Tecla ha l’età (16) e a Sanremo difende le donne

Non è mai troppo presto per lasciare un segno. Chiedete a Tecla Insolia, 16 anni appena compiuti, che messaggio diffonderebbe se Greta Thunberg le passasse il microfono. “Direi che tanti piccoli cambiamenti fatti da tante piccole persone possono trasformare il mondo. Non dobbiamo averne paura. E se una mia coetanea sta illuminando le coscienze di tutti, io non posso sentirmi intimorita a portare al Festival una canzone solida come 8 marzo. Dicano pure che è un tema troppo ingombrante per una ragazzina. Li convincerò”. Altro che passi indietro. Nel Sanremo delle polemiche sul ruolo delle donne Tecla va per ricordare che “nessuno deve dirci quanto valiamo, nessuno può cavarsela con un fiore per poi calpestarci tutto l’anno. Mi rivolgo non solo agli uomini, ma anche a tutte le ragazze che non sanno farsi rispettare, che non alzano lo sguardo di fronte a chi gode a umiliarle”. Senti parlare questa adolescente dell’era di Billie Eilish e non capisci quale capsula del tempo l’abbia catapultata ai giorni nostri. Sedici anni come la Cinquetti quando vinse a Sanremo ’64, ma non diresti mai che Tecla non abbia l’età. Evita di trinciare giudizi sulla propria generazione (“con tutte le informazioni di cui disponiamo oggi, puoi scegliere tra la cultura e l’ignoranza. C’è chi si fa un vanto di non sapere, ma poi anch’io mi sorprendo a sprecare tempo sui social”), rivendicando un’affinità elettiva con il filone dei grandi: “Avrei voluto nascere nei formidabili anni ’60 e averne sedici nei ’70, prima che il pop andasse incontro alla decadenza. Il mio guru è Lucio Dalla, ma inevitabilmente amo Tenco e De André. Tra i cantautori di oggi morirei per duettare con Mannarino”. E i rapper? Violenza e turpiloquio? Macché: Tecla è incline al classico, fieramente retrò con la sua faccia acqua e sapone e una vocalità che ricorda Arisa. “A casa conserviamo un video di quando sul fasciatoio, piccolissima, mi avventuro in Felicità di Albano e Romina. A cinque anni, alla prima lezione di canto, mi cimentai con la Pausini”. Figlia di due siciliani trapiantati al nord, Tecla ha riconquistato il mare (“non potrei vivere senza”) quando la famiglia si è trasferita da Varese a Piombino. “Qui studio da grafica pubblicitaria. Non ho un gran rapporto con i compagni. In troppi trovano strane le mie rinunce alle uscite, ma io continuo per la mia strada e se qualcuno prova a prendermi in giro di fronte agli altri sappia che il bullismo non lo renderà più forte di me”.

Si prenderà la sua chance nelle Nuove Proposte del Festival, dove approda come trionfatrice di Sanremo Young. E non disdegna la recitazione: è reduce dal set di una fiction per Raiuno, Vite in fuga. Legge avidamente Pasolini e ora è impelagata nella Metamorfosi di Kafka. “Mi chiedo come sarebbe se mi risvegliassi trasformata in un altro essere. Magari non uno scarafaggio. Meglio una farfalla o un gabbiano che voli sopra il mio mare”.

“Dante non aveva mica Google Maps”

“Chi ha la memoria della grande poesia ha un elemento in più di sicurezza. È una sorta di difesa personale, come sosteneva Primo Levi”. Giulio Ferroni ha insegnato per tutta la vita Letteratura italiana, la sua Storia della letteratura (in quattro volumi) è uno dei testi di riferimento per chi (ancora) voglia studiare. Celebri sono state le sue stroncature (Baricco) e i suoi accesi confronti con altri esimi studiosi (Asor Rosa). Oggi, da professore emerito della Sapienza, ha deciso di dare alle stampe un suo viaggio o, meglio, la realizzazione di un suo desiderio: girare l’Italia attraverso i luoghi citati da Dante nella Divina Commedia. Un’opera preziosa, L’Italia di Dante, 1232 pagine da spulciare come una guida turistico-letteraria al nostro immenso patrimonio.

Professor Ferroni, nell’introduzione lei scrive: “Si sta perdendo la geografia come conoscenza dei luoghi, della loro specifica collocazione”. È questo l’intento del volume?

L’intenzione di partenza era legata a una passione personale per la geografia, oltre che per Dante. Mi rendo conto che oggi non si è più in grado di memorizzare e riconoscere i luoghi, uno per uno. Assistiamo a una polemica continua contro il nozionismo da parte dei pedagogisti, ma le cose vanno riconosciute nella loro concretezza, altrimenti si perde la capacità di orientarsi.

Però oggi c’è Google Maps…

Una volta, sostenendo un esame, un mio studente collocò Siena in Liguria… Ecco ciò che intendo: con i mezzi tecnologici a nostra disposizione, uno raggiunge i luoghi senza orientarsi. E invece quei luoghi vanno percorsi nella loro concretezza.

È una forma per riscoprire la bellezza del territorio italiano?

Dante esaltava la bellezza nella corporeità immediata del suo tempo – molto diverso dal nostro –, quando era molto difficile raggiungere i luoghi. Ogni volta che ho preso il treno o l’auto per compiere il mio viaggio, mi sono meravigliato rispetto alla visione concreta dello spazio che aveva il Poeta, in un periodo storico in cui ci si poteva muovere solo a piedi o a cavallo. Certo non aveva gli strumenti di misurazione che abbiamo noi..

Nel libro descrive percorsi del turismo di massa, ma anche destinazioni sperdute e sconosciute ai più.

Oggi abbiamo la possibilità di scoprire luoghi notissimi, che sono quelli del turismo diffuso, così come paesi mai sentiti nominare. Io per primo, per esempio, non ero mai stato alla Pietra di Bismantova (sull’Appennino reggiano, ndr), o alla Fontana dell’Acquacheta.

Negli ultimi anni, per fortuna, stiamo assistendo a un recupero culturale e paesaggistico degli antichi borghi.

Per prolungare la vita di certi posti – anche quelli danteschi, prenda la Rocca di San Leo, teatro di una recente frana – bisogna spendere energie. Spesso ci salvano i giovani: le porto a esempio un piccolo bed and breakfast in cui sono stato, aperto da alcuni ragazzi a Mores, un paesino del Logudoro (nel Sassarese: zone citate da alcuni Dannati). È un modo per tenere vivi il territorio e la memoria.

Che si sta perdendo? Lei citava prima una certa allergia dei pedagogisti rispetto al nozionismo…

La memoria è un dato essenziale della interiorizzazione delle forme di vita. Primo Levi ricordava di quanto fosse stato fondamentale, nel lager, conservare la memoria di Dante: di fronte all’orrore, era una difesa personale. La poesia diventa una parte di te, con la quale puoi dialogare quando ti sono impedite altre forme di dialogo. È un patrimonio mentale. E la poesia di Dante contiene la sostanza della realtà.

Nel 2021 si celebrano i 700 anni dalla morte di Alighieri. Perché è ancora oggi una tappa ineludibile nella formazione scolastica?

Perché la lingua italiana sta già tutta là. Dobbiamo leggerlo e usarlo di più. E poi perché il suo mondo, così abissalmente lontano dal nostro, ci allena a comprendere la diversità. Tutta l’esperienza della Commedia non è quella del consumo quotidiano, ma qualcosa che va al di là. Vale per il credente, ma anche per il laico che ritiene la vita insufficiente così com’è e vuole tendere all’oltre.

Professore, ha potuto scrivere quest’opera solo “lasciate le stanze sfatte e disordinate dell’Università Sapienza, cariche ormai di imposte elucubrazioni burocratiche”. Polemizza?

Non verso la Sapienza, ma verso il modo in cui è tenuta l’università. Tutto è stato ridotto a monitoraggi, calcoli aritmetici per ogni tipo di finanziamento, statistiche. I saggi scientifici vengono chiamati “prodotti” e valutati attraverso parametri numerici. L’attività didattica è ostacolata dalla burocratizzazione e dalla mancanza di fiducia nei confronti (anche) dei docenti. È un trend mondiale, certo, però in alcuni paesi viene applicato con maggiore disinvoltura.

Viviamo nell’epoca della valutazione continua?

Il mio amico filosofo Mario Perniola, scomparso due anni fa, aveva riflettuto sulla deformazione della cultura determinata dal dominio della valutazione, il capitalismo valutante. Siamo addirittura arrivati a stilare la classifica delle città più felici del mondo! Ma si può davvero classificare la felicità? Io credo di no.

“Trump voleva Biden sotto accusa dai giudici di Kiev”

Visto che non lo fanno parlare, John Bolton scrive e mette nero su bianco, in un libro, che non è ancora stato pubblicato, quel che potrebbe raccontare se chiamato a testimoniare nel processo sull’impeachment del presidente Donald Trump. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale afferma che Trump gli disse di volere tenere fermi gli aiuti militari all’Ucraina – 391 miliardi di dollari già stanziati dal Congresso – fino a che Kiev non avesse consentito a indagare sui Biden e sui suoi rivali democratici Usa.

È il New York Times ad anticipare dei passaggi della bozza del libro di Bolton, il terzo consigliere per la sicurezza nazionale silurato dal presidente in poco più di 30 mesi alla Casa Bianca. La bozza del volume, come accade di norma per le pubblicazioni di consiglieri o ex consiglieri del presidente, è al vaglio della Casa Bianca, che potrebbe ordinare di cancellare passaggi non graditi. E i legali dell’ambasciatore, che fu anche rappresentante degli Usa all’Onu, accusano proprio la Casa Bianca d’avere orchestrato la fuga d’anticipazioni.

Nelle conversazioni con Bolton, così come vengono riferite, Trump appare mischiare, come spesso fa, un’inchiesta per corruzione su Joe Biden, suo potenziale rivale democratico nelle presidenziali del 3 novembre, e il figlio Hunter, socio di un’impresa energetica ucraina, e l’indagine, rivelatasi una bolla di sapone, sul complotto che i democratici gli avrebbero ordito contro con il Russiagate.

Insieme a Bolton, anche il Dipartimento di Stato e il Pentagono esercitarono pressioni su Trump perché sbloccasse gli aiuti all’Ucraina. Ma il presidente le ignorò, sempre citando le ragioni che aveva per dolersi dell’atteggiamento dell’Ucraina, tutte di carattere personale.

Bolton è uno dei testimoni che i democratici vorrebbero ascoltare nel processo per impeachment. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale ha più volte detto di essere pronto a deporre se ingiunto a farlo. La Camera, durante la fase istruttoria, non lo chiamò a testimoniare perché l’opposizione della Casa Bianca avrebbe innescato una controversia giudiziaria che si sarebbe trascinata a lungo. Le affermazioni di Bolton nella bozza del libro suonano conferma di quel quid pro quo finora mai ammesso dal presidente, nonostante l’abbiano confermato suoi collaboratori: il capo ad interim dello staff della Casa Bianca Mick Mulvaney e il rappresentante Usa presso l’Ue Gordon Sondland. In decine di pagine – scrive il NYT – Bolton ricostruisce il Kievgate nei mesi che hanno preceduto la sua uscita dall’Amministrazione, ai primi di settembre del 2019, cioè dopo la telefonata galeotta tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ma quando il caso non era ancora esploso. L’ex consigliere per la Sicurezza nazionale racconta, inoltre, che il segretario di Stato Mike Pompeo riconobbe, in primavera, che le accuse mosse da Rudolph Giuliani all’ambasciatrice Usa a Kiev Marie Yovanovitch erano senza fondamento. Eppure, la diplomatica fu silurata. Bolton sostiene d’avere avvertito lo staff legale della Casa Bianca che Giuliani, l’avvocato personale del presidente, stava sfruttando la sua posizione per aiutare altri suoi clienti privati, almeno due dei quali sono poi stati arrestati.

Le indiscrezioni sui contenuti del libro di Bolton innescano le reazioni di Trump: “Non gli ho mai detto che gli aiuti all’Ucraina erano legati alle indagini sui democratici, compresi i Biden. E non s’è mai lamentato di questo quando ha concluso il suo incarico. Se John Bolton ha detto questo, è solo per vendere il suo libro”. Il presidente sostiene di non avere visto le bozze del volume: è credibile, perché Trump non ama leggere libri e documenti, se ne fa sempre sintetizzare i contenuti. “Le trascrizioni delle mie telefonate con il presidente Zelensky rappresentano tutte le prove che sono necessarie”, afferma ancora il presidente. “Ho incontrato il presidente Zelensky all’Onu, concedendo gli aiuti militari all’Ucraina senza alcuna condizione o indagine … Ho anche consentito all’Ucraina d’acquistare missili anti-tank Javelin”, ricorda. Fin qui nel merito. Quanto alla procedura, Trump sostiene che toccava ai democratici che sono maggioranza alla Camera chiamare a testimoniare Bolton: “Spettava a loro, non al Senato!”.

Le anticipazioni sui contenuti del libro di Bolton hanno comunque smosso le acque del processo, dove ieri, per la difesa, ha preso la parola Alan Deshowitz, l’avvocato che riuscì a far assolvere, instillando il dubbio di un pregiudizio razziale O.J. Simpson dall’accusa di duplice omicidio, pur essendo l’ex campione di football colpevole. Il senatore repubblicano Mitt Romney afferma che “è sempre più probabile” che almeno quattro senatori repubblicani sostengano la richiesta di sentire come testimone l’ambasciatore Bolton: quanti ne servono perché la mozione, che verrà messa ai voti nel fine settimana, sia approvata.

Sars, quando il Dragone sottovalutò il pericolo

Il primo dispaccio dell’Agenzia Ansa in cui si fa menzione della Sars è datato 15 marzo 2003: partendo da un servizio della Reuter da Ginevra, Paolino Accolla, uno specialista d’informazione sulla medicina, raccontava che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), aveva lanciato un’allerta perché un virus misterioso, responsabile di una grave forma di polmonite, aveva varcato le frontiere dell’Asia divenendo “una minaccia sanitaria mondiale”: uno sconosciuto microrganismo, “segnalato la prima volta il mese scorso in Cina”, dava luogo a una sindrome respiratoria acuta grave (la Sars, appunto, dall’acronimo in inglese).

Per due settimane, la chiave dei titoli dei dispacci sulla Sars resta generica: ‘Virus misterioso’. Poi, dal 1° aprile, diventa ‘Virus Cina’. Solo il 23 aprile, Sars s’affranca e diventa una chiave a se stante. In realtà, questa forma atipica di polmonite era stata osservata per la prima volta nel novembre 2002 in Cina a Guangdong, la provincia di Canton: c’erano voluti almeno cinque mesi perché le autorità cinesi dessero l’allarme a quelle internazionali. Che, però, a quel punto, erano già entrate in fibrillazione per conto loro perché segnali arrivavano da Usa e Canada, da Hong Kong e Vietnam e tutto il Sud-Est asiatico.

Questa volta, pare che la lezione della Sars sia stata imparata: l’allerta dalla Cina è venuta quasi subito, le reticenze nella comunicazione sono minori, la volontà di collaborazione con altri Paesi e con le organizzazioni internazionali è dichiarata.

Allora, mentre cercavano di soffocare il contagio, i responsabili cinesi non informarono l’Oms fino al febbraio 2003, limitando la copertura mediatica per evitare panico ed allarme. Tutto ciò, però, provocò ritardi, moltiplicò i decessi e innescò critiche da parte della comunità internazionale verso il governo cinese, che alla fine presentò scuse ufficiali per la lentezza nell’affrontare il problema. A rendere meno decisa la reazione contribuì forse il fatto che la Cina viveva una fase di transizione del potere tra Hu Jintao e Jiang Zemin: Hu assunse la guida del partito nel novembre 2002 e quella dello Stato nel marzo 2003, proprio mentre la Sars incubava e iniziava a diffondersi. Pure media e opinione pubblica internazionale apparvero, sulle prime, distratti: forse perché l’allerta dell’Oms coincise con l’inizio dell’invasione dell’Iraq da parte degli Usa e dei loro alleati.

Il primo indizio di una possibile pandemia partì dal sistema sanitario pubblico canadese il 27 novembre 2002. Ma i limiti e le inefficienze del sistema d’allerta internazionale, che è poi stato migliorato e adeguato e che sta oggi rispondendo più efficacemente, fece sì che la messa in guardia dell’Oms arrivò dopo 500 decessi in tutto il Mondo e duemila casi attivi. Ritrosie cinesi e inefficienze internazionali alimentarono, naturalmente, anche teorie del complotto, che non hanno però trovato finora nessun valido appiglio.

Secondo i risultati delle prime analisi, la mappa genetica del virus cinese 2019-nCoV assomiglia quasi all’80% al virus della Sars. Entrambi utilizzano la stessa arma per aggredire il sistema respiratorio umano: un recettore già isolato nel virus della Sars e chiamato Ace2. Il virus, chiamato Coronavirus perché ha forma di corona, dispone di una sorta di chiave che si adatta alle ‘serrature’ delle cellule del sistema respiratorio umano, riuscendo ad aprirle e a invadere così le cellule. Nell’allerta diramata il 15 marzo 2003, l’Oms notava che per contrarre il virus si deve essere stati necessariamente a contatto con persone affette e consigliava a passeggeri ed equipaggi di navi ed aerei in tutto il mondo di cercare di riconoscere fin dall’inizio i sintomi di questa polmonite, che si manifestava subito con gravi difficoltà respiratorie e febbri elevate. Indicazioni simili a quelle date in questi giorni. La Sars venne identificata per la prima volta dal medico italiano Carlo Urbani, un microbiologo che ne morì a Bangkok all’età di 47 anni: è mortale circa nel 15% dei casi in cui completa il suo corso e ha un tasso di letalità di circa il 7% degli individui che hanno contratto l’infezione. È attualmente considerata una malattia relativamente rara: la punta si ebbe con 8.096 casi nel 2003.

Coronavirus, “rischio elevato”: l’Oms e la valutazione errata

Il documento dell’Organizzazione mondiale della sanità del 26 gennaio è di nove pagine. Nella prima, c’è una postilla al punto tre, scritta sul fondo in piccolo: l’Oms ammette di di aver sbagliato la valutazione sul Coronavirus; il rischio globale è “elevato”, mentre nei suoi precedenti rapporti lo definiva “moderato”. La correzione significa che è stata dichiarata un’emergenza sanitaria internazionale? La portavoce Fadela Chaib parla solo di “un errore nella formulazione” della “valutazione globale del rischio”. Il direttore del Dipartimento Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, Gianni Rezza all’Ansa: “La correzione dell’Oms potrebbe essere un preludio alla dichiarazione di ‘emergenza globale’ da parte della stessa Oms ma è anche una decisione politica nei confronti della Cina”. La diffusione della malattia mette in evidenza passi falsi anche a Wuhan, epicentro del Coronavirus e saltano le prime teste. Il sindaco Zhou Xianwang fa mea culpa: le autorità hanno reagito tardi al propagarsi dell’infezione. È il frutto della visita ieri nella città fantasma del premier Li Keqiang. L’accusa è proprio quella di non aver informato in modo completo gli abitanti di Wuhan. Questo ritardo nella divulgazione dei dettagli e il fatto che quasi la metà della popolazione di 11 milioni si era messo in viaggio prima che le autorità stabilissero il blocco degli spostamenti, danno una dimensione della possibile propagazione del Coronavirus. Il team di esperti di Hong Kong stima il picco dell’epidemia in cinque città cinesi (Pechino, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen e Chongqing) tra fine aprile e inizio maggio. Solo a Chongqing, che ha oltre 30 milioni di abitanti, potrebbero esserci 150.000 nuovi casi al giorno per gli alti volumi di viaggi della popolazione verso Wuhan. Pechino fino a ora ammette 2.800 casi e 82 morti. La rivista medica Lancet ipotizza che il mercato del pesce di Wuhan potrebbe essere scagionato come origine dell’epidemia, dopo una analisi sui primi 41 pazienti. Nel primo caso, il degente si è ammalato l’1 dicembre 2019 e non avrebbe alcun collegamento con il mercato, nella stessa situazione sono altri 12; le prime infezioni, secondo Lancet, sono avvenute nel novembre 2019, prima che i casi del mercato fossero scoperti, a dicembre.

“Sono Rui, giustiziere del Web”

Dopo Ronaldo, Messi e Mourinho, Rui Pinto inguaia anche l’ex “prima figlia” dell’Angola, Isabel dos Santos, primogenita del fu presidente, in odore di candidatura alla guida del Paese alle prossime elezioni e da qualche giorno indagata per appropriazione indebita. A far aprire l’inchiesta “Luanda leaks”, vale a dire 715 mila documenti tra email, grafici, contratti, audio e conti che hanno ricostruito tutti i movimenti commerciali di dos Santos. Un archivio che l’hacker portoghese già rivelatore dei “Football leaks” nel 2015, avrebbe riversato o ricevuto dal PPLAAF, piattaforma di beneficenza anticorruzione per la protezione degli informatori in Africa, che a sua volta l’avrebbe condiviso con il consorzio internazionale di giornalisti investigativi (ICIJ), i cui articoli di stampa hanno fatto partire l’inchiesta in Angola.

Dal carcere di Lisbona, nel quale è in detenzione preventiva in attesa di essere processato per 147 reati – a seguito dell’estradizione dall’Ungheria, dove è stato arrestato l’anno scorso per aver trafugato gli archivi che incastravano i giocatori di mezzo mondo implicati in frodi fiscali e scommesse – il 31enne hacker ha fatto sapere di “assumersi tutta la responsabilità” dei nuovi leaks. “Desiderava che fossero note le operazioni complesse condotte con la complicità di banche e avvocati che non solo impoveriscono la popolazione e lo Stato dell’Angola, ma che hanno anche probabilmente danneggiato gravemente l’interesse pubblico in Portogallo”, in cui Isabel dos Santos ha beni significativi, hanno fatto sapere in una nota gli avvocati di Pinto. Uno di loro, William Bourdon, oltre a essere il difensore di Edward Snowden è anche uno dei legali del PPLAAF, per l’appunto. Da qui non è difficile immaginare che Pinto, che su Twitter si definisce whistleblower, abbia ricevuto i documenti proprio dal suo legale. Se così fosse, con questa mossa lui e i suoi difensori vogliono dimostrare che metà dei reati di cui il portoghese è accusato – cioè quelli riguardanti l’hackeraggio e la sottrazione di documenti – siano infondati, visto che Pinto, come in questo ultimo caso, potrebbe essere venuto in possesso di documenti da terzi.

Resta il fatto che con le rivelazioni che smantellano l’impero commerciale della figlia del presidente che ha retto per 38 anni l’Angola prima di dimettersi nel 2017, Rui Pinto torna a dipingersi come un giustiziere più che come un “cattivo”. D’altronde con i “Luanda leaks” – che secondo il quotidiano portoghese Publico gli sarebbero stati sequestrati all’epoca dell’arresto in Ungheria in hard disk e pen drive e sarebbero stati in possesso del PPLAAF da fine 2018, inizio 2019 – in pochi giorni hanno portato Isabel dos Santos, proprietaria di una fortuna stimata intorno ai 2 miliardi di dollari, ad abbandonare la sua partecipazione nella banca Eurobic. Per non parlare del fatto che l’Angola ha formalmente dichiarato la signora dos Santos inquisita per frode e riciclaggio di denaro sporco; il suo “direttore del personale” è stato trovato impiccato, l’attività della multinazionale Efaces è stata sospesa con i dipendenti che temono di non ritornare mai al lavoro, e la partecipazione alla società di telecomunicazioni Nos è in bilico in seguito alle dimissioni di tutti e tre i direttori legati a lei. Il prossimo passo potrebbe essere un ordine d’arresto internazionale per la donna più ricca d’Africa, a meno che la miliardaria angolana non ritorni volontariamente nel suo Paese per essere interrogata. Tutto questo mentre in Portogallo i revisori dei conti e gli studi legali che lavorano sui “Luanda leaks” stanno facendo luce sulle banche che potrebbero aver concesso alla figlia dell’ex presidente angolano un enorme credito finanziario.

A chiudere il cerchio, il recente studio di Transparency international che ha abbassato il rating del Portogallo di due punti nella classifica della corruzione. Motivo? La “mancanza di coraggio” politico del Paese per reprimere il malaffare, anche quando è denunciato nel dettaglio da terzi. Ma non si tratta soltanto del Portogallo: mentre Pinto è in carcere – accusato anche di ricatto nei confronti della società sportiva Doyen Sports in cambio della cancellazione di informazioni sulle sue scommesse, nonostante la sua richiesta di collaborare con le indagini dei “Football leaks” nei diversi paesi – i principali imputati, tra cui Ronaldo, Messi o Mourinho hanno fatto ammenda patteggiando col fisco la restituzione di somme di denaro neanche troppo cospicue, e qualche mese di carcere mai scontato grazie alla condizionale.

I campi di concentramento, luoghi e storie della Memoria

Quando si parla di “luoghi della memoria” tutti conoscono Aushwitz e Birkenau; Mauthausen in Austria; Bergen-Belseno il ghetto di Varsavia e quello di Terezin nella Repubblica Ceca, ma senza andare troppo lontano anche l’Italia ha la sua mappa di “luoghi” della memoria: campi, snodi ferroviari e strutture che testimoniano il tentativo dei nazisti di sterminare intere popolazioni – non solo gli ebrei – in nome di una folle ideologia razzista.

Per intraprendere questo viaggio bisogna partire dalla frazione di Fossoli. Siamo a circa sei chilometri da Carpi in provincia di Modena. Qui, in mezzo alla campagna, tra le cascine, è ancora visibile quello che nel 1943 la Repubblica Sociale Italiana trasformò da prigione per i militari nemici a campo di concentramento per gli ebrei. Dal marzo del 1944 diventò campo poliziesco e di transito utilizzato dalle SS come anticamera dei lager nazisti. I circa 5000 internati politici e razziali che passarono da Fossoli ebbero come destinazione i campi di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Flossenburg e Ravensbrück.

Dodici i convogli che si formarono con gli internati di Fossoli: sul primo diretto ad Auschwitz, il 22 febbraio, viaggiava anche Primo Levi che rievocò la sua breve esperienza a Fossoli nelle prime pagine di Se questo e un uomo e nella poesia Tramonto a Fossoli.

La storia di questo luogo non finisce qui, perché dopo la guerra, dal maggio del 1947 all’agosto del 1952, ospitò la nascita della comunità di Nomadelfia, voluta da don Zeno Saltini per accogliere i bambini abbandonati e gli orfani di guerra.

Seconda tappa: Trieste, alla Risiera di San Sabba. Raggiungerla è facile. Si trova nell’omonimo quartiere in via Giovanni Palatucci. Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso costruito nel 1898 venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943. Ma verso la fine di ottobre venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Da qui passarono anche le sorelle Bucci nel loro viaggio verso Auschwitz. Ancora oggi sono visibili la “cella della morte” dove venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati a essere uccisi e cremati nel giro di poche ore; le 17 micro-celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri.

La Terza “sosta” è a Milano, al noto Binario 21, dove è possibile vedere ancora il convoglio sul quale transitarono fra il 1943 e il 1945 migliaia di ebrei, tra i quali la senatrice Liliana Segre. Ma di là di questi luoghi più noti, anche al Centro e al Sud Italia ci sono testimonianze della tragedia che coinvolse il nostro Paese.

Nelle Marche le tappe sono al campo di internamento di Urbisaglia (che venne allestito, tra il giugno 1940 e l’ottobre 1943, nella villa Giustiniani Bandini presso l’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra e al campo di prigionia di Servigliano: realizzato nel 1915 per i prigionieri di guerra austriaci, in seguito all’entrata dell’Italia nel Secondo conflitto mondiale, il governo fascista lo usò come campo di prigionia militare. Quando alla fine di novembre, il governo della Repubblica Sociale Italiana promosse l’istituzione di una rete di campi di concentramento provinciali per gli ebrei catturati nei rastrellamenti, il campo di Servigliano fu scelto come luogo di detenzione per le province di Ascoli Piceno e Frosinone. Decine di internati furono trasferiti da Servigliano al Campo di Fossoli e da lì ai campi di sterminio in Germania.

Infine, più a Sud, il campo di internamento di Ferramonti, nel Comune di Tarsia in provincia di Cosenza: è stato il principale (in termini quantitativi) tra i numerosi luoghi di internamento per ebrei, apolidi, stranieri, nemici e slavi aperto dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940. Ferramonti era una contrada paludosa e malarica sottoposta nella seconda metà degli anni Trenta a opere di bonifica da parte della ditta di Eugenio Parrini, un faccendiere molto vicino al regime fascista. Dovendo il governo fascista costruire dei campi di internamento per gli ebrei stranieri e per tutti i cittadini dei Paesi nemici rimasti in Italia, Parrini fece in modo che la scelta della loro collocazione ricadesse nei suoi cantieri di bonifica in modo da utilizzare le strutture già presenti e ottenere il monopolio nello spaccio alimentare.

Nacquero così i campi di Pisticci (Matera), riservato soprattutto a oppositori politici italiani e il campo di Ferramonti di Tarsia, destinato a ebrei e cittadini stranieri nemici. Il campo si estendeva su un’area di 16 ettari ed era composto da 92 baracche di varia dimensione, molte delle quali con la classica forma a “U”, forniti di cucina, latrine e lavabi comuni.

Gradisca, l’autopsia sul georgiano. “Nessuna evidenza di un pestaggio”

Non ci sono elementi evidenti per sostenere che la morte di Vakhtang Enukidze, il migrante georgiano di 38 anni ospite del Cpr di Gradisca deceduto il 18 gennaio, sia stata causata da percosse. E’ quanto emerso dall’autopsia effettuata ieri a Gorizia.

“Si può escludere che ci siano state lesioni traumatiche importanti tali da poter essere messe in concausa con il decesso – ha detto Lorenzo Cociani, medico legale del Garante dei detenuti, che ha presenziato all’esame insieme al perito della Procura – c’erano lesioni superficiali di difficile datazione, forse anche pregresse, ma niente di così rilevante”. Nelle ore successive alla morte l’esponete dei Radicali Riccardo Magi aveva visitato la struttura e riportato le testimonianze di alcuni ospiti, secondo cui Enukidze sarebbe stato picchiato a morte da una decina di uomini delle forze dell’ordine, paventando il “rischio di un nuovo caso Cucchi”. “Da un’analisi macroscopica – ha aggiunto il medico – non sembrano emergere dati evidenti che facciano pensare a una patologia” come causa del decesso. Per avere un quadro completo bisognerà attendere l’esito degli esami tossicologici e istologici. “La morte è stata imputata a un edema polmonare, si tratta di capire cosa l’abbia provocato”, aggiunge l’avvocato Riccardo Cattarini, che rappresenta il Garante. “A questo punto non ci siamo opposti alla concessione del nullaosta per la sepoltura – ha proseguito il legale – per dare alla famiglia la possibilità di seppellire il proprio caro: la Procura ha già agito in tal senso”.

Per gli inquirenti tutte le piste restano aperte. “Non escludiamo al cento per cento cause di tipo violento”, ha affermato il procuratore di Gorizia Massimo Lia. Si tratta, ha argomentato il magistrato, di una “situazione complessa che va esaminata alla luce di tutte le risultanze, anche testimoniali, documentali e visive: l’autopsia ci ha dato un’indicazione, ma non formuliamo ipotesi definitive”.

“Non deve esserci spazio per nessun sospetto di omertà o di impunità rispetto alla morte di un giovane uomo mentre era sotto la responsabilità dello Stato”, ha commentato il Garante Mauro Palma, ribadendo “l’assoluta volontà di fare piena luce”.

Ora i sindacati di polizia pretendono le scuse. “L’esito dell’autopsia ha fatto chiarezza su correttezza e professionalità dei colleghi” , ha detto il segretario generale del Siulp Felice Romano. “Le accuse formulate da alcuni meritano un altrettanto precipitoso intervento con il quale si scusano verso donne e uomini delle forze di polizia”.

Le bici e l’affarone da 600 mila euro del legale di Montante

La bicicletta si è rotta. L’Ancma, l’associazione nazionale ciclo motociclo e accessori, cerca di ricomporre i pezzi dopo arresti, destituzioni e strani affari che hanno scalfito anche l’immagine dell’Eicma, la più grande esposizione mondiale del ciclo e motociclo nota come Milan Motorcycle Show.

Nell’anno in cui festeggia il centenario l’Ancma – che riunisce le più grandi aziende costruttrici nel ramo dei veicoli a due ruote – è in aperta guerra con Confindustria dopo la destituzione da parte dei probiviri del presidente Andrea Dell’Orto, tuttora consigliere della Confindustria nazionale, avvenuta nell’aprile del 2019.

“Varie inadempienze” la motivazione: su tutte l’acquisto di un immobile avvenuto sotto la sua presidenza per dare una nuova sede all’Eicma, avviato da Antonello Montante, l’ex leader di Confindustria Sicilia e dell’Ancma stessa, nonché ex vicepresidente della Confindustria nazionale, partito dalla piccola città di Serradifalco (Caltanissetta) con il mito di una fabbrica di bici mai esistita, e poi condannato a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, dietro la maschera di paladino antimafia.

“Il punto cruciale è stato l’acquisto dell’immobile a Milano – spiega Franco Acerbis, consociato dell’Ancma –. Ci siamo fidati e abbiamo commesso una leggerezza. Oggi stiamo cercando di ripartire, puntando sul dinamismo, sulla fiducia e sull’onestà”. L’immobile è in via Mecenate 84/A a Milano, acquistato da Dell’Orto, molto legato a Montante di cui è stato vice e successore all’Ancma, dalla Paco Srl società intestata per il 50% a Giuseppe Panepinto, avvocato, che di Montante è il difensore. La trattativa era stata avviata proprio dall’ex leader di Confindustria Sicilia all’interno di quello che è stato definito dall’Antimafia il suo “cerchio magico”. Ed è stata poi conclusa da Dell’Orto, che era allo stesso tempo presidente dell’Ancma e dell’Eicma. L’affare in teoria valeva poco meno di 2 milioni e 800 mila euro: “Già dopo la destituzione di Dell’Orto – dicono dall’Ancma – abbiamo avuto difficoltà a reperire i documenti dell’acquisto”.

Poco prima dell’arresto di Montante, avvenuto nel maggio 2018, l’Ancma versa l’anticipo di 600 mila euro, poi con la destituzione di Dell’Orto salta tutto. E arriva la rottura tra Ancma e Confindustria, finita in tribunale. Nega qualsiasi conflitto di interessi l’avvocato Panepinto nella doppia veste di socio al 50% della Paco Srl e di difensore di Montante: “Non vedo quale contrasto possa esserci tra la difesa personale del Montante e i rapporti fra lo stesso e la società Eicma, con la quale non ho mai avuto alcun rapporto professionale”. L’Eicma cercava un immobile e Montante ha trovato la persona giusta al momento giusto, il suo avvocato.

Eppure l’immobile aveva problemi: non era a norma secondo il preliminare di acquisto tra la Paco (che per l’altro 50% riconduce ancora in Sicilia, a Scicli) e la Rreef fondi immobiliari, società di gestione del risparmio. E questo ha portato l’Ufficio Urbanistica del Comune di Milano, nel 2017, poco tempo prima la conclusione dell’affare, a ordinare la demolizione delle opere realizzate nell’immobile.

In effetti, doveva diventare anche un centro per extracomunitari, gestito da una cooperativa sociale che aveva firmato un contratto di locazione nel 2016, ma non era stato possibile. Anche il ricorso al Tar della Lombardia delle due società è stato inutile.

La crisi infinita dell’Air Italy. Ma il Qatar non stacca la spina

Si presentarono come cavalieri bianchi con la scimitarra sguainata, venuti da lontano a sollevare dalla polvere Air Italy-Meridiana per lanciarla nell’alto dei cieli. Era il febbraio di due anni fa, ma le cose purtroppo hanno preso un’altra piega. La cura propinata dai nuovi padroni del Qatar per Air Italy non solo non ha dato i risultati attesi come una manna dai 1.400 dipendenti, ma ha aggravato le condizioni del paziente. Che ormai è a un passo dall’ultimo respiro. Il progetto di dotare la compagnia di 50 aerei nel 2022 non è più neanche una nebulosa promessa, è solo un semplice miraggio. Fino a un paio di anni fa gli aerei di Air Italy erano una quindicina, ora appena 7 dopo che la compagnia che ha sede a Olbia ha dovuto mettere a terra per cause di forza maggiore (l’inaffidabilità del velivolo) i 3 Boeing 737 Max entrati in flotta. Altri 5 B 737 Max erano stati ordinati nel frattempo, ma a questo punto non arriveranno mai.

Invece di sostituirli con altri jet come hanno fatto le compagnie di mezzo mondo, il nuovo direttore della società, il bulgaro Rossen Dimitrov, ha fatto ricorso al wet lease, aerei ed equipaggi a noleggio, compresi quelli non proprio scintillanti della compagnia bulgara Tayaran Jet. La mirabolante politica di apertura delle nuove rotte è nata e morta in un baleno: i voli per la Thailandia e l’India lanciati a fine 2018 sono stati annullati appena tre mesi dopo. Le rotte per San Francisco, Los Angeles e Toronto hanno portato più guai che soddisfazioni e non è sicuro riaprano il prossimo marzo. Air Italy inanella bilanci da incubo e non chiude, almeno per ora, per motivi che poco hanno a che spartire con il business aereo in senso stretto.

Il primo motivo è di natura affettiva: il principe ismaelita Aga Kahn, 83 anni, considera la compagnia sarda come un figlio e dopo averla fatta nascere 57 anni fa non se la sente di vederla morire. Con il 51% del capitale l’Aga Kahn è ancora il proprietario di Air Italy, ma non è lui che si interessa dell’andamento della società. La gestione è in mano ad Akfed (Aga Kahn Found for Economic Development), entità economica con sede a Ginevra che si occupa soprattutto di altro in 25 Paesi del mondo, dall’Africa occidentale all’Asia Centrale e Meridionale, e interviene a sostegno delle comunità ismaelitiche con la costruzione di infrastrutture come scuole e ospedali. Il business aereo, per di più in un’area come la Sardegna e l’Italia estranea a quelle solite, non rientra esattamente nel core business del Fondo.

Il restante 49% di Air Italy è di altri arabi: Qatar Airways dell’emiro del Qatar. Sono loro i manovratori dell’azienda sarda e chi conta in particolare è Al Baker, manager molto influente. Un signore capace di convincere perfino Donald Trump a non dare troppa retta alle lamentele delle compagnie aeree americane contro Air Italy, ritenuta forse a torto capace di insidiare gli interessi statunitensi sulle rotte del Nord Atlantico. È stato Al Baker a scegliere i nuovi dirigenti di Air Italy, compreso il direttore, il bulgaro Dimitrov, guardato in azienda con una certa sufficienza perché in precedenza era un semplice assistente di volo.

Fu Matteo Renzi ai tempi in cui era capo del governo a farsi mallevadore dell’intervento qatariota: a distanza di anni si può dire che l’esperimento non è riuscito. Qatar Airways non se ne va dalla Sardegna probabilmente perché è il sistema Qatar che non vuole creare strappi con l’Italia. I legami tra i due paesi sono molto stretti: due anni fa Leonardo (ex Finmeccanica) ottenne dal Qatar una commessa di 3 miliardi di euro per la fornitura di 28 elicotteri Nh 90. E una settimana fa il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, si è recato in visita a Doha, capitale del Qatar, a pochi giorni di distanza dalla firma di un memorandum tra il ministero della Difesa qatariota e l’italiana Fincantieri a cui è stata delegata la progettazione e costruzione di una base navale e la gestione della flotta con la fornitura di nuove navi e sottomarini.