L’istruzione è l’anima di un Paese: “A Berlino i politici vanno a scuola”

La pasta è alla norma solo di nome. Vale un sei meno meno, anche se nella pizzeria berlinese si parla italiano. Tra una dozzina di commensali l’abbiamo ordinata solo lui e io. Lui è uno dei miei maestri, si chiama Alessandro Cavalli, sociologo insigne, anche se a molti lettori del Fatto non dirà molto perché non viene invitato in tivù, troppo pensatore per bucare il video. L’ho ritrovato nella capitale tedesca dopo un paio d’anni e ai giovani che stavano con me non è sembrato vero poterlo invitare alla cena prevista dopo il dibattito in libreria. Con il professor Cavalli, giovane assistente di Angelo Pagani, feci il mio primo esame di Sociologia alla Bocconi, metà lui metà Alberto Martinelli. Poi sempre alla Bocconi fui assistente di entrambi. Quanto tempo è passato, Alessandro? L’anziano professore ha da poco superato gli ottanta ma ha la curiosità di un trentenne. È venuto in libreria a sentire. È venuto in pizzeria per conoscere e scambiare idee. A Berlino sta circa sessanta giorni l’anno, rifugiandosi negli studi e nelle frequentazioni tedesche grazie all’appartamento che ha preso nell’elegante quartiere di Charlottenburg.

Spiega che si sta interessando dei processi educativi, che si sta dando da fare perché nasca in Italia una rete di insegnanti vogliosi di pensiero avanzato, capaci di mettersi in connessione tra loro. Allargarsi, unirsi, è il suo verbo. Riflette sulla necessità di rafforzare i pilastri educativi della società italiana anche in politica. In Germania, dice, ci sono percorsi di educazione politica sostenuti da fondazioni e scuole vicine ai grandi partiti. In Italia i partiti sono stati delle chiese e questo ha impedito che nascessero coscienze politiche critiche, capaci di partire dai fondamenti della democrazia, ossia dalla partecipazione civile e dalle istituzioni. Il professore non sembra affatto in pensione quanto a curiosità intellettuale e meno che mai quanto a responsabilità sociale.

I giovani italiani e tedeschi disposti intorno al tavolo, provenienti dalle occupazioni e dagli interessi più diversi, lo ascoltano. Qualcuno, tra quelli più addentro alle scienze sociali, è visibilmente emozionato. Sono famosi alcuni testi del prof, anche fra chi non li ha letti. Max Weber, le ricerche sui giovani, un fortunato e agilissimo Incontro con la Sociologia di circa vent’anni fa, e molto altro ancora. Ed è proprio parlando della sua disciplina che Cavalli confida un’amarezza che sembra un’ideale staffetta per la nuova generazione. “Avevamo immaginato e abbracciato la sociologia perché ci sembrava la disciplina ideale per conoscere e anche cambiare il mondo. Non per fare carriera nell’accademia. Serviva a tenere uno sguardo largo sulla realtà, a vedere il tessuto fitto delle cause e delle relazioni tra i fenomeni, l’ultima cosa che avremmo immaginato era che la sociologia potesse produrre nuove separatezze, tanti piccoli campicelli. Invece è accaduto proprio questo”.

Il messaggio di questo signore dall’eloquio pacato e dalla barba da pensatore ottocentesco cattura gli sguardi e le attenzioni. Nessuno parla più della pizza con troppo peperoncino o dell’ottimo vino sfuso. “Si sono formate iperspecializzazioni che si curano ciascuna il suo orto, generando linguaggi spesso incomunicabili. Io stesso quando prendo le riviste scientifiche di sociologia non capisco molte volte che cosa vogliano dire pezzi interi di saggi e articoli”. Nonostante i toni paciosi non ci potrebbe essere critica più radicale per i malvezzi di una disciplina incline a ribaltare la sua anima originaria. Non è un anti–accademico a farle, ma uno dei fondatori dell’accademia post–sessantottina, quella della ricerca sul campo, della teoria critica, del “pensare largo”.

Parla, riflette, e nei presenti sfonda la convinzione che abbia ragione. Che il re sia ormai nudo, con i suoi tabù, le sue formule esoteriche, il suo vocabolario sempre più fossilizzato. Il prof si gratifica con moderazione di quei consensi genuini. E, uscendo, dà appuntamenti importanti. Se ci fosse bisogno di lui per Berlino, è disponibile. Proprio lo scorso anno condusse affollati incontri sul dualismo Nord–Sud per l’Istituto italiano di cultura. Ma soprattutto è disposto a impegnarsi, lui alla sua età, per dare al suo Paese, l’Italia, percorsi educativi più ricchi, più critici, più stabili. Perché alla fine un Paese è la sua educazione. Lo guardano tutti ammirati mentre prende a tarda sera la metropolitana verso casa. “Meno male che c’è chi pensa ancora a queste cose”.

Coronavirus, ristoranti cinesi deserti: “Non c’è alcun rischio”

Cara Selvaggia, io e mio marito siamo entrambi figli di cinesi che si sono trasferiti in Italia tanti anni fa. Oggi abbiamo un ristorante ben avviato in una grande città del nord. Da qualche giorno ci troviamo a fare i conti con questa insensata paura del coronavirus. Dico insensata non perché non debba essere presa sul serio a livello sanitario, ma perché va a toccare la mia attività come mai era accaduto prima d’ora. Questo sarà il primo weekend da quando abbiamo aperto che non abbiamo chiuso le prenotazioni il giovedì. Alla terza strana disdetta di clienti affezionati, ho chiesto il perchè: “Eh, il virus, preferiamo essere prudenti…”. Mi sono infuriata. Ma le persone lo sanno che i cinesi non vanno e vengono dalla Cina tutti i weekend? Lo sanno che alcuni cinesi di seconda e terza generazione come me neppure sono mai stati in Cina? Lo sanno che 40 casi su un miliardo e non so quante persone che popolano la Cina sono nulla? Lo sanno che non serviamo carpe fresche pescate in Cina? Lo sanno che è più probabile prendersi un’epatite alimentare in un postaccio qualunque che il corona virus in un ristorante cinese? Scusa lo sfogo ma non sopporto di pagare per una paura ingiustificata.

C.

Cara C., se il corona virus si diffondesse con la stessa rapidità con cui si diffonde la disinformazione, saremmo morti tutti da un pezzo.

Prescrizione e (in)giustizia “Ho rovinato tante famiglie ma l’ho sfangata in tribunale”

 

Gentile Selvaggia, ti racconto una storia per una ragione precisa, e spero ti sarà chiara ma solo alla fine della lettera. Parlerò di prescrizione e lo farò dal punto di vista personale, ma con distacco lucido perché dalla mia esperienza (di prescrizione) sono trascorsi sei lunghi anni. Il Fatto ha condotto una battaglia lecita e per molti aspetti condivisibile sull’abolizione della prescrizione. L’idea che dei delinquenti possano sfangarla e rimanere impuniti perché i processi scadono come vasetti di miele è inaccettabile. Lo è, soprattutto, per le vittime che vedono nella sentenza il risarcimento morale, il traguardo dopo attese frustranti, la giustizia che accarezzano dopo un torto. Arriviamo a me. Nel 2007 commetto un reato. Non voglio specificare quale, perché non desidero essere identificato da chi per causa mia ha sofferto abbastanza. Diciamo che rientra nella sfera economica, ma che ha avuto conseguenze sull’equilibro e le certezze di una famiglia: persone che si fidavano di me e che ho tradito. Le vittime non hanno potuto rivalersi economicamente su di me perché non possiedo nulla (davvero) e dunque attendevano almeno di vedermi condannato; il minimo sindacale del sollievo che auspicavano. Il mio reato, compiuto maldestramente e in un momento di disperazione personale, è sfociato in un processo che per una serie di lungaggini da sfinimento è arrivato dopo 6 anni alla sentenza di primo grado: una condanna lieve, se penso a cosa ho combinato a quella famiglia. Poi è arrivata la prescrizione. Ricordo la soddisfazione del mio avvocato, deluso perché non volevo festeggiare. Ricordo cosa mi ha detto: “Tu pensi che altri eventuali sei anni di processo sarebbero stati un bene anche per quella famiglia?”. Ho taciuto, poco convinto della tesi. Poi ha aggiunto: “E lo vedo perfino io che non sei più quello che è entrato nel mio studio una vita fa, chi avrebbero processato allora? Te o la persona che eri?”. Ho taciuto nuovamente. Ho pensato molto, in questi anni, alla frase del mio avvocato. Quella famiglia la incontro spesso nel mio paese e legittimamente si volta dall’altra parte, ogni volta che mi incrocia. Specie lui, il mio ex amico tradito, che con grande dignità si era affidato alla legge, senza mai venirmi a cercare per darmi 2 pugni, come avrei forse fatto io. Tutti i giorni, specie negli ultimi 2 anni, ho pensato di andare da lui e dirgli che se la legge mi ha “assolto”, io non mi sono mai assolto. Così come vorrei dirgli che se oggi arrivasse una sentenza e la prescrizione non fosse mai esistita, io non sarei punito comunque, perché quella punizione colpirebbe una persona che non conosco più. Io non sono più quello del 2007, senza un centro e un senso, completamente alla deriva. Destabilizzato dal divorzio, cercavo l’occasione per dimostrare al mondo di non essere un relitto: così ho fatto il passo più lungo della gamba. Mi sono giocato tutto quello che avevo e poi ho truffato chi mi voleva bene. Se ci penso, mi faccio orrore. Mi fa orrore soprattutto la spietatezza che ho avuto nel fregarmene delle conseguenze sugli altri. Alcuni si sono venduti casa, per rimediare al casino che ho combinato. Negli anni ho preso le distanze da me stesso, ho fatto un percorso di psicoterapia, ho studiato perfino legge (da autodidatta) perché la mia vicenda personale mi ha avvicinato alla materia. Sono volontario in una onlus, ho avuto una malattia che ha modificato i miei valori e le mie priorità. Quindi cara Selvaggia, alla fine di questa lettera torno alla ragione per cui ti ho scritto. Sono per l’abolizione della prescrizione? Sono contrario? Non lo so. Quella famiglia meritava giustizia e io meritavo di essere condannato. Ma dopo tutti quegli anni, non ero più io in quell’aula di giustizia. Non lo so, quindi, cosa penso della prescrizione. So che il tempo ci cambia e se la giustizia non riesce a tenere il passo del tempo che ci cambia, tutto diventa immensamente complicato.

L.

Cara L., così complicato, che questa volta mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

 

Coronavirus, ristoranti cinesi deserti: “Non c’è alcun rischio”
Cara Selvaggia, io e mio marito siamo entrambi figli di cinesi che si sono trasferiti in Italia tanti anni fa. Oggi abbiamo un ristorante ben avviato in una grande città del nord. Da qualche giorno ci troviamo a fare i conti con questa insensata paura del coronavirus. Dico insensata non perché non debba essere presa sul serio a livello sanitario, ma perché va a toccare la mia attività come mai era accaduto prima d’ora. Questo sarà il primo weekend da quando abbiamo aperto che non abbiamo chiuso le prenotazioni il giovedì. Alla terza strana disdetta di clienti affezionati, ho chiesto il perchè: “Eh, il virus, preferiamo essere prudenti…”. Mi sono infuriata. Ma le persone lo sanno che i cinesi non vanno e vengono dalla Cina tutti i weekend? Lo sanno che alcuni cinesi di seconda e terza generazione come me neppure sono mai stati in Cina? Lo sanno che 40 casi su un miliardo e non so quante persone che popolano la Cina sono nulla? Lo sanno che non serviamo carpe fresche pescate in Cina? Lo sanno che è più probabile prendersi un’epatite alimentare in un postaccio qualunque che il corona virus in un ristorante cinese? Scusa lo sfogo ma non sopporto di pagare per una paura ingiustificata.

C.

Cara C., se il corona virus si diffondesse con la stessa rapidità con cui si diffonde la disinformazione, saremmo morti tutti da un pezzo.

 

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“Mio figlio morto di cancro”: la guerra di Carla per Taranto

Un anno è trascorso da quando Giorgio Di Ponzio è morto. Aveva 15 anni e un sarcoma raro correlato alla diossina. Carla Lucarelli, sua madre, tarantina, 43 anni, non ha pretese di onori e riconoscimenti. È tenace, parca di parole, si racconta senza fronzoli. Lei decide e agisce. Tira dritto per la sua strada, anche quando di fronte ha le massime cariche dello Stato. Ne ha dato prova il 24 aprile: “Qua c’è da prendere dei provvedimenti immediati sulla chiusura dell’Ilva, perché non si può andare avanti così”, disse all’allora vicepremier Luigi Di Maio durante l’incontro con le associazioni a Taranto. E poi l’affondo: “Sicuramente mio figlio, il figlio di Mauro Zaratta e gli altri bambini sono il risultato dei governi precedenti, ma voi volete portare sulla coscienza i bambini futuri che moriranno? Far generare dei genitori e dei figli con una breve scadenza come lo yogurt?”. Senza esitazione, si alzò e si diresse verso l’uscita. Oggi racconta che furono i giornalisti a farle notare che non aveva stretto la mano a Di Maio, prima di andar via. “Non ho voluto cercare nessun contatto – spiega – perché gliela stringerò quando farà una scelta coraggiosa per la nostra città”.

Lei per Taranto, assieme a suo marito Angelo Di Ponzio e ad altri concittadini, in un anno di lutto ne ha fatte di cose. Suo figlio Giorgio è morto il 25 gennaio 2019. Un mese dopo la città si è riversata per strada. Quella fiaccolata ha scosso l’opinione pubblica. È stata uno spartiacque. I bambini morti a causa dell’Ilva hanno smesso di essere invisibili. Poco a poco li si è chiamati per nome. Hanno acquisito un volto. Nel frattempo è nato il comitato Niobe, di cui fanno parte i genitori “orfani”. Carla è una di loro. Una che non si risparmia. A marzo era assieme alle donne del rione Tamburi a mettere catene e lucchetto ai cancelli dell’Ilva. “Oggi vi chiudiamo noi”, avevano scritto su un cartellone. A novembre, quando ha saputo che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sarebbe arrivato in città, ha chiesto di incontrarlo. È stata lei a presentargli il Piano Taranto, un documento programmatico che ha scritto assieme ad altre associazioni per chiudere l’Ilva, bonificare e riconvertire il territorio. Prima di consegnarglielo, gli ha mostrato la foto di suo figlio e lo ha invitato a guardarla bene. Conte – a suo dire – le ha risposto che non “avrebbe mai dimenticato il suo sguardo”. Tuttavia lei teme lo abbia rimosso. “Così come io ho cambiato vita quando mio figlio si è ammalato – spiega – anche gli operai riusciranno a cambiarla una volta che l’Ilva sarà chiusa. Lo Stato deve assumersi la responsabilità delle loro sorti”.

Carla è una creativa, lungimirante. Sa già cosa vorrebbe vedere al posto dell’acciaieria: immagina un parco giochi, una birreria e delle gallerie d’arte. Lei è un’artista. Mentre Giorgio era malato, dovendo accompagnarlo prima a Bari e poi a Milano per le cure, aveva smesso di dipingere. Ma da qualche tempo ha ripreso. Usa la pittura per denunciare. Un quadro lo ha donato alla ministra delle politiche agricole, Teresa Bellanova. Raffigura un teschio nero, realizzato con la polvere di minerale raccolto dalle mamme del rione Tamburi. Gli altri dipinti raccontano la maternità. In uno, al posto del capezzolo, c’è il camino dell’Ilva: il nascituro si abbevera ai fumi dell’acciaieria, mentre sua madre lo allatta ignara. Già da tempo studi scientifici hanno accertato la presenza di diossina nel latte materno di alcune donne residenti. “Dopo la morte di Giorgio – racconta – volevano farci delle donazioni e allora ci siamo attivati”. Così è nata l’associazione “Giorgio for ever”. Diventerà una fondazione e ospiterà il primo centro di ricerca di oncoematologia pediatrica di Taranto.

In città c’è un gran daffare. La facoltà di Medicina non esiste. Manca proprio l’università. L’hanno chiusa. Anche trovare oncologi da assumere è difficile. Eppure c’è chi come lei riesce a figurarsi una Taranto diversa e non si arrende. Di recente ha fatto istanza per l’istituzione di un tavolo con la Asl. Lo ha ottenuto e i posti letto del reparto di oncologia pediatrica intitolato a Nadia Toffa sono stati raddoppiati. Da tre a sei. “Compreremo i macchinari, chiameremo i ricercatori. I nostri bambini hanno bisogno di armi per combattere i tumori”. È questa la speranza che infonde quando incontra i giovanissimi: “Gli dico che non devono accettare passivamente quello che non va”. Nella Taranto dell’Ilva lei non ha voluto neanche seppellire suo figlio. Lo ha portato a Talsano, dove ogni giorno per un’ora siede sulla panchina di fronte alla sua tomba. “Alle elementari – ricorda – ci insegnavano con orgoglio che la nostra città era il fiore all’occhiello del Paese. La più grande acciaieria d’Europa. Ma a casa, mio padre, diceva che quello era un inferno”. Il suo tono di voce è sempre identico, anche quando rievoca il giorno in cui i medici le dissero del tumore raro e aggressivo. Giorgio era a pochi metri di distanza. Lei si voltò e gli sorrise, rassicurandolo che non avesse nulla di grave. “A Taranto – avverte – anche un bambino sa che se dici tumore dici morte. Non volevo che si preoccupasse”. Sabato, a un anno di distanza dalla sua scomparsa, la città lo ha ricordato. Poste Italiane ha organizzato il primo annullo filatelico con la sua immagine. Sono pronte le cartoline per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Dietro tutto questo, all’ombra dei riflettori, inarrestabile c’è Carla.

Prima il sisma, poi il ministero. Così si distrugge una chiesa

C’è qualcosa di avvoltoiesco, di sciacallesco, nel salutare come un’”occasione” la distruzione di una chiesa storica ad opera di un terremoto che fece in tutto 27 vittime. Eppure, è proprio questo che scrive il Segretariato regionale del ministero per i Beni Culturali dell’Emilia Romagna nel bando internazionale per la (ri) progettazione della chiesa di San Francesco a Mirandola, che scadrà nel prossimo febbraio: “Lo squarcio del sisma del 2012 si configura come un’occasione preziosa per indagare sulla natura dei materiali originari, sulle modalità di lavorazione, sulle tecniche di assemblaggio, sui sedimenti del tempo. Un’occasione irrinunciabile per ideare una progettazione attuale, che possa valorizzare l’organismo storico proprio grazie all’accostamento armonioso di inserti contemporanei a quanto resta del materiale originario”.

Sarebbe bastata la consapevolezza della gravità delle infiltrazioni della ‘Ndrangheta nella ricostruzione emiliana (emerse in modo clamoroso grazie alla Operazione Aemilia) a sconsigliare di parlare del terremoto come di un’opportunità. Ma è un antico vizio, questo degli architetti emiliani dei Beni Culturali. Il drammatico e gratuito abbattimento di campanili (indimenticabili le immagini dell’esplosione di quello di Poggio Renatico), municipi (come quello di Sant’Agostino, nel ferrarese, anch’esso minato con la dinamite), case antiche (nella stessa Mirandola) danneggiati dal sisma trovò una giustificazione ideologica negli stands del ministero al Salone di Ferrara nel marzo 2013. Il loro titolo, stampato a caratteri di scatola, era: “Dov’era ma non com’era”. Una provocazione, rincarata dalla presentazione stampata sui pannelli, in cui il vertice del sistema italiano di tutela del patrimonio culturale affermava: “Di considerare questo evento drammatico come un’opportunità. L’opportunità di affermare una cultura architettonica della ricostruzione capace di prendere le mosse dalla reale situazione e consentire la coesistenza tra le preesistenze e gli edifici contemporanei, l’attualizzazione del bene culturale laddove era, dando ad esso nuovi significati vitali”. Una serie impressionante di bozzetti architettonici, culminante nell’idea di un campanile formato da monumentali forme di parmigiano, chiariva cosa si dovesse intendere per “attualizzazione”. Contemporaneamente, al Salone dell’Innovazione Edilizia di Bologna “designer di fama internazionale hanno proposto la propria idea di ricostruzione, con l’auspicio che l’Emilia diventi ‘il più grande museo d’Arte contemporanea a cielo aperto’”.

Naturalmente nessuno ha nulla contro l’arte e l’architettura contemporanee (a cui Dario Franceschini ha ora voluto consacrare l’ennesima direzione generale del Mibact, dal nome, appena un poco retorico, di ‘Direzione generale Creatività contemporanea e rigenerazione urbana’), ma non si capisce perché il loro sviluppo debba avvenire a spese di una chiesa storica, che si dovrebbe e potrebbe invece ricostruire com’era e dov’era, pur lasciando evidenti le ferite gravissime del terremoto.

In Francia anche Macron ha provato a sfruttare l’incendio di Notre-Dame per legare il suo nome a un mirabolante rifacimento da affidare a qualche archistar, ma è stato velocemente ricondotto alla ragione dagli intellettuali e dai cittadini che rivogliono la loro cattedrale com’era e dov’era. E da noi non c’è solo il sacrosanto diritto dei cittadini di Mirandola a riavere la loro chiesa (distrutta ormai da 8 anni), c’è anche la forza della legge: come ha notato Italia Nostra, criticando aspramente il bando ministeriale, “l’articolo 29 del Codice dei beni culturali impone il recupero del bene nella sua integrità materiale come principio e fine del restauro: e per il san Francesco il progetto è tutto documentato nell’edificio come era fino al devastante terremoto”. L’associazione di tutela ha anche rilevato che il concorso di idee e progettazione articolato in due gradi è previsto per gli interventi di particolare rilevanza e complessità (Codice degli appalti, art. 154) solo quando la Pubblica Amministrazione non sia “in possesso di idonea competenza nelle materie oggetto del progetto” (art. 23, comma 2), e ha chiosato: “Allarmante confessione: l’amministrazione dei Beni Culturali al proprio interno non dispone di adeguate competenze professionali per progettare interventi di restauro”. Certamente gioca un ruolo in questa vicenda lo spopolamento di personale e competenze che prostra il Mibact: a causa del quale 16 senatori M5S hanno appena chiesto a Franceschini di rinviare l’attuazione dell’ennesima riforma.

Ma c’è qualcosa di più profondo: una vera e propria crisi culturale, che fa ritenere noioso e poco spendibile sul piano della comunicazione il restauro di un monumento storico, mentre fa apparire eccitantemente dissacratoria la sua (lucrosa) riscrittura moderna. La logica dei Grandi Musei autonomi, valutati solo sul fatturato, inizia a minare anche la tutela territoriale. E d’altra parte, la chiesa di Mirandola appartiene al Fondo Edifici di Culto del ministero degli Interni, alla cui guida Matteo Salvini nominò – nei fatali ultimi giorni del Papeete – il super direttore franceschiniano degli Uffizi, Eike Schmidt.

Perché su una cosa Lega e Pd sono d’accordo: o il patrimonio culturale diventa un circo mediatico, o non serve a nulla. E, soprattutto, non serve a loro.

Svolta tunisina: nuovo premier un riformatore indipendente

A 48 anni, Elyes Fakhfakh, ingegnere, ex ministro, nonché amatore della birra nazionale Celtia (come confidato durante la campagna elettorale), è passato in pochi mesi da ex candidato alle presidenziali – dove ha raccolto solo lo 0,34% dei voti – a capo del governo della Tunisia. Il nuovo premier, nominato dal presidente Kaïs Saïed lunedì scorso ha un mese per formare una nuova squadra di governo da sottoporre all’esame dell’Assemblea. Durante i dibattiti televisivi della campagna, il candidato ha affermato la sua immagine di “persona serena e lucida”, osserva Elyes Ghanmi, ex attivista del partito di Fakhfakh, Ettakatol. Anche se il risultato alle urne è stato deludente ed Ettakatol non può vantare neanche un seggio in Parlamento, l’ex ministro delle Finanze della “Troika” (la coalizione tripartitica al potere dal 2011 al 2014, composta da Ennahda, Ettakatol e Cpr) potrebbe, secondo Ghanmi, trarre vantaggi dal suo profilo di “attivista politico e federatore”. Fakhfakh “ha dalla sua parte la legittimità storica di Ettakatol, un partito di centrosinistra che ha militato sotto Ben Ali. È abituato alla politica tunisina – aggiunge – e ha affrontato più volte il partito Ennahda mentre era ministro. È una persona pragmatica”.

Fakhfakh è stato anche direttore di diverse aziende in Europa e in Tunisia e nel 2014 ha cofondato una società specializzata nella consulenza e nel finanziamento di progetti per le infrastrutture e il recupero dei rifiuti nel Nord Africa. Un altro punto di forza del nuovo premier è il seguente: la sua “coscienza sociale”, ereditata dall’ideologia del suo partito. “Nominando Fakhfakh, e non uno degli altri due candidati alla carica di premier, di tendenza più liberale, Kaïs Saïed ha fatto una scelta più coerente”, osserva ancora Ghanmi. Nel suo primo intervento mediatico dopo la nomina, Fakhfakh ha sottolineato l’importanza di cambiare le politiche pubbliche e di costruire delle istituzioni forti e giuste, con uno Stato che ponga fine alle disuguaglianze.

La nomina di Fakhfakh segue di poco il fallimento di Habib Jemli, che il partito di orientamento islamista Ennahda aveva proposto come premier. Dopo due mesi di complicate trattative, la squadra di governo proposta da Jemli è stata respinta dall’Assemblea. Più noto nel mondo politico di Jemli, Fakhfakh, pur avendo fatto parte del governo di Ennahda dopo la rivoluzione, non è però membro di Ennahda. Alla testa dell’esecutivo parte dunque con un handicap: non essere stato proposto da nessuno dei due principali partiti presenti in Assemblea, Ennahda appunto (54 seggi) e Qalb Tounes (“Nel cuore della Tunisia”), il partito dell’uomo d’affari Nabil Karoui (38 seggi). Queste formazioni avevano proposto due nomi: Hakim Ben Hammouda e Fadhel Abdelkefi, entrambi ex ministri ed economisti. “Non c’è da sorprendersi se Kaïs Saïed non ha scelto nessuno dei due. Ci aspettavamo che il presidente non avrebbe rispettato la logica dei partiti politici”, afferma Hatem Mliki del partito Qalb Tounes. Ma, secondo lui, è importante che le difficoltà incontrate nel precedente tentativo di formare un governo, con Habib Jemli, non si ripetano: “Siamo di fronte ad un’emergenza socio-economica e il fallimento del precedente tentativo – continua Mliki – ci insegna che non dobbiamo esitare e che bisogna avere in partenza una visione chiara prima di formare la squadra di governo”.

La nomina di Fakhfakh rimescola ancora una volta le carte sul tavolo da gioco della politica tunisina. Al termine di elezioni che hanno sanzionato i partiti politici e portato alla presidenza un outsider politico, il nuovo capo dello Stato rompe col passato nominando alla testa del governo un tecnocrate, noto per la sua indipendenza e la sua volontà di riformare. “In questo sistema il presidente gode di una legittimità popolare, ma le élite e le lobby hanno ancora una certa difficoltà ad accettare il cambiamento. La sfida per il nuovo governo sarà di riuscire a navigare tra tutte queste dinamiche”, sottolinea Mohamed Dhia Hammami, ricercatore in Scienze politiche. Stando alle dichiarazioni di diversi suoi leader, Ennahda non sarebbe sfavorevole a Fakhfakh. Il partito islamista avrebbe tuttavia avanzato una condizione: che Fakhfakh costituisca un governo di unità nazionale insieme alle formazioni politiche. Alcuni non avevano apprezzato il fatto che il precedente candidato premier, non riuscendo a raccogliere consensi intorno a sé, avesse proposto un governo di personalità “indipendenti”. “È stato un errore. Si sarebbe potuto aprire il dibattito su chi è davvero indipendente e chi no”, spiega il deputato di Ennahda Nourredine Arbaoui.

La Tunisia ha visto susseguirsi nove governi in altrettanti anni di transizione post-rivoluzione e questa instabilità mette in crisi il sistema politico e le sue istituzioni. “Si pongono a questo punto diverse questioni: sono necessarie delle riforme economiche urgenti per ripristinare le finanze pubbliche e combattere la povertà. Allo stesso tempo, le elezioni e il risultato ottenuto da Kaïs Saïed, oltre il 70% dei voti, solleva un interrogativo importante: bisogna andare avanti con questo sistema politico ibrido, semi parlamentare e semi presidenziale, che finora non si è dimostrato efficace?”, si chiede Hatem Mliki. Attualmente, sebbene divisi in diverse piccole fazioni senza una vera maggioranza in Assemblea, i parlamentari non hanno altra scelta che votare a favore del governo di Fakhfakh, in modo tale da evitare lo scenario estremo previsto dalla Costituzione: lo scioglimento dell’Assemblea da parte del presidente della Repubblica e l’organizzazione di nuove elezioni legislative in caso di sconfitta al voto di fiducia. Ma, una volta approvato, il governo di Fakhfakh riuscirà a ottenere un consenso pieno anche all’interno di un panorama politico frammentato e senza far capo a nessuno dei partiti rappresentati in Assemblea? “Secondo me, Fakhfakh è la persona giusta. Sin dalle elezioni, abbiamo voluto riporre tutta la nostra fiducia in Saïed. C’è un forte movimento rivoluzionario nel paese, con proteste sociali e tensioni latenti. Era necessario calmare gli animi scegliendo un candidato relativamente vicino alla gente e evitare candidati troppo liberali o vicini alle lobby”, sottolinea Karim Baklouti Barkatellah, membro dell’ufficio politico del partito Tahya Tounes che ha proposto Fakhfakh come capo del governo di Saïed. L’obiettivo di Fakhfakh è di “essere federatore”, sostiene Chokri Jelassi, membro dell’ufficio politico di Attayar (“Corrente democratica”), un partito di sinistra e conta 22 seggi in Parlamento e ha un’alleanza parlamentare con il Movimento del popolo con cui costituisce un blocco di 41 deputati. “Lo abbiamo sostenuto e apparteniamo praticamente alla sua stessa famiglia politica, quindi ora resta da vedere il suo programma. Speriamo che sia all’altezza della fiducia che abbiamo riposto in lui”, aggiunge Jelassi.

Anche all’interno della stessa formazione politica di Fakhfakh, le aspettative sono molte alte. “Spero che si orienterà verso un governo ristretto e paritario. In ogni caso lo spingeremo ad andare in questa direzione”, ha dichiarato Hella Ben-Youssef Ouardani, la vicepresidente del partito Etakattol. Sul piano politico e ideologico, Elyes Fakfakh soffre dell’esperienza negativa vissuta all’interno della “Troika”, considerata un fallimento totale dal momento che il governo di questa coalizione si è dimesso nel 2014. Il nuovo premier dovrà anche gestire fascicoli economici urgenti con i sindacati, per la privatizzazione delle aziende pubbliche o ancora per la riforma amministrativa e la lotta alla corruzione. Il ricercatore Mohamed Dhia Hammami avverte: “Una volta che il governo avrà il via libera del Parlamento, rischieranno di emergere i primi attriti. Potranno venire dall’amministrazione o dai sindacati, che non è detto gli siano per forza favorevoli”.

(traduzione Luana De Micco)

“Mengele veniva spesso, cercava soprattutto gemelli”

Dita Kraus ha scoperto di essere ebrea quando aveva otto anni. Era il 1937 e viveva a Praga, giusto un paio d’anni prima dell’arrivo dei nazisti. “Una mattina a scuola trovai sopra il mio banco un pezzo di carta”. Scritto a penna da un compagno, quell’insulto così incomprensibile: “Tu sei un’ebrea”. Dita non ne aveva mai sentito parlare, cresciuta in una famiglia affatto praticante. Eppure il vento dell’intolleranza avanzava rapido: la perdita dei diritti, l’esproprio della casa, il ghetto. E infine Auschwitz. Otto mesi nel campo, prima di essere trasferita prima ad Amburgo e poi a Bergen Belsen: la sua salvezza, liberata dagli inglesi nell’aprile 1945. Oggi Dita ha 90 anni e la sua storia è parte del libro Il maestro di Auschwitz (Newton Compton) scritto da Otto B. Kraus, suo marito: internato nel campo insieme a lei, i due si sarebbero riconosciuti e amati dopo la liberazione. Otto è morto nel 2000, ma dai suoi scritti è stato possibile ricostruire la vita nel Blocco 31 del campo.

Dita Kraus, lei e suo marito deportati nello stesso campo.

Eravamo nella parte per le famiglie di Terezin. All’interno di questa sezione c’era il Blocco dei bambini: era il posto che serviva al dottor Mengele per i suoi esperimenti. Io avevo 13-14 anni, mentre mio marito Otto, di dieci anni più grande, era uno degli istruttori.

Com’era la vita nel blocco dei più piccoli?

La sezione nacque per merito del prigioniero Freddy Hirsch, un atleta ebreo che convinse i nazisti a creare un blocco per i bimbi in cui le condizioni di vita fossero leggermente migliori: una visita della Croce Rossa doveva servire ai tedeschi a fingere che Auschwitz non fosse un campo di sterminio.

Otto era uno dei suoi maestri?

Non proprio, si occupava di un altro gruppo di ragazzi, ma lo vedevo sempre dall’altra parte del blocco.

Si può costruire una quotidianità in un campo di sterminio?

Fu grazie a Hirsch, un punto di riferimento e una persona di cui ci fidavamo. Non avevamo matite e penne, eppure riuscì a mettere su una specie di scuola. Faceva giocare i bimbi, li teneva puliti, raccontava loro le storie. Quando compii 14 anni, convinse i tedeschi a darmi il ruolo di “assistente”, divenni la piccola bibliotecaria del blocco.

Una biblioteca?

Chiamarla così è troppo. Quando arrivavano i treni con i prigionieri, i nazisti svuotavano i loro bagagli e a volte capitava che ci fosse un libro. Ne raccogliemmo una dozzina.

Anche tra i bambini c’era consapevolezza di cosa fosse quel luogo?

Sì, era impossibile non sapere. L’area dei forni crematori era vicina e vedevamo sempre l’enorme colonna di fumo con questo odore forte che usciva. Vedevamo migliaia e migliaia di persone marciare verso le camere a gas. Tutti sapevano cosa succedeva nel campo.

La “scuola” aiutava a farvi forza?

Era l’unica maniera di scappare dalla realtà: si raccontavano storie e grazie a Hirsch c’era spesso un modo per distrarsi dalla nostra situazione. Anche se avevamo qualche vantaggio rispetto agli altri blocchi, le condizioni erano durissime: il freddo era terribile e si mangiava una zuppa al giorno con un po’ di pane e margarina.

Vedeva spesso il dottor Mengele?

Sì, veniva spesso al blocco dei bambini, l’ospedale era proprio di fronte a noi. Sapevamo degli esperimenti e sapevamo che cercava soprattutto gemelli. Quando aveva bisogno di qualcuno, avveniva in rituale tremendo: ciascuna guardia delle 32 baracche in cui era diviso il blocco usciva e gridava a quella a fianco: “I gemelli vadano dal dottor Mengele!”.

Come riuscì a salvarsi dallo sterminio?

Dopo la visita della Croce Rossa, nell’estate del ’44, si decise di smantellare il blocco. Ci divisero in gruppi: la maggior parte dei prigionieri fu uccisa, qualcuno restò per gli esperimenti di Mengele e un’altra parte fu selezionata per essere trasferita in un campo di lavoro. Fu fortuna e soltanto fortuna: non c’era niente che potessi fare per influenzare la scelta. Io e mia madre fummo mandate ad Amburgo e poi a Bergen-Belsen, dove fummo liberate dieci mesi più tardi.

Poi tornò a Praga?

Lì incontrari di nuovo Otto. L’ho riconosciuto mentre eravamo in fila per alcuni documenti. Mi disse: “Sono felice che tu sia sopravvissuta”.

Nel libro, Otto racconta di come fosse difficile per i sopravvissuti parlare di quel che avevano vissuto.

Lo descriverei come un gelo interiore, tutte le emozioni sono rimaste congelate per anni. C’è voluto parecchio tempo per prendere coscienza dei nostri sentimenti e iniziare a parlarne.

Oggi è il Giorno della memoria. È convinta che il ricordo abbia valore nella nostra società?

Le cerimonie di solito sono molto fredde e non servono a nulla. L’unico modo per dare loro significato è parlare, raccontare, far ascoltare alle persone le testimonianze di chi c’era. Io ho una storia terribile, eppure quando sento il racconto di qualcun altro ho ancora i brividi, riesco a partecipare al suo dolore. Sono sicura che così questa giornata possa avere un senso.

Sopravvivere “Io, la bimba che giocava tra i morti”

La memoria degli adolescenti è una via di mezzo tra stupore e consapevolezza. Si muove tra quanto imparato a scuola, visto in tv, forse ascoltato dai genitori e il frivolo disimpegno di Youtube e del loro mondo digitale. I banchi sono spesso l’ultimo vero presidio della Shoah. Quasi nessuno dice frasi come “per non dimenticare”, usano citazioni di canzoni che parlano dei ricordi. Si emozionano. L’empatia è il mezzo con cui capiscono che c’è stato qualcosa di terribilmente sbagliato in passato. Sentono prima di pensare. A Cracovia sono in 100 per il viaggio della memoria al campo di Auschwitz-Birkenau organizzato dal ministero dell’Istruzione, arrivano da sette scuole, selezionate per i loro progetti. Sono attenti e rispettosi. Anche esuberanti, ma mai fuori luogo.

Fotografano, moltissimo. Solo qualcuno sfugge ai ranghi per sedersi sui binari di accesso al campo di sterminio e farsi immortalare. Qualche adulto mormora, ci si chiede se sia giusto. Quelle foto finiranno su Instagram. “Forse va bene così – conclude qualcuno – forse oggi è così che si rinnova la memoria”. È il loro linguaggio, il loro mezzo per comunicare anche ciò che è serio. Nessuno li ferma. Sui social c’è una nuova foto in con gli hashtag “Auschwitz” e “Viaggio della memoria” e una riflessione sul passato.

Manca la neve, anche in Polonia è sempre più rara. Eppure non è difficile immaginarla. Il freddo si insinua sotto cappotti e sciarpe. Gli studenti battono i piedi mentre ascoltano il racconto di ciò che accadeva. Piangono quando il Rabbino intona la preghiera di fronte ai resti del forno crematorio, c’è silenzio quando suona il shofar, il tradizionale corno ebraico. Increduli percorrono i corridoi della baracca dei bambini accompagnati dalla testimonianza di chi, al tempo bambino, in quella baracca ha accumulato ricordi terribili. Tatiana Bucci aveva sei anni, oggi è una dei pochi superstiti ancora in vita. Fu imprigionata con la sorella Andra e il cuginetto, Sergio. Piange, racconta l’arrivo in treno, stretti alla madre. “Non so quanto sia durato il viaggio – dice – ricordo che per i bisogni fisiologici c’era un secchio nel vagone e che le donne venivano nascoste dagli altri con le coperte”. Pensa ai suoi anni, oggi, “e a mia nonna, a quanto deve essere stato difficile per le persone della sua età”. Bene e male si mescolano. “Mia mamma nell’ultima sosta riuscì a far passare un biglietto in cui si diceva che eravamo stati arrestati. Solo dopo ci fu raccontato che quel pezzo di carta era stato raccolto da un ferroviere e recapitato da un carabiniere alla famiglia di papà a Fiume”. Poi l’arrivo al campo, la prima selezione, le donne portate immediatamente al gas senza essere immatricolate. “Non so spiegare perché siamo stati risparmiati: i bambini venivano gasati subito. Forse eravamo stati scambiati per gemelli e ai nazisti servivano per gli esperimenti. O forse era un problema di interpretazione della legge tedesca sulla razza mista. Nel dubbio, o li lasciavano con i genitori o venivano mandati alle sperimentazioni”.

Dice che “la vita non era vita, ma morte”. I superstiti, oggi, erano bambini allora. “Giocavamo attorno ai cadaveri, era normale. Oggi il pensiero mi atterrisce – racconta Tatiana, la voce che trema -. Pensavo che l’esistenza degli ebrei fosse questa, era l’unica che conoscevo. Facevamo la guerra con la neve, giocavamo con i sassi. Quando mia mamma veniva a trovarci, notavamo il suo cambiamento fisico e ci spaventava. Spesso rifiutavamo i suoi abbracci”. È la parte della testimonianza che segna di più gli studenti. “Solo la prima volta che sono diventata mamma e ho stretto tra le braccia la mia bambina ho capito quanto dolore dobbiamo aver provocato a nostra madre nel respingerla. Quando l’hanno trasferita, io e mia sorella non abbiamo neanche pianto. Ci siamo guardate e abbiamo detto ‘È morta, così va la vita’”.

Il sole tramonta sulla strada del ritorno da Auschwitz, dopo la deposizione della corona di fiori sul muro delle esecuzioni, la visita all’unica camera a gas scampata all’insabbiamento nazista e ai cumuli di oggetti e speranza (valigie, scarpe, utensili) sottratti agli ebrei. Parliamo con una insegnante. “Raccontare la Shoah ai ragazzi, oggi, non è semplice” ci dice. Se da un lato è molto più coinvolgente per gli studenti cercare testimonianze e fonti, anche grazie a internet, dall’altro qualcosa è cambiato.

“Riceviamo molto spesso proteste dai genitori che temono per i loro figli, ci dicono che certi temi, immagini, racconti possono essere troppo violenti per i figli”. Lo studio deve essere graduale, è chiaro, adatto all’età. “Ma a volte si esagera. Cercano di proteggerli da qualcosa che è fondamentale per la formazione della loro coscienza e del loro spessore come uomini e cittadini. L’orrore non va nascosto, ma spiegato”.

Più avanti, due studenti di 17 anni, camminano uno accanto all’altro verso l’autobus. Commentano la giornata, il dolore. Il razzismo è inconcepibile. Lei non lo capisce, è così bella la diversità! “Alle medie la mia migliore amica era marocchina – dice – e la tormentavo: volevo che continuamente scrivesse il mio nome in marocchino sulla mano. Come un tatuaggio: glielo chiedevo ogni giorno. Ero innamorata di quella scrittura, della lingua, della cultura. Avrei voluto mi insegnasse: qualche lettera l’ho anche imparata”. Accanto, li supera un membro della comunità ebraica. Barba, kippah sulla testa. “Lui deve essere ebreo”, dice il ragazzo. Lei annuisce, commenta che crede di sì, lo evince da come è vestito. Poi il dubbio: “Cioè, credo – ritratta, incerta – anche se forse è superficiale questo giudizio. Forse non dipende da come ci si veste…”. Forse sì, forse no. Si chiedono se ‘definire’ la diversità sia giusto, quali siano le parole da usare ed evitare. Restano nell’incertezza. Continuano a camminare, in silenzio.

Mina, rapper musulmana che lotta per i diritti rosa

Il frastuono dei clacson in sottofondo, il tintinnio della vita che scorre in una polverosa mattina africana, un rumore di stoviglie e un bambino che piange accanto al telefono quando una voce risponde a Dakar, Senegal, e la prima parola che dice è “merci”. Mina la voilée, Mina “la velata”, ultima rivelazione musicale dell’Africa ovest, ringrazia chiunque ascolta e diffonde il suo messaggio di lotta. “Quello che può fare un uomo, lo può fare una donna. E te lo ricanto in questa mia canzone”. È il verso iniziale di uno dei brani più famosi della rapper dagli occhi pece e dalla pelle d’ebano, che vuole cambiare con rime e musica la condizione delle ragazze in Africa. Welcome to Mina style, ripete spesso mentre canta o mentre ti parla.

“Per me il rap è una forza che mi permette di dire quello che voglio. Il rap è un’arma che uso per lottare per quello che considero degno di giustizia”. Senegalese, musulmana, diva coraggiosa, Mina canta “per i diritti di tutte le ragazze”. Non ci sono fiumi di soldi, donne o droga che di solito affollano i testi rap ad ogni latitudine. Scorrono altri temi nelle sue canzoni che denunciano violenza, stupri, la mutilazione genitale femminile, l’assenza di diritto di parola per le donne. O incesto, infanticidio, perché “questi sono gli argomenti che mi interessano e il rap educa, informa, coinvolge le persone, è un vero catalizzatore di cambiamento” dice mentre vocalizza la sua battaglia.

“Il rap non sta mai zitto”. Frasi semplici racchiudono il potere della sua narrazione. Se sei ragazza in Africa è facile avere sfiducia, quasi impossibile è sfidarla. “Perché le ragazze vengono violentate e uccise e questo fenomeno sta crescendo in Senegal. Le persone mi chiameranno femminista e a me sta bene così”. Lo chiosa con la forza della rabbia, ma quella senza collera, la rapper sunnita di 27 anni. Mina si connette ai mondi circostanti delle sue coetanee, tra sorrisi di lutto e rassegnazione per la loro condizione, “per invitarle a uscire di casa e divertirsi”. Niente è ambiguo in lei: ad ogni verso chiede potere per les filles et le femmes, le ragazze e le donne che nomina nelle risposte ad ogni domanda posta, per difenderle, “soprattutto quelle non libere di esprimersi, agire”.

“Mi dicevano tutti di arreté, arreté. Di fermarmi”, ma lei non li ha ascoltati da quando, nel 2013, ha iniziato a comporre versi rap, prestando orecchio solo al riverbero dei loop nelle sue cuffie mentre prova e riprova cantando nello studio di registrazione del suo manager a Dakar. Con i suoi video che, un click dopo l’altro, in Africa stanno guardando tutti, fino alle viscere dei deserti, Mina è finita sugli schermi più prestigiosi d’Europa. È una rappeuse pas comme les autres, “una rapper non come le altre”, dice la Bbc, che fa eco al britannico Guardian che l’ha battezzata “nuovo volto dell’hip hop del Paese”.

“Mi hanno chiesto tutti di togliere il velo perché volevano convincermi che essere una donna velata e una rapper era incompatibile” dice fiera. Reclama libertà per le donne, compresa quella per sé, per rimanere velata. In cima alle classifiche la cantante musulmana con il volto incorniciato dalla stoffa inneggia al femminismo e al potere da conquistare “per rompere i tabù”. Alchimista musicale di miserie che ha visto germogliare rigogliose intorno a sé sin dall’infanzia non semplice, Mina non si è mai dichiarata vinta. Ricorda il passato come un début difficile.Sono le parole amare e tristi di una donna bellissima.

La sua carriera è iniziata tra l’incomprensione della famiglia indignata. “Per i miei genitori era difficile sopportare che uscissi da sola la sera, che frequentassi amici maschi o che volessi cantare”. Da quando ha capito di avere la forza di combattere per sé, ha cominciato a farlo anche per le altre. Il rap è il modo che ha trovato per cambiare le condizioni amare delle donne, che ha tradotto in strofe.

I critici la tacciano come anomala o addirittura maligna perché rimane una musulmana sunnita mentre attacca la cultura patriarcale, ma nella scena del rap africano ormai si è imposta sfidando tutto e tutti, dall’inizio della sua carriera . Poiché è stata la prima cantante della nazione a farlo, vive in uno spartiacque polarizzato tra insulti, giudizi e maledizioni da un lato, e omaggi, lodi e profonda gratitudine di un pubblico non solo femminile dall’altro. Non condanna chi ha deciso di non battagliare per affrancarsi, ma con il suo collettivo musicale, il Genji Hip Hop – che compie un tres bon travail, un “ottimo lavoro”, dice, velo o non velo, – supporta il miglioramento della condizione femminile nel resto del Paese, sperando di poterlo fare poi, in futuro, nel resto del continente.

Inni, slogan e aforismi si susseguono mentre canta in una babele di lingue: quella wolof, usata dalla maggior parte della popolazione in Senegal, poi inglese e francese. “Quando canto il mondo è mio, è come se fossi un’altra persona. Quando salgo su un palco, vorrei che non finisse mai”. Ad aiutarla ad emergere due uomini: il produttore e il marito rapper. Un matrimonio che è un’alleanza emotiva, una collaborazione tra le mura di casa, ma non musicale, senza palchi comuni o riflettori.

“Nella nostra società, quando sei una donna, ti dicono sempre cosa fare: non ridere, ma sorridi sempre. Tu dois, tu dois, tu dois, devi, devi, devi. Questo ti ripetono”. La guerra di Mina si riduce in una sola parola: mun, ma è un lemma intraducibile fuori dalla lingua wolof. Un termine che racchiude il contesto triste e condiviso delle donne africane. “Munè quando ti minacciano e non dici niente, ti violentano e non dici niente, è quando ti tieni tutto dentro perché ti hanno insegnato che la donna deve stare zitta” dice Mina. Il munè quello che te frappe, te casse, “ti colpisce, ti spezza” ma quando non lo fa, poi senza paura cominci a combattere.

Il destino di un calciatore: dal campo ai lager nazisti

È il 17 ottobre del 1926. A Torino viene inaugurato lo stadio Filadelfia. Diventerà un campo della leggenda e della gloria: il campo delle gesta del Grande Torino. Quel giorno i granata di Janni e di Baloncieri, di Rossetti e Libonatti, fanno festa battendo la Fortitudo Roma per quattro reti a zero. Non tutti i giocatori della squadra presieduta dal conte Enrico Marone Cinzano, però, partecipano alla giornata memorabile. Uno di loro non può recarsi al Filadelfia: si chiama Vittorio Staccione, classe 1904, detto Staccione I per distinguerlo dai due fratelli Eugenio e Francesco, anche loro calciatori. Che cosa gli è accaduto? Poche ore prima, in città, un gruppo di squadristi fascisti lo ha aggredito, rompendogli due costole.

Non lo hanno pestato a sangue per una questione privata, per una donna o per una lite. Macché. L’aggressione è invece tutta politica. Staccione I, di famiglia operaia, torinese della borgata di Madonna di Campagna, è antifascista e pure socialista. Rammenterà Federico Molinaro, un nipote: “Fin da ragazzino aveva iniziato a frequentare i circoli socialisti torinesi e per quello è sempre stato inviso al fascismo. Spesso veniva aggredito dagli squadristi, e se tentava di difendersi veniva arrestato con l’accusa di resistenza”. Staccione I, una vita breve da mediano, resterà antifascista, non cambierà mai idea. E lo pagherà caro. Deportato nel lager nazista di Mauthausen–Gusen, in Austria, morirà di cancrena il 16 marzo del 1945. Aveva il numero di matricola 59160; ad aprile avrebbe compiuto quarant’anni.

La storia di Staccione I, giocatore di pallone, operaio della Fiat e combattente della libertà, è stata ora raccontata dal giornalista Francesco Veltri (con la collaborazione di Federico Molinaro) nel libro Il mediano di Mauthausen, da poco pubblicato da Diarkos. Una storia bella e tragica, una storia esemplare, che comincia nelle periferie subalpine, quando il football viveva ancora i suoi tempi eroici. Tifoso del Toro, nel 1919 il piccolo Vittorio viene notato da Enrico Bachmann, svizzero–torinese, capitano e poi dirigente del Torino Football Club, mentre dà qualche calcio a un pallone, con gli amici, in una via cittadina.

Intuisce subito che c’è in lui la stoffa del pedatore, così lo fa entrare nelle formazioni giovanili granata. Il debutto in prima squadra risale al 3 febbraio del 1924, in una gara contro il Verona. Al giovane mediano i fascisti non piacciono, ma una trama del fato vuole che, in quel 1924, finisca in prestito, per farsi le ossa, alla Cremonese. Una beffa del destino, certo, perché a Cremona spadroneggia il fascistissimo Roberto Farinacci, uno dei ras più potenti del Duce. Staccione, rievoca Veltri, “era talmente inviso al fascismo che nelle cronache sportive sul giornale il suo nome non veniva mai pubblicato ma veniva chiamato giocatore X”. Quando ritorna a Torino, per la stagione 1925-26, gioca cinque partite. E l’anno dopo, con undici prestazioni in granata, sarebbe persino scudetto. Il titolo tricolore, tuttavia, viene revocato al Toro per un presunto illecito sportivo.

Sempre il destino, di nuovo il destino. Il Torino lo cede alla Forentina del marchese Ridolfi, fascista ma gentiluomo, grande intenditore di calcio e di musica. A Firenze, ecco il fato che lo insegue, Vittorio gioca al fianco di Bruno Neri, romagnolo di Faenza, anche lui mediano, che dalla Fiorentina, e dalla Lucchese, sarebbe approdato a sua volta al Torino, per chiudere la carriera.

Non sono solo la maglia gigliata e la casacca granata a incrociare e a unire le esistenze di Staccione e di Neri. Da giocatori Vittorio e Bruno hanno un percorso inverso, fra Torino e Firenze. Nell’opposizione al nazifascismo saranno accomunati dalla morte e dalla scelta di essere uomini liberi. Neri cadrà da comandante partigiano all’Eremo di Gamogna, sull’Appennino tosco–romagnolo, il 10 luglio del 1944, ucciso in combattimento dai tedeschi; Staccione I finirà nell’inferno del campo di sterminio austriaco.

L’ultima maglia da giocatore di calcio che indossa è quella bianca, con la croce sabauda cucita sopra, del Fascio Sportivo Savoia, la squadra di Torre Annunziata. Era il 1935. Dopo Toro, Cremonese, Fiorentina e Cosenza, Vittorio dà l’addio al pallone al termine della stagione 1934–35, che il Savoia aveva disputato nel campionato di prima divisione, l’attuale serie C. Lascia il calcio per sempre e ritorna a Torino, per fare l’operaio alla Fiat. Una tragedia privata, intanto, lo aveva profondamente segnato: agli inizi del 1930 aveva perduto la moglie Giulia Vannetti e la figlioletta neonata Maria Luisa, decedute durante il parto.

Tenuto sotto controllo dalla polizia, agli inizi del 1944 partecipa agli scioperi operai contro la guerra e contro il nazifascismo. Lo arrestano gli sgherri della Repubblica di Salò il 12 marzo, assieme al fratello Francesco. Un poliziotto gli offre la possibilità di fuggire, ma Vittorio non lo fa. I due Staccione vengono deportati il 16 marzo 1944, sul convoglio ferroviario numero 34. Il 20 sono a Mauthausen. Vittorio incontra altri due calciatori internati: il milanista Ferdinando Valetti e Carlo Castellani, attaccante dell’Empoli. “Per le loro capacità sportive”, narra il nipote Federico, “vengono notati dalle SS, che li reclutano nella squadra del campo. Lo ricordano alcuni sopravvissuti: hanno raccontato di quando le SS, non avendo abbastanza calciatori in campo, chiamavano a giocare i prigionieri”. Nel 1945 Vittorio è trasferito al sottocampo di Gusen. Un pestaggio gli procura una ferita a una gamba. Staccione I, giocatore e uomo libero, muore di setticemia e di cancrena, all’alba del 13 febbraio 1945. Suo fratello Francesco morirà il 25 marzo.