Pensioni, addio riforma Fornero. Ma le risorse ancora non ci sono

L’obiettivo comune è “dimenticare Fornero”, riformare cioè la riforma più odiata dagli italiani. Come, non è ancora chiaro, anche se ieri la ministra Nunzia Catalfo, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, i sindacati più grandi, Cgil, Cisl e Uil, si sono prodigati in dichiarazioni ottimistiche. La prima giornata di confronto tra governo e parti sociali ha definito un “cronoprogramma” molto fitto: quattro incontri nel mese di febbraio per discutere di garanzie ai giovani precari, di flessibilità in uscita, di previdenza complementare, ma anche di maggiori tutele per i non autosufficienti. Inoltre la ministra ha avviato i tre tavoli di lavoro sui lavori gravosi, sulla separazione tra previdenza e assistenza oltre alla Commissione di esperti che dovrà riflettere sulla riforma complessiva. Ma il dialogo è solo ai blocchi di partenza è l’uscita dalla Fornero prevede una serie di passi complicati.

Dopo Quota 100. La necessità di individuare delle soluzioni è data dalla natura sperimentale di “Quota 100”. Permettendo l’anticipo della pensione fino a 62 anni con 38 di contributi, invece degli attuali 67, o di 41 anni di contribuzione per la pensione di anzianità, al termine di “Quota 100” si corre il rischio di un nuovo “scalone” di almeno 5 anni. Che occorra intervenire dunque è chiaro a tutti. Ma come?

Quota 102. La proposta di Cgil, Cisl e Uil è riportare l’età pensionistica a 62 anni con un minimo di 20 anni per quella di vecchiaia e 41 anni di contributi per la pensione di anzianità. “Non abbiamo preclusioni”, dicono al ministero però come Catalfo ha già sottolineato, occorrerà studiare i dati, “fare una fotografia della situazione” e valutare l’impatto economico. Ma il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha già bollato come “non realistica” la proposta dei sindacati mentre il responsabile pensioni della Cgil, Roberto Ghiselli, è possibilista: “Lo scarso utilizzo di Quota 100 ha mostrato che, con pensioni ormai quasi integralmente a sistema contributivo, molti lavoratori preferiscono restare al lavoro. Occorre fare bene i conti”.

L’ipotesi a 62 anni, però, non sembra che sia presa seriamente in considerazione. “Se Quota 100 ha destato così tante obiezioni” spiegano fonti molto interne al dossier, “figuriamoci una misura che potrebbe costare circa 20 miliardi all’anno”. In area governativa si parla di 64 anni, quindi “quota 102”, con una serie di flessibilità per far arrivare alcuni settori a 62 anni di età sull’esempio di misure che già esistono come Opzione donna o l’Ape sociale.

Lavori usuranti. Il tema si incrocia con quello dei “lavori gravosi”, mai affrontato in modo definitivo. L’attuale disciplina definisce come “usuranti” impieghi particolari (nella cave, in miniera, palombari, con l’amianto) mentre servirebbe una radiografia adeguata al moderno lavoro (che fare delle maestre, ad esempio, o del lavoro di cura o dei trasporti?). Il fatto che Catalfo abbia istituito una commissione apposita spiega la centralità del problema e con i lavori gravosi si possono introdurre forme di flessibilità in uscita.

Garanzie ai giovani. Come garantire ai lavoratori precari, dagli impieghi incostanti e frammentari, una “pensione dignitosa” in assenza di una contribuzione continuativa? A questo obiettivo tengono sia Catalfo che Tridico, ma anche la Cgil. Solo che oltre ai fondi necessari – che Tridico ha individuato, in parte, nei risparmi di Quota 100 – c’è anche un problema di normativa, a meno di non voler risolvere tutto con la pensione di cittadinanza. Questo punto potrebbe entrare in conflitto con la flessibilità in uscita avviando uno scontro generazionale.

Previdenza e assistenza. L’Inps è un mega istituto che si occupa non solo di erogare assegni previdenziali, ma anche indennità di disoccupazione, maternità, assegni di invalidità e mille altre misure. Che non c’entrano nulla con la previdenza che, va ricordato sempre, è pagata dai contributi dei lavoratori (versati per loro conto dai datori di lavoro) e che non costituiscono parte della spesa pubblica, come il pensiero neoliberista ha fatto credere, ma salario differito. Si vedrà se la Commissione istituita dal ministero partirà da questo assunto o meno.

Complementare. Tridico ha presentato l’idea di affidare la previdenza complementare, appannaggio non solo di fondi privati ma anche di fondi negoziali costituiti da imprese e sindacati, a un fondo pubblico interno all’Inps. A opporsi, però, sono diversi sindacati, in particolare la Uil, che rivendicano i fondi negoziali – a dicembre, tramite la loro associazione Assofondipensione, hanno siglato un’intesa con la Cassa depositi e prestiti per un progetto di finanziamento alle piccole imprese e alle infrastrutture – e contesta l’invasione di campo. Tutti gli altri sindacati, benché più piccoli, sono dalla parte del presidente Inps e l’argomento è oggetto di uno degli incontri del cronoprogramma di febbraio.

Se arriva il virus scateniàmogli contro Amadeus, Renzi o Salvini

Il Coronavirus cinese fa paura. Stavolta Fabrizio Corona non c’entra, ma pare altrettanto ribelle a ogni misura di prevenzione. Da noi per ora nessun allarme: “Siamo attrezzati a combattere la diffusione”, dicono gli infettivologi. Bene. Ma in malaugurato caso di emergenza, ci permettiamo di suggerire alcuni piani utili a proteggere i confini nazionali. Piano A. Salvini gli citofona. “Scusi, lei è un virus?” “Lei infetta la gente a gogò?” Sputtanato in tutta Italia, il nostro se la svigna alla chetichella. Piano B. Renzi lo querela. Poche ciance, si passa alle citazioni. Una per ogni contagiato, più eventuale class action: “Nel mio giardino ci sarà un’aiuola intitolata al virus”. E quello abbozza. Piano C. La piattaforma Rousseau lo mette ai voti: si decide se è effettivamente una calamità pandemica o no. Il virus teme il verdetto online (di solito non porta benissimo) e se la svigna prima dell’esito. Piano D. Sull’onda dell’entusiasmo delle consultazioni regionali, Zingaretti gli propone di entrare nel Pd. Il virus ci pensa su, ingolosito da tutte quelle sardine, ma poi fiuta la trappola e si dà alla macchia: “Quelli sono capaci di scindere l’atomo, prima o poi scindono anche me”. Piano E. Amadeus lo invita a Sanremo come ospite internazionale. Il contratto è generoso, ma prevede la partecipazione a una conferenza stampa. Il virus è tentato, ma dopo una soffiata taglia la corda: “Mi hanno detto che dalle conferenze stampa di Amadeus non si salva nessuno”.

Il Tajani rianimato da una regione ancora masochista

Domenica sera, durante la maratona di Enrico Mentana su La7, poco dopo le 23 è accaduto qualcosa di prodigioso: è comparso Antonio Tajani. Da sempre, Tajani brilla dello stesso fascino luminoso che caratterizza le bietole lesse. Anche quando il berlusconismo era arrembante e non come adesso tramontante, lui pareva un ballerino di quarta fila (per giunta infortunato). Del resto Tajani è uno che, nel ’68, mentre i coetanei scendevano in piazza, faceva il leader dei giovani monarchici (non è una battuta). E già questo fotografa appieno il personaggio. Tajani – per quanto la natura glielo consenta, s’intende – era tutto garrulo: tal Jole Santelli aveva innegabilmente e come previsto spezzato le reni al bolscevico Pippo Callipo, che a dispetto del nome da Walt Disney sott’acido era un ottimo candidato. Non pervenuti i 5 Stelle, che da sempre alle Regionali sono competitivi come Mazzarri contro l’Atalanta e che, a questo giro, si sono persino superati in masochismo. Tajani esultava beffardo in tivù, sempre con quella bella presenza scenica da mausoleo egizio caduto anzitempo in disgrazia. Mentana ha provato a ricordargli che in Emilia-Romagna, dove la presenza delle spoglie mortali di Sgarbi ha puntualmente coinciso con l’ennesima Waterloo elettorale, Forza Italia ha faticato a superare il 2%. Tajani ha però fatto finta di nulla. Poi si è dileguato, intendo più del solito, per consegnarsi agli ameni baccanali forzisti e ai balli sinuosi con Gasparri & Santelli.

Letteralmente: l’allegra comitiva ha proprio fatto il trenino moscio sulle note di Gloria di Tozzi, e in tutta onestà neanche Pasolini in Salò aveva osato tanto per raccontare la tragicommedia malsana insita nei poteri che crollano. Vedere Tajani e derivati che esultano a fine gennaio 2020, mentre su scala nazionale Forza Italia si fa superare da chiunque (forse persino da Italia Viva: una gogna che non si augura a nessuno), è stata un’immagine oltremodo surreale. Un po’ come vivere nel presente e, di colpo, scivolare in un varco spaziotemporale assai sadico. Qual è il nichilismo antico a cui la maggioranza dei calabresi non vuol proprio rinunciare? Certo, il centrosinistra di Oliverio ha regalato praterie al centrodestra. E i 5 Stelle son bravi come nessuno a evirarsi da soli (per poi andarne pure fieri, spacciando il gesto insano per coerenza). È però allucinante come, dopo tutti questi decenni e sfaceli forzitalioti, una regione così potenzialmente straordinaria si sia voluta consegnare a Berlusconi. Quello stesso Berlusconi che, in campagna elettorale, scherzava (?) sul fatto che conosce Jole Santelli da 26 anni ma lei “non me l’ha mai data”. Quello stesso Berlusconi accolto da sindaci locali addirittura col baciamano (il primo cittadino di Soriano, Vincenzo Bartone). Pure l’affluenza al voto, ancor più se rapportata a quella in Emilia-Romagna, è stata stitica. Quasi che votare, per molti calabresi, fosse una iattura o come minimo una perdita di tempo. È noto come un’eroica ma cospicua minoranza combatta come nessuno e soffra in Calabria come nessuno, cercando di non lasciare solo Gratteri e quelli belli come lui, ma non riescono a far breccia. Tocca ribadirlo con durezza e temo disillusione: la Calabria è riuscita a regalare un mezzo plebiscito a un partito pressoché morto, che in natura ormai non esiste quasi più e che in Emilia-Romagna ha superato a fatica il 2%. Perché la maggioranza di voi vuole così poco bene a una regione così bella, amici calabresi? Quand’è che le cose cambieranno, ma cambieranno davvero e in meglio? Buona fortuna.

In Calabria vince il malaffare, in Emilia l’etica

Non ha vinto l’ideologia né l’appartenenza a un partito, nelle elezioni di domenica ha vinto il territorio, la natura profonda che alimenta la cultura di un popolo: nella Calabria di Bernardino Telesio il territorio ha votato in modo “naturale” seguendo “i propri principi” (che certa maggioranza ha cuciti addosso): la Calabria profonda è stata fedele alle proprie consuetudini (corruzione, familismo, ’ndrangheta) votando, non da oggi, come l’“Onorata società” comanda: “Nessuno in paese li considerava gente da evitare, e non tanto per timore, quanto perché formavano ormai uno degli aspetti della classe dirigente. Per la confusione d’idee che regnava tra noi a proposito di giustizia e d’ingiustizia, di torto e di diritto, di legale e d’illegale; per gli abusi veri e presunti di chi in qualche modo deteneva il potere, non si trovava sconveniente accompagnarsi con uno ’ndranghetista”. Corrado Alvaro ha spiegato con largo anticipo le elezioni calabresi del 26 gennaio 2020.

E la vittoria di Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna? Anche qui non ha vinto un partito, ma il territorio: ha vinto la democratica Emilia-Romagna che ha saputo fare argine al sovranismo di Salvini, ritrovando in sé, come altri popoli civili nell’ora del pericolo, la forza di resistere: “Quel che c’è di nuovo è lo spettacolo di un gran popolo, che rivolge senza fretta e senza paura gli sguardi su se stesso, misura la profondità del male”, individua il rimedio e dedica tutte le sue forze a combattere il pericolo. Parlava d’altro Tocqueville, ma la civile e orgogliosa Emilia-Romagna questo ha fatto, domenica, opponendosi al male espresso dalle truci parole dei leghisti (orrenda la “violenza al citofono”) nella campagna elettorale.

Questi i fatti, e i diversi esiti elettorali che rispecchiano implacabilmente le differenze regionali. Poi, certo, dovremmo ragionare del Pd (è davvero rinato dopo queste elezioni?) e della crisi dei 5Stelle (gli “Stati Generali” consentiranno d’invertire la tendenza e recuperare voti?). Diremo in seguito. Oggi è del popolo calabrese, emiliano, romagnolo, che vogliamo parlare: mai come ora l’Italia si dimostra duplice, scissa, divisa: La disunità d’Italia, titolò Giorgio Bocca, anni fa, un saggio: l’Italia è “un Paese spaccato in due, tra una parte produttiva e una parte parassitaria e malavitosa; uno Stato a pezzi che in intere regioni rinuncia a far rispettare le regole democratiche; un’amministrazione della Giustizia che produce ingiustizia in dosi sempre maggiori…; una partitocrazia affarista, che sa di poter contare su una sostanziale impunità”. Parole sante, che dovrebbe rileggere Zingaretti. Si può sorvolare su un’analisi della malagiustizia così lucida, espressa (già) sul finire degli anni Ottanta? La legge Bonafede inizia a metter fine a questo stato di cose. È il caso di boicottare il ministro per qualche gaffe? Di ricomporre su questo tema la Santa Alleanza Pd-Fi-Lega? È il caso di isolare i 5Stelle, che felicemente si “ostinano” su questo punto del programma? Infine: è il caso di lasciare la Calabria e tutto il Sud – previa legge che premia i delinquenti – in mano alla mafia?

Va detto con forza: in Emilia-Romagna hanno vinto la ragionevolezza, la civiltà e la forza della democrazia; in Calabria l’oscurantismo, la politica degli affari, le collusioni pericolose: la politica romana non ha colpe per l’incancrenirsi di questa dicotomia? Se salta la Bonafede sulla prescrizione esulteranno soprattutto mafiosi e politici collusi. È per questa via che i progressisti pensano di liberare il Sud dalla morsa di Cosa Nostra? Malapolitica e questione morale si tengono insieme e nel meridione è problema trasversale ai partiti (lo sa Gratteri): perché Salvini non ha citofonato alla porta di nessun boss calabrese? Alvaro scrive che “gli ’ndranghetisti professano il rispetto della religione e posano a difensori della morale anche quando non la praticano”. Va aggiunto che oggi è la postura di troppi politici.

Citofoni, pesci e Jole: cosa resterà del voto

Cosa resterà di queste elezioni afferrate e già scivolate via (Raf), cosa resterà? Memorandum.

Bonaccini. Lo davano per battuto, poi ha avuto il soccorso di Sardine e voto disgiunto 5stelle. Un perdente di successo.

Borgonzoni. Non bastasse il padre che le dà addosso, il cognome storpiato in Bergonzoni, il paragone con il cavallo senatore di Caligola, sempre alle spalle del Capo fino al completo oscuramento per non fargli ombra, non è che gli accolleranno pure la sconfitta? La più ampia solidarietà.

Bugani Max. Noto grillino del dissenso, autore della migliore battuta sul crollo del Movimento. “Suono l’allarme da tempo, impossibile negare l’evidenza, come quel marito che trova la moglie a letto con il migliore amico e chiede: c’è qualcosa che devo sapere?”.

Citofonare Matteo. Accanto a mojito e Papeete, il noto impianto elettronico (chiamato anche targa a pulsantiera) usato per mettere alla gogna la famiglia tunisina del Pilastro rappresenta la pietra miliare di un disastro politico. Simbolo del tafazzismo di destra che a un passo dalla vittoria si spara sui piedi. Dalle processioni che domenica assediavano i seggi dell’Emilia-Romagna sembrava levarsi un solo grido: ohé Salvini, quando è troppo è troppo.

Forzisti alla riscossa. Con Jole Santelli governatrice della Calabria già al primo exit-poll, Berlusconi è l’unico vincitore nel centrodestra. Con Giorgia Meloni in costante crescita, presto presenteranno il conto all’ex Capitano.

Nenni Pietro. Figura prestigiosa del socialismo italiano di cui si ricorda spesso una frase vagamente iettatoria: piazze piene, urne vuote. Che da oggi si può tranquillamente declinare in: piazze piene, urne piene (vedi Sardine).

Proporzionale. Si proclama il trionfale ritorno del bipolarismo su cui andrebbe cucito il sistema maggioritario. Ma con il suo 15-16% il Pd di Zingaretti come può competere con la destra che veleggia intorno al 50 e oltre? Se non perseguendo l’alleanza con i 5stelle che i sondaggi danno, malgrado tutto, intorno al 15- 16%. Soltanto col sistema proporzionale la somma di due debolezze può cercare di diventare una forza.

Sardine. Dichiarano: “Non siamo nati per stare sul palcoscenico, ci siamo saliti perché era giusto farlo. Ora desideriamo tornare a essere noi stessi, elettori e cittadini, parenti e amici, per questo non ci vedrete in tv o sui giornali”. Poi però annunciano: “Ci vediamo a Scampia”. Parafrasando Andreotti si potrebbe dire: benedetti ragazzi, la tv logora chi non la fa. Comunque, grazie di cuore.

Spread. È assodato: il temuto differenziale cresce ogni volta che aprono bocca Borghi e Bagnai, cala decisamente se Salvini perde le elezioni.

Toscana. Prossima tappa della campagna permanente del leghista. Dopo lo sbaciucchiamento della coppa in quel di Parma, ci si chiede a cosa si avvinghierà: alla finocchiona?

Uomo solo al comando. Figura mitica, al momento in disarmo, minacciata dalla gestione collegiale (vedi Salvini e Di Maio). Meglio tuttavia non sottovalutare un classico delle italiche trombature: il rieccolo. Resta assodato che ogni volta che un leader promuove un referendum sulla sua persona (vedi Renzi) regolamente lo perde.

Vito Crimi. Caso abbastanza raro di capro espiatorio volontario. Dopo i saluti dell’astuto Di Maio, gli tocca caricarsi sulle spalle l’irrilevanza grillina nelle due regioni al voto. Difficile dargli torto se dice che il Movimento vale molto di più a livello nazionale. Non certo però il 32 e rotti del marzo 2018. Ragion per cui nei prossimi mesi (e forse anni) si prevedono robuste barricate a cinque stelle in Parlamento.

Mail Box

 

La rabbia (di Salvini) e l’orgoglio (in Emilia-Romagna)

Sono contento e orgoglioso dei miei conterranei emiliano-romagnoli, gente semplice e attenta. Poiché nella nostra indole prevale l’amore, anche per l’avversario, volevo suggerire a Salvini di fare un corso di educazione e convivenza. Io ho smesso a 10 anni di andare a suonare i campanelli. Si riposi e ripassi il catechismo, per evitare di nominare il nome di Dio invano. Faccia una dieta sana, lasci lavorare la magistratura, scompaia per un po’.

Paolo Benassi

 

“Cosa sarà di me?”: una filastrocca post elezioni

Domani, senza neri,/ senza barche e barconi,/ cosa sarà di me?/ Cosa sarà di me/ con il cuneo fiscale/ il calo delle tasse/ le pensioni più ricche/ i bimbi di Bibbiano/ tornati i genitori/ le elezioni emiliane/ e quelle romagnole?/ Chiuse le produzioni/ di santi, crocifissi,/ corone coroncine,/ statue della Madonna?/ Cosa sarà di me/ se vendono il Papeete/ a un uomo di sinistra?/ Se essere volgari/ non porterà più voti?/ Cosa sarà di me,/ dopo anni di urlate,/ bugie promesse accuse/ le lunghe occupazioni/ delle televisioni?/ Se questa coalizione/ chiamata giallo-rossa/ terrà duro tre anni/ e perderò la voce/ a furia di gridare/ e crescerà la noia/ del popolo italiano/ che cambierà canale/ alle mie apparizioni/ alle continue balle/ ai discorsi banali/ alle ripetizioni/ alle molte panzane?/ Quando dopo l’insonnia/ sul fare del mattino/ nell’incubo dei sogni/ comparirà Andreotti/ gelido, a ricordare/ che logora il potere/ solo chi non ce l’ha/ e mi dirà, Matteo,/ cos’hai combinato/ quell’inizio di agosto?/ Dove avevi la testa?/ Eri proprio suonato?

Guariente Guarienti

 

Zingaretti e Bonaccini ringraziano le Sardine: giusto

La vittoria del Pd in Emilia-Romagna è da dedicare alle Sardine (e bravi Zingaretti e Bonaccini che le hanno ringraziate). Hanno fatto educazione civica. Molti di quei giovani che hanno contribuito alla vittoria, evitando di astenersi, nulla sapevano di quello che stava accadendo, ma – grazie alle Sardine – hanno intuito la bestialità del linguaggio e dei gesti salviniani, il tentativo di rendere l’anima di tutti più cattiva, egoista, rabbiosa. Santori e compagni hanno saputo riparlare di valori, accoglienza, spirito di partecipazione, proprio per evitare che si arrivasse pericolosamente all’uomo solo al comando.

Barbara Cinel

 

Lo spirito di Gramsci nel riscatto di Santori & C.

“Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. È L’Ordine Nuovo di Gramsci. I tre elementi di questo motto sono gli odierni ingredienti della vittoria delle Sardine: un passaggio di testimone, da un sardo a una sardina!

Carmelo SANT’ANGELO

 

DIRITTO DI REPLICA

Eni, in merito ai provvedimenti emessi giovedì dalla Procura della Repubblica di Milano, conferma la propria stima nei confronti degli attuali dirigenti interessati. Eni evidenzia con grande sconcerto che le accuse alla base dei provvedimenti sono state formulate da Piero Amara e Giuseppe Calafiore, pluripregiudicati, e Vincenzo Armanna, indagato sia nel procedimento relativo all’Opl245, sia in quello relativo al “depistaggio”. Si ricorda come nell’ambito del procedimento Nigeria sia stato depositato un documento della Polizia giudiziaria di Torino in cui Vincenzo Armanna, in una conversazione con Piero Amara, al fine di volere estromettere alcuni manager di Eni dalla gestione delle attività nigeriane, rispetto alle quali nutriva interessi economici personali, prometteva di adoperarsi per causare l’emissione di avvisi di garanzia a loro carico da parte della Procura di Milano nell’ambito delle indagini su Opl245. Cosa che avvenne, e che portò all’emissione di avvisi di garanzia nei confronti dell’Ad e dell’ex Ad di Eni. Fatto di estrema gravità, che va letto anche in relazione ai ripetuti tentativi di destabilizzazione della società perpetrati da Amara e Armanna, già querelati e denunciati dall’Ad di Eni e dal Chief Services & Stakeholder Relations Officer della società per calunnia e diffamazione aggravata. Eni ha altresì accertato e denunciato per ogni verifica in giudizio il compimento di atti lesivi del proprio patrimonio da parte degli stessi soggetti oggi dichiaranti e di ulteriori partecipanti. Eni ribadisce la propria fiducia nell’attività della magistratura e ribadisce l’estraneità della società e degli attuali manager interessati dal provvedimento alle ipotesi investigative avanzate allo Stato. Per quanto riguarda l’ipotesi “depistaggio”, Eni ribadisce la fermissima convinzione di essere parte lesa e continuerà a perseguire la tutela della propria reputazione nei confronti di chiunque sia coinvolto in eventuali ulteriori condotte censurabili in danno sia alla reputazione sia al patrimonio della società.

Erika Mandraffino Ufficio Stampa Eni

 

Domenica a pagina 4, nell’articolo di Marco Zavagli “Ferrara, faida leghista (in chat)”, sono state invertite per un errore tecnico la terza e la quarta colonna. Ce ne scusiamo.

Fq

Cicutto è il nuovo presidente: uomo di cinema, chi metterà alla Mostra?

Gentile redazione, ho sentito che il ministro Franceschini ha nominato il nuovo presidente della Biennale di Venezia: Roberto Cicutto, che subentra così a Paolo Baratta. Scusate l’ignoranza, ma chi è? Quale è il suo percorso professionale? Cosa dovremo aspettarci dalla sua nuova presidenza: continuità o discontinuità con Baratta, che pure ha ridato lustro alla Mostra del Cinema e alle Biennali “minori”, come la musica?

Eleonora Stefanetti

Cara Eleonora, dovremmo confidare nella continuità: il lavoro di Paolo Baratta è stato encomiabile, per merito, per respiro e per cassa. Come ha ricordato “a conclusione del mandato, per il futuro è assicurata una consistente dotazione di riserve economiche e continuità dell’attività”. Dopo il quinquennio, più un mese, di Baratta, tocca dunque a Roberto Cicutto, un tecnico settantunenne elegante e competente nominato dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che nell’annuncio a nome e cognome gli ha premesso l’indicazione geografica tipica: “Sarà il veneziano Roberto Cicutto il nuovo presidente della Biennale di Venezia”. Non è un segreto che il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e il governatore del Veneto Luca Zaia, secondo cui Cicutto “eredita una macchina super performante”, premessero per l’estensione del dominio garbato di Baratta: un “veneziano” addolcirà la pillola, dovrebbe. Cicutto è uomo di cinema: in scadenza di mandato a Istituto Luce-Cinecittà, dov’era presidente e ad dal 2009, ha fondato nel 1978 la casa di produzione Aura Film – vincendo dieci anni dopo il Leone d’oro per “La leggenda del santo bevitore” di Ermanno Olmi –, nel 1984 la Mikado e nel ’93 la Sacher Distribuzione con Angelo Barbagallo, Luigi Musini e Nanni Moretti. Insomma, sul versante cinematografico un curriculum impeccabile e un’incognita da dirimere a breve termine: il direttore Alberto Barbera scadrà dopo la prossima 77esima Mostra (2-12 settembre), che fare? Ma Cicutto dovrà anche provarsi lontano dal suo core business, ovvero in arte, teatro, architettura, musica e danza: qualcuno teme una sperequazione tra figli e figliastri, di certo qui si valuterà “la nuova fantastica sfida” che Franceschini gli ha assegnato. Mentre si lavorava per una proroga a Baratta, una rosa di nomi era circolata per la prestigiosa e insieme ostica successione: da Goffredo Bettini, che ora potrebbe prendere il posto di Cicutto al Luce, a Francesco Rutelli, da Stefano Boeri a Giovanna Melandri ed Evelina Christillin. L’ha spuntata Cicutto, auguri!

Federico Pontiggia

Il lungo martirio dell’Università

Ricordate il grande vecchio film di Sydney Pollack Non si uccidono così anche i cavalli? Narrava di una crudele maratona di ballo, in voga nell’America della Grande depressione, cui partecipavano coppie di disperati disposti a danzare ininterrottamente per giorni interi, in vista di un premio a chi fosse resistito di più ma soprattutto in cambio di un vitto assicurato. Nessuna metafora potrebbe rendere con più spietata fedeltà ciò che è avvenuto in quel ramo nobile della burocrazia che è la nostra università. Mentre il mondo si inoltra nella società della conoscenza, dove le uniche monete a corso legale sono la cultura e la competenza, l’università si è cimentata per anni e con successo in un’allucinata autodistruzione.

Ecco le date essenziali del disastro. Nel 1923 fu varata la riforma Gentile, che rimase in vigore fino a tutto il dopoguerra; nel 1947 l’art. 33 della Costituzione rese libero l’insegnamento universitario; negli anni Ottanta vennero varati i dipartimenti; nel 1989 fu sancita l’autonomia organizzativa, didattica e finanziaria degli atenei. Intanto gli studenti universitari, che nell’anno accademico 1951-52 erano 226.543 (le donne non superavano il 15-20% del totale), quaranta anni dopo erano diventati 1.474.719 (e le donne superavano il 50%).

La prima vera riforma dopo quella Gentile arrivò nel 1997, quando era ministro dell’Università e della Ricerca Luigi Berlinguer, e fu attuata nel 1999, quando era ministro dello stesso dicastero Ortensio Zecchino. Con questa riforma copernicana furono introdotti il 3+2, i crediti, le cosiddette classi con relativi obiettivi formativi qualificanti, la libertà per ogni singolo ateneo di costruire percorsi di studio adeguati alle esigenze della locale realtà economica e sociale. Legge e decreto non furono accompagnati né seguiti da alcuna formazione del personale docente e di quello amministrativo per cui ogni facoltà, ogni dipartimento, ogni corso di laurea, ogni amministrazione, ogni segreteria intraprese per suo conto un proprio percorso riformativo contribuendo a una confusione totale nei modi e nei tempi di attuazione.

Quando il caos andava sbandatamente diradandosi, sulla confusione universitaria si abbatté un fuoco di fila di controriforme e neoriforme pilotate da ministre del tutto ignare del mondo accademico, dei suoi problemi pedagogici, organizzativi e finanziari. Iniziò Letizia Moratti con tre azioni normative tanto imperiose quanto azzardate: una legge del 2003 con cui veniva abolita la riforma Berlinguer quando ancora tentava di prendere corpo; una legge del 2005 che conteneva nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari nonché la delega al governo per il riordino del reclutamento dei professori; un decreto legislativo del 2006 che modificava ulteriormente il riordino della disciplina del reclutamento dei professori universitari.

Leo Longanesi dice che gli italiani sposano un’idea e subito la lasciano con la scusa che non ha fatto figli. Come la riforma Berlinguer (di stampo socialdemocratico) fu subito cancellata dalla Moratti (di stampo neo-liberista), così la riforma Moratti (di stampo neo-liberista) sarà presto cancellata dal successivo governo Prodi (di stampo socialdemocratico) per essere poi riacciuffata e modificata dalla Gelmini (di stampo neo-liberista).

Tra l’8 gennaio 2008 e il 16 novembre 2011 fu presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e ministro dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca Mariastella Gelmini. Questa ministra fece in tempo a riavviare la riforma Moratti ma non resistette alla tentazione di modificarla da cima a fondo. Perciò, con una legge del 2008 decise che gli atenei pubblici potessero trasformarsi in fondazioni di diritto privato e con una legge del 2010, per sconquassare la governance dell’università, modificò la composizione del senato accademico e del consiglio di amministrazione, introdusse un nuovo sistema di contabilità economico-patrimoniale e la possibilità degli atenei di fondersi; superò la tradizionale facoltà universitaria per attribuire al dipartimento il potere di sovrintendere sia alla didattica che alla ricerca, modificò diverse disposizioni relative al personale docente, ai rettori e ai ricercatori universitari; introdusse nuove procedure di valutazione sia dei docenti che del funzionamento degli atenei tramite l’Anvur. Infine, con un decreto ministeriale, determinò i requisiti necessari dei corsi di studio e ridimensionò l’offerta formativa delle università pubbliche.

Tutto questo senza mai prevedere modalità attuative, fasi di rodaggio, formazione dei formatori, addestramento del personale amministrativo, assunzione di nuovo personale, reale coinvolgimento dei docenti, dei manager e degli studenti, valutazione dei risultati parziali e ritocco correttivo delle leggi.

Intanto, gli studenti sono aumentati da 1.474.719 del 1991 a 1.681.146 del 2018. Il 55% è composto da donne. Le lauree si sono sdoppiate (triennale e quinquennale) comportando il raddoppio del lavoro didattico per i docenti i quali, da quando la Gelmini condusse la sua crociata, sono numericamente diminuiti del 25% per mancato turnover. Intanto i finanziamenti sono scesi da 7,5 miliardi a 7,3.

Il risultato di questa gara tra sciagurati è che la percentuale di laureati tra i giovani di 25-34 anni in Italia è appena del 28%, contro il 47% dei paesi Ocse; la spesa pubblica per l’Università è solo lo 0,89% del Pil, cioè la metà rispetto alla media Ocse.

Nel giorno di Natale del 2019, per protestare contro l’insufficiente stanziamento di fondi, il ministro Fioramonti si è dimesso. Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Quattro giorni dopo le sue dimissioni, il governo ha deciso di sdoppiare il ministero: da una parte quello della Pubblica Istruzione e dall’altro quello dell’Università e della Ricerca Scientifica. Si tornava così, saggiamente, all’esperienza positiva interrotta nel 2008. Ma anche questa vicenda rasenta il surreale e va sinteticamente ricordata come testimonianza dolorosa del modo con cui sono state concepite e attuate le riforme dalle quali dipende la formazione professionale, civile e umana degli italiani.

La funzione di ministro senza portafoglio per il Coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica fu istituita dal governo Fanfani nel 1962 e rimase attiva fino al 1988. In 26 anni si avvicendarono 21 ministri coordinatori e ben 27 governi. Poi, con una legge del 1989, l’istituzione assunse il nome e la consistenza di “Ministero dell’Università e della ricerca scientifica”. In 13 anni si successero 9 governi e 8 ministri.

Con una legge del 1999 voluta da Bassanini durante il governo D’Alema, il ministero della Pubblica istruzione e quello dell’Università furono accorpati in un nuovo ministero: quello dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur). L’accorpamento resistette fino al maggio 2006 quando il governo Prodi II lo sdoppiò nuovamente e tale rimase fino al maggio 2008 quando il governo Berlusconi IV nuovamente lo riaccorpò. Pur succedendosi con la media di uno all’anno, i ministri sono riusciti a sbizzarrirsi nella creazione di innumerevoli organi di rappresentanza, di consulenza e di valutazione – Cun, Cnam, Cnsu, Cnvsu, Civr, Cnsi – che, insieme allo svariare di leggine e decreti, di accorpamenti e scorporamenti, ha fatto di quella che fu gloriosa nei secoli, un’università infima nelle graduatorie mondiali.

E adesso “Basta col Capitano”. Così la Rete sfotte Salvini&C.

La politica è social e il primo a saperlo è Matteo Salvini, lui che non s’è fatto remore a sbarcare su Tik Tok, l’ultimo ritrovo digitale degli adolescenti, pur di provare a vincere in Emilia-Romagna. E così il giorno dopo la riconferma di Stefano Bonaccini non basta la vittoria in Calabria per addolcire gli sfottò – oggi si chiamano meme – contro il leader della Lega.

La nemesi per eccellenza, come prevedibile, riguarda la scena del citofono: gli stessi che ne lamentavano lo squallore, ora banchettano con fotomontaggi esilaranti. La pagina “Le più belle frasi di Osho” dona la sintesi perfetta: “Ve volevo salutà che sto annà via”. Su Twitter, invece, Salvini diventa citofonista per mestiere, costretto nei panni di un fattorino. La finezza, qui, è nel dettaglio: la compagnia per cui lavora il Capitano è “Just Hate”, parodia di “Just Eat” che sostituisce alla consegna del cibo (Eat) un po’ di odio (Hate). E del fatto che Salvini abbia davvero accusato così tanto il colpo fino a voler cambiar vita nel web non mancano indizi. Leo Morabito: “Salvini: ora lavorerò il doppio. Ha già ordinato un nuovo bastone per i selfie”. Paolo: “Salvini lavorerà il doppio. Beh, deve avergli aperto lo spacciatore”.

Certo, con quel che ha combinato in campagna elettorale Salvini è senz’altro il più esposto a figuracce. Ma qualcuno gli fa compagnia. I 5 Stelle, per esempio, pare abbiano cambiato simbolo (e nome): via le stelline, dentro i simboli della percentuale. Da leggersi: “Movimento 5 per cento”. Classico caso di nomen omen, ribadito da qualcuno ancor più perfido: “Chiamatelo Movimento 4,5 Stelle”.“

Quella mezz’ora da Vespa in cui la Lega ce la poteva fare

Stefano Bonaccini ha vinto la sfida elettorale in Emilia Romagna col 51,4% dei voti, mentre la leghista Lucia Borgonzoni, si è fermata al 43,6%. Ben 7,8 punti percentuali di differenza, una notevole batosta. Nella serata elettorale di domenica, però, c’è stata una mezz’ora in cui la partita è sembrata riaprirsi, diventando quasi un testa a testa. Accade poco prima di mezzanotte. Siamo nel salotto tv di Bruno Vespa, che sta conducendo un Porta a Porta speciale elezioni, con i sondaggi curati dalla triade Antonio Noto, Fabrizio Masia e Nicola Piepoli. In studio però c’è solo Noto, che alle 23.40 dà i suoi exit poll: 48-52 per Bonaccini, 43-47 per Borgonzoni. Simili a quelli delle altre trasmissioni. La sorpresa arriva poco dopo, alle 23.56, quando Noto legge le prime proiezioni. “È un campione poco attendibile, ma sono dati reali…”, premette il sondaggista. Bonaccini è al 48,2% e Borgonzoni al 45,9. Solo 2,3 punti di differenza. Gli ospiti in studio sbiancano per la sorpresa: “Vuoi vedere che gli exit poll hanno toppato?”.

Vespa, da uomo di tv, subito si eccita: un testa a testa è un toccasana per l’audience. “Due punti e qualcosa possono essere pochissimi o tantissimi. Ma la partita si riapre…”, osserva. Nel frattempo, nella Maratona Mentana su La 7, i dati di Swg continuano a confermare un ampio divario in favore di Bonaccini. Lo stesso Mentana vede i dati di Vespa e commenta: “Vedo che altri programmi stanno dando una forbice più stretta, ma noi ci fidiamo dei nostri sondaggisti…”.

Per Raiuno nei minuti che seguono la mezzanotte la partita in Emilia è apertissima. Ed è in quel momento che, a sorpresa, a mezzanotte e un quarto, Matteo Salvini si presenta davanti ai giornalisti, prendendo tutti in contropiede. “Sono entrato di nascosto per fregare Vespa e Mentana…”, esordisce, mentre l’inviata di Porta a Porta, Vittoriana Abate, corre a mettergli il microfono davanti. E sarà sui numeri dati da Raiuno che Salvini parlerà non proprio da sconfitto, ma da uno che in Emilia forse se la può ancora giocare. “Avere una partita aperta con un distacco del 2,3% è per me una grande emozione, per la prima volta da 70 anni quella regione è diventata contendibile…”, dice il leader della Lega. Che poi aggiunge: “Se vincerò in Emilia sarò felice, se perderò sarò contento lo stesso e lavorerò il doppio…”. Non ci crede nemmeno lui, ma l’importante è la sua narrazione.

“Si è infilato nell’unico momento in cui il divario tra i due candidati era stretto e ha imposto la linea a giornali e tv…”, fa notare una fonte Rai. Se solo avesse aspettato un po’, avrebbe dovuto usare parole diverse, perché 22 minuti dopo la mezzanotte la successiva proiezione di Noto ri-allarga la forbice emiliana: 48,6% per Bonaccini, 45,5% per Borgonzoni. L’ultima proiezione data da Porta a porta, verso l’1.30, è poi assai vicina al risultato reale: Bonaccini al 50,9% e Borgonzoni al 44,1. “I numeri vengono dati man mano che arrivano, e noi di solito preferiamo essere prudenti. Domenica sera abbiamo azzeccato i primi exit poll e anche le proiezioni, quando sono diventate attendibili…”, osserva Antonio Noto. Assolutamente vero. Però negli studi di Porta a porta, e solo lì, la partita per mezz’ora si era riaperta, con un bell’assist a Salvini, che ha scelto quel momento per parlare.

Come un assist è stata l’anticipazione della puntata con il leghista mandata in onda mercoledì scorso durante la partita Juve-Roma, con Vespa costretto a riequilibrare il giorno dopo con medesimo spot pro Zingaretti durante Don Matteo. Vicenda su cui ieri l’Autorità per le telecomunicazioni ha riscontrato la violazione del contratto di servizio per violazione del pluralismo che porterà probabilmente una sanzione per la Rai.