B. e Draghi: non presidenti ma “padroni” dello Stato

Se Berlusconi andrà al Quirinale, l’Italia avrà non un presidente, ma un padrone della Repubblica. Come ho sostenuto nella Libertà dei servi (2010), Berlusconi possiede una ricchezza sterminata, reti televisive, radio, quotidiani, riviste, case editrici e un partito politico. Rispetto al 2010 il suo potere personale è intatto, con la sola differenza che il suo partito è diventato più piccolo. Ha ancora un potere enorme che gli permetterebbe di controllare le istituzioni della Repubblica e diventarne, di fatto, padrone. Per questa ragione non avrebbe mai dovuto diventare presidente del Consiglio. A maggior ragione non può diventare presidente della Repubblica.

Nel nostro ordinamento costituzionale il presidente della Repubblica non è un maestro di cerimonie ma capo dello Stato. Ha poteri fondamentali di garanzia e di tutela dell’ordine repubblicano. Affidare i poteri del presidente della Repubblica a un uomo che dispone di poteri personali come quelli di cui dispone Berlusconi vorrebbe dire trasformare la Repubblica in una sorta di proprietà privata.

Se la Repubblica ha un padrone, noi cittadini diventiamo servi. Essere liberi, ci hanno insegnato i maestri del pensiero politico repubblicano antico e moderno (risparmio le citazioni), non vuol dire avere un buon padrone. Vuol dire non avere alcun padrone. Vuol dire che nella Repubblica non ci deve essere nessuno tanto potente da poter imporre la sua volontà arbitraria e trasformare i suoi interessi in leggi dello Stato. Che il padrone sia buono o cattivo è del tutto irrilevante. Il semplice fatto che ci sia qualcuno che se vuole può imporre la sua volontà ci rende non liberi. Ci rende servi. Questa sarà la nostra condizione, se Berlusconi diventerà presidente della Repubblica.

“Non succederà”; “non ce la farà a raccogliere i voti necessari”, sostengono i soliti bene informati. Siamo sicuri? Felice di essere smentito dai fatti, ma a mio giudizio è invece probabile che Berlusconi vinca. Fra gli elettori potrebbe esserci una maggioranza che voterà pensando esclusivamente al proprio interesse. Per i senatori e i deputati di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, avere Berlusconi al Quirinale significherebbe avere un presidente amico che favorirà la loro ambizione di tornare al governo da soli senza i detestati democratici e gli ancora più insopportabili pentastellati. Potrebbero inoltre presentare ai propri elettori – molti dei quali erano sostenitori di Berlusconi che si sono allontanati soltanto perché il capo era diventato debole, non perché hanno cambiato ideali – un bella vittoria contro l’odiata sinistra e gli ancora più odiati magistrati che hanno ingiustamente perseguitato e condannato il loro idolo. Avrebbero infine la ragionevole probabilità di continuare a sedere in Parlamento. Se invece al Quirinale va Draghi è più probabile che si vada alle elezioni anticipate. Perché dovrebbero rischiare? Considerazioni analoghe valgono anche per i parlamentari del Gruppo Misto, del Pd, di Italia Viva, e dei Cinque Stelle. È lecito supporre che anche in questi gruppi ci sarà chi voterà per il candidato che meglio garantirà loro di non perdere la poltrona parlamentare.

Le rassicurazioni in senso contrario dei leader del centrosinistra sono apprezzabili, ma non rassicurano affatto. I loro parlamentari voteranno in segreto. Faranno quel che pare a loro. Sono finiti i tempi in cui esistevano la disciplina e la lealtà di partito. I leader del centro-sinistra hanno da anni riabilitato Berlusconi. Hanno stretto patti e governato con lui o i suoi fedeli. Governano tuttora. Con quale credibilità possono adesso intimare ai loro parlamentari di non votarlo? Dovevano pensarci prima. Dovevano essere intransigenti nella condanna morale e politica di Berlusconi, se volevano evitare il pericolo di vedere oggi i loro parlamentari (non tutti, è ovvio) votare per Berlusconi al Quirinale.

L’alternativa più credibile a Berlusconi, a oggi, è il presidente del Consiglio Mario Draghi, uomo di ben altra tempra morale e intellettuale. Ma la sua elezione a presidente della Repubblica distruggerebbe l’equilibrio istituzionale. Come sappiamo dal “lodo Giorgetti”, se Draghi andrà al Quirinale, a Palazzo Chigi andrà una persona di sua fiducia che seguirà le sue direttive. Draghi sarà in effetti presidente della Repubblica e presidente del Consiglio, garante e governatore, arbitro e giocatore. Sarebbe una riforma costituzionale di fatto, la fine della separazione dei poteri e delle funzioni del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio. Cadrebbe uno dei fondamenti della nostra Repubblica. Siamo dunque di fronte a due pericoli: consegnare la Repubblica a un padrone o trasformarla in una repubblica semipresidenziale. Sarebbero due mali evitabili, se in Parlamento ci fosse una maggioranza di uomini e donne che amano sul serio la Repubblica. Ma c’è?

 

Quale leader può davvero fidarsi del suo partito?

A rticolo 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

Chi non controlla chi? Nel vorticoso giro di consultazioni in atto non esiste leader, soprattutto nei partiti maggiori, che non ragioni sulla possibile tenuta dei propri gruppi parlamentari davanti alle candidature in gioco, vere o presunte che siano. Perché, a parte l’esercizio sacro e inviolabile del voto segreto, del succitato articolo 67 – che mette i parlamentari in una botte di ferro senza obblighi nei confronti dei partiti, dei programmi elettorali e perfino di chi li ha eletti – in passato se ne chiese spesso la modifica in senso restrittivo per limitare la tarantella dei cambi di casacca. Però, come è noto, senza esito alcuno. Sia come sia, da lunedì in avanti si dovranno fare i conti non soltanto con i cosiddetti “cani sciolti” (un centinaio circa tra “Misto” e non iscritti a gruppi) ma pure con la progressiva insofferenza di molti parlamentari “di partito”, quando si tratta di obbedire a scelte calate dall’alto e non condivise. Questo arcipelago del dissenso comincerà a emergere, probabilmente, nei tre primi scrutini con il quorum a 672 voti, raggiungibile solo con una candidatura di unità nazionale molto forte, ma che al momento non è alle viste (in sostanza, il leggendario Mattarella bis ). Per il resto abbiamo un M5S frantumato a tal punto che perfino l’asse Conte-Di Maio, di cui si parla in queste ore, avrebbe difficoltà a ricomporre. Problemi simili, seppure in una dimensione più ridotta, li ha Enrico Letta nel Pd dove c’è chi vuole votare Draghi e chi no (si parla di Orlando, Franceschini, Orfini). Il caso più eclatante di mancata disciplina di coalizione riguarda proprio Silvio Berlusconi. Candidato da Salvini e Meloni che ci mettono il marchio, a patto però che i voti che gli mancano, nella Lega e in FdI, se li procuri lui stesso. Un caso abbastanza bizzarro di merchandising elettorale, che infatti rischia di finire in burletta.

Obbligo in Austria, Francia e Uk frenano

L’Italia obbliga gli over 50 a vaccinarsi? L’Austria rilancia e diventa la prima in Europa a introdurre l’obbligo vaccinale per tutti gli over 18. Saranno esentate solo le donne incinte e chi non può vaccinarsi per ragioni mediche. La misura entrerà in vigore il 4 febbraio. Il progetto di legge è stato adottato ieri in Parlamento dopo ore di dibattito, mentre il Paese registra un’esplosione di contagi, oltre ventimila al giorno.

L’Italia obbliga i lavoratori over 50 (dal 15 febbraio) al super green pass e i clienti di quasi tutti gli esercizi commerciali a esibire (dalla metà di febbraio) il green pass base? Francia e Regno Unito no, non rilanciano.

Parigi, da parte sua, si prepara tuttavia a una nuova stretta sui non vaccinati. Lunedì 24 gennaio, entrerà infatti in vigore il pass vaccinal, adottato domenica in Parlamento, ma a condizione che ottenga l’avviso positivo del Consiglio costituzionale, che deve intervenire oggi. Con questa sorta di super green pass alla francese, chi ha 16 anni e più dovrà essere vaccinato per accedere a musei, teatri, cinema, per andare al ristorante, al bar o alla stadio, e per prendere il treno. Il nuovo pass sarà richiesto anche a tutti quelli che lavorano in questi settori. L’attuale pass sanitaire, che si può attivare anche con un tampone negativo, non scomparirà del tutto, ma resterà valido per accedere agli ospedali e per i giovani dai 12 ai 15 anni.

La strategia di Parigi è chiara da tempo: fare pressione sui non vaccinati limitando l’accesso alle attività della vita sociale. Secondo il premier Jean Castex, un milione di persone, che finora avevano rifiutato l’iniezione, sono andati a fare la prima dose di vaccino dopo l’annuncio dell’introduzione del pass vaccinal, a dicembre. In Francia, anche se con oltre 400 mila nuovi contagi al giorno, la corsa del virus sembra rallentare. “L’ondata non è terminata ma la situazione evolve”, ha detto ieri Castex, in conferenza stampa. Il picco della quinta ondata potrebbe essere raggiunto nei prossimi giorni. Con il nuovo pass, che di fatto metterà i non vaccinati in una sorta di lockdown, Parigi si prepara però a sospendere alcune restrizioni che riguardano le attività al chiuso.

Dal 2 febbraio, cadono tutti i limiti di capienza per eventi sportivi e culturali. La mascherina non sarà più obbligatoria all’aperto e lo smart working, ora obbligatorio almeno tre giorni a settimana, diventerà facoltativo. Seconda tappa, il 16 febbraio, con la ripresa dei concerti, anche in piedi, e la riapertura delle discoteche, chiuse dal 10 dicembre. Dal 7 marzo potrebbe essere alleggerito il protocollo nelle scuole.

Cancella invece praticamente tutte le restrizioni anti-Covid il Regno Unito, dove la vita era già tornata ad una semi normalità lo scorso luglio. Alla ricerca di consensi dopo il partygate, con i contagi in calo del 37% nel Paese nell’ultima settimana e oltre 36 milioni di persone col booster, Boris Johnson si mette dunque alla spalle anche le ultime misure d’emergenza e pensa addirittura ad abolire l’isolamento dei positivi: da giovedì prossimo, 27 gennaio, è abolito il green pass, che era stato introdotto a dicembre per i grandi eventi e le discoteche. Cade anche l’obbligo di portare la mascherina a scuola e negli altri luoghi dove era richiesta, negozi e mezzi pubblici. Resta solo consigliata nei luoghi affollati.

Dad, numeri vecchi: la scuola non è come la racconta Bianchi

Inumeri forniti dal ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi sul rientro a scuola non convincono. La maggior parte dei dirigenti scolastici racconta un’altra realtà, tanto che l’Associazione nazionale presidi starebbe realizzando un proprio monitoraggio, provincia per provincia, per verificare le percentuali date dal ministro. I capi d’istituto mettono tutti in evidenza un passaggio: il ministro ha parlato di dati al 19 gennaio alle ore 12, ma i presidi hanno compilato il monitoraggio fornendo i numeri della scorsa settimana quando i casi erano molti meno. Intanto, nel pomeriggio di ieri, Bianchi ha incontrato il premier Mario Draghi a Palazzo Chigi: sul tavolo la questione della semplificazione delle procedure e la fornitura di mascherine Ffp2 per gli studenti in auto-sorveglianza delle secondarie. Già oggi, in Consiglio dei ministri, potrebbe essere dato il via libera a questa proposta.

Sullo snellimento delle procedure, invece, l’idea è quella di togliere i tamponi per gli studenti (delle scuole medie e superiori) vaccinati, in regime di auto sorveglianza e senza sintomi. Quindi, si resta in classe, con l’obbligo di indossare la mascherina Ffp2 per almeno dieci giorni.

E proprio sui tamponi si registrano levate di scudi da parte dei genitori (che stanno firmando a migliaia appelli al governo per “liberare” i bambini dalle quarantene), soprattutto chi ha figli alla primaria: la corsa al T0 (il tampone da fare in teoria subito dopo la comunicazione di un positivo in classe) costringe spesso le famiglie ad andare alla ricerca di un test antigenico in farmacia soprattutto nelle ore serali. Un problema che Federfarma non nasconde ma sul quale ci tiene a precisare che le diciannove mila farmacie in Italia possono tenere aperto oltre gli orari canonici ma non tutti chiaramente lo fanno.

A far discutere i presidi, sono soprattutto i numeri del ministro che ha detto: “Su 374.740 classi abbiamo il 93,4% delle classi in presenza, di cui 13,1% con attività integrata per singoli studenti a distanza”. Aluisi Tosolini, dirigente del liceo “Attilio Bertolucci “di Parma (48 classi, 1.100 alunni) è adirato: “La verità è che stiamo assistendo alla morte della didattica solo per dire che abbiamo le scuole aperte. A oggi (ieri, ndr) ho 15 classi con un positivo; dieci con due casi di Covid dove si fa la didattica mista e altre quattro classi totalmente a casa in dad. Come me ci sono altri colleghi. Bianchi, ha dato delle percentuali già vecchie, perché in questi giorni abbiamo avuto un’impennata di positivi”.

La pensa così anche Matteo Loria, preside del “Caramuel Roncalli” di Vigevano: “Ho 260 studenti tra positivi e contatti stretti; sette classi in ddi e altre sette in dad. Non mi permetto di mettere in dubbio il ministro, ma la situazione nella mia scuola è ben diversa”.

Laura Biancato è ancor più dura: “Non credo ai dati di Bianchi perché l’evidenza è differente. Quei numeri non erano in tempo reale. All’’“Einaudi” di Bassano del Grappa ho 200 ragazzi su 1.500 in quarantena e altri 90 positivi”.

La musica non cambia a Ischia, nel circolo didattico 2: “A oggi conto una classe in dad; 12 positivi alla primaria e circa 50 quarantenati”.

Ma a lanciare un Sos sono anche i genitori. In alcuni casi mamme e papà non riescono a fare il T0 e cercano in tutti i modi di trovare un tampone almeno al quinto giorno.

La caccia al test è ormai diventata parte della vita delle famiglie: “Devono essere fatti il più velocemente possibile. Le scuole – spiega Chiara Ponzini di “Priorità alla scuola di Milano” – spesso ci avvertono la sera con una mail. Dobbiamo a quel punto correre a fare il tampone antigenico in farmacia, trovandone una aperta e convenzionata in attesa del messaggio dell’Ats sulla quarantena che non arriva mai. Servivano presidi sanitari nelle scuole ed è lì che dovevano essere fatti i tamponi”.

Sgombero CasaPound. Scontri con la polizia

Ieri mattinaè stata sgomberata la sede di CasaPound nel quartiere di Casal Bertone, a Roma, fra fumogeni e bombe carta. Sei i poliziotti feriti dopo lo scontro con circa 40 militanti, che si sono fatti trovare davanti alla sede del circolo. Uno di loro, il caposquadra della Mobile, è stato trasportato al pronto soccorso per una sospetta frattura allo zigomo. Fabrizio Santori, consigliere capitolino della Lega, ha detto che lo sgombero “dimostra ancora una volta che certe regole in questa città si fanno rispettare solo dopo aver controllato il colore politico degli occupanti”, aggiungendo poi la condanna del gesto e la solidarietà alla polizia.

Terremoto al largo di Vibo Valentia

Una scossacon una magnitudo di 4.3 si è verificata ieri mattina al largo della costa tirrenica, in prossimità di Vibo Valentia. Le forze dell’ordine hanno comunicato che non ci sono stati feriti o danni. Secondo l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, l’ipocentro è avvenuto a una profondità di circa 10 chilometri. Il sisma è stato avvertito anche nelle province di Catanzaro e Cosenza, dove gli istituti scolastici sono stati fatti sgombrare immediatamente. Fermate anche le linee ferroviarie calabresi, per verificare eventuali danni ai binari. “La situazione è sotto controllo” ha detto il presidente della Regione, Roberto Occhiuto.

Fiocchi: “La nave non doveva essere a Dakar”

È ancora da chiarire la vicenda della nave “Eolika” che, partita da Genova, è stata bloccata in Senegal, per un carico di munizioni. A chi erano destinati quei rifornimenti? Per ora, l’interrogativo è senza risposta. L’azienda Fiocchi ha confermato con una nota che le munizioni fanno parte della propria produzione, ma ha ribadito: la spedizione “non era diretta in Senegal, bensì nella Repubblica Dominicana”, e con quella destinazione era stata autorizzata in Italia; era noto uno scalo tecnico in Spagna “ma non ha ricevuto notifica preventiva dell’esigenza dello scalo a Dakar, di cui a oggi ignora ancora le motivazioni”. La Fiocchi minaccia azioni legali.

Grillo: “Onorato dobbiamo trattarlo bene” Le richieste nelle chat con dieci 5 Stelle

“Questo dobbiamo trattarlo bene”. Eccolo uno dei contenuti delle chat, che, secondo i pm, il fondatore del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, ha girato a parlamentari e ministri del suo partito. Il “questo” da “favorire” è l’armatore Vincenzo Onorato. Entrambi sono indagati dalla Procura di Milano per traffico di influenze illecite rispetto a un contratto tra Moby e la Beppe grillo srl da 240mila euro in due anni, finalizzato, secondo l’accusa, non a pubblicizzare il marchio Moby sul blog dell’ex comico, ma a pagare i favori di Grillo consistiti nel veicolare alla politica pentastellata i desiderata di Onorato. Desiderata “ignorati”, spiegano fonti interne al partito. Nelle 15 chat “calde” i temi ricorrenti sono i dossier che dal 2018 preoccupano Mr. Moby. Documenti che la difesa, come spiegato ieri, acquisirà dopo aver fatto richiesta al tribunale del Riesame. Agli atti: tra le tante “lamentele riferite a Grillo” e ricostruite dall’accusa nelle informative trasmesse a Milano dalla Procura di Firenze che indaga sulla fondazione Open di Matteo Renzi (finanziata da Onorato), c’è anche quella relativa alla concorrenza e all’armatore Grimaldi, da sempre in polemica con Onorato. Come spiegato in Procura, i messaggi sono espliciti e inviati da Grillo ai livelli più alti del governo Conte-1 e 2. Ministeri e non solo. Anche perché, spiega chi indaga sul fronte distrattivo Moby-Tirrenia, il colosso creato da Onorato è sempre stato legato alle scelte del governo. E questo sia per le leggi sia per gli emendamenti da indirizzare verso una parte piuttosto che un’altra. Tra i vari fascicoli caldi c’è il debito verso i commissari di Tirrenia, acquistata da Onorato attraverso Cin quando la società marittima era già in amministrazione straordinaria. E verso la quale oggi Mr. Moby è debitore per 180 milioni. I commissari dipendono dal ministero dello Sviluppo economico che durante i governi Conte è sempre stato in quota M5S. Non a caso tra i destinatari del messaggio “questo dobbiamo trattarlo bene” e non solo, c’è l’ex ministro Stefano Patuanelli e l’allora suo vice Stefano Buffagni (non indagati). Secondo i pm sono 10 i politici coinvolti da Grillo dopo il contratto con Moby. Tanto che, scrivono i pm, “nello stesso lasso di tempo Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di interventi a favore di Moby, che Grillo ha veicolato a parlamentari in carica appartenenti a quel movimento politico, trasferendo quindi al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima”. La vicenda, politicamente delicata, riguarda cifre modeste rispetto al tesoretto che per i pm Onorato avrebbe distratto dalle casse di Moby (da qui l’accusa di bancarotta). Undici milioni per ville, jet, auto di lusso e finanziamenti alla politica.

Caso Contini, ora l’accusa condanna il fidanzato Jacopo

Non è frequente che la pubblica accusa ascolti la parte civile e decida, in aula, di trasformare in richiesta di condanna le precedenti conclusioni assolutorie. È accaduto ieri davanti alla Corte d’appello di Firenze che ha poi affermato la responsabilità dell’allora fidanzato nell’incidente sulla superstrada Firenze-Pisa-Livorno che, nel 2013, costò la vita a Carolina Contini, 25 anni. Il giovane era uscito di strada, finendo su un guardrail difettoso che entrò nell’abitacolo dell’auto, provocando lesioni mortali alla ragazza. Sara Assicurazioni Spa dovrà pagare per il momento 610 mila euro di provvisionali ai familiari di Carolina, in attesa del giudizio civile che definirà il completo risarcimento. In sede penale il giovane era stato assolto nel 2017 e quel verdetto è diventato definitivo perché la Procura all’epoca non lo impugnò, come ricordato ieri dal sostituto procuratore generale Nicola Miraglia Del Giudice. Lo stesso magistrato lo scorso ottobre aveva chiesto la conferma dell’assoluzione anche ai fini civili sulla base di una lettura parziale degli atti, favorita dalle regole connesse al Covid che permettono la trattazione per iscritto dei processi. Così non era colpa di nessuno: le accuse ai responsabili della superstrada erano già state archiviate. Roberto Contini, il papà di Carolina, scrisse alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, che non ha mai risposto. Il Fatto ricostruì la vicenda il 24 ottobre scorso. “In 36 anni di carriera non mi è mai successo che la pubblica accusa ribaltasse le conclusioni”, ha detto l’avvocato Fabio Anselmo che assiste i genitori della ragazza.

Dei su barrette KitKat, Nestlè India ‘blasfema’

Nestlè India nella bufera: la multinazionale è stata travolta da una valanga di critiche per avere applicato alla confezione della barretta di cioccolato KitKat, amatissima nel Paese, immagini di divinità indù, disegnate nello stile tipico dello stato dell’Odisha. Secondo le accuse dei social, a causa del malcostume degli indiani che gettano le carte dappertutto, le immagini di dèi importanti come Jagannath, Balabhadra e Mata Subhadra si troverebbero accartocciate lungo le strade, nelle fogne o, nella migliore delle ipotesi, nei cestini, assieme comunque ad altri rifiuti. “Per favore, togliete subito gli dèi dalle confezioni del KitKat”, è il più gentile dei commenti; molti altri, che invitano al boicottaggio delle barrette, hanno scritto indignati “Per l’ennesima volta una multinazionale si prende gioco dei nostri sentimenti religiosi”.

Nestlé India ha spiegato che il packaging voleva far conoscere il Pattachitra, la forma d’arte tradizionale dell’Odisha, che raffigura con colori vividi scene dei poemi classici indiani. La filiale indiana della multinazionale svizzera ha annunciato di avere già ritirato dal mercato le confezioni sotto accusa.