“Uccidono chiunque: ma in Messico è solo un morticino in più”

Era difficile registrare la voce di Margarito Martinez. Ogni volta che iniziava a parlare e gli avvicinavi il microfono si sentiva il gracchiare della radio. “A casa sono Margarito, ma i colleghi mi chiamano 4-4”. Cuatro cuatro è un modo di chiudere le comunicazioni radio tra le forze dell’ordine in Bassa California. Margarito era un fotografo di cronaca nera, il più conosciuto di Tijuana. Una delle città più violente al mondo. Per oltre vent’anni ha fotografato le vittime di crimini atroci. Era il primo a sapere di un omicidio, conosceva a menadito i quartieri più pericolosi ed era sempre disponibile a portarti a vedere la scena di un delitto. Tre giorni fa è stato ucciso.

Gli hanno sparato davanti a casa sua, era appena salito in auto. Diversi colpi da distanza ravvicinata con una 9 millimetri. È il secondo giornalista morto ammazzato in Messico dall’inizio dell’anno. Il 10 gennaio a Veracruz è stato accoltellato Jose Luis Gamboa, direttore del sito di notizie Inforegio. L’Afghanistan è il paese il cui vengono uccisi più giornalisti. Il secondo è il Messico: 50 in meno di tre anni. Il mese scorso Margarito aveva chiesto di essere integrato nel “meccanismo di protezione per i difensori dei diritti umani e giornalisti”. Era stato minacciato. Da anni camminava su un filo sottile, raccontava la violenza dei narcos. Sapeva come farlo, ma era ben cosciente del rischio. E non ci sono solo i narcotrafficanti. L’ultimo episodio spiacevole era stato con un ex poliziotto: Ángel Peña. L’ex agente gestisce una pagina Facebook dove con mascherina e cappello, per proteggere la sua identità, a modo suo denuncia la corruzione della polizia e attacca la stampa. Circa una settimana fa Peña, mentre faceva una diretta sui social, ha incontrato Margarito. Lo ha minacciato e poi additato come creatore occulto di una serie pagine Facebook che prendono di mira i narcos. Pochi giorni dopo 4-4 è stato ucciso. Peña è stato tra i primi ad arrivare sul luogo dell’omicidio. Di certo non sono dati sufficienti per accusarlo, ma è un episodio significativo. Da anni il Messico vive ostaggio di una guerra tra bande. Nel 2016 l’arresto e l’estradizione di Joaquìn Guzman, conosciuto come El Chapo, mandò nel caos tutta la Bassa California. Da lì passano buona parte dei traffici di droga ed esseri umani che dal Messico vanno negli Usa. Con la decapitazione del cartello di Sinaloa a Tijuana si contavano oltre 30 omicidi alla settimana. La mattanza durava da mesi e Margarito aveva iniziato ad aiutare gli inviati stranieri per raccontare cosa stava accadendo. Il Los Angeles Times, poi la Bbc e nell’estate del 2017 anche noi. “La gente si sta abituando a vedere omicidi a ogni angolo della strada, oramai dicono che non è più nulla di grave, solo un morticino in più”. Parlava calmo con un castigliano pieno di diminutivi, tipici del Centroamerica. Era affascinate e macabro vederlo lavorare. Fotografava solo morte, ma tra una scena del crimine e un’altra non c’era né cinismo né rabbia. Tutto cominciava con un messaggio, con una conversazione sul walkie talkie. Appena aveva un indirizzo si metteva alla guida di una vecchia Sedan, il passaruota destro era di un colore diverso dal resto della carrozzeria. La sfida era arrivare prima che la polizia chiudesse l’aerea. Quando partiva non sapeva se arrivando sul luogo della sparatoria avrebbe trovato un morto, un ferito o se i sicari fossero ancora lì vicino. Qualche foto, un paio di video e due informazioni da chi abitava lì. Capitava che Margarito sapesse il nome della vittima prima ancora della polizia.

Una mattina ci ha inviato una posizione gps, chiedendoci di raggiungerlo. Era una sorta di campo incolto tra due quartieri periferici. L’area si stava trasformando in una piccola discarica. Le forze dell’ordine avevano messo il nastro per delimitare il nostro accesso. Quattro giornalisti in tutto. Un ragazzo poco più che ventenne era stato ucciso, gli arti superiori erano amputati. “Ci sono 200 tra giornali, televisioni e siti che lavorano a Tijuana, ma qui ci siamo solo noi”. Margarito non si stava lamentando, voleva farci capire qual era il suo ruolo. “Meno raccontiamo cosa accade, più tutto questo diventa la normalità”. Mentre la polizia caricava il corpo mutilato su un furgone ci ha fatto segno che era ora di andare via. “Per fare un bel lavoro devi arrivare prima della polizia, ma per evitare problemi devi andare via prima di loro”. L’esperienza gli aveva insegnato che il luogo di un omicidio attira alcuni curiosi che è meglio evitare. Un tardo pomeriggio lo chiamarono per andare a fotografare un omicidio in una zona tranquilla della città. Su una strada a sei corsie davanti a un enorme centro commerciale c’era un suv bianco. A terra i vetri in frantumi e attorno il vuoto. Sul sedile posteriore un seggiolino, al volante una donna morta. Freddata da una motocicletta che le si era affiancata. “Chissà chi era o cosa aveva fatto? In questa città c’è talmente tanta violenza che possono uccidere chi ti passa accanto e non ci domandiamo più il motivo”. Nei giorni in cui ha condiviso con noi il suo lavoro non ha mai cercato di farci lezioni. Margarito osservava, fotografava; era una figura fondamentale per raccontare quello che accade a Tijuana.

Il Senato Usa in campo contro i big dell’hi-tech

La Commissione giustizia del Senato di Washington ha dato il via libera al provvedimento destinato a trasformare la Silicon Valley. Con 16 voti a favore e 6 contrari, la Commissione ha approvato l’American Innovation and Choice online Act, un provvedimento che vieta a Big Tech di concedere un trattamento preferenziale ai suoi prodotti. Con il disco verde della Commissione, il provvedimento potrà ora essere valutato dal Senato. Se approvate dal Congresso Usa, le misure avranno implicazioni significative per colossi come Amazon e Alphabet. Nonostante la sfrenata attività di lobbying, la Silicon Valley non è riuscita a convincere la Commissione a bloccare il provvedimento e ora trema per il possibile impatto.

La pandemia delle opinioni

Ogni tanto la Rai si ricorda di essere stata servizio pubblico, anzi di esserlo ancora, che avrebbe dovuto fare un nodo al fazzoletto. È come se qualcuno la svegliasse di soprassalto e lei fosse colta da una sorta di déjà-vu. Più o meno la sensazione del telespettatore davanti a La fabbrica del mondo (Rai3, sabato sera) per la linearità, l’apparente semplicità dell’operazione affidata all’uomo di teatro Marco Paolini e al filosofo della scienza Telmo Pievani, la voce e la mente unite in una loro propria alchimia, e alleate nell’evocazione di quello che potremmo definire “l’Effetto elefante” con cui stiamo facendo i conti, variante pachidermica del più noto Effetto farfalla (invece di risultare fatale a uno può risultare fatale a tutti).

Ambiente, alimentazione, disparità sociali e naturalmente pandemia… nel pieno dell’antropocene il pianeta Terra – promosso a fabbrica del mondo – tocca con mano come tutte questi temi siano connessi tra loro, connessi in un’emergenza senza confine. Come la conseguenza ultima della globalizzazione stia proprio lì, nel codice rosso globale. Questo “Effetto elefante” si può comunicarlo in molti modi, dalla piacioneria all’armageddon, giù giù fino all’Effetto Kazzenger; invece ne La fabbrica del mondo si torna ai principi fondatori del servizio pubblico televisivo, buona divulgazione scientifica unita alla narrazione teatrale (che ha qualcosa di più antico, e quindi di più nuovo del celebrato storytelling). Paolini e Pievani non godono del favore della notte e della potenza dei droni di un Alberto Angela, ma non sembrano sentirne la mancanza, e tanto meno la fanno sentire allo spettatore. Vedremo se bucheranno lo schermo, per ora le loro connessioni tra pipistrelli, pesticidi, polimeri, allevamenti intensivi e salti di specie sono il vaccino alla pandemia delle opinioni, alla peste della viralpolitik, a tutte quelle dita alzate le une contro le altre che non hanno idea di dove sia la luna.

Il giornalismo senza padrini: addio a Lepri, direttore dell’Ansa

centodue anni di vita, quasi tutti dedicati al giornalismo, 30 dei quali a dirigere l’Ansa portata ai primi posti delle agenzie del mondo. Un giornalismo praticato e insegnato indicando pochi principi. La verifica delle notizie, la scrittura in un italiano semplice e rigoroso, la loro divulgazione senza censure, la rinuncia alla tentazione di essere commentatori e di parte: i fatti ben separati dalle opinioni.

Se n’è andato Sergio Lepri, uno dei grandi del giornalismo, meno noto di colleghi come Montanelli, Biagi, Scalfari, ma solo perché legato a una carriera trascorsa tutta in un’agenzia. Lo strumento con il quale, però, prima dell’avvento di internet, per decenni si sono confezionati giornali e notiziari radio e tv, e che garantiva la diffusione di ogni notizia, anche la più scomoda. Significativo, tra gli altri, l’aneddoto su come Lepri, nei giorni della nascita del centrosinistra, respinse una richiesta di Moro che gli chiedeva di non trasmettere una dichiarazione del liberale Malagodi .

Era nato a Firenze e lì era rientrato dopo l’8 settembre ’43. Vicino al Partito d’Azione, partecipò alla Resistenza dirigendo una testata clandestina. Dopo la Liberazione, entrò nel Giornale del Mattino e poi per due anni, lui laico e simpatizzante del Pri di La Malfa, fu il capo ufficio stampa, a Palazzo Chigi, del dc Fanfani. Infine l’approdo all’Ansa, dal 1962 al 1991. Maestro dei suoi giornalisti: ogni nuovo assunto doveva trascorrere qualche settimana vicino a lui, per imparare. Insegnamenti poi dispensati in corsi universitari e in molti libri sull’informazione come Professione giornalista, ancora oggi manuale per questo mestiere. Un lavoro che Lepri, quando qualcuno lo interrogava sulle notizie più difficili, descriveva così, mettendo da parte politica e censure: “La pubblicazione dei numeri del Lotto, ogni sabato. Sapevo che, se li avessimo sbagliati, avremmo provocato drammi umani”.

Il toto-Quirinale e il prosciutto, mi raccomando però, bello magro

Ci mancherebbe che riflessi delle discussioni relative alla cosiddetta “corsa al Colle” non giungano anche qui ai confini del regno per sostituirsi ai consueti scambi d’opinione su conteggi di positivi e decessi, tamponi rapidi o molecolari, asintomatici contagiosi e contagiati asintomatici. Se ne colgono frammenti qua e là, tanto per strada quanto nei bar, financo nei negozi tra una fetta di prosciutto (“Bello magro, mi raccomando!”), e l’altra. Sono ovviamente opinioni derivate da coloro che su giornali e reti televisive discettano a ragion veduta della materia (forse). In ogni caso le espressioni che più spesso si captano anche solo passando accanto a un capannello dove se ne sta discutendo sono due: “Alto profilo” e “divisivo”. Circa l’alto profilo che il prossimo presidente della Repubblica dovrà avere si registra un sostanziale, unanime consenso, con una piccola minoranza di faceti franchi tiratori che disquisisce sull’aggettivo, forse riferito a uno standard minimo di altezza, e pure specula sul sostantivo con altrettanta goliardica allegria: e già, perché dovendo prima o poi un presidente finire su qualche francobollo o moneta, il venturo capo dello stato non dovrebbe avere un naso troppo importante oppure un accenno di prognatismo mandibolare. Questione di profilo appunto. Riguardo all’altra faccenda, alle ragioni secondo le quali Silvio Berlusconi non può partecipare alla corsa e sedere sul colle, me ne viene riferita un’altra: è milanista infatti! Cosa c’è di più divisivo di così in un Paese dove il calcio assume spesso il carattere di religione! Prendo nota e poi faccio notare che forse tiene un po’ anche al Monza, cosa che però non turba più di tanto il mio interlocutore al punto che la liquida con un’alzata di spalle. Infatti riguarda solo pochi, noi pochi anzi perché mi ci devo mettere anch’io, sorta di “gruppo misto”, usi a tifare per squadre che riescono a essere divisive ma solo quando della torta non sono rimaste che poche briciole.

Mail box

 

 

 

Quale legge elettorale ci dobbiamo aspettare?

Come mai, in previsione di future elezioni, non si parla di legge elettorale? Per vedere cambiare un po’ le cose, vorrei una legge con lo sbarramento al 5 per cento, altrimenti si continua a vivacchiare come ora.

Franco Ferrari

 

Caro Franco, la legge elettorale sarà il primo punto all’ordine del giorno del Parlamento dopo l’elezione del capo dello Stato. Io mi accontenterei di un proporzionale con sbarramento al 3 per cento: basta e avanza per liberarci da chi vanta più interviste che elettori.

M. Trav.

 

Dai domiciliari, Verdini fa quello che gli pare

Leggo delle prodezze commesse dal pregiudicato Denis Verdini, scarcerato per ragioni di salute e mandato agli arresti domiciliari. Non penso che, se fosse in galera, potrebbe mandare email con smartphone o pc, dei quali credo non potrebbe disporre. Al contrario, gli arresti domiciliari sono evidentemente una condizione di privilegio ben lontana da quelle di una cella qualsiasi. Del resto, trasecolo leggendo che dalla sua villa (dove, ribadisco, è agli arresti domiciliari) si sposta tranquillamente a Roma, per andare dal dentista e per farsi gli affaracci suoi. Sogno o son desto? E la magistratura che fa? Quali sono le regole che vanno rispettate quando si è agli arresti domiciliari? E perché ai domiciliari si hanno più libertà che non in cella?

Pino Rappini

 

Caro Pino, a furia di insistere, lorsignori hanno ridotto gran parte della magistratura a loro immagine e somiglianza.

M. Trav.

 

Nel Pd si ricordano chi è Giuliano Amato?

Grazie direttore per la cronistoria di Giuliano Amato. Qualcuno nel Pd se lo era dimenticato, o nella peggiore delle ipotesi se lo ricordava perfettamente.

Stefano Strano

 

Caro Stefano, credo che lo sostengano proprio perché sanno tutto.

M. Trav.

 

La transizione che si può fare: vedi il Portogallo

Ce la menano ininterrottamente, tg e giornali, che mancano solo otto anni al 2030, anno nel quale dovremmo definitivamente effettuare questa benedetta transizione ecologica: che non saremo pronti a “mollare” gas e carbone, che tutti i paesi europei hanno questo problema e via dicendo. Ma diamine, il Portogallo non è un Paese europeo? Due mesi fa ha chiuso definitivamente l’ultima centrale a carbone e già l’altro giorno un pool di sei aziende ha definito gli accordi per riconvertirla in produzione di energie rinnovabili come eolico e fotovoltaico. Le cose, per farle, bisogna volerle.

Walter Casadei

 

Quei servi che godono per l’inchiesta Onorato

Non so se Grillo sia innocente o no, ma sono esterrefatto e disgustato a vedere come certi politici corrotti e i loro giornalisti servili godano, credendo che Grillo sia un criminale come loro.

Claudio Trevisan

 

Mettere i dottori radiati a curare i No Vax

Se il problema sono i mille no-vax in terapia intensiva, allora facciamoli curare dai medici radiati perché non vaccinati, all’interno delle nuove strutture realizzate nelle varie regioni, che non funzionano perché appunto senza medici. Così libereremmo le terapie intensive, e tutti sarebbero felici. Se dovesse andare male il percorso di cura, nessuno si potrebbe lamentare e non si potrebbe parlare di discriminazione, no?

Giuseppe Gazzara

 

Come hanno esautorato i medici di base

La professoressa Gismondo, nella sua rubrica del 18 gennaio, centra il problema dell’errore della “vigile attesa” bocciata dal Tar del Lazio. Gismondo scrive: “Si sono esautorati i medici della loro libertà di prescrivere quella che si reputasse la migliore cura per il proprio paziente. il numero dei decessi non si è mai arrestato e le terapie intensive si sono affollate”. Il sistema di protocolli di cura è stato inventato, a livello internazionale, proprio per esautorare la capacità decisionale, in scienza e coscienza, dei medici. Trasformandoli in una sorta di “ragionieri della salute”.

Michele Putignano

 

Ecco perché nessuno va più a votare

Vorrei esprimere la mia indignazione circa il teatrino di certa politica di questi giorni. I padri e le madri di famiglia, quelli che pagano le tasse e faticano ad arrivare a fine mese, non dovrebbero avere riconosciuto il diritto di essere rappresentati da politici che non abbiano avuto questioni con la giustizia? Ma è possibile che debba esistere “l’immunità parlamentare”? Perché non si esige che ci mettano la faccia insieme al voto, abolendo il voto segreto? E la prescrizione? In un vero Stato di diritto non dovrebbe esistere: o si è colpevoli o innocenti, e basta. Solo eliminando questi “abusi” gli italiani torneranno a votare. Visto come vanno le cose, a che serve continuare ad andarci?

Maria Gabriella Fornero

Grillo indagato “Già condannato?” “Fatto politicamente inaccettabile”

 

 

Perfino Il Fatto Quotidiano ha già processato e condannato Beppe Grillo. “Politicamente”, stando a Marco Lillo, è indifendibile. Cos’è, avete già letto le chat?! Impossibile, visto che le indagini non sono chiuse! Eppure Grillo, politicamente, è già indifendibile! Perché ha sempre “rivendicato una diversità”! Ciò significa che non può ricevere messaggi né inoltrarli a chicchessia. Il solo farlo è “tradimento politico”! Non importa cosa ci sia scritto nei messaggi. Gli altri, non avendo “rivendicato diversità”, se anche si intascano 200 mila euro, cosa vuoi dirgli? La “diversità politica” di Grillo è quella di non essere un politico stipendiato dagli italiani, come invece lo sono gli altri! Nessuno dei parlamentari, ministri ed ex ministri del M5S è indagato! Perché allora il M5S, anche se una colpa di Grillo ci fosse, dovrebbe pagare un prezzo politico? Senza contare, ovviamente, che adesso è Giuseppe Conte il capo politico del Movimento.

Giuliano Checchi

 

 

Caro Giuliano, condivido in pieno il commento di Marco Lillo. Il reato è tutto da dimostrare e se ne occuperà la magistratura con i suoi tempi e procedure. Ma il fatto di ricevere soldi da un concessionario pubblico, inoltrare le sue richieste a ministri e parlamentari 5 Stelle e poi girare a lui le loro risposte è un comportamento inaccettabile. Soprattutto per il fondatore del Movimento che fa della trasparenza e dell’onestà le sue bandiere. Per sua fortuna, i ministri e i parlamentari 5 Stelle – diversamente da renziani e piddini – hanno ignorato quelle chat e non hanno fatto alcun favore a Onorato. Perché non hanno dimenticato (almeno loro) chi li ha votati e perché. Dimostrando così – checché ne dicano i giornaloni festanti – di non essere “uguali agli altri”.

Marco travaglio

Quando finisce una luna di miele, il caso Grillo e le parole di scarpinato

E ora, per la serie A slut nixes sex in Tulsa, la posta della settimana.

Caro Daniele, sono in luna di miele e tutto mi sembra così magico che vorrei non finisse mai. (Liana Delfino, Caltanissetta)

Purtroppo tutto finisce, anche una bellissima luna di miele. Capirai che è davvero finita quando smetterà di leccarti la figa.

Grillo indagato per traffico di influenze illecite. Secondo i pm, incassava soldi dall’amico armatore di cui perorava la causa. Sic transit gloria. (Damiano Settis, Milano)

Giudicherà il giudice: la fattispecie di reato è nebulosa. Il codice penale definisce infatti la mediazione illecita, ma in Italia manca la codificazione di quella lecita, sicché ogni mediazione può venire criminalizzata, e nella quasi totalità dei casi l’esito è l’assoluzione. A breve, il Senato valuterà una proposta di legge sul lobbying, già approvata alla Camera. Per i grillini è comunque finita un’epoca? Capirai che è davvero finita quando Grillo smetterà di leccare la figa.

Ho letto sul Fatto l’articolo dell’ex Procuratore generale di Palermo. Racconta una realtà drammatica. In che democrazia viviamo? (Giovanna Bozzo, Lecce)

Dell’articolo mi ha colpito il passaggio sulle stragi del 1992-93. Scrive Scarpinato: “Le indagini su queste stragi sono state caratterizzate da una serie impressionante di depistaggi realizzati mediante la sottrazione di documenti essenziali, la creazione di false piste, l’eliminazione di mafiosi depositari di segreti scottanti poco prima che iniziassero a collaborare con la magistratura, e altro ancora. È stato fatto di tutto e di più per impedire che venissero alla luce verità indicibili”. I tentativi di depistaggio, aggiunge, sono ancora in corso. Mi sono ricordato, a questo punto, della sentenza istruttoria sulla strage del 2 agosto 1980 che esplicita la tecnica del depistaggio adottata dai servizi segreti diretti dai piduisti Santovito (Sismi) e Grassini (Sisde): “1) fare pervenire al magistrato una massa di informazioni di difficile approfondimento che lo costringano a impegnarsi in ricerche estenuanti quanto improduttive; 2) dosare attentamente e per gradi successivi le informazioni verificando di volta in volta la loro ‘presa’, aggiungendo di volta in volta particolari; 3) orchestrare una campagna di stampa che valorizzi gli elementi offerti svalutando quelli acquisiti sino a quel momento dal giudice; 4) inserire nelle informative fatti veri e fatti falsi, ovvero elementi in sé veri, ma fra loro falsamente collegati. In questo modo il magistrato sarà costretto a percorrere la pista indicata, rinvenendo precisi riscontri, anche se non perverrà mai ad alcun risultato”. Per la parrucchiera di mia zia, il cui nonno collaborava con Federico Umberto D’Amato all’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, andrebbe rovesciata la prospettiva: “Come le ingiustizie del mondo, tipo la sofferenza dei bambini, si spiegherebbero meglio con l’ipotesi gnostica del Demiurgo malvagio, invece che con quella di un Dio misericordioso, le ingiustizie di questo Paese si spiegherebbero meglio se, invece di parlare di servizi deviati da menti raffinatissime contro lo Stato democratico, si dicesse che i Licio Gelli sono lo Stato”. Una volta Benigni ha detto: “Prego non perché Dio esiste, ma perché esista”. Vota perché la democrazia esista, Giovanna. Oppure continua a farti leccare la figa dal Dio misericordioso.

 

Processo-Serravalle: a sinistra ora arriva un conto da 44 mln

Non è archeologia politica, o giudiziaria, la sentenza definitiva che è arrivata, 16 anni dopo, sull’affare Serravalle. Quello che vide contrapposti l’allora presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati (Pd), e l’allora sindaco di centrodestra di Milano, Gabriele Albertini. La sentenza – contabile, non penale – presenta oggi un conto molto salato: 44,5 milioni di euro che dovranno essere pagati dagli uomini della ex giunta Penati. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, che a dicembre 2021 ha respinto i ricorsi e ha reso definitiva la sentenza d’appello della Corte dei conti che nel 2019 aveva condannato Penati a pagare 19,8 milioni, il suo segretario generale, Antonino Princiotta, 14,8 milioni, 4,9 milioni a testa i funzionari Giordano Vimercati, capo di gabinetto di Penati, e Giancarlo Saporito, direttore generale; e infine 4,9 milioni complessivi gli otto assessori della giunta (Giansandro Barzaghi, Irma Dioli, Alberto Mattioli, Daniela Gasparini, Alberto Grancini, Rosaria Rotondi, Pietro Mezzi e Pietro Luigi Ponti). Non è archeologia politica o giudiziaria, perché illumina una storia che è la storia della politica – e della politica di sinistra – che ci fa capire come siamo arrivati a oggi. Che cos’era, l’affare Serravalle? Penati, nel 2005, decise a sorpresa di far comprare dalla Provincia di Milano il 15 per cento delle azioni della società Serravalle, che controlla l’autostrada Milano-Genova e le tangenziali milanesi. Insorse l’allora sindaco Albertini, che obiettò: perché comprare con soldi pubblici azioni di una società di cui gli enti pubblici (la Provincia e il Comune insieme) hanno già la maggioranza? A fare l’affare fu solo il venditore, cioè il gruppo Gavio, che incassò ben 238 milioni, vendendo a 8,93 euro azioni che solo diciotto mesi prima aveva pagato 2,9 euro: realizzando dunque una plusvalenza di 176 milioni di euro.

Albertini dichiarò seccamente che Penati aveva fatto un regalo cash a Marcellino Gavio, allora re delle autostrade. E suggerì anche una spiegazione: quel regalo doveva convincere Gavio a schierarsi a fianco dei “furbetti del quartierino”, che nel 2005 avevano dato l’assalto a un paio di banche. In effetti, Gavio sostenne Giovanni Consorte, allora presidente di Unipol (la compagnia d’assicurazioni legata al vecchio Pci), nella sua scalata alla Banca nazionale del lavoro: il re delle autostrade investì infatti 50 milioni di euro in Bnl, a fianco di Consorte. Fu poi l’intervento della Procura di Milano a far fallire la scalata e a fermare i “furbetti del quartierino” (autodefinizione coniata dal più pittoresco di loro, l’immobiliarista Stefano Ricucci). Ma intanto l’operazione Serravalle era andata in porto e la Provincia si era pesantemente indebitata per azioni che si sono poi dimostrate una zavorra. Oggi la Serravalle è passata alla Regione Lombardia (e alla Regione Lombardia dovranno essere pagati i 44,5 milioni stabiliti dalla sentenza).

Le vicende dei “furbetti” e i loro echi nella politica (“Abbiamo una banca?”) sono una svolta troppo poco ricordata nella storia della sinistra italiana, che in quel 2005 si mostrò ai suoi stupiti elettori più interessata alle banche e agli affari che non alla difesa del lavoro e agli ideali di uguaglianza. La Cassazione ha ora stabilito che nell’operazione di acquisto della Serravalle il valore delle azioni era stato sopravvalutato, causando un danno alla Provincia dai 35,3 ai 97,4 milioni e al Comune di Milano di 21,8 milioni. Penati non c’è più e chi invece c’è ancora chissà se pagherà. Ma non è il risarcimento che qui ci interessa, né la punizione: quanto invece una riflessione sulla storia recente della sinistra. Riflessione finora mancata, come è mancata quasi del tutto l’informazione su questa sentenza, relegata nelle cronache locali. Eppure, questa storia spiega i destini della sinistra italiana più di tanti dibattiti.

 

Al Quirinale non si addicono i cortigiani, non solo i caimani

Merita raccogliere uno spunto dell’articolo nel quale, con il suo proverbiale nitore, Gustavo Zagrebelsky fissa le qualità di un presidente. Dopo avere eccepito sui limiti della formula con la quale, da più parti, si invoca una personalità “non divisiva” o quantomeno mettendo in guardia da una sua interpretazione distorta – anche la Costituzione, egli nota, è espressione di una “decisione” che discrimina tra i suoi principi cardine e i principi opposti e dunque tra chi di essi può essere affidabile garante e chi è a essi ostile o anche indifferente –, Zagrebelsky osserva che ciò che conta è la comprovata convinzione/determinazione nell’adesione al nucleo valoriale della Costituzione. Una determinazione – ecco il punto – che deve “essere testimoniata nelle esperienze precedenti e, certamente, è incompatibile con l’opportunismo, il trasformismo, il grigiore e l’ossequio nei confronti del potere di turno. La Presidenza della Repubblica non è per cortigiani”.

Perché riprendo questo cenno? Perché, si spera, dopo avere sgombrato il campo dalla più indegna delle candidature, quella di Berlusconi (i suoi sponsor fanno finta di non comprendere che le mille ragioni che la rendono inaudita e provocatoria non attengono alla circostanza che egli sia di destra, ma che Berlusconi sia Berlusconi), si fanno nomi che chiaramente incappano nelle obiezioni di Zagrebelsky. Personalità grigie, furbastre, servili. La cui carriera politica, i cui ruoli istituzionali sono ascrivibili appunto al loro opportunismo.

La ricerca di una larga convergenza dovrebbe suggerire uno scatto di qualità intorno a una figura che semmai si sia segnalata per il suo spirito libero e indipendente. È da temere l’esatto contrario, cui invece potrebbero condurre due fattori: la modesta soddisfazione di avere scongiurato il peggio, ovvero Berlusconi, e la logica del “minimo comun denominatore”, ove l’accento cade sul minimo, cioè su… maggiordomi e camerieri. Senza offesa per questi rispettabilissimi mestieri nella vita civile.

Mi sia consentito esprimermi così: vorrei che il presidente, di destra, di centro o di sinistra, sia in ogni caso persona che dia mostra di credere in qualcosa, che sia uomo o donna di principi (costituzionali); che non debba il suo cursus honorum e, da ultimo, la sua elezione all’abilità nell’essere di tutti e di nessuno.

Ripeto: a ignavia e opportunismo. Un po’ tutti osservano che l’istituzione “presidenza della Repubblica”, negli anni recenti, ha acquisito rilievo e centralità, che il suo compito sia stato di attiva garanzia. Insomma che, pur senza varcare i limiti fissati dalla Carta, gli siano stati richiesti interventi che presupponevano coraggio, indipendenza, autonomia. Anche dai propri veri o millantati kingmaker. Insisto: di credere in qualcosa e dunque di essere il presidente di tutti ma inflessibile sui principi. Se non si reperissero figure così nel mondo politico-istituzionale, nulla impedirebbe di rivolgersi a personalità della cultura, delle arti, delle professioni che rispondano a quei requisiti che la Costituzione detta per i senatori a vita: avere dato lustro alla Repubblica. A me, parlamentare, a fronte di candidature inadeguate, capitò di votare Claudio Magris. Per favore, ci siano risparmiati i cortigiani, dell’ex Cavaliere o comunque del potente di turno.