Slavini

Ancora una volta, come già sulla crisi del Papeete, sull’imbarazzante confronto con Conte in Senato, sulla pretesa di votare subito a gentile richiesta, sul referendum salva-poltrone, sul caso Gregoretti, sulla citofonata al non-spacciatore e sulla spallata al governo con lussazione della spalla, Salvini si conferma un cazzaro. Un Renzi modello 2016 che personalizza e polarizza lo scontro, coalizzando tutti gli altri contro se stesso. Un genio. Sono almeno sei mesi che non ne azzecca una, neppure per sbaglio. E il voto in Emilia-Romagna è solo l’ultimo, impietoso selfie di un leader in grave stato confusionale. Persino gli elettori di destra, notoriamente di bocca buona, stomaco forte e memoria corta, cominciano timidamente ad accorgersene. Tant’è che un anno fa i sondaggi lo davano intorno al 40% e oggi sotto il 30; e la Meloni e persino quel che resta di B. (nel Jurassic Park calabrese) lo rimontano. Se il governo Conte dura e fa almeno benino per tre anni, il Salvini invincibile e onnipotente apparirà battibile e impotente. Chi saliva sul carro del vincitore ne scenderà precipitosamente. E il pallone gonfiato continuerà a sgonfiarsi. A quel punto, solo i giallorosa potranno salvarlo. E potrebbero riuscirci benissimo. Ecco come, in quattro mosse.

Il Pd. Ci sono due letture del voto emiliano-romagnolo. Quella corretta, suffragata dai fatti e dai numeri, è che Bonaccini ha vinto nascondendo il Pd, tenendo a distanza i leader nazionali, impostando tutta la campagna sull’esperienza regionale (unica in Italia), ottenendo i voti di molti 5Stelle in libera uscita (che mai voterebbero Pd alle Politiche) e approfittando del boom di affluenza dovuto alla mobilitazione delle Sardine e alla paura di Salvini. Quella infondata è che: ha vinto il Pd, tornato alla “vocazione maggioritaria” veltroniana, dunque autosufficiente, perfetto così, senza bisogno di cambiamenti né di nome né di sostanza; l’Emilia-Romagna rappresenta l’Italia (l’Umbria e la Calabria invece no), dunque il voto di domenica ha valenza nazionale, come diceva Salvini; il “populismo” e il “sovranismo” che tracimarono dalle urne nel 2018 sono estinti; è tornato il vecchio bipolarismo Pd-Destra con Salvini&Meloni al posto di B.; dunque ora nel governo comanda il Pd, con le sue idee (quali?) e i 5Stelle devono obbedire, regalargli qualche ministero e ammainare le bandiere su prescrizione e Autostrade; e, se non ci stanno, si sloggia Conte e si vota subito dopo il referendum di maggio, magari con una bella legge maggioritaria, pressando le Sardine in una listarella del 3-4%. Salvini non chiede di meglio.

Renzi. Non avendo partecipato al voto, non ha vinto né perso né pareggiato. Non c’era proprio, dunque non avrebbe titoli di parlare. Invece, dall’alto del suo 3 virgola qualcosa, continua a pontificare come se avesse ancora il 40,8. E lo stanno pure a sentire. Gli basterà continuare a dire tutto il contrario degli alleati, a contestare e logorare Conte, a votare col centrodestra, a inciuciare con l’altro Matteo in rianimazione per destabilizzare ogni giorno il governo, cominciando dal voto di oggi sulla legge Costa che riesuma la prescrizione. Salvini non spera di meglio.

5Stelle. Dopo il capolavoro di allearsi col centrosinistra in una regione persa in partenza come l’Umbria e non in due regioni contendibili come la Calabria e soprattutto l’Emilia-Romagna, il M5S è riuscito nell’ardua impresa di portare i suoi voti a Bonaccini “gratis”, cioè senza un accordo che lo vincolasse a politiche meno cementificatorie e clientelari, più rispettose dell’ambiente e della legalità. E di apparire pure morti. Ora l’unica strada per risorgere, in vista del congresso di marzo sul nuovo programma e la nuova leadership, sarebbe quella di mettersi nella scia di Conte, il politico più alto nei sondaggi, rivendicandolo come il loro premier, scelto due volte da Di Maio e Grillo; preparare un nuovo contenitore di ambientalismo radicale e populismo pragmatico, per recuperare i milioni di astenuti e gli ex salviniani usciti dalla sbornia; far tesoro dell’esperienza emiliano-calabrese per le prossime Regionali, proponendo un patto al Pd per sostenere un candidato forte e filogrillino come Emiliano in Puglia, magari in cambio di un patto giallorosa su un grillino in Campania, o comunque per sparigliare i giochi lì, in Toscana, nelle Marche con figure nuove, civiche, extra-partiti. Non è detto che ci si riesca, ma vale la pena tentare. L’alternativa è continuare a correre da soli per raccogliere le briciole dai derby regionali Destra-Pd. Che poi è il sogno di Salvini.

Salvinistra. I giornali della Salvinistra hanno già ricominciato a dispensare cattivi consigli e pessimi esempi: dopo aver profetizzato che il Pd, con Conte premier e i 5Stelle alleati, si sarebbe dissanguato, snaturato, contaminato fino a morte sicura (infatti…), ora lo aizzano a liberarsi del premier e del M5S con un rimpasto, o con le elezioni anticipate, o con una bella svolta a sinistra nell’agenda di governo: più migranti, più Ong (una Carola al giorno sarebbe il massimo), più prescrizione, più impunità travestita da “garantismo”, Ius Soli, via in blocco i decreti Sicurezza e magari pure No al referendum sul taglia-poltrone. Così da spingere all’isolamento il M5S e dare al governo la famosa “anima”. Cioè la vecchia spocchia dei “migliori” che ha messo in fuga milioni di elettori, rendendo invotabile il centrosinistra negli ultimi vent’anni. Salvini non osa chiedere tanto bendidio, ma solo per paura che non glielo regalino. Nel caso, ricambierà l’omaggio con gli interessi. Come B., per vent’anni. Ricordate Guzzanti nei panni di Rutelli? Ecco: “A Salvì, ricordati degli amici! Ricordati di chi ti ha voluto bene!”.

Shoah, il dubbio: l’odio cresce dove si coltiva la memoria?

Nel Giorno della Memoria esce un nuovo libro di Valentina Pisanty che pone importanti riflessioni, importanti obiezioni e una scossa al modo in cui alcuni di noi hanno sempre pensato il tempo della Shoah e della persecuzione razzista dei fascismi. È un libro che richiede grande attenzione, e alcune obiezioni. Molti ricorderanno che Valentina Pisanty è l’autrice giovane di un non dimenticato saggio, “L’irritante questione delle camere a gas” (Bompiani) che ha contato e pesato non poco, per intelligenza, acutezza e documentazione, nella repulsa del negazionismo e nella dimostrazione della sua natura basata sul falso e sul fascismo.

Questa volta Valentina Pisanty, discendente diretta della grande scuola (filosofia e semiologia) di Umberto Eco, lei stessa docente lungo lo stesso percorso, pone, con coraggio (e perplessità di molti suoi lettori ) alcune controverse questioni, con l’impegno di mettere ordine nel pulviscolo di risposte false e spesso politiche, nella vasta questione del che fare col passato. Estrapolo liberamente da questo suo “I Guardiani della Memoria” (Bompiani) che esce il 27 gennaio.

Una questione proposta da Pisanty è se qualcuno, e chi e come, ha il diritto di presentare gli eventi del passato (per esempio la Shoah) scegliendo la narrazione e il testimone che gli sembra più utile o efficace. Una seconda è se un simile impossessamento della memoria non faccia più male che bene al dramma persistente e crescente dell’antisemitismo. Una terza è così formulata: “Che fare nel caso in cui, tra gli eredi delle vittime non vi sia accordo unanime su come e quando esercitare il presunto diritto di strumentalizzare l’Olocausto” (dando per scontato che strumentalizzare l’Olocausto non crei un problema con i materiali della Storia)? Come vedete è un libro d’investigazione severa e linguaggio duro. Pensate alla definizione di “Guardiani della Memoria” per indicare coloro che, dal museo, al libro all’attività politica, alla vita, non smettono di riprendere il tema del ricordo di ciò che veramente è stata la Shoah. Ma lo è, a cominciare dal primo paragrafo, inizio del capitolo: “Cosa è andato storto”.

Cito: “1) Negli ultimi 20 anni la Shoah è stata oggetto di capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale. 2) Negli ultimi 20 anni il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei Paesi dove le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore. (…) C’è un collegamento, ed è compito di una società desiderosa di contrastare l’attuale ondata xenofoba interrogarsi sulle ragioni di questa contraddizione”. Interrogarsi è urgente e indispensabile, risponderebbe questo lettore. Ma è urgente e indispensabile rendersi conto del ritorno del fascismo quasi dovunque in ciò che chiamiamo l’Occidente, dagli Stato Uniti all’Europa. Pisanty ci chiede un impegno che va molto al di là dell’attività (dannosa, secondo lei) dei Guardiani. Occorre contrapporre, insieme al ricordo di allora, la politica di adesso, che è ampiamente macchiata di fascismo.

L’arte e la politica nell’era dei social: l’importante è condividere bei selfie

Alla Sydfest 2020, il Festival di Sydney in corso fino al 26 gennaio, c’è un’arte nuova. Il collettivo “Architects for Air” ha creato un labirinto di percorsi intricati sormontati da cupole, illuminati dalla luce del sole che filtra tra i tessuti traslucidi. L’ispirazione viene dall’architettura islamica, dall’arte gotica e dalle forme naturali. Nulla di tutto ciò è però leggibile su una targhetta, niente è protetto da un cordone, perché quello che conta, nella fruizione dell’opera d’arte, non è neppure l’esperienza, ma lo scatto. In un editoriale del Guardian arriva la stroncatura dell’evento: “È arte fatta per Instagram”, che non soltanto è strategia sempre più ricorrente e quindi meno genuina, ma “distoglie il pubblico dall’esperienza stessa dell’arte”.

L’entrata è gratuita, ed è mezzo milione il numero di ingressi previsto per l’intera durata del festival. Nella massiccia campagna promozionale per l’evento i visitatori vengono mostrati mentre, telefono ben saldo alla mano, si industriano nella produzione del selfie perfetto. L’installazione, Dodecalis Luminarium, si espande partendo dalla geometria di un dodecaedro, svolgendone la proiezione in percorsi, cupole e luci. Al visitatore la scelta dell’angolatura perfetta, e certo non c’è cunicolo che non sia progettato per essere immediatamente riconoscibile una volta munito di hashtag e filtro. Si tratta solo dell’ultima di una serie di installazioni instagram–friendly, ormai un must per attrarre visitatori agli eventi artistici anglosassoni. La gigantesca casa di bambole che ha aperto il Festival di Adelaide e le miriadi di porte annidate del Festival di Brisbane sono infatti esperienze pensate per lo scatto.

Nel 12º anno di Instagram, però, la critica all’arte ready to share ha il sapore dell’elitarismo. A prima vista la possibilità per le masse di fruire dell’arte, e anzi di entrarvi dentro, può sembrare un ristoro dai secoli di arte come commissione e status symbol. È sempre il medesimo culto del ricordo, argomentano i progressisti, a stare dietro al ritratto a olio di un banchiere fiammingo e a un qualunque scatto da un milione di like di Gianluca Vacchi.

L’imprevisto è, però, la non–novità. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato 80 anni fa da Walter Benjamin nella sua forma definitiva, poneva la questione della massificazione dell’arte nei termini della “politica culturale”. L’assenza del valore tradizionale e del suo rituale, infatti, avrebbero fatto sì che alla produzione artistica toccasse basarsi sulla prassi della politica. Diversamente dalle previsioni di Benjamin non è scomparsa “l’aura” dell’arte. Non è più nella produzione, ma nella progettualità che si annida nel pagare tributo all’estetica che la postmodernità di Instagram impone. Di selfie levigatissimi e pietanze ammonticchiate sui piatti. Nel compiuto sogno cartesiano da ogni immagine postata nasce però il dubbio dell’autenticità: né dell’autore, né del ritocco c’è mai certezza.

Dalla campagna elettorale americana, in fermento per le primarie democratiche, arriva il verdetto del democratico Beto O’Rourke: “Se non è su Instagram, non è successo”. O’Rourke è fuori dalla corsa, sbaragliato da Elizabeth Warren e Bernie Sanders, rispettivamente da 2 e 4 milioni di followers. Ed è perciò un comune formato, intuito da Benjamin, quello dell’arte e della politica: un selfie quadrato.

Post scriptum: Ah, se Karl Marx avesse avuto l’Urss! (che è come dire “Ah, se Andy Warhol avesse avuto Instagram!”).

Un Carroccio diverso è possibile: il paese che accoglie migranti

In paese raccontano, tra il serio e il faceto, che ormai per le vie del centro “trovare un residente umbro è un’impresa”. Siamo ad Attigliano, piccolo comune di duemila anime al confine tra Lazio e Umbria, e l’incipit di questa storia farebbe pensare all’ennesimo caso, l’ennesima protesta, di un paesino di montagna che si ribella contro “l’invasione” di immigrati. E invece no perché ad Attigliano (Terni), l’integrazione funziona. Con una sorpresa in più: il regista dell’accoglienza è un sindaco leghista, Daniele Nicchi, che nel tempo ha deciso di combattere lo spopolamento del comune con una strategia precisa: accogliere e integrare nuovi immigrati. Oggi i dati parlano chiaro: un residente su quattro di Attigliano è straniero (20% della popolazione), nove punti in più della media regionale dell’11% e ben dodici rispetto a quella nazionale (l’8%). I 504 migranti sui 1976 abitanti provengono da più di 40 Paesi diversi, la maggior parte dei quali africani: Camerun, Congo, Nigeria, Burkina Faso e Costa d’Avorio. In paese fanno panettieri e commercianti, le pulizie e gli assistenti sociali mentre molti di loro tutti i giorni prendono un treno per Roma per andare a lavorare nelle ambasciate, nei consolati o negli alberghi della Capitale prima di ritornare ad Attigliano per l’ora di cena grazie al collegamento diretto con Terni. “Ad Attigliano abbiamo scelto una strada semplice: rispetto delle regole, diritti e doveri uguali per tutti – ha detto Nicchi, oggi anche consigliere regionale eletto con la Lega, al Corriere dell’Umbria – Non abbiamo mai fatto distinzione per il colore della pelle, con questi pochi principi ognuno vive con i propri usi e consumi, senza discriminazioni”.

Anche qui, come in molti altri paesi di provincia, il tasso di natalità è da tempo ferma allo zero e, anche per questo, da dieci anni il sindaco leghista Nicchi ha deciso di attrarre decine di immigrati che lavorano, pagano le tasse, fanno figli e poi li mandano a scuola. Un melting pot che funziona: dopo le difficoltà degli anni duemila con l’immigrazione rumena, negli ultimi anni nelle cronache locali non c’è traccia di proteste e ribellioni dei residenti umbri. Ad aiutare l’integrazione c’è anche il grande lavoro dei corpi intermedi: la parrocchia di San Lorenzo Martire, la scuola che ha potenziato il francese e l’inglese ma anche le associazioni. Per esempio la “Tre A: Associazione Africani di Attigliano” fondata dal 39 enne centroafricano Aimé George Gabati che da una parte aiuta i 500 immigrati ad incontrarsi e dall’altra fa da trait d’union con l’amministrazione leghista con cui vengono organizzate regolarmente iniziative comuni, come la festa del patrono di San Lorenzo (il 10 agosto) con uno spazio dedicato alle “mille culture” dove si cena con prodotti tipici africani. Per questo, molti di loro, se potessero, voterebbero per la Lega: “Ci siamo sempre trovati bene con il sindaco Nicchi – spiega un giovane residente che viene dal Congo – lui lo voterei”. E Salvini? Pausa: “No, lui no”.

Strage di Rigopiano: l’indagato scagiona se stesso (e D’Alfonso)

I depistaggi, le menzogne, le forzature, le telefonate dimenticate, le informative nascoste, tutto finito nell’inchiesta bis sulla tragedia di Rigopiano. Ma intanto l’indagine principale sulla strage fa affiorare altri particolari raccapriccianti. Questa volta a scoprirli è il presidente del Comitato dei familiari delle vittime Gianluca Tanda: è stato un indagato a scagionare se stesso e a consentire l’archiviazione delle posizioni dei politici della Regione Abruzzo con in testa l’ex presidente pd Luciano D’Alfonso; ed è stata proprio quella informativa, un’informativa firmata da un indagato, a finire agli atti della procura per la richiesta di archiviazione, poi accolta dal gip Nicola Colantonio. “Così gli angeli di Rigopiano muoiono due volte”, ha commentato Tanda. Ed è atroce scoprire che l’attesa di giustizia per le 29 vittime della valanga che ha travolto l’hotel il 18 gennaio del 2017, venga ogni giorno tradita.

Ecco come Tanda ricostruisce il caso: i carabinieri Forestali hanno chiesto direttamente a un indagato, il dirigente della Protezione civile Silvio Liberatore, spiegazioni in merito alla tardiva convocazione del Core, il comitato regionale per le emergenze che venne convocato da D’Alfonso il 18 gennaio, giorno della strage, alle 15.30, solo qualche ora prima del disastro, nonostante in Abruzzo ci fosse una gravissima emergenza neve (con strade chiuse e paesi isolati e lo stesso albergo bloccato dal mattino con gli ospiti in preda al panico per le scosse di terremoto) già da dieci giorni.

Quell’informativa venne poi utilizzata dalla stessa procura per sostenere “l’irrilevanza” della tardiva convocazione del comitato e per scagionare quindi i politici e i dirigenti regionali.

La tardiva convocazione del Core era una delle accuse che faceva capo a D’Alfonso & c., visto che una legge del 1993 stabilisce che la Regione si occupi “della elaborazione dei piani di emergenza che devono provvedere alla organizzazione permanente delle strutture operative”.

Ora si è scoperto che l’indagato ha scagionato se stesso: e infatti dopo l’informativa di Silvio Liberatore, il gip Colantonio nel decreto di archiviazione scrive che il Core era stato “correttamente e tempestivamente attivato”,.

Liberatore nell’informativa scrisse così: “Agli atti di questo ufficio risulta un’unica convocazione del Core a firma del presidente Luciano D’Alfonso; in precedenza risulta la sola convocazione del Comitato tecnico operativo regionale del 7/2/2012, a firma congiunta dell’allora presidente della giunta regionale Gianni Chiodi e dell’allora assessore regionale Gianfranco Giuliante”.

Insomma, secondo lui non ci fu nessun ritardo e anzi D’Alfonso fu talmente bravo tanto che a lui si deve la prima e unica convocazione del Comitato. Ma così non è: anche perché già nel 2012 la Regione col presidente Chiodi aveva convocato il Core, solo che Liberatore l’ha chiamato diversamente. La procura abbocca, diciamo così, e tutto finisce a tarallucci e vino: nessun responsabile politico.

Ora però Tanda chiede di riaprire le indagini.

Corruzione alle stelle in Libano, la cronaca di un default annunciato

La Repubblica del Libano è in bancarotta. Il suo sistema bancario è comatoso. La gente, da mesi in rivolta contro i politici (che ha eletto per decenni), è inferocita perché non può ritirare i soldi agli sportelli e men che meno trasferirli all’estero.

È la cronaca di un default annunciato: dalla fine della guerra civile nel 1990 il Libano è rimasto preda di una corruzione tanto pervasiva quanto inestricabile. Da anni i deficit gemelli, di bilancio pubblico e di bilancia dei pagamenti erano considerati insostenibili. Ma i vari potentati marci hanno ignorato le sirene di allarme rifiutando pervicacemente di porre un argine al saccheggio dei fondi pubblici e alle disfunzioni di una burocrazia indecente. Per foraggiare il consenso, i governi hanno accumulato un debito sovrano monstre (160% del Pil) che per il solo pagamento degli interessi assorbe 10 miliardi di dollari (uno stratosferico 22% del Pil). Il 60% delle entrate pubbliche basta appena per pagare gli interessi.

Questa follia era puntellata dai flussi di capitali inviati dai milioni di libanesi espatriati nonché da investitori stranieri attratti dagli altissimi interessi sui depositi bancari. I rischi di cambio venivano ignorati perché la lira libanese era fissata al dollaro. Le banche utilizzavano i depositi per investire in titoli di Stato che a loro volta pagavano interessi spropositati. Dopo le elezioni del maggio 2018 ci vollero 8 mesi per formare un governo guidato da un ferrovecchio della politica, Saad Hariri. Ma la gestione della cosa pubblica e dell’economia si era ormai deteriorata, avvitandosi in una tragica spirale di stagnazione e spesa pubblica fuori controllo, mentre la banca centrale inventava stratagemmi sempre più cervellotici per puntellare il castello di carta straccia. Di conseguenza nel 2019 il deficit pubblico è schizzato al 15% del Pil contro il 7,5% previsto in bilancio e il deficit di bilancia dei pagamenti ha raggiunto il 26% del Pil. Alla fine del 2019 la crisi è sfociata in disordini che hanno costretto Hariri a dimettersi. I flussi di capitale si sono progressivamente arrestati e di conseguenza sistema bancario e governo, uniti in un osceno intreccio, sono di fatto insolventi. Il cambio fisso ormai è illusorio (i dollari si trovano solo al mercato nero), l’inflazione tocca il 30%, l’economia si è arrestata, le entrate pubbliche si sono dimezzate. Nel 2020 il Pil potrebbe crollare fino al 20%.

Il nuovo premier, Hassan Diab, dovrà immediatamente rinegoziare i prestiti in scadenza (non è detto che ci riesca) e trovare almeno 25 miliardi di dollari tra Fmi, Banca Mondiale e governi vari. In cambio gli chiederanno un massiccio piano di stabilizzazione al cui confronto quello greco sarà una piacevole passeggiata. Ma comunque sarà molto meno drammatico di un’ipotetica Eurexit per l’Italia.

Detrazioni delle spese sanitarie. Cosa si può pagare in contanti

Tutti gli sconti fiscali delle spese sanitarie non verranno più rimborsati se si paga in contanti. Questa la vulgata che nelle ultime ore si sta diffondendo, intasando anche le chat dei social. Del resto stiamo parlando del bonus più utilizzato dagli italiani, visto che nel 2018 – secondo i dati pubblicati dal Dipartimento delle Finanze – sono stati 18.618.648 di contribuenti, sui 42 milioni totali, a richiedere e ottenere il rimborso pari a un ammontare di 18,62 miliardi di euro.

Vale la pena ricostruire come stanno le cose. Dal 1° gennaio 2020, come previsto dalla legge di Bilancio, alcune spese detraibili nella misura del 19% devono essere pagate con strumenti tracciabili, come bancomat, carta di credito o carte prepagate, assegni bancari e assegni circolari, bonifico bancario o postale, pena la perdita del rimborso nella dichiarazione dei redditi. Ma la misura, come specificato in manovra, non riguarda tutte le detrazioni: farmaci, dispositivi, visite ed esami presso strutture pubbliche o private accreditate al Servizio sanitario nazionale (vale a dire in ospedale o in una clinica convenzionata in intramoenia e, quindi, dentro al Ssn) possono, infatti, essere pagati ancora in contanti senza il rischio di perdere il bonus.

Tutto il resto, invece, a partire dalle visite dallo specialista (ad esempio cardiologo, dentista od ortopedico) che opera in regime privato o nei centri analisi privati, va obbligatoriamente pagato con sistemi tracciabili se si vuole l’agevolazione. Il pagamento cashless è l’unica condizione per fruire della detrazione anche per gli interessi passivi sui mutui, le quote di palestre e piscine per i ragazzi o le rette universitarie. Insomma, tutte le spese detraibili al 19% che andranno conteggiate nel modello 730 del 2021, in riferimento ai redditi 2020.

Una notizia effettivamente rilevante vista la portata degli utenti che ne usufruiscono e che, va detto, è partita in sordina senza l’adeguata diffusione mediatica creando così una situazione di incertezza che sta mettendo in difficoltà i contribuenti che si stanno riversando presso Caf e professionisti per avere maggiori chiarimenti. Tanto che, pur se in accordo con il cambiamento, la Consulta nazionale dei Caf ha chiesto un intervento dell’Agenzia delle Entrate e del ministero dell’Economia “affinché si trovi in modo per rendere meno drastico l’impatto della novità, soprattutto per i pensionati”. “I Caf – spiegano Massimo Bagnoli e Mauro Soldini, coordinatori della Consulta – si sentono in dovere di segnalare le preoccupazioni che stanno sorgendo da un lato a causa di elementi applicativi della norma, ancora da chiarire, nonché di ritardi da parte di alcuni erogatori di servizi che non sono ancora riusciti ad attrezzarsi per rispondere alle nuove disposizioni. Ma soprattutto, dall’altro, per la mancanza di conoscenza della nuova normativa da parte dell’intera platea di contribuenti”.

Una situazione analoga accadde con la legge Finanziaria del 2007 che introdusse lo scontrino parlante a partire dal 1° luglio. In quell’occasione per il periodo dal 1° luglio al 31 dicembre 2007 il Mef consentì di detrarre anche scontrini non parlanti o incompleti, con l’autocertificazione del contribuente del codice fiscale dell’acquirente, l’indicazione su tipologia e quantità dei farmaci acquistati.

Cosa fare, quindi, nel frattempo se si intendono sfruttare le agevolazioni fiscali? Dal momento che la legge non specifica cosa bisogna fare per dimostrare l’avvenuto pagamento in contenti, potrebbe essere una buona idea conservare gli scontrini di bancomat o carta di credito, le distinte dei bonifici o addirittura le fotocopie degli eventuali assegni. La circolare dell’Agenzia delle Entrate con i chiarimenti è attesa per febbraio.

Di certo, al momento, di chiaro c’è un solo elemento. Questa novità, più che stimolare i pagamenti alternativi al contante per intensificare la lotta all’evasione, è un toccasana per le casse dello Stato: molti italiani, infatti, perderanno per strada i bonus non adeguandosi alle disposizioni.

Una facile previsione contenuta nella stessa relazione tecnica alla manovra: “Secondo le stime riportate, l’introduzione dell’obbligo di pagamento con strumenti tracciabili per la fruizione del bonus del 19% per le spese detraibili, con alcune esclusioni tra le quali quelle effettuate presso strutture pubbliche e private accreditate presso il Ssn, con un incremento di gettito pari a 868 milioni nel 2021 e a 496 milioni nel 2022”.

Le tensioni tra Usa e Cina e i nuovi limiti antismog

Il mercato europeo dell’auto ha chiuso il 2019 a quota 15,8 milioni di vetture (+1,2%). Ma le previsioni per il 2020 non sono buone: secondo Acea, l’associazione europea dei fabbricanti d’auto, l’anno in corso potrebbe terminare con un calo delle immatricolazioni del 2%, prima frenata degli ultimi 7 anni. “Ora che l’industria sta intensificando gli investimenti sui veicoli a emissioni zero, il mercato è destinato a contrarsi, non solo in Ue ma anche a livello globale. Quindi, la transizione all’auto elettrica deve essere gestita molto bene dalla politica”, sostiene il presidente dell’Acea, Michael Manley. Come? Con strategie che rafforzino la competitività del settore e mantengano il trasporto su strada e la mobilità alla portata di tutti. Certo, le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, pur in fase di distensione, non aiutano. E non aiuteranno a vendere auto nemmeno le norme sulle emissioni inquinanti in vigore questo e il prossimo anno, rendendo fondamentale per i costruttori la presenza a listino di ibride ed elettriche. E in Italia? “Serve una grande campagna di incentivi alla rottamazione per l’acquisto di auto elettriche e ad alimentazione tradizionale”, afferma Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor. Quest’ultimo sostiene che nel 2020 le immatricolazioni del Belpaese supereranno quota 2 milioni (+5% sul 2019). Ma Quagliano lancia un monito: “Visti i costi per passare all’elettrico, la politica dovrà sostenere l’industria nella fase di transizione, favorire il ricollocamento dei lavoratori espulsi dal processo produttivo e sostenere gli automobilisti che passano all’elettromobilità”.

Suzuki parla ibrido. Vitara e S–Cross, i suv verdi

Immaginiamo Greta Thunberg che citofona alla Suzuki chiedendo: “Avete un diesel?”. La risposta della casa giapponese sarebbe: “No, e tra poco neppure un benzina puro. Soltanto ibride, a eccezione della Jimny della quale però abbiamo già terminato la scorta per l’intero 2020”. Le pressioni ambientaliste e le conseguenti scelte politiche dell’Unione Europea cominciano a influenzare davvero le strategie dei costruttori. Dopo aver pensionato le macchine a gasolio, infatti, tra qualche settimana – esaurite le scorte di auto a benzina – la Suzuki venderà in Italia e in tanti altri Paesi solo vetture ibride. Lo ha confermato il presidente della filiale italiana Massimo Nalli, in occasione della presentazione, in Ungheria, delle nuove S–Cross e Vitara Hybrid, caratterizzate dall’ISG, il nuovo sistema composto dal motore elettrico da 48V che lavora pure da alternatore e motorino di avviamento, dalla batteria agli ioni di litio e dal convertitore 48-12V. La location della presentazione nulla ha a che fare con l’attuale padre-padrone politico della Repubblica danubiana, quel Viktor Orban interessato più a erigere barriere contro i migranti che contro le emissioni di CO2 e di polveri sottili.

Le due suv Suzuki sono state svelate alla stampa in Ungheria perché nei dintorni di Budapest hanno sede sia la pista prove che l’impianto di Estzergom, a pochi km dalla frontiera con la Slovacchia: è qui che le nuove ibride – dirette verso molti mercati, Italia e Giappone inclusi – sono fabbricate da operai che guadagnano in media 900 euro lordi al mese.

La Suzuki viene da un 2019 record: le oltre 38 mila vetture vendute in Italia le hanno accreditato per la prima volta una quota di mercato del 2%. Nel settore delle ibride, in cui è entrata nel 2016 con la Baleno, è seconda alle spalle di Toyota con una quota del 9%. E il debutto delle nuove ibride evolute, con il doppioweek– end porte aperte a febbraio, rafforzerà la vocazione alla doppia alimentazione.

La promozione prevista fino al 31 marzo fissa il prezzo di ingresso a 20.950 euro (23.150 la 4X4) per la Vitara e a 20.990 euro (23.190 euro per la variante integrale) per la più arrotondata e lunghetta S-Cross.

Secondo gli esperti di PA Consulting, che monitorano i target della Ue per i vari gruppi in tema di CO2, Suzuki dovrà chiudere il 2020 con una media “pesata” pari a 90,3 gr/km, la più bassa di tutti. Il traguardo varia infatti per ogni player: l’asticella di Jaguar–Land Rover, per esempio, è piazzata a 130,6; per BMW si scende a 102,4, per Toyota a 95,1.

La sbarazzina Jimny che s’arrampica ovunque emette 150 grammi di anidride al km. Le due nuove suv ibride, decisamente più parche, si fermano a 104, l’utilitaria Swift sta parecchio sotto quota 100. Ecco perché già il 22 gennaio Suzuki Italia ha detto stop alle vendite della Jimny, per quest’anno, fermandosi a 2.200 unità. Nel 2019 erano state 3.500 e, stando alle richieste, il 2020 avrebbe potuto essere uno spasso. E invece, la partita è finita appena iniziata. Chi guarda con scetticismo alle politiche pro–ambiente dovrà abituarsi a queste forzature del mercato e, nel caso della Jimny, pregare magari che ad Hamamatsu preparino presto la versione ibrida.

Concludendo: le nuove S–Cross e Vitara, grazie al nuovo motore Boosterjet 1.4 da 129 cv accoppiato al sistema ibrido a 48V, che diventerà la specialità della casa, consumano il 20-25% in meno rispetto agli allestimenti a sola benzina, che quindi possiamo non rimpiangere.

Regina del dorso: “Il lavoro mentale è tutto per vincere”

Mentre incede a bordo vasca con la musica nelle cuffie, altera e bellissima, distaccata e quasi assente, con i capelli biondi conciati all’indietro ancora un po’ madidi, la nuotatrice Margherita Panziera ricorda con fulminante realismo la nobildonna medicea Giovanna Tornabuoni, nell’etereo ritratto che le fece il pittore fiorentino rinascimentale Domenico Ghirlandaio. Toglie le cuffie: ascolta soprattutto pop dance. Lady Gaga, Nicki Minaj e Britney Spears. Le danno la carica.

Non toscana come la dama Tornabuoni, ma veneta di Montebelluna, agli Assoluti di nuoto di dicembre 2019 di Riccione (i campionati nazionali), Margherita si è qualificata per le Olimpiadi di Tokyo 2020 nella disciplina dei 200 m dorso. “Ai Campionati del mondo 2019 di Gwangju, arrivare quarta con soli 5 centesimi di distacco dal bronzo mi aveva lasciato l’amaro in bocca”, rivela, seduta di fronte a un tè caldo qui accanto alla foresteria della struttura di Aniene, che ospita i nuotatori azzurri fuori sede. “Qualificarmi per Tokyo mi ha resa contentissima, ma soprattutto – lo confesso – sollevata. Per Rio de Janeiro mi ero qualificata soltanto due mesi prima e avevo vissuto l’intera stagione con un po’ d’ansia. E sono anche fiera di aver realizzato un tempo migliore dei Mondiali in Corea.”

Classe 1995 e 1,80 m di altezza, Margherita è ligia ai suoi duri allenamenti settimanali e coltiva con fedeltà il suo rapporto con l’acqua: “Al mattino, mi sveglio alle 7, e alle 8 sono già a mollo. E poi, dopo la pausa pranzo, mi rituffo anche al pomeriggio. Per un nuotatore è fondamentale stare a contatto tutti i giorni con l’acqua, necessario direi. Se ci sto lontana anche solo un giorno, me ne accorgo, mi manca qualcosa, sento di andare a vuoto. È come se, camminando, rischiassi a ogni passo di inciampare. L’acqua è il mio elemento.” Non segue diete ferree perché ha la fortuna di avere una costituzione magra, ammette ma subito precisa sardonica: “Però è pure vero che maciniamo la media di tredici chilometri al giorno in piscina”. E per questo è fedelissima anche alla pasta: “La mangio tutti i giorni. Non esiste che mi tolgano la pasta.”

Studentessa di Marketing – “con una buona media,” aggiunge – sogna un futuro nello sport magari dietro le quinte, nell’ideazione e organizzazione, e magari fondendolo a un’altra sua passione, la moda. Nel riavvolgere il nastro della memoria, racconta i suoi esordi col nuoto e l’impatto con l’agonismo con saggia umiltà: “Da piccola avevo la tendenza alla scoliosi, così mia madre mi portò a nuoto. Nel 2013, quando avevo 17 anni, arrivò la prima convocazione in nazionale, ma io lo prendevo solo come un divertimento. Erano i miei genitori ad essersi appassionati più di me. Nel 2014, arrivò il primo oro agli assoluti”. E di lì, Margherita sarà la regina incontrastata dei 200 m dorso. C’è però anche un po’ d’incertezza nel suo racconto: “Ogni volta che raggiungi un traguardo, c’è sempre il successivo, non sei mai soddisfatto. Ho avuto i miei alti e bassi. Essere in nazionale è sempre stato un orgoglio, ma vedere gli altri vincere mi invitava a pormi delle domande sul mio reale talento. Tanto che più di una volta mi sono detta ‘ora mollo’. Finché ho capito che l’allenamento in vasca è nulla senza il lavoro mentale. Senza quel costante pensare al limite da superare giorno dopo giorno. Lì sono riuscita a sbloccarmi”. Così, nel 2018 arriva la prima medaglia d’oro europea a Glasgow, che viene confermata nel 2019.

Per il resto, Margherita è una campionessa un po’ naif. S’imbarazza di fronte ai complimenti, e non le piace farsi fotografare. Pur essendo un’atleta professionista, ha passioni da nerd sfegatata: il cinema fantasy, con una predilezione per i supereroi. In più legge tantissimo: gialli, thriller e mistery–crime, oltre ai manuali di economia e marketing per l’università. Ma non si può escludere sia anche un’accanita lettrice di poesia poiché quando parla delle sue aspettative rispetto alle venture Olimpiadi, le si infiamma una tale passione e insieme una tale reverenza, da dire: “Nel nuoto non ci sono certezze, tutto può succedere e tutto dipende da te”. Che è un altro modo di ricordare l’unico verso dichiaratamente autobiografico del poeta russo Osip Mendel’stam: “Su di me, non ho che indizi, nessuna verità”. E dove la condurranno gli indizi su Tokyo, lo scoprirà Margherita stessa: la nuotatrice che da piccola voleva fare la detective.