Protagonisti. Chi sale e chi scende

Matteo Salvini nelle vesti di astro discendente e Matteo Renzi nel ruolo dell’irrilevante. I due omonimi, simili per carattere e anche per improvvise perdite di lucidità politica, sono i primi sconfitti delle elezioni Regionali. Con loro, perde un tipo di leadership, onnipresente, arrogante, poco rassicurante. Luigi Di Maio non si salva l’anima (e forse neanche il futuro politico) con la mossa di lasciare la guida del Movimento a pochi giorni dal voto. Stravince Stefano Bonaccini, che passa per salvatore della Patria. Ma vince pure Giuseppe Conte, con la scelta di non misurarsi nell’agone. E poi, Nicola Zingaretti, il governatore riconfermato, conquista quello che più gli serve: il tempo per scommettere su un rinnovamento del Pd. Silvio Berlusconi vende cara la pelle e Giorgia Meloni scalda (ancora) i motori. Ma per ora non è tempo di leader d’impatto.

 

Vince con la scelta di non combattere

Nessuna foto di Narni, nessun intervento forte nella contesa dell’Emilia-Romagna. Giuseppe Conte ha deciso di giocare il ruolo del leader super partes, del premier gradito agli italiani, del baluardo della democrazia (moderata) e del sistema vigente. Ha diviso le sorti del suo governo da quelle della Stalingrado rossa. Solo negli ultimi giorni ha fatto qualche piccolo passo con la firma del Manifesto green ad Assisi e il varo dei decreti attuativi del cuneo fiscale. Ne esce rafforzato. Per ora. Con la scelta di non combattere direttamente, ha vinto. Una vittoria un po’ esangue, ma pur sempre una vittoria.

Giuseppe Conte

 

La tendenza a esagerare lo punisce un’altra volta

Ha chiesto un referendum su stesso, ha cercato la spallata Matteo Salvini. E ha fallito. Mostrando di nuovo la tendenza a mettere il piede sull’acceleratore e a perdere il controllo. Come al Papeete. Tra ricerca di rivincita (rispetto prima di tutto a se stesso) e delirio di onnipotenza (nello scegliere una candidata fragile) ha messo in atto la dinamica che fu di Renzi: raddoppiare sempre. Un atto di prepotenza come la citofonata al presunto spacciatore tunisino ha fafto il resto. È il perdente. Con un’attenuante: anche stavolta ci ha messo la faccia per primo. E non mollerà.

Matteo Salvini

 

È il “Salvatore della patria”. E sogna il Pd

Ha cambiato montatura degli occhiali, taglio della barba e si è pure palestrato, Stefano Bonaccini. Una metamorfosi che però ha solo evidenziato il protagonismo con cui ha condotto la battaglia. Dietro di lui aveva un sistema di potere consolidato. Ma poi ha messo in campo le doti del buon amministratore e l’abnegazione del dirigente di partito. Si è volutamente tenuto lontano dalle diatribe nazionali, ma ha utilizzato quest’occasione come un palcoscenico. L’ambizione resta quella di tornare a Roma, magari alla guida del Pd. Oggi è il vincitore indiscusso, il Salvatore della patria.

Stefano Bonaccini

 

La poca incisività porta risultati. Per ora

A Nicola Zingaretti non piace recitare da protagonista. Stavolta questa attitudine ha pagato. Il Pd è il primo partito in Emilia-Romagna, con un risultato che forse neanche lui si aspettava. L’attitudine a smussare i conflitti e ad agire con prudenza ha dato qualche risultato. Dopo la sofferta decisione di dar vita al Conte 2, adesso si pone come il miglior alleato del premier, “offrendogli” il Pd come forza di riferimento. Ma l’assenza di incisività si nota e potrebbe scioglierlo davvero il Pd. Ora serve il coraggio di cambiare marcia imponendo un’agenda al governo e perseguendo un vero rinnovamento.

Nicola Zingaretti

 

L’eterna promessa che logora Salvini

Più di destra di Matteo Salvini, ma meno impulsiva. Presente, ma senza sovra-esporsi in maniera irrazionale. Forte del risultato di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni prosegue nella sua strategia di essere più un’avversaria che un’alleata del leader della Lega. E gioca a rubargli terreno: è stata la prima a presentarsi a Bibbiano, promettendo di tornare. Non avendo ambizioni da premier (almeno per ora) può fare più liberamente l’estremista. Ma chissà che anche lei non si consumi in questa battaglia tutta interna al suo schieramento, in un eterno ruolo da promessa.

Giorgia Meloni

 

FI è in liquidazione ma B. alza il prezzo

Con un filo di voce, ancora domenica sera Silvio Berlusconi ha rivendicato la vittoria della candidata di Forza Italia, Jole Santelli. Il fu Caimano, che a questo punto è il simbolo di un gruppo di fedelissimi più che un vero attore in gioco, ancora una volta segna un punto a suo favore. Anzi due. Che i suoi non amassero Lucia Borgonzoni non è un mistero. Il giorno dopo si racconta che abbiano fatto il voto disgiunto per non sceglierla. Se è per Berlusconi, ha sempre avuto un rapporto migliore con Renzi che con Salvini. Forse è una vittoria di Pirro. Ma di certo alza il prezzo di un partito in fallimento.

Silvio Berlusconi

 

 

Santelli fa festa, ma la Lega non brinda. E il centrodestra già litiga su chi sarà il vice

Ci sono due immagini che raccontano perfettamente il dopo elezioni in Calabria. La prima scena è quella della neo presidente della Regione Jole Santelli che canta, balla la tarantella e brinda con i big di Forza Italia Antonio Tajani e Maurizio Gasparri. E poi c’è la Santelli afona che non ce la fa a parlare. Con un filo di voce appare in tv per ringraziare tutti i partiti che l’hanno sostenuta. Riprende fiato ascoltando la telefonata di Berlusconi che si congratula con la sua deputata e da indicazioni a Tajani su cosa fare: “Adesso diamo tutti una mano a Jole, deve riposare e ritornare in forma”.

Tutti attorno ci sono i capataz locali, le stesse facce che dieci anni fa hanno portato in trionfo l’ex governatore Giuseppe Scopelliti. Ieri come oggi, il vecchio che avanza, senza cambiare nemmeno il vestito. Alle spalle della presidente ci sono tutti: dal senatore Marco Siclari ai fratelli Occhiuto che l’avevano accusata di tradimento per essersi candidata al posto del sindaco di Cosenza, passando per Francesco Talarico, l’ex presidente del Consiglio calabrese oggi segretario regionale dell’Udc. Prima di “licenziarsi” dalla festa, la Santelli trova un altro filo di voce: “Abbiamo vinto a mani libere” dice dopo avere imbarcato tutti, transfughi, indagati e impresentabili compresi, se erano utili per conquistare la Calabria. Lo ha fatto e adesso la partita si fa più seria. C’è da dividere la torta della giunta e gli incarichi istituzionali. A partire dal ruolo di vicepresidente della Regione e di presidente del Consiglio.

Il messaggio della Santelli non è passato inosservato. La paura è che le mani siano libere anche rispetto ai partiti di maggioranza. Gli alleati hanno fatto finta di non capire, distratti dalla tarantella organizzata dal deputato Ciccio Cannizzaro, in versione “maestro di ballo” e organizzatore di cori da stadio. “Abbiamo un presidente” urla il parlamentare di Forza Italia a favore delle telecamere. In realtà alla Santelli non ci pensa più nessuno. Tutti sono concentrati su chi sarà vice che dovrà affiancarla. Sul piede di guerra i due partiti più votati dopo Forza Italia: Lega e Fratelli D’Italia, che adesso battono cassa.

In un incontro riservato, avvenuto la settimana scorsa a Lamezia Terme, il commissario regionale della Lega Cristian Invernizzi ha messo le mani avanti con il commissario calabrese di Fratelli D’Italia, Wanda Ferro. “Se faremo un buon risultato – le avrebbe detto – pretenderemo noi la vicepresidenza”. Invernizzi e i suoi non hanno partecipato alla nottata della Santelli. In molti lo hanno notato e qualcuno, tra una tarantella e un bicchiere di champagne, si è lamentato.

“Ci sono stati commenti sgradevoli da parte di Forza Italia” ha reagito il commissario della Lega che se riuscirà a strappare la vicepresidenza potrebbe proporre Pietro Molinaro (l’ex capo della Coldiretti eletto consigliere regionale con più di 5600 voti) o l’esterno Sergio Abramo, sindaco di Catanzaro in uscita da Forza Italia e grande elettore di un suo consigliere comunale, Filippo Mancuso, risultato eletto nella lista di Salvini.

Se i giochi sono questi, Fratelli d’Italia pretenderà la presidenza del Consiglio regionale che potrebbe andare a Luca Morrone, il giovane rampollo cosentino indagato per corruzione nell’inchiesta “Passpartout” assieme al governatore uscente del Pd Mario Oliverio e all’ex deputato Nicola Adamo (Pd). In Calabria il seggio è un bene di famiglia: con i “suoi” 8110 voti Morrone erediterà il seggio del padre Ennio, consigliere regionale uscente.

A guastare i giochi potrebbe arrivare Pino Gentile che, nonostante le 7821 preferenze, dopo 35 anni non è stato eletto. Uscito dalla porta di Palazzo Campanella, però, la Santelli potrebbe farlo entrare dalla finestra della Cittadella. Squassando però la coalizione.

Strategie e temi locali. Così Bonaccini vince anche grazie ai social

La Bestia è la bestia, ha una potenza – per lo più economica – di fuoco. Eppure nella vittoria di Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna sembra che social network e strategia comunicativa abbiano avuto il loro importantissimo ruolo, insieme a un efficace contrattacco alla Lega. “Vi stupiremo su quello cha abbiamo fatto per affrontare la Bestia – ha detto Bonaccini domenica sera – La sinistra su questo deve recuperare tanto: guai a sottovalutare l’importanza dei nuovi mezzi di comunicazione. Un conto è abusarne, un altro saperli utilizzare”.

Bonaccini è su tutte le maggiori piattaforme social: Facebook, Instagram e Twitter. Analizzando la sezione delle inserzioni a pagamento su Facebook, sappiamo che la sua pagina è gestita da quindici account (14 che hanno l’Italia come Paese di residenza principale, uno il Regno Unito) e che la spesa per le sponsorizzazioni su Facebook e Instagram nell’ultima settimana è stata di 22mila euro (29mila la Borgonzoni), quasi la metà del totale di 51mila euro spesi da marzo 2019. Il numero di telefono associato ai post sponsorizzati è quello di Davide Baruffi, ex deputato dem di Modena, oggi consigliere politico di Bonaccini mentre l’indirizzo è quello della sede del Pd bolognese. Ma la struttura è fitta: nello staff di Bonaccini (da Baruffi ad Andrea Rossi, ex sottosegretario alla presidenza della Regione) ci sono figure giovani che gli segnalano temi e questioni; c’è l’agenzia di comunicazione modenese “Tracce”, la stessa che si è occupata della comunicazione del lavoro della giunta regionale nell’ultimo anno (incarico assegnato con procedura pubblica) e c’è la Jump Media del fiorentino Marco Agnoletti, ex portavoce di Matteo Renzi, che ha coperto i rapporti con i media tradizionali. C’è poi il consulente strategico di diverse campagne elettorali, Daniel Fishman.

La campagnasocial è il risultato della sinergia di questi elementi, con Bonaccini come primo produttore di molti suoi contenuti: è stata incentrata soprattutto sulla sua figura e, mentre la Borgonzoni ha potuto contare sul rilancio e la eco social di Matteo Salvini, il candidato dem non ha avuto spinte dai big della politica sui social. Ci sono stati endorsement, quasi sempre in video, da parte di personaggi famosi come l’amatissimo – e seguitissimo sui social – pallavolista Ivan Zaytsev, nonché l’attenzione agli imprenditori e alle realtà del territorio. Condivisi dalle pagine locali del Pd, gli hashtag si sono focalizzati soprattutto sulle realtà e i temi di interesse locale, meno sul dibattito politico nazionale, pochissimo sulle Sardine: gli hashtag più frequenti sono stati #EmiliaRomagna e lo slogan “Un passo avanti”. Le parole più utilizzate erano riferite al territorio, alla Regione e alla Borgonzoni. “Non avendo particolari ambassador o testimonial che rilancino la sua azione sui social – è l’analisi di You Trend – il governatore uscente punta tutto sul tema del buon governo e della buona gestione, muovendosi preferibilmente all’interno del perimetro istituzionale e distanziandosi dalla vita politica classica”. La sua strategia, spiega l’analisi, è focalizzata sull’ideale del buon governo “tuttavia, i post con maggior coinvolgimento sono quelli in cui Bonaccini risponde o attacca gli avversari”. Basta guardare i numeri sui video: quelli che contengono le minacce del vicesindaco leghista di Ferrara o in cui la Lega ammette che privatizzare la sanità non è un tabù hanno il maggior numero di visualizzazioni, fino a 600mila.

Eppure i dati puri erano scoraggianti. Durante la campagna elettorale, la base di fan dei due candidati è cresciuta: 100mila in più per la Borgonzoni, circa 20mila per Bonaccini su Facebook. Conta tuttavia l’engagement dei post, il tasso di interazione degli utenti con i contenuti (per lo più attraverso “mi piace”, commenti e condivisioni) che praticamente ne misura l’efficacia: il dato assoluto, che dipende anche dall’ampiezza della base di fan, premia la candidata leghista. Se però si considera il tasso di interazione medio, Bonaccini nell’ultima settimana ha superato la Borgonzoni di mezzo punto percentuale. Come dire: comunicare funziona, ma solo se qualcuno ti ascolta.

Le Sardine salgono sul palco: “Pensiamo a Sud e Ius soli”

Adesso si fa sul serio. Dopo la vittoria le sardine sono pronte a nuotare verso orizzonti più ampi, il mare aperto, il Paese intero. Ieri sera a Modena sul palco del presidente, riconfermato, Stefano Bonaccini c’erano pure loro. Giulia Sarcone, sardina di Reggio Emilia, ha letto un manifesto ideale molto applaudito. “Abbiamo fatto un’impresa, abbiamo contrastato il populismo, l’odio, i toni forti di una propaganda politica. Caro Presidente sei stato grande!” Dall’Emilia-Romagna le sardine pongono sul tavolo una sfida sui contenuti alla politica, quella nazionale però. “Da oggi ci aspettiamo che la politica riconosca la partecipazione di questi mesi come un’occasione unica per ridare vigore alla nostra democrazia, che la politica si sappia mettere in ascolto, che sappia superare l’autoreferenzialità che spesso l’ha allontanata dai cittadini: una comunità democratica riconosce ai propri figli il diritto di essere cittadini e parte attiva della società”.

Un riferimento chiaro alla legge sullo ius soli, accantonata dal governo Gentiloni in attesa di tempi migliori mai arrivati, dedicata ai tanti giovani italiani privi di cittadinanza. Forse non è un caso che lo facciano insieme a Bonaccini, che sogna “un’Italia più simile all’Emilia-Romagna”. Quasi uno slogan per un futuro segretario del Partito Democratico.

L’onda scatenata da questi quattro ex sconosciuti ha costretto Matteo Salvini a cambiare strategia, rinunciando alle amate piazze e intensificando il livello di scontro con iniziative spot amplificate dai suoi stessi canali social. A lui e alla sua macchina da propaganda, la Bestia, è dedicato un report dettagliato, a cui sta lavorando un team di ricercatori: il lavoro finale verrà consegnato al premier Giuseppe Conte. Su Google Trend, che permette di conoscere la frequenza di ricerca sui motori di ricerca del web di una determinata parola e i ‘trends’ cioè le tendenze più seguite, le sardine ieri hanno battuto le pagine Facebook di Matteo Salvini e della candidata sconfitta Lucia Borgonzoni (anche) in termini di engagement, il tasso di coinvolgimento generato da una pagina social. Le sardine si prenderanno una pausa televisiva ma non su Facebook che diventerà una piattaforma per lanciare temi e creare una rete anche tra associazioni virtuose. La scelta di Scampia per il primo convegno ittico, a metà marzo, è per uscire dagli stereotipi: Bibbiano come Scampia sono vittime di una nomea che le sardine vogliono aiutare a cambiare. “Il nostro corso è andare a respirare la stessa aria che respirano le persone reali, esiste una discrepanza tra il territorio e quello che le persone sentono e quello che si racconta sui media o attraverso i social”. Il sud sarà l’area di azione dei prossimi mesi, in particolare dalla Puglia e dalla Sicilia arrivano quotidianamente richieste di piazze e pesciolini: “Torneremo anche in Calabria per innaffiare i semi gettati, non tutti i territori sono uguali ma sentiamo un grande fermento, un bisogno di ascolto non ancora intercettato”. L’avviso per i naviganti è forte e chiaro: centrosinistra se ci sei batti un colpo. A intercettare la loro voce (e forse anche il loro voto) è stata sicuramente Elly Schlein, regina delle preferenze della tornata elettorale con oltre 22 mila voti. Una delle poche a essere stata citata dalle sardine, all’indomani della prima sorprendente piazza bolognese, come figura politica con cui erano in contatto. “I riferimenti politici che posso avere sono alcuni presidenti di quartiere, poi Emily Clancy di Coalizione Civica – consigliera comunale di una lista civica di sinistra a Bologna – e Elly Schlein che ho incontrato cinque giorni prima dell’evento”. Un cripto endorsement di Santori col senno di poi. Qualche giorno fa, durante una trasmissione televisiva, Santori dichiarò anche che non avrebbe votato il Pd “ma questo non significa che debba giustificare a qualcuno per quale lista voto”.

La lista ‘Coraggiosa’ ha guadagnato due consiglieri, lei compresa, e la possibilità di un assessorato. Bonaccini è già al lavoro per comporre la sua futura Giunta, sarà difficile non far pesare il divario tra le preferenze espresse per l’ex eurodeputata e i pezzi grossi del Pd. L’ex sindaco di Scandiano, nel Reggiano, Alessio Mammi ha raccolto 15 mila preferenze mentre l’assessore ai Trasporti uscente Raffaele Donini poco meno di 14 mila.

Il reggente Crimi si smarca: “Alla gente del fronte anti-destre non frega nulla”

Bonaccini ha stravinto, il Movimento ha straperso. E in una mattinata uggiosa fuori Palazzo Chigi c’è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che dà già la linea innanzitutto a loro, ai Cinque Stelle: “Mi auguro che si possa rafforzare sempre più un ampio fronte dove possano trovare posto tutte le forze che vogliono condurre una politica alternativa alle destre”.

Tradotto, il premier entra nel congresso del Movimento, gli Stati generali fissati per marzo, da cui Conte si aspetta di rivedere i 5Stelle “rigenerati” come dice in serata a Otto e mezzo. Dove rafforza il concetto: “Serve un’area innovatrice dove potrebbe trovare spazio anche il M5S”. Solo che il Movimento attuale è un brodo primordiale di idee, tendenze e paure. Anche se tutti sanno che a marzo voleranno stracci su quello, sulla collocazione politica. Infatti il tema in giornata esplode, dentro i 5Stelle. E in questo scenario da trincee in costruzione, il neo-reggente Vito Crimi, in ottimi rapporti con il capo politico uscente Luigi Di Maio, non vuole e forse non può prendere posizione. Così nel pomeriggio a Palazzo Madama prova a giocare con le parole: “Dobbiamo lavorare sui progetti, non parlerei di collocazione”. I giornalisti insistono, gli rileggono le parole del premier. Lui tenta di sostenere che non è quella l’interpretazione giusta. “Ho ascoltato sia le parole del premier che di Zingaretti , anzi con il premier mi sono sentito. Ma non parlerei di collocazione, noi 5Stelle siamo oltre destra e sinistra”. Ma poi va di pancia: “Di fare un fronte per sconfiggere le destre ai cittadini non frega niente, a loro importa se abbassiamo le tasse”. Non è proprio miele, per Conte. Ma tanto è già battaglia sulla rotta. Lo conferma per paradosso anche il prolungato silenzio di Di Maio, l’ex capo politico che vuole comunque tenere il M5S a distanza di sicurezza dal centrosinistra, e figurarsi se fare fronti unici contro le destre. “Luigi lo aveva detto, non dovevamo presentarci in Emilia Romagna” ripetono i suoi per tutta la giornata.

La direzione è diversa da quella di Conte, che gli riserva pure una stoccata: “Il Movimento non ha conseguito risultati brillanti, ma consideriamo che il leader Di Maio si è appena dimesso…”. Però l’ex capo non si sente per nulla marginale e allora una dimaiana di ferro come la viceministra all’Economia Laura Castelli mostra il petto: “Ieri un giornalista sosteneva come questi risultati dimostrino che la “terza via” non esiste, ma il M5S esiste proprio per questo. La nuova legge elettorale, proporzionale, dimostrerà che “la terza via” continuerà ad essere la giusta compensazione di ciò che la politica non è più capace di fare”. Di fatto è la linea di Di Maio, che il capo corrente non vuole ancora (ri)dare.

Ma la ferita delle Regionali spurga malessere. Così perfino il presidente della commissione Politiche Ue della Camera Sergio Battelli, pure vicino al ministro degli Esteri, è brutale: “La colpa di tutto questo è unicamente nostra e mi sono davvero rotto le scatole di guardarmi attorno e vedere solo autoreferenzialità. Mettiamocelo in testa una volta per tutte, non siamo i più bravi”. E di errori parla diffusamente Stefano Buffagni, viceministro allo Sviluppo economico, già dimaiano e ora voce autonoma che vuole coagulare il M5S del Nord: per nulla desideroso di un nuovo centrosinistra. “Stiamo sbagliando perché ci siamo chiusi nei palazzi, le poltrone sono un male” teorizza.

Di certo nel gioco delle truppe Buffagni può spostare gli equilibri. E lui non lo nasconde: “Dobbiamo evolverci per non estinguerci, lo dico da un anno. Agli Stati generali ci dovremo ridare un’identità, e io darò il mio contributo”. E i filo dem? Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, prova a predicare calma: “I risultati delle Regionali sono un’indicazione su cui riflettere, e lo faremo negli Stati generali”. A margine però cresce la richiesta di rinviarli, come aveva proposto sul Fatto sabato Roberta Lombardi. Dal Movimento negano slittamenti: “Nessun segnale su questo, e poi il 29 marzo c’è il referendum sul taglio dei parlamentari”. Ma chissà.

 

“Noi Cinque Stelle dobbiamo capire se restare assieme”

La tempesta che tutti i Cinque Stelle aspettavano è passata, e sul terreno in Emilia-Romagna è rimasto il Movimento con il suo 4,7 per cento. Il bolognese Max Bugani, uno dei veterani della prima ora, non voleva una lista del Movimento in queste Regionali. E adesso si macera: “Ora devo capire chi siamo e dove andiamo”.

Qualcuno tra di voi sperava che vincesse Salvini?

Non lo so, spero fortemente di no. Ma in questo clima di sospetti non posso escludere che qualcuno abbia avuto questo cattivo pensiero per dare una spallata al governo.

Il senatore emiliano Lanzi sostiene: “Presentandoci nelle Regionali abbiamo salvato il Movimento”. Lei invece era contrarissimo.

Ci sono persone che hanno fatto finta di non vedere il burrone, dove ci hanno portato altre persone in buonafede. Ma non ce l’ho con loro, l’ingenuità non è una colpa.

Raccontano che i vertici si siano irritati con lei: “Primedonne e parole divisive sono quanto di più lontano rispetto a quello di cui c’è bisogno adesso” hanno detto all’Adnkronos.

Io non rispondo a indiscrezioni. E ho la coscienza a posto.

Ma da dove arriva la sconfitta in Emilia-Romagna?

Nell’ultimo anno e mezzo non si è voluta guardare in faccia la realtà. Ognuno voleva un M5S fatto a sua immagine e somiglianza. Ma il Movimento in realtà è stato un comitato nazionale di cittadini, riunitisi per portare avanti battaglie comuni, dal Reddito di cittadinanza al decreto Dignità fino alla legge anticorruzione e alla lotta ai vitalizi. Esauriti questi temi, oggi il M5S non sa più dove andare.

Sta dicendo che deve evolversi in qualcosa d’altro?

Credo che sia legittimo pensare a un Movimento solo contro tutti, come è altrettanto legittimo volerlo in un’alleanza radicata a sinistra oppure a destra. Nessuno ha mai chiesto agli attivisti dei 5Stelle quale dovesse essere la rotta.

Ora che si fa?

Mi auguro che finiscano gli attacchi reciproci. Siamo persone diverse tra loro, riunite da obiettivi comuni. Il Movimento è stato poesia e speranza, ora è guerriglia e sospetti. Quando Matteo Salvini suona ai citofoni, una parte del M5S ride, l’altra piange. A tenerci assieme sono state le idee.

Ma adesso?

Gli Stati generali, che andavano fatti un anno fa, non devono diventare un luogo di una guerra fratricida, piuttosto essere un luogo in cui si prende atto di una diversità.

Per essere chiari: c’è il rischio di scissioni?

Dobbiamo ricordarci delle battaglie fatte assieme e poi decidere da che parte andare. Ricordando che talvolta un matrimonio può finire, ma senza odi e rancori. Andare avanti litigando tutti i giorni non fa bene ai figli e alla famiglia.

Per Giuseppe Conte “va costruito un fronte alternativo al centrodestra”.

Salvini è un ragazzone che sta in politica da 30 anni e che fiuta le occasioni. Più è cresciuto nei sondaggi, più ha alzato l’asticella, azzardando parole più violente. Ma quando si arriva a suonare il citofono di un ragazzo non c’è nulla di più distante da me.

L’ex capo politico Di Maio con il Pd non vuole andarci.

Le anime sono tre: c’è chi soffre la distanza da Salvini, chi vorrebbe fare un terzo polo autonomo e chi vuole andare a sinistra.

Di Maio vuole stare da solo o con Salvini?

Dovete chiederlo a lui. Però è stato l’unico, assieme al ministro Stefano Patuanelli, a esprimersi pubblicamente perché non si facesse questa lista suicida in Emilia-Romagna.

Conte cosa rappresenta per il Movimento?

È il presidente del Consiglio e il suo dovere è fare il possibile per fare stare meglio gli italiani. Ma non credo che voglia imporsi sul futuro dei 5Stelle.

E Beppe Grillo? Sarà lui?

A Italia5Stelle si era espresso con forza, dicendo che bisognava lavorare con il Pd, ma non c’è stato un seguito a queste parole. Ha permesso che si facesse una coalizione folle in Umbria e una scelta insensata in Emilia-Romagna. E questo ha creato confusione, anche in chi come me è suo fan da 35 anni e amico da 15.

Perché si è dimesso dall’associazione Rousseau?

Semplicissimo, nel mio incarico al Comune di Roma ho anche le deleghe all’innovazione tecnologica. Mi sembrava inopportuno restare in un’associazione privata che si occupa di questo tema. Ma resto legato a Davide Casaleggio e non smetterò mai di ringraziarlo.

Lei vorrebbe un nuovo capo politico o un organo collegiale?

Prima vorrei capire dove andiamo. Comprendere se sono ancora a casa mia o se quello nel M5S è stato un meraviglioso viaggio.

Lei ha avuto scontri con Di Maio, che si è dimesso a pochi giorni dalle Regionali. È stata una ritirata?

Luigi ha lasciato perché era stremato. Doveva tenere assieme tutto, avendo a che fare anche con teste dure come la mia. E gliene va dato atto.

Adesso Conte apre la fase 2 Il Pd: “Al governo da alleati”

Non era quello di ieri, il Consiglio dei ministri giusto per valutare lo stato dei rapporti tra i giallorosa dopo la vittoria del Pd in Emilia-Romagna. Rapido e burocratico: la questione più politica che si è trovato ad affrontare, per dire, è stata la data del referendum confermativo per il taglio dei parlamentari. Si voterà il 29 marzo, una delle prime date disponibili, proprio per evitare la retorica di chi avrebbe potuto accusarli di allungare i tempi per ragioni elettorali. Così, sono stati i gesti fuori dal palazzo a segnare i confini del nuovo assetto post-emiliano. Nuovo assetto che non avrà a che fare con i posti: nessuno ha intenzione di mettere mano alla composizione di governo. Non solo perché i numeri in Parlamento restano nettamente a favore del Movimento, nonostante domenica non si sia nemmeno avvicinato a percentuali a due cifre. Ma anche perchè sono tutti consapevoli che qualunque posto venisse toccato, il rischio smottamenti crescerebbe di livello.

L’unica casella destinata a cambiare è quella di capo delegazione, ovvero il rappresentante del Movimento all’interno dell’esecutivo: non più il dimissionario Luigi Di Maio, ma probabilmente il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, tornato in linea con l’ex capo politico dopo alcune frizioni del passato e soprattutto meno esposto dell’altro favorito, quello Stefano Patuanelli che ha di fatto aperto il congresso M5S chiedendone la collocazione definitiva nell’area del centrosinistra. Per la verità, vista l’aria che tira, il candidato perfetto sarebbe lui. Perché se c’è una cosa che l’Emilia ha portato a Roma è il vento “innovatore”, per dirla con il premier Conte, che chiede di far nascere una nuova area “alternativa alle destre”. Lo dice chiaro il presidente del Consiglio: “Se dovessi scegliere io – ha spiegato ieri a Otto e Mezzo, mi piacerebbe molto un’area innovatrice per lo sviluppo sostenibile, aperta e inclusiva dove possa trovare spazio anche il M5S”. Un’area che “non ha nulla a che vedere con queste destre” che vanno “in giro a citofonare” e che gli ricordano “pratiche oscurantiste del passato”.

Sa, Conte, che non è quello su cui riflettono i Cinque Stelle. Vito Crimi, reggente del Movimento dopo le dimissioni di Di Maio, lo ha appena detto in conferenza stampa: “Al cittadino non frega niente se fai il fronte contro la destra ma se aumenti il lavoro e riduci le tasse. Allora sì che va bene”. Non proprio la stessa lunghezza d’onda su cui viaggia l’altra metà dei giallorosa, ovvero il Pd. Che a festeggiamenti ancora in corso, manda segnali ai colleghi di maggioranza. Il primo, niente “smargiassate”. Zingaretti non vuole affondare il coltello nella piaga della débâcle del Movimento e, al contrario, spera passi il messaggio che “uniti si torna contendibili” per cui bisogna “governare da alleati e non da avversari” e avviare “progetti comuni” anche nelle Regioni (ce ne sono altre sei che vanno al voto in primavera). Il piano è provarci a partire dal cosiddetto “cronoprogramma” con cui Conte vuole scandire la “fase due” del governo. I dem, nel conclave vicino Rieti, hanno buttato giù la loro lista di priorità; i Cinque Stelle hanno raccolto gli spunti dei parlamentari ma ancora devono metterli a sistema (oggi Crimi incontrerà la squadra di ministri e sottosegretari M5S). Oggi in Parlamento ci saranno le prime due prove per la maggioranza. Il voto sulla proposta di legge del forzista Enrico Costa – che vuole abolire lo stop alla prescrizione e che piace ai renziani – e l’inizio dell’esame degli emendamenti al Milleproroghe tra cui ci sono anche le misure propedeutiche alla revoca delle concessioni autostradali, dossier che ha diviso Pd e 5 Stelle. “Ora che ci siamo lasciati questo voto alle spalle – ha detto ieri Conte – confido di chiuderlo presto”.

Il ritorno ciclico del Falso bipolarismo

Neanche il tempo di aspettare i risultati definitivi che, a urne ancora fumanti, è esploso il prevedibile dibattito sul ritorno del bipolarismo. Ormai un classico dei commentatori politici, che si verifica tutte le volte in cui il M5S perde o crolla a un turno di elezioni locali. Ovviamente, la forte valenza nazionale del voto emiliano-romagnolo combinata con la vittoria di Stefano Bonaccini ha prodotto l’ennesima trasposizione che eccita tutti i politologi esperti o dilettanti. Il bipolarismo è tornato, come uno spettro che vaga senza requie, e i grillini sono morti e sepolti. Amen.

La realtà è invece molto più complessa di come viene descritta dalla nuova narrazione bipolarista. Innanzitutto ché in Emilia-Romagna, con una legge elettorale che premia il primo arrivato, ha vinto banalmente la logica del voto utile per arginare il salvinismo dei citofoni e di Bibbiano. Secondo: la disfatta elettorale dei 5S intorno al 4 per cento in quella che è stata la loro Betlemme natìa, l’Emilia-Romagna appunto, proietta in proporzione i grillini tra il 12 e il 15 per cento su scala nazionale. Non proprio l’estinzione. Il che porta al nodo decisivo del loro futuro agli Stati generali di marzo tra la prospettiva post-ideologica di Luigi Di Maio e la stabilizzazione dell’alleanza giallorossa di governo (Conte). In ogni caso il quadro politico non si è affatto semplificato se pure si tengono conto delle antipatie e delle divisioni fra i tre leader di centrodestra.

Terzo e ultimo punto: come si fa a parlare di bipolarismo di ritorno quando la maggioranza ha intenzione di varare una riforma elettorale che ci riporta al proporzionale puro? Per vari motivi, le mani libere prima delle urne convengono a tutti, a partire dai due Matteo, Salvini e Renzi. E lo stesso centrosinistra rilanciato dal modello Bonaccini (senza i 5S) dimagrirebbe di molto a livello nazionale. Ergo, al momento, il bipolarismo è un dettaglio dell’immaginazione, non della realtà.

Salvini il tacchino fa pure la festa di ringraziamento

Ha scelto di fare il tacchino: “Questa settimana abbiamo in mente una grande festa di ringraziamento, è stata comunque una bellissima esperienza. Mica si può sempre vincere?”. Anche lei, Lucia Borgonzoni, visto il sorprendente ottimismo del capo, ha orientato il discorso verso un approdo più sensoriale, intimista, con note persino allegrotte. Senza citarlo, ma sicuramente pensando a De Coubertin, ha esclamato: “Vorrà dire che la prossima volta ce la faremo”.

Il volto disteso, il maglioncino da lavoro, lo sguardo finalmente luminoso senza l’ossessione del telefonino. Il Salvini sconfitto – “abbondantemente stracotto” urlerà un tizio per rovinare la diretta televisiva di una collega emiliana già stremata dalla fatica di averlo rincorso per settimane per tutta la regione – appare simpaticissimo, gioviale, senza grilli per la testa e soprattutto fattivo. “Dovrò fare un sacco di cose questa settimana e andare anche in Calabria per dare un governo a quella bellissima regione”, spiega. E non si accorge, oppure non ci pensa, oppure ci pensa ma non riflette abbastanza, che anche i calabresi hanno assestato una legnata niente male al leghismo d’esportazione, decurtando di dieci punti il monte premi simpatia che il golden boy leghista si era conquistato qualche mese fa.

Infatti alle Europee aveva superato il venti per cento e adesso, incredibile, ha lasciato dieci punti a terra consegnando a Forza Italia, che sinceramente assomiglia a un partito della terza età, il primato del centrodestra in quella regione. Salvini perde dove si perde, come appunto l’Emilia, e perde anche dove si vince, come la Calabria. Non è per caso che abbia scelto male la sua candidata? “Migliore scelta non avrei potuto fare”, dice Matteo davanti a una stupita Lucia Borgonzoni che infatti è cosciente di aver ottenuto meno di tre punti della sua coalizione e consapevole che alcuni alleati (vedi Forza Italia e persino alcuni compagni leghisti) hanno preferito, col voto disgiunto, il nemico Bonaccini.

“Meglio di Lucia non si poteva”, conferma Matteo nell’elaborazione di questo lutto improvviso. Solo venerdì era sicuro di vincere, “anzi di stravincere”. Onesto fino all’osso: “Non ci sopravvalutate”.

Possibile che i sondaggisti si siano caricati sulle spalle un po’ le speranze del padano fornendo agli emiliani e anche ai romagnoli una mappa infedele delle aspettative elettorali. Onda verde, marea, allagamento, vento fortissimo, anzi tempesta. “Ci hanno fatto prendere una fifa blu questi delinquenti”, dice nonno Alberto seduto alla casa del popolo della Bolognina, il quartiere simbolo del comunismo italiano e della storia del Novecento. “Meglio così, in questo modo ci siamo organizzati e abbiamo resistito”, bofonchia il suo compagno.

“Quando vai in un posto e fai un comizio al volo e vedi tanta gente, allora capisci che tutto è possibile, che ce l’abbiamo già fatta”, aveva twittato tre giorni fa. Alterazione della percezione, diagnosticano gli psicologi nei casi in cui la fantasia sottragga un po’ di realtà alla vista, cosicché Matteo non ha percepito come scarna la piazza di Ravenna, deboluccia a Reggio Emilia, apatica a Parma, irrilevante a Bologna. Non ha visto che l’altro giorno a Modena c’era soltanto la celere in piazza Grande.

Lo scopre oggi, ma col sorriso. Ha perso ma è soddisfatto: “Ragazzi, io sono fatto così”.

Infatti. Matteo si è inguaiato quasi da solo. Esagerando ha prodotto un bum nelle viscere leghiste che i fisici definirebbero figlio di un eccesso di compressione. È andato al Pilastro, a citofonare, facendo lo sceriffo del popolo. E il Pilastro, quartiere debole e periferico, socialmente problematico, gli assesta un ceffone dando al Pd il 40 per cento dei consensi contro il 19 alla Lega. “Il Pilastro è stato il secondo Papeete di Salvini”, dice Virginio Merola, il sindaco di Bologna.

Perché, ripensandoci, i guai di Salvini iniziano proprio al Papeete e sembrano non finire più. L’età del mojito, delle danze tra le cosce brasiliane da parte di uno spumeggiante ministro dj, si chiude nella costernazione. Voleva buttare giù il governo e niente da fare. Le elezioni anticipate, e flop. Ha pianificato il referendum elettorale spiazzante, ma la Corte di Cassazione lo ha stoppato. Si è acconciato a chiedere il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari che egli stesso ha votato e fatto votare e sembra già un boomerang. Si voterà il 29 marzo. Sconfitta sicura e 500 milioni di euro buttati al vento.

L’Emilia-Romagna sembrava l’ultima spiaggia. E invece non solo l’Emilia, ma anche territori romagnoli apparentemente amici, lo hanno deluso e persino Bibbiano ha parecchio deluso.

Lì il Pd ha preso il 40,7 per cento, la Lega solo il 29, 4. Bonaccini ha arraffato tremila voti nel paese (pari al 56,7%)., Borgonzoni mille in meno.

E dunque? “Stiamo decidendo dove fare la festa, immagino dalle parti di Modena, il punto geografico mediano”, dice lui sorridendo. “Incontrerò domani tutti i nuovi consiglieri, i compagni di questo meraviglioso viaggio”, dice lei. “Chi avrebbe mai pensato a questo risultato solo un anno fa?”, domanda lui. “Chi l’avrebbe mai detto solo un anno fa?”, domanda lei.

Insieme, finalmente sconfitti, ma veramente contenti, salutano i giornalisti in questo albergone alle porte di Bologna.

“Pensate che tra qualche mese si vota in Toscana, Campania, Puglia e Marche. Possiamo vincere. Chiaramente possiamo anche perdere”.

Dalle urne esce il 2010 e i grillini vanno a sinistra

La polvere del voto si è (quasi) posata e si può trarre qualche conclusione: a guardarli, i numeri, si potrebbe dire, paradossalmente, che è una tornata elettorale in cui ha poco da festeggiare persino chi ha vinto (tolta Giorgia Meloni, che comunque non corre da front runner). Partiamo dall’affluenza: bassissima in Calabria, 44%, appena 4 punti sopra il record negativo di cinque anni fa; tornata su livelli “accettabili” in Emilia-Romagna (66,7%) ma comunque la seconda più bassa di sempre dopo la “rivolta” del 2014, quando votò il 37% degli aventi diritto. Ora una breve analisi ragionata dei dati, a partire da una constatazione: sembrano quelli delle Regionali 2010. Emilia Romagna. Vince Stefano Bonaccini con 1,2 milioni di voti (51,4%), Lucia Borgonzoni se ne accaparra poco più di un milione (43,6%): 180mila schede e 8 punti percentuali di scarto. Vittoria larga che si basa (anche) sulla sostanziale dissoluzione del M5S: 100mila voti, oltre 60mila in meno persino rispetto alle Regionali del 2014, quando l’affluenza fu la metà (la percentuale passa dal 13 al 4%). Un vero tracollo rispetto alle Europee 2019, quando l’affluenza fu simile: all’epoca i grillini presero 290mila voti e il 12,9% (a non dire dei 700mila col 27,5% delle Politiche 2018). La percentuale di elettori M5S passati a Bonaccini, secondo gli esperti, è consistente: circa un terzo secondo Swg, il doppio per l’Istituto Cattaneo (che ha analizzato solo 4 città); poca cosa le uscite verso Lega & C.

La mappa della Regione che viene fuori da queste elezioni indica, rispetto agli ultimi due anni, una ripresa del centrosinistra: Borgonzoni stravince comunque a Piacenza e Ravenna e si piazza davanti pure a Parma e Rimini (4 province su 9); Bonaccini ringrazia la via Emilia, Bologna in testa, la provincia più popolosa dove ha preso quasi il 60% e 133mila voti più dell’avversaria. Un certo ruolo, ancorché marginale, l’ha avuto anche il voto disgiunto: Bonaccini ne ha incassati sia dal M5S che da Borgonzoni, segno che s’è trattato di una scelta debole e che la concorrenza nel centrodestra s’è fatta agguerrita e non sempre leale (FdI raddoppia i 97mila voti delle Europee).

Questo bipolarismo di ritorno – favorito da Matteo Salvini, nuovo “uomo nero” (alla Berlusconi) dell’elettorato progressista – riconsegna l’Emilia-Romagna alla situazione del 2010: affluenza simile, 1,2 milioni di voti al centrosinistra, 950mila al centrodestra all’epoca, che comunque in Regione aveva già sfondato il milione di voti nel 2000. Quel che può preoccupare Salvini – oltre al fatto di aver perso 70mila voti da maggio – è che, pur avendo colonizzato il centrodestra, pare non riuscire ad allargarne la platea elettorale: si è mangiato Forza Italia (scesa a un umiliante 2,5%), ma i voti assoluti sono gli stessi da metà anni Novanta in poi.

Il Pd, d’altro canto, può gioire per lo scampato pericolo e per aver visto i consensi assoluti crescere: 670mila nel 2018, 700mila nel 2019, 750mila oggi, quando torna primo partito in Regione anche senza considerare i 124mila voti della Lista Bonaccini. Va ricordato, però, che questo accade in un’area del Paese in cui il Pd ha un antico radicamento, filiere politico-economiche (quando non clientele) consolidate e che c’è stata l’ennesima chiamata al “voto utile” contro il barbaro alle porte: questo giochino, che pure finora ha funzionato, ogni volta che viene praticato lascia per strada qualcosa. Domenica Bonaccini ha preso i voti di Vasco Errani nel 2010, performance che fu già il punto più basso del centrosinistra in Regione. Ora, però, fuori della sua coalizione non c’è più nulla (a parte quel 33% di elettorato che non vota) e non è detto che il “giochino” funzioni in altri tipi di elezioni.

Calabria.Anche qui si torna al 2010 (quando Scopelliti prese il 57% dei voti): la berlusconiana, corrente “Previti”, Jole Santelli stravince col 55% dei voti davanti a Pippo Callipo, centrosinistra, fermo 25 punti più sotto. Anche qui – dopo i fasti degli ultimi due anni – va in scena la dissoluzione grillina: 400mila voti alle Politiche 2018, 200mila alle Europee 2019, 48mila oggi e a poco vale richiamare le Regionali 2014 (39mila voti, ma stessa percentuale, meno del 5%).

Il Pd, nonostante perda la Regione che Mario Oliverio aveva conquistato col 61% dei voti cinque anni fa, si vanta di essere il primo partito, ma con 118mila voti e il 15,1%, cioè 70mila voti in meno rispetto al 2014 (23,6%) e 15mila in meno rispetto alle Europee (18,2%).

Nel centrodestra vince Forza Italia: il 12,3% di lista a cui aggiungere però la Lista Sardelli (8,4%) e Casa delle Libertà, lista guidata da un altro berlusconiano (6,4%). La Lega, invece, tracolla dal 22,6% delle Europee al 12,2, passando da 165mila a 95mila voti: è vero che era possibile che il partito di Salvini, non radicato in Calabria, potesse perdere consensi in una tornata locale.

Gli altri. Non ci sono quasi più e ci sono brutte notizie in particolare per i molti cercatori del “nuovo centro”: +Europa si conferma una forza elettoralmente poco rilevante, le scissioni di Renzi e Calenda non fanno male al Pd. Anzi.