Ecco il Pianeta Rosso, dove i giovani scacciano la fifa verde

inviato a Bologna

“Prima i tortellini” dice il signor Ugo, commercialista in pensione, mentre piega con la signora Marisa verso la porta del ristorante Diana, approdo domenicale solenne della borghesia bolognese. “Dopo andremo a votare Bonaccini, questo è chiaro”. Bologna a mezzodì si divide tra la tavola e i seggi elettorali che di prima mattina sono presi d’assalto. La novità, più della fila, la fa l’anagrafe: giovani e giovanissimi hanno preceduto i nonni. Le sardine mattiniere sono come coccinelle di buon augiurio per il governatore uscente che mai ha trascorso una notte più tribolata. È infatti andato a letto con l’annuncio di una quasi disfatta, il cambiamento lo chiedevano a Forli e a Piacenza, ma pure a Parma. L’onda verde salviniana dopo aver allagato le campagne si stava dirigendo in città. Perciò quella fila così allungata e così giovanile nel seggio nei pressi di viale Lenin, e quel torciglione della Bolognina dove nonni e nipoti si davano il cambio, è stato l’annuncio che qualcosa di grosso si era mosso nella società emiliana. “Se l’affluenza è alta, perdiamo. Se è altissima, vinciamo”, ha detto, dopo aver dato uno sguardo ai seggi, l’assessore bolognese Marco Lombardo.

“Bisogna vedere come tira a Forlì e Ferrara…”

Seggi pieni, stipati anche al Pilastro, il quartiere del degrado, dello spaccio, degli ultimi. Il quartiere del citofono, il luogo in cui Matteo Salvini, decidendo di travestirsi da sceriffo del popolo, ha citofonato a una famiglia tunisina indicando – ben inquadrato dalle telecamere – lo spacciatore condominiale. Al Pilastro ieri è andato anche Virginio Merola, il primo cittadino. Anche lui ha citofonato, ma era sua madre che lì abita, l’ha fatta scendere e l’ha accompagnata a votare.

“Qua si vince”, dice Francesco Vitale, una lunga militanza nella Cgil. “Non è Bologna il problema, bisogna capire la Romagna come tira, Forlì, quelle zone lì”. Non solo Forli, appena riconquistata dalla Lega, ma Ferrara, caposaldo storico del simbolo padano, provincia messa peggio delle altre, governata da Alan Fabbri, candidato alle scorse regionali a governatore, con uno staff di assessori e consiglieri che si è fatto parecchio notare. Offerte di poltrone in cambio di silenzi e accondiscendenza, avvertimenti, veleni, registrazioni furtive di colloqui burrascosi, di una lunga faida interna.

“La Lega tira, tutti dicono che vince, purtroppo – comunica il tassista del 4590, la centrale operativa – Tutti lo dicono, mica io?”. “Io sono per il cambiamento”, annuncia il collega mentre mostra la sua auto: “Tutta elettrica, stiamo andando nel nuovo mondo”.

A Casalecchio di Reno intanto, alle porte di Bologna si organizza la serata elettorale del candidato del centrosinistra. È una casa del popolo posta ai margini di un’area industriale. È fuori la città e soprattutto fuori dal Pd. Se infatti le sardine si vedono – perchè girano a gruppi, si scambiano sorrisi, strette di mano, consigli su chi mandare in Regione a parte il governatore – il Pd – partito-Stato, il partito padre dell’Emilia Romagna – sembra scomparso, volatilizzato, praticamente inesistente.

“Siamo fritti”:
ma è uno scongiuro

C’è Salvini da una parte e a realizzare la resistenza armata solo Bonaccini, con i suoi occhialoni tondi e la barba trendy, il suo nuovo colore è il verde, quasi a sovrapporlo a quello padano, e una lista personale ampia: dalla sinistra ai renziani, agli amici di Calenda.

Il defunto dunque è il Pd. “Non so dire cosa succederà, aspetto di vedere i risultati e spero che gli emiliani mi diano conforto” dice al telefono il politologo Gianfranco Pasquino. La paura, fifa blu, fa novanta, e non c’è luogo dove non si colga.

“Questa volta siamo fritti, così sembra”, spiega la cameriera dell’albergo. “Ma io non sono contenta”.

Sembra il de profundis, quasi certo che tra gli sconfitti sicuri ci sia Nicola Zingaretti, che ha lasciato a Bonaccini la guida della battaglia e ha fatto retrocedere il Pd in una trincea. Sconfitti, anzi di più, i cinquestelle i quali, in un incredibile atteggiamento suicida, ha imposto a Simone Benini, suo bravo militante, di fare il candidato-farsa, di andare alla guerra senza neanche un fucile in mano. I Cinquestelle avrebbero perso comunque, qualunque fosse stato l’esito finale. Se Bonaccini avesse vinto, come sembra, loro sarebbero stati ininfluenti, condannati all’irrilevanza. Se avesse perso, loro sarebbero stati i colpevoli, condannati all’espiazione della pena.

Ma l’Emilia è la terra dove Matteo Salvini si è giocato tutto e solo venerdi scorso ha assicurato in tv: “Non vinciamo, stravinciamo”.

Il matador
ci lascia il pelo

Lui ha voluto Lucia Borgonzoni, completamente afono e negli ultimi giorni anche piuttosto assente dal dibattito pubblico. Una presenza che si è fatta via via più ridotta, più contestata. Tanto che le prime fasi dello spoglio annunciano il voto disgiunto persino da parte di elettori leghisti, oltre che di Fratelli d’Italia.

Il matador, cioè Salvini, è dunque trasfigurato nello sconfitto principale, se i dati dovessero essere con fermati. E colui che sembrava il partner debole, il comandando di una truppa in rotta, cioè Nicola Zingaretti, si conferma invece come un guidatore accorto, che sa stare sotto coperta e guadagna punti. Vincono, anzi stravincono le sardine. Perde, anzi straperde Silvio Berlusconi. In crisi di nervi i Cinquestelle, in forma smagliante Giorgia Mdeloni. È mezzanotte quando una pattuglia di giovani resistenti, quelli che con Mattia Santori hanno guidato la marcia di liberazione dalla Lega, e infatti si sono slegati, fanno festa a San Petronio.

Raffaello, un Beethoven della figura e un genio scomparso troppo presto

La precoce morte di Raffaello, cinquecento anni fa (1520), è una delle massime sventure dell’arte: come quelle di Catullo, di Mozart, di Schubert, di Bellini. Io non so se e come il genio di Raffaello e di Mozart si sarebbe ulteriormente sviluppato: le opere che lasciano ne danno una testimonianza completa. Ai funerali di Schubert, invece, Grillparzer tenne un discorso con le commoventi e terribili parole: “Questa tomba contiene un ricchissimo tesoro e ancor più ricche speranze.”

A riflettere, se si può, sul senso dell’arte di Raffaello, torna un ricorrente interrogativo. Il genio è inspiegabile; la grandezza è più intuibile che definibile: ma un artista va valutato alla stregua dell’analisi dello stile e delle circostanze storiche onde sorge e si afferma. È possibile, insieme, mettere da banda il Zeitgeist (lo spirito del tempo), e dare un’interpretazione metastorica dell’ethos e dello stile? Esistono categorie stilistiche assolute, a prescindere dalle circostanze storiche? Esiste un Classico assoluto, un Barocco assoluto? Mario Praz mi ha insegnato che anche tale metodo di analisi è possibile, pur se rischioso per la facilità con la quale può finire in mano ai ciarlatani.

Ciò vale quale presupposto per tentar d’indagare le affinità metastoriche fra l’arte della figura e la musica. È ricorrente il parallelo: Raffaello è il Mozart della pittura, Michelangelo il Beethoven della pittura e della scultura. Ciò si afferma sin dal Romanticismo francese, da Balzac, a volte da Stendhal. (Sempre che Raffaello non venga, a volte, considerato l’analogo di Pergolesi o Cimarosa) Arthur de Gobinaeu, se dimentichiamo il libro sull’inegualità delle razze, è un grande narratore e un fine pensatore. Nel mirabile romanzo-saggio La Renaissance, Il Rinascimento, egli immagina il pianto di Michelangelo alla morte del più giovane genio, e gli fa affermare addirittura di sentirne la superiorità rispetto a lui, destinato a tanto sopravvivergli. Ora, Beethoven è l’essenza stessa del Classico insieme con il presagio di un suo superamento; e la sua arte non è solo monumentale e sintetica, è piena di delicatezze che trovi soprattutto nella Sonate e nei Quartetti, oltre che in alcuni tempi di Sinfonia, come il secondo della Quarta. Un’interpretazione strettamente storica porta a legarlo a David, ad Appiani, a Canova: Classico e Neoclassico convivono. Se si pensa che l’arte di Michelangelo contiene pur essa delicatezze infinite, il parallelo con Beethoven pare innegabile. Io tuttavia accosterei l’autore della Cappella Sistina ancor più al sommo Haydn delle opere successive alla morte di Mozart, La Creazione, Le Stagioni, le ultime Messe, ove alla grandiosità classica si aggiunge uno spirito panteista che il compositore in se stesso ignorava e che di Beethoven è proprio.

Raffaello è pur egli l’essenza stessa del Classico, con una fermezza e una consapevolezza superiori a quelle di Mozart. Certo, gli si debbono delicatezze oniriche mozartiane, come tante sue Madonne. Ma di fronte alla grandiosità, alla sintesi, alla profondità di pensiero e di cultura, di opere come La scuola di Atene e le Stanze, io continuo a restare senza fiato, come di fronte alla Missa solemnis: e penso che mai la pittura abbia più raggiunto tali vertici. Il Beethoven della figura è soprattutto Raffaello.

 

Tra l’Emilia e la Mongolia non è più “Tabula rasa”

“Riconoscere dal finestrino le vetuste centrali termiche che riempivano la copertina dell’album Tabula rasa elettrificata dei C.s.i.; allora, in piena gloria del progresso, sovrastavano una prateria senza misure. Ora si affannano a emergere in considerazione minima tra questi spazi totalmente edificati”. Ventiquattro anni dopo il viaggio in Mongolia, insieme alla moglie e a Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni torna sul luogo dell’ispirazione, nella terra agognata tra fantasmi dell’Unione Sovietica, monasteri e infiniti spazi. “Mi piace molto l’idea dei viaggi di ritorno” racconta Zamboni, “dopo il film di Davide Ferrario e l’album dei C.s.i. avrei potuto pensare che questo avrebbe esaurito il discorso. Invece le cose vanno avanti sempre in maniera inaspettata: in Mongolia avevamo desiderato un figlio e poco dopo nacque Caterina, con una piccola macchiolina mongolica sulla pelle. E quello che era un piccolo puntolino sviluppato nella nostra coscienza, finì per diventare il motore per un significato superiore a quel primo viaggio. E per trovare una prossimità molto sentita tra luoghi lontani e inavvicinabili come l’Emilia e la Mongolia. È un viaggio a ritroso in cui alla fine troverai una tua identità eliminando quelle che si sono stratificate in te, che ritenevi necessarie, fondanti”.

Da questo secondo viaggio è nato un film documentario diretto da Piergiorgio Casotti (sarà presentato a febbraio) e una colonna sonora in uscita il 31 gennaio insieme a un libro edito da Baldini & Castoldi. “Nel libro è descritto anche il viaggio di Caterina, tornata nuovamente in Mongolia ma da sola. Avevamo incontrato un piccolo monastero sperduto in mezzo alla steppa, chiamato Shank: in qualche modo ci ha rivelato il senso del nostro viaggiare, cercare, accumulare suoni, immagini, volti. Quel luogo ci ha fatto capire che era meglio stare fermi e guardare ciò che arriva. So perfettamente che non potrei sopravvivere in Mongolia per più di due mesi, per il regime meteorologico e gastronomico che non è fatto per il mio corpo, ma allo stesso tempo sento una prossimità molto forte: questo viaggio cercava questo abbinamento impossibile. È l’accettazione di una lacerazione – benvenuta – tra due emisferi”. Alla bellezza del racconto si abbinano i brani scritti da Zamboni composti e suonati con Cristiano Roversi e Simone Benvenuti. L’album ha volutamente una natura cerimoniale e rituale: la title-track assembla un loop ipnotico e irresistibile di chitarre degne di Tubular Bells di Mike Oldfield e One Of These Days dei Pink Floyd. Heavy Desert sembra voglia sublimare gli spazi attraverso gli strumenti, sulla falsariga di Ry Cooder in Paris Texas. Nella melanconica e commovente Casco in volo per un attimo si ritorna alle atmosfere di Linea Gotica dei C.s.i.; sono tutti brani strumentali eccetto Lunghe D’ombre. Rispetto a Tabula Rasa elettrificata il suono stavolta è quasi impalpabile: “Diciamo che è la mia cifra, come guardo il mondo; non è finta musica etnica”.

L’emozione più grande è stata quella di vedere la Mongolia con gli occhi di sua figlia Caterina: “Ha fatto suo un nostro percorso e ne ha voluto scrivere: il suo non è lo sguardo avido occidentale”. La ripubblicazione rimasterizzata di Ko de mondo dei C.s.i. è lo spunto per decifrare se ci sono riunioni in cantiere: “Ho una tensione verso l’unità e la convergenza. Non so cosa succede agli altri e non voglio saperlo fino a che accadrà di ritrovarci. Il problema non è sentirsi, bere una birra insieme: abbiamo avuto un genere di profondità tale che non ci consente di banalizzarci. Io poi sono nomade, viaggio in gruppo e non per affermare una singolarità. Adesso condivido con la mia famiglia”. Il dio Apollo praticava i suoi viaggi misteriosi nella terra degli iperborei, trovando il suo altrove. Tra l’Emilia e la Mongolia l’ex C.s.i. ha trovato finalmente il suo: “Cosa mi fa tornare quaggiù, ora che tutto è spento? Solo una persona – due, forse – poteva trovare le parole per farlo. Sono entrambe con me, oggi”.

“Le mie follie per Iglesias e la storia con David Bowie. Poi ho scoperto i Bernabei”

“Chi sono io? Una persona normale che ha trovato nella vita delle opportunità pazzesche, e siccome sono curiosa, le ho prese tutte”. Prese e vissute. Prese, a volte subìte, sintetizzate per capire, cambiare se necessario, e crescere. Sydne Rome è un romanzo dietro i suoi occhi azzurri, di un azzurro profondo, grandi, non solo sinceri, consapevoli. Di chi, appunto, ha visto e sa oltre ogni attesa: la fuga in Libano per Julio Iglesias, l’esordio cinematografico con Polanski. L’anno con David Bowie. Sai Baba che la riceve. Fino a quando a 35 anni cambia vita (“temevo di diventare una vecchia attrice sola”), e fissa la sua quadratura all’interno di una famiglia conosciuta e borghese: suo marito Roberto è figlio di Ettore Bernabei, storico direttore generale della Rai. “Esattamente l’opposto di me, e della mia precedente quotidianità; sono diventata abbastanza geiscesca. Non è stato semplice, a partire dal lato religioso”.

Loro cattolici dell’Opus Dei, lei ebrea.

Non solo: anche divorziata e attrice, per questo inizialmente Ettore non era d’accordo, poi i fatti hanno portato a una narrazione differente dai pregiudizi iniziali. Secondo loro avrei ceduto subito. E invece sono qui. Da 33 anni.

Il trionfo dell’amore.

È stato necessario metterci molta testa, perché capivo benissimo le differenze, ma non ero in grado di cogliere il non detto, le sfumature.

Quanto ha impiegato?

Vent’anni per ottenere un rapporto con Ettore, e la maggior parte del tempo sono rimasta in silenzio, eppure la famiglia si riuniva spesso: domeniche, ricorrenze, compleanni di un nucleo ampio.

Vent’anni zitta è una tortura.

Una situazione esotica.

In teoria l’esotica era lei.

Restavo perennemente affascinata dal loro concetto di famiglia borghese, da certe liturgie, dalla struttura, ed è stato fondamentale il divertimento: avevo un obiettivo da raggiungere.

Quale?

Oltre a integrarmi? Riuscire a ottenere il loro amore. E per arrivarci ho lavorato per capire le dinamiche; all’inizio non sapevo come parlare con Ettore: con lui dovevi affrontare solo argomenti di suo interesse, argomenti importanti, perché a tavola non era concesso scherzare.

Soluzione?

Prima di quegli incontri studiavo tutta la settimana: leggevo giornali e riviste per capire quali erano i fatti più salienti e li approfondivo; non improvvisavo nulla, e ogni volta mi scrivevo una specie di sceneggiatura.

È una metafora?

No, realtà. Prendevo appunti e ogni volta imparavo a memoria la mia “parte”.

Non semplice.

Durissimo.

Suo marito cosa le diceva?

Non lo sapeva, credeva fosse una dote.

Alla fine ci è riuscita.

Negli ultimi anni di vita di Ettore passavo il luglio con lui, e il nostro rapporto è diventato bello, e come al solito lui parlava, io ascoltavo; tutte storie poi finite nel suo libro.

Il libro potrebbe scriverlo lei.

Magari con il titolo “Una moglie americana”.

Partita dall’Ohio, centro della politica mondiale.

La regione dei bravi americani, laboriosi e studiosi, dove le università sono tante e ottime; dove gli abitanti trovano la propria realizzazione e non sono depressi come a New York o in California.

Lei vota?

Solo in Italia.

Continua a informarsi?

Certo, oramai ho l’imprinting di Ettore.

È diventata cattolica?

Sì, e un giorno un amico mi ha chiesto: “Ma dentro sei ancora in po’ ebrea?”.

Risposta?

“Sì, ho solo aggiunto il cattolicesimo, lo dice anche il Vecchio Testamento”. E con loro sono riuscita a coinvolgerli nella cultura ebraica.

Tutto ciò ha inciso sulla sua carriera di attrice?

L’ha ridotta: allora lavoravo più all’estero, e ho scelto di restare qui perché desideravo una famiglia.

In che anno è arrivata in Italia?

Nel 1973, e quando ho compiuto 35 anni è scattato il classico campanello d’allarme: temevo di diventare una di quelle vecchie attrici che girano il mondo senza nessuno accanto.

Come mai Roma?

Per un provino: ero iscritta all’università, il pomeriggio frequentavo un corso di recitazione, e d’estate organizzavano un tour teatrale con tappe in tutti gli Stati Uniti; a Pasadena un agente mi ha visto e proposto il viaggio a Roma per ottenere una parte.

E…

Bocciata, però gli stessi della troupe mi hanno spedita a Londra con la bobina del provino sotto al braccio e mi hanno ingaggiata. Da lì è iniziata la mia carriera, incentrata all’estero, mentre in Italia mi sono dedicata alla televisione, che dà più popolarità.

Come “Don Matteo”…

Incredibile, sono vent’anni che va in onda eppure regge benissimo, e Terence (Hill) è sempre bello, con questi suoi perenni silenzi che lo rendono misterioso, anche se in realtà non lo è.

In quale lingua vi parlate?

Soprattutto in inglese e pure con lui cerco di affrontare argomenti di suo interesse, perché non è un chiacchierone.

Gli italiani secondo lei.

Complicati, in mezzo c’è sempre la filosofia di Machiavelli, tante curve della mente e pochi rettilinei; poi a Machiavelli si associa la Chiesa, il Rinascimento e il culto delle tradizioni che respinge le novità.

Però?

Ci sto benissimo.

Ha recitato con Mastroianni, uno degli italiani più celebri al mondo.

Adorabile, buono come pochi e mentre tutti lo consideravano bello, lui preferiva non badarci, non era importante, amava solo recitare, scavare nel personaggio e in maniera seria.

Lei quanto ama recitare?

Tantissimo, mi piace, mi diverte, è come una vacanza da se stessi, una pausa dalla quotidianità, però non è fondamentale.

Ha ottenuto tre copertine di “Playboy”. Il suo lato sexy l’ha divertita?

Molto, però lì per lì non ne ero pienamente consapevole, per me era normale, mentre se oggi ripenso a tutti i corteggiamenti di allora, mi stupisco, e comprendo l’anomalia.

Così tanto corteggiata?

Abbastanza. E di molti non mi interessava. Con altri, come con David Bowie o Julio Iglesias, il percorso è stato differente.

David Bowie.

Diciamo amici per un anno, e non avevo neanche capito bene la sua portata artistica, non lo vivevo per la popolarità, non avevo intuito neanche quanto guadagnava; a differenza dell’apparenza pubblica, era una persona serissima.

Come poteva non aver capito la portata di David Bowie?

Davvero, vivevo così, senza pormi certe domande, e la mia esistenza era dentro lo show business.

Tradotto?

In quei contesti non c’è struttura, si è artisti, dove molto è concesso e i limiti quotidiani arrivano solo dall’educazione ricevuta in famiglia. Adesso i parametri sono differenti.

Cioè?

Oggi è pieno di riviste, immagini sui social, red carpet ovunque, a quel tempo no, allora si era più liberi, c’era più sostanza; (torna a prima) David (Bowie) scriveva canzoni con una facilità mai vista, anche mentre recitava in Gigolò, e poi era una persona divertente, con un’ironia fanciullesca.

All’inizio della carriera ha girato con Polanski. Cosa ne pensa della condanna per violenza sessuale su una tredicenne?

Premesso: nella Hollywood di quel tempo girava molta droga ed era pieno di ragazze disposte a tutto pur di entrare nel mondo del cinema; secondo me è andata da lui per questo motivo ed era una tredicenne fisicamente più adulta.

E Woody Allen?

È differente, lui crede di essere un extraterrestre, e capita a numerosi personaggi dello spettacolo.

Cosa?

Di sentirsi al di sopra degli umani, benedetti da chissà che, al di sopra delle regole. Polansky non è così; quando ho conosciuto mio marito ho capito la particolarità della mia vita precedente: io e lui non avevamo nulla in comune in quanto a esperienze; la sua era normale.

Lo spettacolo, al contrario…

Per starci dentro devi essere disciplinata, sana, quadrata altrimenti non capisci più chi sei, perdi il contatto con la realtà. In questo mi ha aiutata anche conoscere Julio Iglesias.

Il divo Julio.

Al contrario di Bowie era molto preso dalla sua carriera, e dal suo personaggio, però un tipo interessante, anche autoironico, e per lui mi sono infilata in situazioni assurde.

Esempio.

Per stupirlo, a sua insaputa, l’ho raggiunto a Beirut e nonostante la guerra: per quel viaggio sono partita senza visto, sono passata dalla Grecia, poi la Siria, e ho attraversato il confine con il Libano nascondendomi in un camion di giornali.

Tutto questo per Iglesias?

Non solo, quando sono arrivata a Beirut ho sbagliato la zona: avevo chiesto all’autista di portarmi nel più bell’hotel della città, certa che alloggiasse lì. Sbagliato. Quell’hotel era nella parte musulmana, quando lui soggiornava nella cattolica.

Alla fine…

Ci sono riuscita. Ma bel rischio.

In quel periodo ha girato “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” con un regista sovietico.

No, quello anni dopo, e le riprese si sono svolte tra San Pietroburgo e Mosca; allora il presidente sovietico era ancora Breznev e il Paese chiusissimo: appena finita l’esperienza ho scritto un articolo per il Wall Street Journal, e a causa delle mie parole non mi hanno più invitata alla prima del film.

Quale la colpa?

Ho raccontato il set, di come tutto fosse celato, non si sapeva nulla, ti svelavano solo giorno per giorno cosa sarebbe accaduto, e non mi riferisco a scene semplici, un giorno mi sono trovata davanti a centinaia di comparse. Per loro gli attori erano inaffidabili, gli ultimi.

La seguivano i servizi segreti?

Non lo so, ma accadevano situazioni strane: ero diventata amica di un ragazzo, e un pomeriggio sono andata a trovarlo in casa sua: da quel giorno non l’ho più visto. Allora non capivo, non ero politicamente corretta.

Cosa intende per “politicamente corretta”?

Oggi sono più consapevole, capisco la politica e le dinamiche, per questo sono appena tornata da una missione in Vietnam: siamo partiti per sminare i terreni, e restituirli ai contadini colpiti dalla guerra, e questo grazie a un’associazione statunitense con la quale collaboro da 18 anni. Ah, ci ho portato pure mio marito.

Già da ragazza era contro il conflitto in Vietnam.

L’ho sempre considerata una guerra ridicola. Vergognosa.

Lei è di sinistra.

Certo che lo sono. E da sempre.

Scaramantica?

Non più, ma anni fa sono andata al Machu Picchu.

Obiettivo?

Chiedere di lavorare. Ah, ho raggiunto anche Sai Baba, e quando mi ha ricevuta, insieme ad altre donne straniere, all’improvviso mi ha chiamata “Cilly”. E io: “Sono Sydne”. “No, sei Cilly”. Poco tempo dopo ricevo il copione di Gigolò e il mio personaggio si chiamava Cilly. Capisce?

Cosa?

Ho attraversato situazioni bellissime e varie. Ora sono qui, dove desideravo. Lo vuole un caffé?

No grazie.

Insisto.

(Confermo il “no”. È inutile: da perfetta donna borghese si presenta con un bel vassoio, tazze di porcellana, vari tipi di zucchero, e il piacere di aver ottemperato a un rito antico).

Le “nonnine di Delhi” in rivolta: “Basta discriminare le minoranze”

Due chilometri e mezzo di strada grigia e anonima separano la capitale indiana di Delhi dal sobborgo di Noida. Qui, a Shaheen Bagh, centinaia di donne hanno dato vita a una protesta che da un mese a questa parte sta scuotendo la nazione. Oltre le barricate gialle e nere della polizia, superato un raggruppamento di viuzze strette e tortuose, decine di donne vestite in hijab e burqa siedono a gambe incrociate scandendo slogan e reggendo cartelli.

Chiedono la cancellazione dell’emendamento alla legge di cittadinanza (Caa) approvato il mese scorso dall’attuale governo Bjp (il partito nazionalista induista Bharatiya Janata Party), che prevede un accesso accelerato alla cittadinanza indiana agli immigrati non musulmani che fuggano da persecuzioni e provengano da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Da settimane musulmane, ma anche induiste, buddiste, cristiane di diversa età ed estrazione, nel pieno di uno degli inverni più gelidi di Delhi (con punte di 2 gradi), lanciano invettive contro il governo del primo ministro Narendra Modi, colpevole di quella che considerano una discriminazione su base religiosa.

“Mio marito si occupa di mio figlio e della casa, mentre sono qui” spiega Ritu Kashiv, 40 anni e un lavoro nel sociale. “Tutti stiamo facendo dei sacrifici. Nei fine settimana siamo migliaia di persone: donne arrivate da altri stati, membri della comunità sikh che si occupano dei pranzi, religiosi induisti venuti mostrare il loro sostegno. Stiamo lottando per i nostri figli, i nostri padri, i nostri mariti. Quel che chiediamo al governo è un passo indietro sul Caa”.

Per i manifestanti, non solo si tratta di una legge basata su una discriminazione religiosa. Si dicono anche preoccupati per l’applicazione del National Register of Citizenship (Nrc) il registro nazionale della cittadinanza già implementato nello stato nord- orientale di Assam, che secondo i suoi critici renderebbe centinaia di milioni di indiani immigranti clandestini nel proprio Paese. “In India, le donne musulmane sono considerate parte di una società conservatrice e retrograda. Ora dimostrano di essere in prima linea nella lotta per i diritti civili di tutta l’India” s’infiamma Khushboo Khan, 25 anni. “Quando mia madre, che ha 62 anni e non è mai stata a una manifestazione, mi ha chiesto se poteva venire con me, sono rimasta di sasso. I miei genitori, che mi chiedevano di essere a casa alle 19, adesso mi permettono di manifestare fino alle 2 o 3 del mattino. Sono orgogliosi di me”.

Le proteste, che ora infiammano tutto il Paese, sono iniziate con l’adozione della legge, lo scorso 11 dicembre, ma sono esplose pochi giorni dopo, in seguito ad alcuni scontri violenti tra polizia e studenti. “Tutto è nato con le brutali azioni della polizia nell’università Jamia Millia Islamia, che si trova a poche miglia da qui. Quella notte, le mamme e nonne del quartiere sono scese in piazza. Si sono sedute a terra dicendo: ‘finché il governo non cambierà la legge, non ci alzeremo’. E così hanno fatto” spiega Zainab, 27 anni. Tra di loro, le “Shaheen Bagh ki Dadiyan”, le ultraottantenni nonne di Shaheen Bagh: “Nonna Asma ha 90 anni e rilascia interviste infuocate. Ha sfidato anche il primo ministro dicendo: io posso provare che il mio albero genealogico è indiano fino a nove generazioni. Narendra Modi può fare lo stesso?”. Modi, dal canto suo, ripete che la Caa non riguarda i cittadini già indiani, ma Zainab non ci crede: “La nostra nazione ha vissuto una partizione e siamo uno Stato in via di sviluppo: come si può pretendere che qualcuno produca i documenti per provare la propria origine?”.

La protesta ha trasformato il quartiere: una biblioteca di strada, studenti volontari che danno ripetizioni ai bambini, una galleria d’arte per le opere nate dal dissenso. C’è persino una postazione di primo soccorso.

“Sono venuta qui con altri sei colleghi, tutti giovani professionisti non musulmani” spiega la dottoressa Savithri, 22 anni, dallo stato di Karnataka, nel sud della nazione. “La mia preoccupazione è per le donne più anziane, l’esposizione prolungata al freddo può causare problemi respiratori. Da induista, penso che sia mio dovere manifestare contro la Caa: è un attacco alla nostra Costituzione, ai principi che guidano l’India secolare fin dalla sua partizione”.

Shaheen è un simbolo, spiega Tashi, studentessa di 21 anni dell’Università di Delhi. “Sono buddhista, non sono mai stata una persona politicizzata. A dirla tutta, non mi sono mai interessata di politica. Ho iniziato a informarmi questa estate, dopo che il governo ha sospeso l’autonomia del Kashmir. Credo che non si tratti di un problema dei musulmani, ma delle donne sole, degli adivasi (popolazioni tribali), dei trasngender, di tutte quelle comunità e minoranze che avrebbero enormi difficoltà a provare la propria identità”. Tashi Studia a Delhi ma viene dallo stato dell’Himachal Pradesh. “La mia famiglia non sa che faccio parte alle manifestazioni. Sono molto rigidi, me lo proibirebbero, avrebbero paura che io rischi di essere picchiata, arrestata”. Racconta che, qualche giorno fa si trovata seduta di fronte a due donne di mezza età: “Si dicevano tra loro ‘sono rimasta in casa per tutta la vita, e ora sono qui, tutto il giorno, per il mio Paese’. Questa non è una protesta di donne di Shaheen, è la rivoluzione delle donne indiane”.

Trump e i soldati con il ‘mal di testa’ da missili

Altro che stress e mal di testa. Il Pentagono fa salire a 34 il numero di militari ricoverati per traumi cerebrali, dopo la ritorsione iraniana con missili su basi irachene in risposta all’uccisione del generale Qassim Soleimani. Donald Trump aveva inizialmente detto che l’azione iraniana, fatta tra il 7 e l’8 gennaio, non aveva causato né morti né feriti fra i soldati Usa; il Pentagono aveva poi ammesso 11 feriti; e ora parla di 34. La notizia mette a nudo l’ennesima bugia del magnate presidente, ma non turba l’opinione pubblica, anestetizzata dalla noia seguendo in tv il processo per l’impeachment: gli 11 milioni di telespettatori dell’apertura del dibattimento vanno rapidamente calando, perché, nell’aula del Senato, non accade nulla di imprevisto: martedì 21, le questioni procedurali; quindi, tre giorni per l’accusa; e, da oggi, tre giorni per la difesa. Che vuole sbrigarsi: l’obiettivo di Trump resta quello di arrivare al discorso sullo stato dell’Unione, martedì 4 febbraio, assolto.

Anche per sottrarsi alla noia, la maggioranza degli americani è favorevole a nuovi testi nel processo per l’impeachment: il 72% degli intervistati da Ipsos e Reuters pensa che chi sa cose interessanti deve poterle riferire ai senatori giurati. Ma i repubblicani fanno per ora muro ai nuovi testi.

I difensori di Trump che hanno già parlato, Pat Cipollone, legale della Casa Bianca, e Jay Sekulow, avvocato personale del presidente, hanno ribadito i soliti concetti: Trump non ha fatto nulla di male e il procedimento è solo un tentativo di cacciarlo dalla Casa Bianca. Lunedì, Alan Dershowitz, star del collegio di difesa, sosterrà che le accuse contestate non valgono l’impeachment. In tv e nei comizi, il presidente non cambia registro: “Quel che devono fare in aula i miei difensori è solo essere onesti e dire la verità”; “È una caccia alle streghe: vogliono solo vincere le elezioni”. Il magnate ha preferito partecipare venerdì a una marcia pro-life a Washington, invece di seguire il processo; e domani firmerà il nuovo accordo commerciale con Messico e Canada. Chiudendo venerdì i loro interventi, gli accusatori democratici, i deputati Adam Schiff, presidente della Commissione Intelligence, e Jerry Nadler, presidente della Commissione Giustizia, hanno definito Trump “un dittatore”, la cui mancata rimozione comporterebbe “rischi per la democrazia”. Ieri, l’audio rubato in cui si sente Trump chiedere la rimozione dell’ex ambasciatrice Usa a Kiev, Marie Yovanovitch, è stato consegnato alla commissione intelligence della Camera. A fornirlo sono stati i legali di Lev Parnas, un ex partner di Rudolph Giuliani che avrebbe effettuato la registrazione durante una cena privata nell’aprile 2018. Parnas lavorava alle pressioni sul governo di Kiev per indagare i Biden. “Io non avrei potuto fare niente senza il consenso di Giuliani o del presidente”, ha aggiunto.

Niente allarmismi siamo francesi: 2 su 3 infettati stanno bene

Se i casi accertati di coronavirus in Francia sono tre, due a Parigi e uno a Bordeaux, non è escluso ne emergano altri nelle prossime ore. Alcune decine di persone sono in fase di diagnosi, ha fatto sapere Pierre Carli, capo del Samu, il Servizio sanitario di urgenza. A Bordeaux una quindicina di persone che erano entrate in contatto con il paziente infetto si sono rivolte al pronto soccorso. Una squadra medica entra in funzione oggi all’aeroporto parigino Charles de Gaulle per i voli dalla Cina. A Parigi notizie non allarmanti: i tre pazienti stanno bene e le probabilità di un’epidemia sono minime. Si ripetono le semplici istruzioni fornite dalla ministra della Salute, Agnès Buzyn. Per il professore Yazdan Yazdanpanah, primario all’ospedale Bichat di Parigi, dove sono ricoverati i due pazienti, il tasso di decessi di questo virus “sembra meno importante” di quello della Sars (5% contro 10%). I due malati di Parigi, una coppia di origini cinesi, sono arrivati il 18 da Wuhan, di cui sono originari. I primi sintomi si sono manifestati per l’uno il 19, per l’altro il 23. Ieri uno dei due non aveva più febbre. Il paziente di Bordeaux è un francese di origini cinesi, 48 anni, professionista del settore del vino che si era recato alcuni giorni in Cina ed era passato per Wuhan. Rientrato mercoledì 22, è in isolamento da giovedì all’ospedale Pellegrin. Ma l’attenzione si sposta in Cina, dove sono bloccati centinaia di francesi. Philippe Klein, medico alla clinica internazionale di Wuhan, ha assicurato a Bfm Tv che non sono stati identificati casi di coronavirus nella comunità francese locale. Intanto Parigi sta organizzando un’ampia operazione di evacuazione con i pullman per i connazionali nella città in quarantena.

I disperati della città fantasma: “Wuhan, respinti da ospedali”

Cronache da Wuhan, la città maledetta. Sembra il titolo di una saga fantasy, ma non lo è. “Mio marito ha avuto la febbre per la prima volta dieci giorni fa, iniziando a tossire sangue; ma quattro ospedali lo hanno respinto, dicendo che erano rimasti senza spazio e non avevano modo di eseguire ulteriori test”. C’è poi la questione delle spese. Il governo si è offerto di pagare per i pazienti a cui è stata confermata l’infezione, ma coloro che non hanno ancora ricevuto un riscontro devono mettere le mani al portafogli. “Per le medicine ci vogliono circa 1.000 yuan ( 144 dollari, ndr) al giorno. Molti che non potevano permettersi il conto sono tornati a casa”.

Queste testimonianze di disperazione pubblicate dal South China Morning Post raccontano un’altra storia rispetto a quella imposta da Pechino, che ha come comune denominatore l’efficienza. A Wuhan sarà costruito un secondo ospedale: i tempi imposti sono di dieci giorni. Il presidente Xi Jinping ha ammesso che la situazione è “grave”, ma “di fronte alla accelerazione della diffusione del coronavirus, è necessario rafforzare la leadership centralizzata e unificata del Comitato centrale del Partito”. Così il problema passa nelle mani di una squadra scelta dal Comitato permanente del Politburo. I burocrati stanno raccontando tutto? Gli analisti hanno una chiave di lettura più drammatica: il Sun, due giorni fa, riporta che il dottor Jonathan Read, ricercatore di Lancaster, ha scritto ai suoi colleghi inglesi e americani che al 4 febbraio, secondo i calcoli rispetto a come si è diffusa la malattia, il numero di persone infette a Wuhan sarà superiore a 250.000, e potrebbe arrivare a 351.396.

Fra le città con maggiori focolai Pechino e Shangai.

“Prevediamo inoltre che entro il 4 febbraio 2020, i paesi o le regioni amministrative speciali a maggior rischio di infezioni attraverso i viaggi aerei saranno Thailandia, Giappone, Taiwan, Corea del Sud e Hong Kong”. Intanto, i diplomatici americani lasciano Wuhan con voli charter e Hong Kong si adegua alla direttiva del Comitato centrale. Di proteste contro l’ingerenza di Pechino non si parla più: erano iniziate a giugno e promettevano di continuare fino a quando i movimenti pro democrazia non avessero ottenuto almeno una inchiesta indipendente sulle violenze della polizia, la rimozione della governatrice Lam, elezioni realmente democratiche. Ma ora anche l’ex colonia britannica ha dichiarato lo stato di emergenza, come ha confermato ieri proprio Lam; sarà lei a presiedere un comitato interdipartimentale per contrastare la diffusione della malattia. Proprio come a Pechino. A Hong Kong, delle cinque persone affette, quattro provenivano dalla Cina sul treno ad alta velocità entrato di recente in funzione. Scuole e università, chiuse per il Capodanno lunare, riapriranno, almeno in teoria, il 17 febbraio. Il gala di Capodanno e la maratona del prossimo mese, sono stati annullati. Nel 2003, a Hong Kong, quasi 300 persone sono morte a causa della Sars.

Nel contesto della paura che provoca il virus insidioso, i numeri servono a rafforzare la sensazione di precarietà; Pechino – che ha vietato anche i viaggi di gruppo organizzati dentro i confini dai tour operator – ha allargato il cordone sanitario su più città, limitando i movimenti di 56 milioni di persone; almeno 41 i decessi fino a ieri mattina. In tutto il mondo, ci sono 1.355 infezioni con casi riportati anche in Giappone , Thailandia, Corea del Sud, Stati Uniti, Australia, Francia, Malesia, Singapore, Nepal e Vietnam. Lunedì si terrà una riunione del Comitato per la sicurezza sanitaria dell’Unione europea.

Pechino nel frattempo fa appello al coraggio e all’impegno, non riceve più critiche ma tutti tifano per lei, come se fosse una dottoressa brava e capace nell’ultima puntata di ER, Emergency Room.

Madrid sull’orlo di una crisi diplomatica: colpa di Caracas

Il neo-governo spagnolo è già sull’orlo di una crisi diplomatica. A innescarla, la richiesta, non accolta, dell’auto proclamato presidente ad interim venezuelano Juan Guaidó, in tour per l’Europa, di incontrare Pedro Sánchez. Dopo Bruxelles, dove ad accoglierlo mercoledì aveva trovato proprio lo spagnolo Alto rappresentante per la politica estera europea, Josep Borrell infatti, il presidente dell’Assemblea di Caracas avrebbe voluto parlare con il premier. Ma niente, questi l’ha rimbalzato alla ministra degli Esteri, Arancha Gonzalez Laya, secondo l’iter stabilito dai membri dell’Ue, giurano fonti diplomatiche al El Pais. Protocollo rotto poi da Boris Johnson e Macron che, in appoggio agli Stati Uniti e per avallare Guaidó, l’hanno ricevuto di persona. Ma la polemica spagnola non e finita qui. Lunedì scorso all’aeroporto Adolfo Suarez di Madrid, il ministro dei trasporti, nonché presidente del partito socialista che guida la coalizione di governo, José Luis Abalos, ha incontrato la numero due di Nicolas Maduro, Delcy Rodriguez.

“L’ho fatto proprio per impedirle di entrare in territorio spagnolo”, ha risposto Abalos, che secondo fonti di polizia citate da El Pais sarebbe salito sull’aereo proprio per convicere la vicepresidente a non scendere dal velivolo violando così l’ordine internazionale di non toccare suolo europeo. Ma l’opposizione indignata continua a chiedere le dimissioni del ministro. “Non mi dimetterò. Non sono certo qui di passaggio, sono qui per restare”, ha fatto sapere lui. “Ha agito per scongiurare una crisi diplomatica e ci è riuscito”, l’ha difeso il presidente Sánchez, in visita alle zone colpite dall’alluvione Gloria. La verità è che la Spagna non è certo nuova a crisi diplomatiche quando c’è di mezzo il Venezuela, argomento che divide non solo governo e opposizione, ma è anche tema di scontro tra gli ex presidenti: Luis Zapatero d’accordo con Sánchez e Felipe Gonzalez che vede invece Guaidó come l’unico leader riconosciuto. Anche il partito socialista al suo interno avrebbe discusso molto di Caracas, nonostante abbia chiara la linea che – come ribadito dalla ministra Laya – è quella di appoggiare l’opposizione di Guaidó, offrendo rifugio in ambasciata a Caracas al leader dell’opposizione Leopoldo Lopez, oltreché nazionalità e accoglienza alla sua famiglia in Spagna. Ciò non toglie, come ha ribadito Laya, che “la Spagna promuove elezioni libere”. La verità è che i venezuelani in Spagna hanno i numeri per pesare: nessun’altra comunità di immigrati è sbarcata nel paese iberico a un ritmo altrettanto vertiginoso. Si parla di 20 mila arrivi l’anno dal 2008, la maggior parte residenti nella Comunità di Madrid: 12 mila solo nel primo semestre del 2019, secondo l’Istituto di statistica. In tutto i venezuelani a Madrid sono circa 100 mila su 6 milioni di abitanti, anche se la cifra esatta l’Ine la pubblicherà ad aprile prossimo. Tra loro non ci sono soltanto contadini o operai edili, ma anche ingegneri, soprattutto tra le nuove generazioni, i cui genitori svendono le proprietà che posseggono in Venezuela per raggiungerli in Spagna. I più ricchi con il denaro ricavato dalle vendite comprano proprietà immobiliari grazie alla “golden visa”, il programma per investitori stranieri. Dall’aggravarsi della crisi a febbraio 2019, la gran parte degli immigrati va a riempire le mense sociali e i centri di accoglienza spagnoli, già quasi al collasso, così come i giacigli improvvisati sotto ai ponti o per le strade della capitale in cui dormono intere famiglie in attesa di un permesso per restare nel Paese. Questo vale soprattutto per i venezuelani richiedenti asilo. Nel 2019 la Spagna lo ha concesso a 40 mila migranti da Caracas.

Valido un anno, prorogabile per 12 mesi, il governo, per legge, lo concede a tutti i venezuelani che non hanno i requisiti di rifugiati. In attesa da dicembre ci sono altre 120 mila richieste d’asilo. Vale a dire il 60% delle domande totali che Madrid riceve, per far fronte alle quali il ministero degli Interni ha aperto una selezione per 219 posti vacanti, per rafforzare gli uffici preposti alle pratiche e aggiornare il programma informatico fermo agli anni 90. Allora gli immigrati in Spagna erano l’1% della popolazione, contro il 9,8 del 2017, quando è iniziato il boom di arrivi da Caracas.

Mail Box

 

Scegliere l’uomo forte è un ergastolo culturale

Un ex alunno liceale raccontò che al primo giorno del primo anno un suo professore domandò loro: “A che serve studiare?”. Dopo alcune ondivaghe e generiche risposte disse: a evadere dal carcere! Aggiunse, agli sconcertati allievi: “L’ergastolo dell’ignoranza vi vuole deboli, e le menti deboli, alla fine, hanno bisogno dell’uomo forte”. Ecco, l’ignoranza può anche essere “beata”, comoda, non dover pensare, non dover assimilare le tante e a volte complicate o noiose informazioni che “obbligano” ad assumere posizioni socialmente utili. Molto meglio galleggiare intorpiditi nella confortevole ovatta qualunquista, osannando nel caso l’uomo forte di turno, che promette, sornione, di toglierci di torno quel che disturba il nostro conciliante sonno.

Purtroppo, affidare il proprio destino a chi brama il potere fine a stesso, non è mai salutare. Ma piuttosto, appunto, un ergastolo culturale.

Anna Lanciotti

 

Tra via Borrelli e via Craxi il sindaco Sala non si schiererà

Capisco che sia opportuno sottacere critiche mentre è in corso con successo la petizione pro Borrelli. Ma il fatto rimane: perché (come da occhiello del Fatto di venerdì) Sala dovrebbe “schierarsi” quando gli si offre la convenienza di cogliere due piccioni con una fava? Compiacere equamente tutte le opposizioni in Consiglio comunale: sia la mozione dei 5Stelle che la ovvia simmetrica richiesta di Forza Italia e simili, infarciti di ex-garofani.

Forse sbaglio, ma non vorrei trovarmi domani all’incrocio tra Via Borrelli e Via Craxi !

Valentino Ballabio

 

DIRITTO DI REPLICA

Con sommo stupore prendo atto che nella pagina 17 del Fatto del 21 gennaio a firma del giornalista Vincenzo Bisbiglia è stato pubblicato l’articolo “Scontro sulla discarica a Roma: c’è un altro re della ‘monnezza’”, in cui viene fatto, tra gli altri, anche il nome del sottoscritto, citando testualmente “Il patron della Mad e Luigi Palumbo (commissario straordinario dei tmb di Cerroni) sono stati visti a colloquio, subito dopo Natale, con il presidente Ama Stefano Zaghis in qualità di “fornitori” della società capitolina”.

Ebbene, contrariamente a quanto descritto, il sottoscritto, in compagnia di due suoi collaboratori, ha partecipato nel pomeriggio del 30 dicembre scorso a una riunione presso la sede della Mad srl in Roccasecca solo ed esclusivamente al fine della mera sottoscrizione delle proroghe dei contratti aventi a oggetto la disponibilità da parte della Mad srl a ricevere quantitativi di rifiuti, da allocare presso le discariche di Civitavecchia e Roccasecca entrambe di proprietà della Mad, provenienti dai rifiuti trattati dagli impianti tmb di Malagrotta da me gestiti nella qualità di Amministratore Giudiziario nominato dal Tribunale di Roma Ufficio delle Indagini Preliminari Gip dott. Costantino De Robbio.

Alla riunione era presente, con la stessa finalità, anche il dott. Stefano Zaghis, amministratore unico di Ama, in compagnia di un suo collaboratore. Nella stessa riunione, per la precisione durata meno di un’ora, il sottoscritto non ha minimamente fatto cenno o discusso con i presenti di qualsivoglia deliberazione rispetto a eventuali scelte di siti di discarica, scelta, tra l’altro, solo in capo alla sindaca di Roma Capitale, Virginia Raggi e agli enti competenti. Pertanto, si chiede, a salvaguardia dell’immagine pubblica del difficile incarico da me ricoperto, una secca smentita nonché una rettifica di quanto riportato nell’articolo a firma del giornalista Bisbiglia. In questa sede si ribadisce che le scelte in atto o future su eventuali siti di discarica non vedranno mai e poi mai il coinvolgimento dell’azienda che il sottoscritto si onora di amministrare in nome e per conto dello Stato.

Dott. Luigi Palumbo, Amministratore Giudiziario E.Giovi Srl

 

Egregio dott. Palumbo, la ringrazio per la precisazione, ma la invito a rileggere con attenzione l’articolo in oggetto. Oltre a non essere in alcun modo diffamatorio, si fa cenno a un incontro tecnico confermato da tutti i presenti – lei compreso, come si evince dalla sua lettera – mentre non si afferma in alcun modo che lei abbia “fatto cenno o discusso” il tema della discarica di Monte Carnevale: si circoscrive un episodio, con tanto di condizionali sebbene confermato da fonti, mentre non si fa alcun riferimento a E.Giovi o al gruppo Colari come società coinvolte direttamente nell’operazione.

Vin. Bis.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’intervista a Clemente Mastella pubblicata ieri a pagina 7 si riferisce di un consigliere comunale di Benevento arrestato nell’ambito di un’indagine antimafia. Invece il consigliere è stato solo intercettato nelle sue frequentazioni col boss arrestato. Mi scuso molto per la grave imprecisione.

a. cap.

 

Per una svista, il libro Se vuoi dirmi qualcosa, taci di Ovadia e Vergassola, di cui ieri abbiamo pubblicato un estratto, è stato attribuito alla casa editrice Chiare Lettere e non alla Nave di Teseo, che invece lo edita. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

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