Il destino della Terra è un cotton fioc

Quando ero bambina la favola preferita che volevo sempre farmi raccontare, era quella del soldatino di piombo. Quello senza una gamba che si innamora della ballerina di carta, che suscita le invidie del diavolo a molla, cade dalla finestra, viene trovato e messo su una barchetta di carta, che da una pozzanghera arriva al mare, viene mangiato da un pesce, che poi viene pescato e così ritorna nella cucina della casa da dove era partito. Me l’aveva raccontata mia nonna, quanto mi piaceva. L’aveva fatto con uno scopo, voleva distogliermi dal gettare i cotton fioc nel water. Un gesto che ho fatto e ho visto fare migliaia di volte, ma che nonna mi ha insegnato a non poter più neanche concepire. Con una favola. Certo, il soldatino di piombo nelle sue peripezie tra gli scarichi cittadini, l’oceano, il ventre del pesce e il forno della sua famiglia d’origine, coraggiosamente e con un po’ di fortuna realizza il sogno d’amore con la ballerina di carta. Il cotton fioc, usato oltretutto, fa schifo a tutti e meno che mai può suscitare le emozioni della favola. Eppure, c’è il rischio che corra le stesse peripezie, attraverso lo sciacquone, gli scarichi, la fogna e le grate dei collettori che le separano dai fiumi. Pare che queste siano intasate di miliardi di cotton fioc, che premono fittamente incastrati l’uno con l’altro in un reticolo infernale fatto di plastiche e micro plastiche, che s’aggrumano e s’appiccicano e si riversano negli oceani fino a creare massi, isole, continenti di “monnezza” inorganica. Che schifo. Queste sono le inquietanti prospettive per gli anni duemila sostengono gli esperti! Non so se la storia del soldatino di piombo possa funzionare per far capire, almeno ai bambini, che tutto ciò che gettiamo finisce per ritornarci nel piatto.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Giorno della Memoria: ecco come il Parlamento disse sì

L’ex direttore dell’Unità e deputato dell’Ulivo fu il promotore della legge che isituì la commemorazione della Shoah. Attraverso tre dei suoi discorsi a Montecitorio, ripercorriamo le tappe che condussero all’approvazione del provvedimento. La prima orazione è del 27 gennaio 1999.

I

o non parlerò per ricordare l’orrore e la tristezza di quel giorno, ma per ricordare, colleghi, che molti di noi, insieme, da una parte e dall’altra di quest’Aula, abbiamo preso un impegno perché quel giorno non passi invano nella memoria degli italiani. Con una proposta di legge che contiene un solo articolo, ci siamo detti che il 27 gennaio potrà essere d’ora in poi per questo Paese – per le nostre scuole e i nostri figli, i nostri ragazzi, per i giovani, che non sanno e che devono sapere — il giorno della memoria. (…) È il giorno della cancellazione di quel sistema di orrori liberticidi che ha prodotto insieme la spaventosa sequenza delle leggi razziali e delle loro conseguenze, le deportazioni politiche.

27 marzo 2000: 24 ore prima del voto in Aula

Vale la pena di ricordare quella tragica frase che Adolf Hitler avrebbe pronunciato nel suo bunker poco prima della sua fine: “Almeno una delle guerre – e pensava alla guerra contro gli ebrei, alla folle, farneticante guerra contro il popolo ebraico – è stata vinta”.

Uomini come Perlasca e come il questore di Fiume, Giovanni Palatucci, che a 36 anni è morto a Dachau (…); Perlasca e Palatucci devono essere il punto di riferimento e di ricordo per pensare che, se c’è stato un mare di burocrazia, di silenzio, di opportunismo, di viltà, di carrierismo, di occasioni per approfittare di una legge folle, di un comportamento vile, di un crollo di moralità nelle istituzioni, (…) altri italiani, indipendentemente da ciò in cui credevano, dalla divisa che vestivano, si sono battuti affinché quel che stava per accadere non accadesse, affinché l’ingiuria contro l’umanità e l’ingiustizia di italiani contro altri italiani, di europei contro altri europei, in nome di una folle definizione di ciò che è razza, di ciò che è puro, perfetto ed assoluto non potesse trionfare né imporsi. (…) Insieme ai doppiogiochisti, agli opportunisti che, al momento giusto, sono riusciti persino a passare alla Resistenza nelle ultime settimane , personaggi come Dimitar Peshev, il Vicepresidente della Camera, fascista, della Bulgaria occupata e nazificata – il quale da solo e poi con il sostegno dei deputati di un Paese ormai completamente parte dell’orbita nazista – si è ribellato fino al punto di ottenere dal re del suo Paese la cancellazione di una firma già apposta, evitando la deportazione anche di un solo ebreo bulgaro.

Che dimostrazione spaventosa del fatto che si poteva fare, che il presunto obbligo di dire di sì a qualunque costo a qualcosa di così spaventosamente disumano era un obbligo inevitabile!

28 marzo 2000:
la Camera approva

Questo momento oggi è per me un momento di emozione, perché ho vissuto un’infanzia nella quale, amici e colleghi, l’ispettore della razza si presentava nelle aule delle nostre scuole a parlare di sangue infetto, a parlare di razza superiore, a parlare di un’immagine di mondo perfetto dal quale alcuni, tanti cittadini italiani – che erano stati a pieno diritto cittadini italiani fino a quel momento – avrebbero dovuto essere esclusi per sempre e fino alla morte.

È motivo di emozione per me, ma anche di orgoglio, appartenere a una Camera che fra poco voterà l’istituzione di un “Giorno della memoria”, per ricordare che cosa è accaduto in quegli anni, a chi è accaduto, quali italiani hanno partecipato a quel progetto mostruoso e folle, quali italiani si sono associati e appassionatamente opposti, indipendentemente dallo schieramento politico e dal ruolo che avevano in quel momento.

Coppa Italia, il trofeo più brutto al mondo

Ora che sappiamo (scoop del Fatto del 22 gennaio) che l’ad della Lega di Serie A Luigi De Siervo guadagna 960 mila euro e avrà un bonus di 3 milioni se i prossimi diritti tv saranno venduti con un 1% di surplus rispetto al valore del contratto in corso, la domanda che sorge spontanea è: ma oltre che ad ingrassare i propri conti in banca, non sarebbe il caso che i reggitori del pallone italico si dessero da fare per rilanciare come si deve il loro agonizzante movimento? Magari anche copiando: come ha appena fatto la Liga di Spagna che per dare nuovo appeal alla Coppa del Re ha imitato la FA Cup inglese aprendo alle squadre dei campionati minori e chiamandole a sfidare le grandi in partite a eliminazione diretta giocate sempre sul campo del club più piccolo.

Nei giorni scorsi abbiamo visto il Cultural Leonesa, club di terza divisione, eliminare l’Atletico Madrid di Simeone (2-1) e l’Ibiza e l’Unionistas, identica categoria, dare filo da torcere al Barcellona (1-2) e al Real Madrid (1-3). Dire che la Spagna abbia riprodotto in toto il format inglese sarebbe errato: mentre la FA Cup schiera al via la bellezza di 736 squadre portandone 20, a gennaio, allo scontro con i club di Premier (20) e di Championship (24), la Coppa del Re ha per ora allargato la base dei partecipanti a 125 club. Un primo passo in avanti che il calcio italiano si rifiuta ostinatamente di compiere, se è vero che la Coppa Italia continua a giocarsi con 78 squadre: 20 di serie A, 20 di B, 29 di C e 9 di D.

Inutile dire che al momento della discesa in campo degli 8 top club della serie A i pochi club minori sono già scomparsi; oltretutto, in virtù di un regolamento a dir poco demenziale, gli 8 squadroni entrano in scena sfidando in casa, in partita unica, i più deboli avversari in partite senza storia (e stadi vuoti) come appena successo in Napoli–Perugia 2-0, Lazio–Cremonese 4-0, Juventus–Udinese 4-0, Milan–Spal 3-0, Inter–Cagliari 4-1. Il fatto che il Pordenone, squadra di serie C, fosse diventato nella Coppa Italia 2017–18 l’unico valido motivo d’interesse del torneo giungendo a un passo dall’estromettere l’Inter (che a San Siro prevalse solo ai rigori, 5-4, fermando i friulani che avevano eliminato Matelica, Venezia, Lecce e Cagliari divenendo i beniamini di mezza Italia), non ha insegnato nulla ai nostri parrucconi. A loro frega solo che la Coppa resti appannaggio dell’élite riconosciuta e che nulla di romantico, emozionante, epico o poetico possa accadere: quindi largo a partite farlocche giocate nel deserto con le riserve delle riserve in campo. Fossimo nel nuovo presidente Dal Pino, al primo punto del programma scriveremmo: far sparire questa schifezza di coppa.

Non più tardi di sette anni fa, a Wembley, il Wigan vinse a sorpresa la FA Cup battendo in finale il Manchester City di Mancini (gol al 91’ di Watson). E per la cronaca, nell’Albo d’Oro troviamo oggi, oltre al Wigan, i nomi di Coventry e Huddersfield, Wimbledon e Charlton, Ipswich Town e Bradford, Blackpool e Cardiff: non solo Liverpool, Arsenal e Manchester quindi. Se andate a curiosare nell’Albo d’Oro della Coppa Italia, invece, il solo nome strano che vi capiterà di vedere è quello del Vado: che trionfò nella prima edizione, anno 1922, da iscritto al campionato di Promozione, che poi era la serie B di quei tempi. Come si dice in questi casi: Vado e non torno.

Piero Nissim racconta Frida Misul, scampata al lager cantando

Ricordare non basta mai, caro Enrico. Piero Nissim, scrittore pisano, poeta, cantastorie, burattinaio e attore, sta portando in giro uno spettacolo musicale sull’ebrea livornese Frida Misul, giovane soprano, che sopravvisse all’Olocausto per la sua voce d’angelo (è scomparsa nel 1992). Si intitola “Canzoni di Frida”, tratto dal libro Canzoni tristi di Fabrizio Franceschini: va in scena mercoledì 29, di sera alla Gipsoteca di Pisa. Frida sognava di calcare i palcoscenici dei teatri lirici. Si ritrovò invece a calcare il fango di Auschwitz, dove arrivò il 22 maggio del 1944, deportata dal campo di Fossoli: l’avevano torturata perché rivelasse il nascondiglio dello zio partigiano. Non parlò. Non aveva ancora 25 anni. Cercò di consolare le compagne di lager con canzoni del repertorio in voga, tipo Mamma, Vivere o La Torre di Pisa. Per divertirle, cambiava le parole. La parodia era un audace atto d’accusa: la Piccinina diventava per esempio la kapò invelenita, l’aguzzina che ti dà da mangiare solo una rapa e tante legnate… Frida si beffava dei carnefici. Scampò alla morte perché un medico Ss le chiese di intonare la Serenata di Schubert. La trasferì al block vicino al crematorio, per raccogliere, selezionare e rammendare i vestiti di chi entrava nelle camere a gas. In cambio, doveva cantare ogni domenica per le Ss e le Kapò. Sembra una storia da film di Hollywood. Quando torna a Livorno, il canto le è morto dentro. Ma vuole testimoniare. Pubblica il diario dell’orrore vissuto pochi mesi dopo, nel 1946. Poche pagine, 47. In una, l’invettiva: “Maledetti i carnefici che causarono la rovina del mio popolo, maledetta la sbirraglia feroce che di questi carnefici è stata lo strumento crudele ma, sopra a tutto, maledetti quegli italiani che calpestando coscientemente ogni vincolo di solidarietà nazionale ed umana consegnarono al mostruoso boia hitleriano una massa innocente di esseri che avrebbero dovuto invece proteggere e considerare fratelli!”. Fu l’insegnante di musica, che pure l’aveva apprezzata ed aiutata ad esibirsi, a tradire Frida. Che mai dimenticò.

Arrangiarsi a Napoli: il tour della Camorra a soli 20 euro

ANapoli, così dicono, esiste ancora l’arte di arrangiarsi. E allora, caro Coen, ti racconto la storia di un tizio (non voglio fare nomi per evitare di fargli pubblicità), che si inventa tour operator e guida turistica per vendere al miglior offerente il cancro della città: la camorra. Organizza un “mafia tour” per turisti un po’ fessi in cerca di facili emozioni. Una ventina d’euro per farsi portare nei luoghi dove, sempre secondo il fantasioso tour operator, la camorra detta legge. A Forcella, alla Sanità, su per i Quartieri Spagnoli, e perché no, una gita a Scampia. Per rendere più credibile e appetibile la sua offerta, il “nostro” si è proposto sulla rete come uno vicino al “sistema”, un quasi appartenente alla camorra, uno che coi boss andava a braccetto e pigliava il caffè. Non sappiamo cosa faceva vedere e toccare con mano ai turisti. Forse avrà assunto delle comparse per mostrarle ai suoi clienti. Tipo uno con la maglietta che non riesce a contenere la panza e i braccioni tatuati con la scritta “mammà so innocente”. Oppure, volendo mostrare un boss dei tempi andati, avrà truccato qualcuno come il Nino Manfredi di “Operazione San Gennaro”, che su una assolata terrazza dei Quartieri indossava il kimono di Armandino Girasole in arte Dudù. In ogni caso, la guida aspettava i turisti ogni giorno alle ore 16 in Piazza Garibaldi, proprio di fronte alla stazione, pronto ad iniziare il “mafia tour”. “Mica faccio parte del sistema, e non lo esalto, mostro solo come funziona, per quello che si può vedere e senza mettere a repentaglio il portafoglio di nessuno”, ha detto nelle tante interviste che ha rilasciato. Ovviamente lo hanno coperto di giustissime critiche, e i siti specializzati in turismo (dove il nostro aveva pubblicizzato la sua iniziativa) hanno immediatamente cancellato i suoi annunci. Niente più “mafia tour”. Se vorranno emozioni forti, i turisti dovranno fare la fila per vedere il Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino. Guardarlo e commuoversi.

Il cardinale della Grande Bellezza diventa Decano e regista del Conclave

Quasi ogni settimana il nostro Umberto Pizzi, segugio implacabile dei salotti romani, lo fotografa a un evento mondano, che sia la presentazione di un libro o qualche party della nobiltà nera.

Parliamo del cardinale Giovanni Battista Re, 86 anni tra pochi giorni, che è diventato il nuovo decano del Collegio Cardinalizio. La sua nomina, a opera dei nove cardinali vescovi, è stata approvata da Francesco, dopo la riforma di questa figura – decisiva nel periodo del Conclave – che non è più a vita ma quinquennale. Battista Re per l’età non entrerà nella Cappella Sistina ma guiderà tutte le fasi precedenti. Uomo di potere e di feste, che sedeva alla fastosa mensa della potente Maria Angiolillo, incubatrice di ogni decisione bipartisan nella Seconda Repubblica, Battista Re ha ancora consuetudine con Gianni Letta, pontefice berlusconiano dell’eterno catto-andreottismo nella Capitale, non immune dal contagio massonico.

La sua mondanità fu consacrata negli anni scorsi da una celebre sequenza. Dapprima celebrò messa nel Santuario di Campagnano, vicino a Roma, indi si accomodò lì attorno nella rigogliosa tenuta collinare di Mario d’Urso buonanima. E tra un baciamano e un brindisi venne immortolato a mangiare con gusto la porchetta. Fu questa l’immagine che ispirò Paolo Sorrentino per il cardinale frivolo e amante della cucina che appare nella Grande Bellezza di Jep Gambardella, proprio in un ricevimento campestre. Recentemente, Battista Re è stato sospettato anche di un forte scontro con Francesco, mai però confermato. Puro gossip vaticano ma che vale la pena di ricordare perché rievoca un’altra scena di Sorrentino, stavolta presa da The New Pope. In pratica, il cardinale oggi decano avrebbe affrontato a muso duro il papa che con la sua rivoluzione sta causando la ribellione dei clericali destra: “Noi ti abbiamo eletto per riformare non per distruggere la Chiesa”.

Per la cronaca, fu Battista Re, nell’ultimo Conclave, in qualità di cardinale più anziano, a rivolgere a Bergoglio, al momento dell’elezione, le domande di prammatica, dall’accettazione al nome scelto.

Psicosi cinese, il grande business della pandemia

I

l nuovo coronavirus respiratorio 2019-nCoV, che sta spargendo contagio, vittime e terrore in Cina e in altri Paesi, riporta alla ribalta l’esigenza di ricerca, profilassi e risposta globali contro le pandemie. Il bilancio di decine di morti, centinaia di casi accertati e migliaia di possibili contagiati ha fatto scattare piani di contenimento che coinvolgono già decine di milioni di persone. Intanto parte la corsa alla ricerca e sviluppo di possibili vaccini. La questione così si sposta dal campo della scienza a quello del business, come già accaduto più volte. Ma se l’investimento di ingenti risorse pubbliche e private e il coinvolgimento delle società farmaceutiche sono necessari per contenere i rischi alla salute globale, altrettanto indispensabile però è evitare che si ripetano gli sperperi avvenuti dieci anni or sono.

A luglio dell’anno scorso l’Organizzazione mondiale della sanità e la Banca Mondiale hanno presentato il loro rapporto sulla preparazione globale contro le pandemie. Il messaggio dello studio è chiaro: non si tratta di ipotizzare se la pandemia arriverà ma quando arriverà. Secondo il comitato di 15 esperti indipendenti che ha redatto la ricerca, il mondo è impreparato a gestire “la concreta minaccia di una pandemia in rapida diffusione, altamente letale, di un agente patogeno respiratorio che uccida da 50 a 80 milioni di persone e cancelli quasi il 5% dell’economia globale”.

Ogni anno l’influenza stagionale fa ammalare nel mondo una persona su otto e ne uccide dalle 290 alle 650mila. Ma la pandemia di “Spagnola” del 1918-1919 colpì 500 milioni di persone, un terzo della popolazione dell’epoca, e ne uccise oltre 50 milioni. Si ammalarono circa 4 milioni e mezzo di italiani e i morti stimati nel nostro Paese furono tra i 375 e i 650mila. Dopo la “Spagnola”, il secolo scorso vide altre due pandemie influenzali: l’“Asiatica” del 1957 (1,1 milioni di morti nel mondo) e la “Hong Kong” del 1968 (1 milione di vittime nel mondo, 20mila in Italia), oltre a importanti epidemie nel 1947 (“Influenza A prime”) e 1977 (“Russa”). Nel 2002-2003 la Sindrome respiratoria acuta grave (Sars) ebbe 8.098 casi e causò 774 morti in 17 Paesi, la maggior parte dei quali in Cina e a Hong Kong. Dal 17 aprile 2009 al 10 agosto 2010 l’influenza suina A H1N1 a livello globale causò tra 152 e 575mila vittime stimate. Nel 2012 nella Penisola Arabica l’epidemia di Sindrome respiratoria del medio oriente (Mers) contagiò 2.494 persone e ne uccise 858.

Un secolo dopo la “Spagnola”, con una popolazione mondiale quattro volte più grande e trasporti che collegano in meno di 36 ore qualsiasi luogo nel mondo, nonostante l’enorme sviluppo delle conoscenze mediche biologiche e farmaceutiche una pandemia potrebbe destabilizzare il pianeta. A impensierire, per quanto ciò possa apparire cinico, è soprattutto l’impatto sull’economia. L’epidemia di Sars, la sindrome respiratoria acuta grave del 2002-2003, costò oltre 40 miliardi di dollari, mentre l’epidemia di febbre emorragica virale Ebola che tra il 2014 e il 2016 sconvolse l’Africa occidentale danneggiò le già fragili economie dei Paesi coinvolti sino a 53 miliardi di dollari. Tra i 45 a i 55 miliardi di dollari viene stimato l’impatto della pandemia influenzale H1N1 del 2009-2010.

La Banca mondiale stima che una pandemia di influenza virulenta come la “Spagnola” costerebbe all’economia globale 3mila miliardi di dollari, il 4,8% del prodotto interno lordo globale. Una pandemia influenzale con minor letalità avrebbe costi inferiori, pari al 2,2% del Pil mondiale: il Pil dell’Asia meridionale calerebbe di 53 miliardi di dollari, quello dell’Africa sub-sahariana di 28 miliardi, cancellando la crescita economica di un intero anno.

Secondo l’Oms e la Banca Mondiale le probabilità di una pandemia stanno aumentando. Lo sviluppo della ricerca fornisce nuovi strumenti per tutelare la salute pubblica ma anche per creare in laboratorio nuove malattie infettive. Eventi naturali, accidentali o intenzionali causati da agenti patogeni respiratori ad alto impatto pongono “rischi biologici catastrofici globali”.

L’Oms ha così sviluppato una strategia globale 2019–2030 contro l’influenza e i rischi di pandemie polmonari. Ma occorre evitare gli eccessi scatenati dalla pandemia di H1N1 che fece temere milioni di morti e sperperare miliardi. Quell’influenza causò circa 2.900 morti in Europa, quando la “normale” influenza stagionale ne uccide da 40 a 220mila a seconda degli anni. La paura dell’opinione pubblica e le lobby farmaceutiche spinsero i governi a firmare contratti capestro per creare scorte di vaccini antivirali H1N1 in gran parte rimaste inutilizzate: il Regno Unito spese 1,3 miliardi di euro, la Francia oltre 700 milioni. Ciò fu dovuto a contratti pregressi relativi a qualsiasi nuova pandemia influenzale che fosse stata dichiarata dall’Oms, alcuni dei quali firmati tra gli Stati Ue e i gruppi farmaceutici nel 2006-2007 subito dopo la paura dell’influenza aviaria. Tra il 2009 e il 2010 in Italia vi furono circa 4,4 milioni di casi di influenza con oltre 10 milioni di dosi di vaccino distribuite, a fronte di 229 vittime della H1N1. Il governo Berlusconi offrì il vaccino anti H1N1 insieme a quello per l’influenza stagionale: un contratto segreto con la Novartis prevedeva la fornitura di 24 milioni di dosi al costo di 184 milioni. Le dosi effettivamente consegnate furono 10 milioni, quelle usate 900mila circa. Le altre dovettero essere ritirate e distrutte. La Corte dei Conti giudicò penalizzante l’accordo e accusò il governo di aver accettato clausole troppo favorevoli all’azienda.

Qualcuno però fece grossi affari. Secondo le stime di JP Morgan, le vendite dei vaccini contro l’H1N1 nel 2009 crearono profitti tra i 7 e i 10 miliardi di dollari alle case farmaceutiche. Sanofi-Aventis a inizio 2010 dichiarò un utile netto consolidato di 7,8 miliardi di euro (in crescita dell’11% su base annua) a causa delle vendite record di vaccini antinfluenzali. Un report del Parlamento Europeo criticò l’Oms chiedendo se fosse giustificato vendere vaccini H1N1 ai Governi nazionali a prezzi apparentemente doppi o tripli rispetto a quelli dei vaccini per la normale influenza stagionale. Contro le pandemie prepararsi è bene, ma usare appropriatamente le risorse pubbliche è meglio.

“Il virus si rafforza, i malati sono destinati a moltiplicarsi”

I virus sono esseri semplici, seppur resistenti, e perciò abili a modificarsi per sopravvivere e adattarsi al meglio negli organismi ospiti. Il Coronavirus 2019n-CoV la cui prossima pandemia sta già creando un pandemonio globale, più mediatico che medico (per ora), per esempio: è per il 79,5% identico, nel suo patrimonio genetico, a quello della Sars, responsabile dell’epidemia di polmonite partita dalla Cina e diffusasi nel mondo tra la fine del 2002 3 il 2003. Identica è la “chiave molecolare” – hanno scoperto gli scienziati cinesi – che i due virus utilizzano per aggredire e “aprire” le cellule. Questa somiglianza dovrebbe favorire lo sviluppo di un vaccino, ma la capacità di mutare rapidamente pare aver portato n-CoV a essere contagioso già durante la fase di incubazione, prima dunque che l’infettato sviluppi i sintomi influenzali. Questo renderebbe vano buona parte degli sforzi compiuti finora dalle autorità cinesi di individuare i malati e contenere la diffusione del morbo che, pur essendo meno virulento di quello della Sars, starebbe accrescendo le sue capacità di contagio, modificando “in corsa” la sua forma genetica. Anche perché ieri organi di stampa di Hong Kong – dove ieri è anche stato preso d’assalto dalla folla un centro per la quarantena – riportavano le affermazioni del sindaco di Wuhan, epicentro dell’epidemia, che sosteneva come almeno 5 milioni di abitanti del capoluogo della regione del Hubei avrebbero lasciato la città prima della quarantena imposta dal regime .

Nella città dove il virus avrebbe compiuto il passaggio tra animali e uomo in dicembre, sono atto i piani di evacuazione per gli espatriati occidentali: dagli Usa alla Francia (dove ieri sono stati segnalati nuovi casi di n-CoV) i governi organizzano voli charter per riportare in patria chi lo richiede. Anche l’Italia – dove ieri sono avvenuti casi di razzismo nei confronti di cinesi a Venezia e Torino – starebbe approntando il suo: un trasferimento via terra, nella provincia di Huhan, 350 chilometri più a sud, e una quarantena di 14 giorni in un ospedale locale. Ciò mentre Pechino diffonde l’allarme sul rafforzamento del virus, un modo per far capire che il numero degli infettati (a ieri sera 1985 casi confermati, 56 morti, 2.684 casi sospetti) sarebbe destinato a essere corretto alle decine di migliaia e che le previsioni sono di centinaia di migliaia di malati da qui ai primi di febbraio, come calcolato dai diversi istituti statistici occidentali: perciò il periodo delle celebrazioni del nuovo anno lunare sono state prolungate d’imperio dal regime comunista di una settimana, un tentativo per ridurre gli spostamenti e gli assembramenti sui luoghi di lavoro.

Anatomia di una bugia: sfida Pasdaran-Rohani per il Boeing abbattuto

Per tre giorni, responsabili iraniani cercarono di coprire l’abbattimento di un aereo di linea ucraino ad opera della contraerea iraniana. Solo la minaccia di dimissioni del presidente Hassan Rohani convinse i militari e, soprattutto, i Guardiani della Rivoluzione ad ammettere il tragico errore.

Il New York Times ricostruisce le 72 ore tra l’alba dell’8 gennaio, quando il Boeing con 176 persone a bordo – tutte decedute – venne preso di mira da due missili a 23 secondi di distanza l’uno dall’altro e intercettato dal secondo, e l’11, quando Teheran pose termine alle tergiversazioni e disse: “Siamo stati noi”. Una scelta, a ben vedere e a conti fatti, inevitabile, perché le intelligence occidentali già sapevano – la scena dell’abbattimento era visibile dai satelliti – e perché l’inchiesta internazionale sulle cause della sciagura, con l’esame delle scatole nere, avrebbe rapidamente accertato la verità. Eppure, ci furono resistenze, anche accanite.

Intervistando diplomatici e funzionari iraniani, personalità in vista dei Guardiani della Rivoluzione e personaggi “vicini all’inner circle della Guida suprema”, l’ayatollah Ali Khamenei, e intrecciando dichiarazioni ufficiali e resoconti mediatici, il Nyt ricostruisce quando accaduto dietro le quinte: la versione della tragedia e l’iniziale rifiuto di condividere le scatole nere con la Boeing; i dubbi e l’apertura all’indagine internazionale; infine, la certezza e l’ammissione. Non è del tutto chiaro a che punto Khamenei e Rohani abbiano intuito la verità e ne abbiamo poi avuta conferma – di sicuro, non ne erano al corrente fin dal primo momento – né quali siano stati i compromessi interni raggiunti.

I principali responsabili dell’errore e della ‘copertura’ sono stati i Guardiani della Rivoluzione, fin dalla dinamica dell’incidente. Chi doveva schiacciare il bottone di lancio dei missili volle consultarsi con i suoi superiori, ma non riuscì a raggiungerli; poi, prese la decisione sbagliata. E, subito dopo, pur consapevoli dal primo momento di quanto accaduto, i responsabili negarono l’evidenza e la verità anche al presidente e alla Guida Suprema.

Certo, dopo l’abbattimento del Boeing ucraino e il riconoscimento dell’errore, Teheran ha irrigidito la sua posizione verso gli Usa, con l’omelia di Khamenei alla preghiera di venerdì 17 – quando definì il presidente Trump “un pagliaccio” e Israele “un tumore” – e il recente annuncio d’altri passi verso un potenziale utilizzo militare dell’energia nucleare. L’Iran, che non si considera più vincolato dall’accordo del 2015 denunciato dagli Stati Uniti, s’appresta a presentare, l’8 aprile, una nuova generazione di centrifughe: “La nostra scorta d’uranio ha superato i 1.200 kg e possiamo arricchirlo quanto vogliamo”, dicono i responsabili del programma atomico iraniano.

Tra Trump e l’Iran le schermaglie continuano: “Il ministro degli Esteri dice che vuol negoziare, ma vuole che le sanzioni siano prima rimosse. No grazie!” Zarif rilancia: “Trump farebbe meglio a basarsi sui fatti piuttosto che sui titoli della Fox”; e puntualizza quanto dichiarato a Der Spiegel: “L’Amministrazione Trump può correggere i suoi comportamenti passati, togliere le sanzioni e tornare al tavolo delle trattative”.

Zarif rivela poi che il militare che attivò il sistema missilistico antiaereo è attualmente in carcere, senza precisare da quando, e liquida come “una reazione emotiva” le proteste popolari seguite all’ammissione di responsabilità da parte del regime.

Bibbiano, caos “disgiunto” È battaglia voto su voto

Bologna

Da mesi gli occhi del Paese sono concentrati su questo piccolo Comune in provincia di Reggio Emilia, diventato suo malgrado il centro dello scandalo scatenato dall’inchiesta “Angeli e Demoni”. A Bibbiano la battaglia nelle urne è voto su voto. Sette sezioni, poco più di 8.000 votanti: poco dopo la mezzanotte lo scrutinio vedeva i due sfidanti Stefano Bonaccini e Lucia Borgonzoni testa a testa, crollati i Cinque Stelle.

A rilento la lettura delle schede, molte sono state considerate nulle: un paio con scritte contro l’attuale governatore o disegni osceni ma sopratutto schede con un voto disgiunto sbagliato. Con una croce, a esempio, sul nome di Bonaccini e l’altra sul nome di Simone Benini, candidato alternativo del Movimento in contrapposizione al dem.

In tutta la circoscrizione di Reggio Emilia alla chiusura delle urne avevano votato il 69,24% del totale, pari al doppio di cinque anni fa: 34,54%. A Bibbiano ha votato il 68,38% contro il 32,85% del 2015. Il dato boom è quello sull’affluenza dell’Emilia-Romagna messa a confronto con le Regionali di cinque anni fa: nel paese della Val d’Enza nel 2015 aveva votato, alle 19.00, solo il 25,54%. Una percentuale raddoppiata, alla stessa ora ieri aveva votato già il 59,79% degli aventi diritto. Il Partito Democratico ha risentito molto dell’inchiesta, che ha visto coinvolto il sindaco dem Andrea Carletti, indagato con l’accusa di un’ipotesi di abuso di ufficio e di un’altra di falso. Dalla maglietta esposta in Senato dalla candidata Lucia Borgonzoni, “Parliamo di Bibbiano”, al tweet fissato in alto ieri mattina da Matteo Salvini, infrangendo il silenzio elettorale, Bibbiano è stata la “clava” mediatica dei leghisti: un messaggio dichiarato dallo stesso leader del Carroccio durante un incontro con gli aspiranti (o futuri) consiglieri regionali. Nessuna proposta su come modificare, eventualmente, il sistema affidi, solo la scure su Bibbiano.

Proprio nel Comune dello scandalo affidi, Borgonzoni e Salvini hanno chiuso, simbolicamente, la campagna elettorale venerdì scorso. Sul palco con i due politici “cinque mamme testimoni per parlare delle centinaia di vittime di ingiustizie”. Storie tragiche, di famiglie separate dai proprio figli per una valutazione, forse, troppo affrettata ma che nulla hanno a che vedere con l’inchiesta “Angeli e Demoni” della pm Valentina Salvi. A meno di 500 metri dal Carroccio c’erano anche le sardine, trascinate dalla volontà popolare degli abitanti a convocare una piazza alternativa contro la propaganda leghista.