a un lavoro rigoroso. Un viaggio nel tempo in cui si rincorrono i violini di Michele Signore e i flauti di Marino Sorrentino su tammorre e tempi popolari, mentre la voce di Fausta Vetere s’intreccia a quella di Gianni Lamagna. Musica per orecchie raffinate, un lavoro di filologia musicale fuori tempo come la musica vera.