Martelli torna a Maastricht e la storia senza allievi

Venerdì, sul settimanale Sette del Corriere della Sera, abbiamo potuto leggere un’interessante intervista al prossimo sposo Claudio Martelli, in cui l’ex numero 2 del Partito socialista ai tempi di Bettino Craxi, tra le altre cose, ci spiega – cosa su cui ci dichiariamo sin d’ora d’accordo – che “la sinistra italiana di governo ha abbracciato un riformismo puramente liberale e una costruzione dell’Europa che difetta in solidarietà sociale”. Anche i suoi rappresentati più competenti non hanno chiaro, dice Martelli, “un punto che Craxi aveva evidenziato già nel 1993: il trattato di Maastricht va rinegoziato”. E ha ragione: “Nella migliore delle ipotesi sarà un limbo, nella peggiore l’Europa sarà un inferno”, profetizzò infatti Craxi dalla Tunisia. Peccato che il dubbio non gli sia venuto a febbraio del 1992, quando un governo con dentro il Psi (e con Martelli vice del premier Andreotti) quel Trattato lo firmò. E peccato pure per l’ottobre del 92 quando il Trattato il Psi lo approvò in Parlamento su proposta dal governo del socialista Amato (e Martelli era ministro). Ora, sentire i compagni del decreto di San Valentino contro la “scala mobile” che ti raccontano come si fa la vera sinistra – e senza manco mettersi a ridere – può dare il capogiro, ma solo a chi non sappia qual è oggi il compito dei più intelligenti tra gli ex Psi: spiegare bene agli altri cosa avrebbero dovuto fare meglio loro. È il bello di quando si passa dalla cronaca alla storia, che è notoriamente maestra, ma non ha allievi, solo volenterosi e spesso frustrati insegnanti di sostegno.

Breviario di attesa elettorale: crisi, balle e ballerini (numeri)

 

“I nostri avversari hanno cantato vittoria troppo presto. L’Emilia-Romagna li stupirà. Ci stupirà. Chi disprezza la nostra storia perde”.

Stefano Bonaccini

 

“Lunedì citofoniamo a Conte”.

Giorgia Meloni

 

È stato detto (sembra da Indro Montanelli) che il giorno dopo i giornali servono solo per incartare il pesce. A maggior ragione queste brevi, irrilevanti note, come il protocollo fantasma di “Mission Impossible”, si autodistruggeranno cinque secondi dopo le 23 di questa sera. Il fatto è che non sapendo più cosa diavolo scrivere sulle elezioni in Emilia-Romagna e in Calabria ho pensato di condividere con familiari e persone amiche un breviario per renderci l’attesa meno lancinante.

1- Se, come mormorano i sondaggi clandestini, ci sarebbe un testa a testa tra i candidati Bonaccini e Borgonzoni, è possibile che con la forbice dei primi exit-poll ci si possa più utilmente sfilettare il pesce di cui sopra. C’è un’altra ipotesi infernale: che in Emilia-Romagna nel voto di lista vinca la destra e per la corsa alla presidenza prevalga la sinistra (bel casino). Mentre in Calabria non essendoci voto disgiunto dovrebbe essere subito tutto più chiaro. Ai deboli di cuore consiglierei di andarsene a nanna e di riaccendere la tv lunedì mattina. Personalmente rimpiango i tempi dell’uccellino della radio quando gli uffici del Viminale scrutinata l’ultima scheda comunicavano il risultato ufficiale. E se pure trascorrevano due o tre giorni dal voto, c’era tutto il tempo per metabolizzare vittorie e sconfitte, e la vita scorreva tranquilla.

2- Se queste sono le previsioni, non invidio colleghi e uomini di partito che dall’ora fatale saranno chiamati a commentare su tutte le reti numeri ballerini. Solidarizzo con essi se metteranno le mani avanti con la giusta cautela, ma non senza le significative sfumature. La frase rituale di chi sentirà profumo di successo sarà: se questi dati saranno confermati… (sorriso a stento represso). Quelli che avvertiranno aria di sfiga si rifugeranno nel classica difesa catenacciara del tipo: prima di ogni valutazione è meglio attendere dati più consolidati… (subito dopo lasceranno lo studio in lacrime).

3- Come in ogni campagna elettorale hanno mentito tutti. Pd e grillini nel sostenere che se la destra dovesse conquistare l’ex Emilia rossa non ci sarebbero conseguenze per il governo, Ci sarebbero eccome, e in questo caso prevedibile la ricomparsa nella notte e a reti unificate dei vari “io l’avevo detto” (due a caso: Paragone e Orfini. Se la destra non dovesse farcela assisteremmo all’inevitabile scarico in diretta della Borgonzoni (che tutti torneranno a chiamare per sempre Bergonzoni).

Ps. Io confesso. Giorni fa i luciferini conduttori di “Un giorno da pecora” mi hanno chiesto che cosa, in questa domenica fatale, ero disposto a barattare: la vittoria della Roma nel derby con la sconfitta di Bonaccini, o viceversa? Ho risposto che sceglievo, senza esitazione alcuna, la vittoria di Bonaccini (vergognandomi come un ladro).

Il dialogo per l’unità dei cristiani: un modo per superare i confini

Moltissimi cristiani in oltre 75 Paesi del mondo hanno appena preso parte all’annuale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio) che coinvolge la chiesa cattolica e le chiese protestanti, ortodosse e anglicane. Chi vi ha partecipato starà certamente facendo i suoi bilanci: luci e ombre, pausa o avanzamento dei rapporti e della riflessione. In Italia, anche se da anni cresce la visita reciproca di cristiani di confessioni diverse, la “Settimana di preghiera” continua a essere un’occasione veramente speciale, prima di tutto per la quantità e la qualità di questi incontri: la lettura delle Scritture, la condivisione della riflessione, l’ascolto reciproco, la preghiera, il tutto su una base di temi affidati, di anno in anno, a una commissione ecumenica di cristiani di un determinato luogo, Malta quest’anno; poi, perché si incontrano persone e comunità che non si incontrerebbero se non ci fosse questa occasione.

E sì, perché noi ci troviamo un po’ nella situazione di Pietro e Cornelio che il libro degli Atti degli apostoli ci descrive al cap. 10: l’apostolo Pietro non è convinto che i non ebrei possano diventare cristiani e quindi membri della comunità, Cornelio – l’ufficiale romano che simpatizza fortemente per la fede ebraica – non è convinto di potere e voler diventare parte integrante della comunità. Entrambi, però, sono spinti a incontrarsi da una visione e, benché perplessi, timorosi e, forse, riluttanti, fanno sì che questo incontro avvenga: Cornelio invita Pietro a casa sua, Pietro accetta l’invito.

Nessuno dei due sa come andrà a finire, ma accettano la sfida e il rischio dell’incontro. Alla fine, entrambi saranno conquistati dalla forza dello Spirito che li guida l’uno verso l’altro e li accoglie nella medesima fraternità, superando argini, pregiudizi, incomprensioni. E l’apostolo Pietro dovrà riconoscere, prima, che “Dio mi ha mostrato che nessun uomo deve essere ritenuto impuro o contaminato” (Atti 10,28) e, poi, che “Dio non ha riguardi personali; ma che in qualunque nazione chi lo teme e opera giustamente gli è gradito. Questa è la parola che ha diretto ai figli di Israele, portando il lieto messaggio di pace per mezzo di Gesù Cristo. Egli è il Signore di tutti” (Atti 10, 34-36).

Oggi le chiese e i cristiani si trovano un po’ nella situazione di Pietro e Cornelio perché in questa settimana sono spinti gli uni verso gli altri, ma sono riluttanti, e si domandano: ci spinge lo Spirito di Dio o ci spinge lo spirito del mondo che non capisce più il senso di chiese divise fra loro? Ci spinge lo Spirito di Dio o la stanchezza per le lotte del passato (e, ahimé, anche del presente)? Un po’ come Pietro e Cornelio, siamo vicini ma separati da argini, pregiudizi, incomprensioni, culture, mentalità e prospettive diverse. Ma quando Pietro e Cornelio si accolgono a vicenda, appianano tutte le loro differenze? Non credo proprio, però non sono più separati perché entrambi si sono convertiti allo Spirito di Dio.

E sappiamo quanto sia importante, non solo per i cristiani e in credenti in generale ma anche per i popoli del mondo, superare argini, pregiudizi, incomprensioni e riconoscere culture e mentalità diverse. Domani sarà il Giorno internazionale della Memoria (risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale dell’Onu del 1° novembre 2005), memoria della tragedia immane dell’odio nazifascista basato su un pregiudizio immaginario ma reso reale da un’ideologia di morte. Un monito perché non si ripetano tragedie che nascono dal mancato riconoscimento dell’altro-da-me in uno o una come-me: “Dio mi ha mostrato che nessun uomo deve essere ritenuto impuro o contaminato” (Atti 10,28).

*Già moderatore della Tavola valdese

Spagna in tempesta e il rischio globale di un “cigno verde”

In Italia – Lunedì 20 gennaio si è misurata una pressione atmosferica tra le più elevate in mezzo secolo al Nord, fino a 1046 ettopascal al livello del mare, a un soffio dal record del 17 febbraio 2008. Anticicloni così potenti facilitano il ristagno di inquinanti a bassa quota: per fortuna le piogge di sabato 18 e il vento avevano ridotto polveri sottili e ossidi di azoto, che tuttavia al ritorno della calma a metà settimana si sono riportati a livelli malsani. Sempre lunedì, con la bora è arrivato un freddo normale per gennaio, più avvertito in montagna al Settentrione, con zero termico in calo a 900 metri. Intanto, forti venti da Est scaricavano piogge intense in Sardegna orientale (fino a 182 mm d’acqua in 48 ore in Ogliastra), con allagamenti e un centinaio di pecore uccise dalla piena del Rio Posada nel Nuorese. La sensazione invernale è stata effimera, e già mercoledì c’erano 20 °C a Sassari, 5 °C sopra la media. Nubifragi ieri mattina tra Toscana e Lazio, 74 mm di pioggia in 6 ore sul Grossetano e strade inondate ad Anzio e Nettuno.

Nel mondo – Alta pressione ancora più eccezionale il 19 gennaio a Londra: dall’inizio delle misure barometriche nel 1692 non si era mai arrivati a 1049,6 ettopascal al livello del mare! Al contrario, al lato del mostruoso anticiclone due intense depressioni hanno causato molti danni. La prima scatenando un’epocale tempesta di neve su Terranova, Canada: 72 cm di neve fresca il 17 gennaio a Saint John, primato in 79 anni di dati, ma il vento a 150 km/h ha creato accumuli da quattro metri seppellendo case e automobili. La seconda (Gloria) centrata intorno alle Baleari, ha scaricato piogge alluvionali da 418 mm in quattro giorni nel Roussillon (Francia), ma la burrasca ha investito tutta la Spagna mediterranea con inondazioni, mareggiate, 13 vittime e 10 dispersi; la marea di tempesta ha sommerso il delta dell’Ebro fino a 3 chilometri nell’entroterra devastando le risaie. Eventi che diverranno sempre più frequenti con l’aumento del livello marino medio dovuto al riscaldamento globale. In Australia sud-orientale gli incendi si sono attenuati a suon di nubifragi e grandinate che il 19-21 gennaio hanno causato danni per 220 milioni di dollari Usa, ma diversi focolai restano attivi. Alluvioni in Madagascar, distruzione di strade, edifici e raccolti e almeno 13 morti. Mercoledì mattina a Miami il termometro segnava solo 4,4 °C, non accadeva dal dicembre 2010 e le iguane infreddolite cadevano dagli alberi. Fa notizia, ma per i climatologi è più rilevante che, dopo una prima metà d’inverno 3 °C più mite del solito, solo il 2% del grande lago americano Erie è ghiacciato, rispetto al 49% che sarebbe normale in questo periodo. La crisi climatica è stata protagonista al Forum di Davos, tra il negazionismo di Trump che ha definito gli scienziati “profeti di sventura”, le esortazioni di Greta ad abbandonare le fonti fossili e l’appello di Angela Merkel ad avviare una “trasformazione storica” del modello economico, che però dovrà accantonare una volta per tutte l’obiettivo illusorio della crescita infinita, impossibile in un pianeta dalle risorse limitate. Impresa titanica, ma non abbiamo alternative. Anche il mondo finanziario si è accorto della grave situazione, il Global Risk Report presentato a Davos include tra i guai mondiali più probabili gli episodi meteo estremi, il fallimento delle politiche climatiche, i disastri naturali, la perdita di biodiversità e le catastrofi ecologiche generate dall’uomo. Inoltre il rapporto “The green swan” della Banca dei regolamenti internazionali avvisa che i cambiamenti climatici potranno innescare la prossima crisi finanziaria: un “cigno verde” così gravoso da far impallidire il già raro e inatteso “cigno nero” della crisi del 2008.

L’unico valore è l’antifascismo

Ho scritto la legge sul Giorno della Memoria (1996) quando ho sentito diffondersi intorno (cultura, giornalismo, politica) un’aria di “pacificazione” da teatro dell’assurdo. Non solo perché è difficile fare la pace fra i vivi e i morti (in questa “pacificazione” c’è in mezzo la Shoah), ma perchè coloro che hanno deciso di restare in scena e di chiamarsi fascisti sono ancora qui e reclamano il loro diritto di mostrare bandiere e vantare opinioni, come gente normale di ritorno da una gita ai forni.

E coloro che professavano il loro razzismo con cautela, adesso sono espliciti e coraggiosi e ti dicono che se una nave salva e porta immigrati, deve essere affondata subito e tutti i salvati devono essere rimandati all’inferno (le prigioni libiche pagate dall’Italia) per sgombrare il bel mare italiano e smettere di invadere secondo i piani di Soros. Lo dicono e tornano alla Bouvette (caffè-bar della Camera) seguiti dai giornalisti incuriositi dal nuovo coraggio e da una spietatezza che viene interpretata come segno di leadership. E cosa dite del volto di qualcuno che è appena stato ministro degli Interni e sta chiedendo (con telecamere) al citofono di una famiglia tunisina: “È vero che siete spacciatori? Lo dicono tutti nel quartiere…” e ride al pubblico per lo scherzo, fingendo di non rendersi conto del pauroso dislivello di potere (tutto e niente) fra i due protagonisti della storia. Anche quel volto sta indicando uno spacco profondo fra due Italie, una indecente. E mostra che una pacificazione è impossibile anche perché malsana. L’uomo del citofono si è fatto erede dell’olio di ricino delle squadre d’azione Mussolini, e non importa perdere tempo a dibattere se sia o no fascista. Importa che abbia infettato il Paese Italia di paura e di xenofobia, importa che il Mediterraneo sia diventato il cimitero più grande di questa parte del mondo. La forza del razzismo, dopo la sua solida pratica anti-ebraica (che è in piena ripresa, vedi la scritta “qui ci sono ebrei” sulle porte di case piemontesi e antifasciste) si riproduce intatta come un virus nella sua evoluzione di guerra spietata all’immigrazione dei disperati. Episodi come quelli della nave militare italiana Diciotti e della nave militare italiana Gregoretti, bloccate in mare aperto benché cariche di donne e bambini e comandate da militari italiani su territorio italiano (le nostre navi) sono episodi di regime, come il gioco del processo a Salvini, nel quale l’imputato ha provato a coinvolgere “tutti gli italiani” del cui leale sostegno, nella lotta ai “negri” che “stanno invadendo il Paese”, il leader d’Italia e di Bibbiano non ha dubbi. La forza ottusa del razzismo e la sua capacità di rastrellare quanto c’è di più basso in un Paese è nel credere in una sola razza superiore, la razza italiana, naturalmente, come ci è già stato detto con lungimiranza nel 1938, prima di procedere all’espulsione e, quando possibile, all’arresto e alla consegna di italiani (anche grandi italiani) divenuti all’improvviso “stranieri” ai campi di sterminio. Notare l’uso delle stesse parole. Salvini, dopo molte giravolte, vuole essere processato perché, respingendo in mare due navi militari italiane, ha difeso la Patria e impedito l’ingresso di “stranieri” tra cui, lui sapeva, c’erano terroristi. Mussolini, persino da un balcone, persino a una folla entusiasta, aveva detto col dito alzato del maestro: “Impossibile considerare italiani gli ebrei. Essi sono stranieri e dunque un pericolo”, fingendo di non sapere che c’erano almeno settantacinque generali e ufficiali superiori ebrei nell’esercito italiano della tanto celebrata vittoria della Prima guerra mondiale, e alcuni tra i più importanti protagonisti della scienza, della cultura, del mondo accademico. L’ossessione dei mari e confini chiusi in un mondo fondato sui rapporti di scambi e commerci continui e di tutto, comunque è una irrinunciabile ossessione fascista, come dimostrano le immagini del fascista Orban e del leghista Salvini che ispezionano il filo spinato in un Paese finalmente isolato e finalmente irrilevante nel mondo come l’Ungheria. Per gli antifascisti che tengono alta la memoria della Shoah e sanno benissimo dove, quando, come comincia (ricomincia) il fascismo, tante lotte sono una sola, perché tutti i fascisti sono razzisti e tutti i razzisti sono fascisti, che lo dicano o no, e persino se non lo sanno. Con essi non si può avere conciliazione perché non si può essere più buoni di Dio. Dio perdona, ci dicono l’insegnamento cristiano ed ebraico, solo chi riconosce il male che ha fatto e si pente. Qui non si tratta di perdonare ma di convivere. Per questo ripenso come a un errore al primo discorso di Luciano Violante appena eletto presidente della Camera nel 1996. Chiedeva (non a loro, ex fascisti, ma a noi antifascisti eletti in Parlamento) comprensione e accoglienza “perché ognuno ha i suoi valori” e certo – diceva – è un valore il desiderio di servire l’Italia, da una parte o dall’altra. Diventa evidente, propongo al lettore, che il solo valore che lascia intatta la nostra dignità e la nostra umanità è l’antifascismo.

Vespa, spot pro Lega colpa di Beethoven

Bruno Vespa non sbaglia mai, ma si assume sempre la responsabilità dei rarissimi errori della redazione di Porta a porta, è infallibile, lo assicura egli stesso in una lettera pubblicata ieri dal Corriere della sera. “Mi spiace che il Corriere abbia ieri dato l’impressione che una marachella di Vespa, autore di uno ‘spot alla Lega’, abbia costretto la Rai a correre ai ripari. Le cose stanno diversamente. Mentre la redazione montava lo spot, io ero a Santa Cecilia ad ascoltare sonate giovanili di Beethoven per violino e pianoforte. Finito il concerto, e informato delle polemiche, ho visto lo spot, me ne sono assunta la responsabilità come è sempre accaduto per i rarissimi errori della mia redazione e ho proposto immediatamente al direttore di Rai1, Stefano Coletta, di riequilibrare il giorno successivo con uno spot all’interno di ‘Don Matteo’, conoscendo bene l’ascolto della fiction. E infatti lo spot di Zingaretti…”. Quanta professionalità per il presidente a vita della terza Camera dello Stato, che così conclude: “Mi spiace che questo incidente sia capitato a una trasmissione che ha da sempre una cura maniacale dell’equilibrio e che infatti non è mai stata sanzionata da Agcom per violazioni della par condicio”.

La doppietta dei due Matteo

Certo, prima di arrivare ai livelli del Matteo I ce ne vuole: lui, il Renzi, partì nottetempo, rinunciando all’inaugurazione della Fiera del Levante di Bari, per vedersi in diretta la finale degli Us Open in cui Flavia Pennetta e Roberta Vinci affondarono la numero uno del mondo, Serena Williams. E da lì fu un profluvio di tweet, selfie e citazioni, l’ultima questo Capodanno quando ha ripercorso sui social il suo decennio sportivo: “L’ho cominciato con la Maratona di Firenze nel 2010, l’ho chiuso oggi sciando sui 4 passi sul Sellaronda”.

Per Matteo II, il Salvini il cammino è ancora lungo. Anche perché, di suo, tanto sportivo non è, se si escludono le maratone enogastronomiche. Però, per non essere da meno, ieri ha approfittato della Coppa del mondo di sci: “Storica tripletta italiana! Applausi a Elena Curtoni, Marta Bassino e Federica Brignone. Viva l’Italia che corre e che vince!”. Peccato che un’ora e mezza prima, l’altro Matteo, avesse già fatto il suo. Così: “La valanga rosa dà spettacolo. Che meraviglia un podio tutto italiano. Giù il cappello, tutti in piedi”. Un altro stile, non c’è che dire: di strada da fare, per il Matteo II, ce n’è ancora parecchia.

Gli aerei Alitalia in mano alla fiduciaria irlandese

Cinque aerei Alitalia sono in mano a una società fiduciaria irlandese che nel 2018 (ultimi dati disponibili) aveva un giro d’affari dichiarato di zero euro e un capitale versato di 100 euro. La società si chiama Howlitevale Limited, ha sede al numero 32 di Molesworth Street di Dublino ed è amministrata da due persone, Jarlath Canning, 39 anni, e Michael Drew, 44 anni. Oltre alla Howlitevale, i due rappresentano in Irlanda altre 150 società.

Il Fatto ha potuto recuperare questi dati dalla Camera di commercio di Dublino prendendo spunto da ciò che all’inizio di gennaio 2018 avevano dichiarato al Parlamento i tre commissari straordinari nominati dal governo dopo che sei mesi prima Alitalia, fallita, era stata messa in amministrazione straordinaria. Luigi Gubitosi, Stefano Paleari ed Enrico Laghi, affrontando il tema della composizione della flotta, sostennero che i 5 aerei erano in mano a Howlitevale Limited specificando che si trattava di un “soggetto su cui allo stato non si hanno ulteriori informazioni”. Il Fatto ha colmato la lacuna recuperando i dati e scoprendo che proprio per le sue caratteristiche la Howlitevale Limited è con molta probabilità una fiduciaria di comodo, un’entità societaria fantasma che fa da schermo ad altri soggetti, presumibilmente i veri proprietari degli aerei. Alitalia intrattiene rapporti regolari e ripetuti con questa strana società irlandese, come risulta da una nota ufficiale. Alitalia scrive che “continua ad adempiere puntualmente alle obbligazioni di pagamento” in suo favore (con i soldi del prestito ponte pubblico). E aggiunge che “al rimborso del residuo del finanziamento verrà meno l’effetto dell’escussione del pegno e quindi anche il controllo di Apc da parte di Howlivetale Limited”.

La compagnia di Fiumicino deteneva la proprietà dei 5 aerei attraverso la società Apc, a sua volta controllata da una società di diritto irlandese, la Challey Limited. Un’altra società, la Apc 12, era invece proprietaria di altri 21 velivoli ed era controllata da Alitalia attraverso una seconda società di diritto irlandese, la Subho Limited. Con il fallimento del 2 maggio 2017 il quadro era cambiato: due settimane dopo, il 17 maggio, sia le azioni Apc sia quelle Apc 12 vennero escusse da due società di lessor (affittuarie di aerei), rispettivamente la Dvb e la Pk Air Finance, a cui quelle stesse azioni erano state date in pegno.

L’escussione fu una conseguenza quasi inevitabile del fallimento di Alitalia, perché una specifica clausola contrattuale prevede che il lessor possa escutere a suo vantaggio la proprietà degli aeromobili nel caso di insolvenza o di fallimento della società.

Pk Air Finance fa parte del gruppo americano Gecas, la società di leasing di General Electric. Dvb è invece una società tedesca che è uscita presto di scena in quanto, così come riferito dai tre commissari al Parlamento, provvide a “intestare l’intera partecipazione in Apc a favore di Howlitevale Limited”.

Gli aerei in questione sono un Airbus A330, un velivolo per il lungo raggio, e 4 Embraer, aerei più piccoli di fabbricazione brasiliana in dotazione alla compagnia regionale di Alitalia, Alitalia Cityliner. Il loro valore varia tra i 60 e i 100 milioni di dollari. Quei beni sono usciti dal perimetro patrimoniale del vettore in liquidazione e non possono più essere oggetto delle legittime aspettative delle centinaia di grandi, piccoli e medi creditori. La circostanza anomala era stata individuata a suo tempo dal ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, e dal suo consigliere, il manager aeronautico Gaetano Intrieri.

Gavio & C. possono esultare: concessioni di nuovo a gara

Il ministero delle Infrastrutture ha avviato la procedura per la messa a gara della gestione di quattro tratte autostradali tra Liguria e Toscana, che verranno accorpate in un unico lotto. Si tratta della A12 Sestri-Livorno, della A11-A12 Viareggio-Lucca, dell’A15 diramazione per La Spezia e dell’A10 Savona-Ventimiglia, tutte attualmente gestite dal Gruppo Gavio. Sorprende che il ministero dia per scontato che le concessioni siano eterne, visto che continua a rimetterle in gara anche se i costi sostenuti per la realizzazione delle autostrade sono stati già ampiamente ammortizzati.

Tutto il contrario di quanto sta facendo il governo spagnolo che, con la scadenza della concessione di 500 km di autostrade, si appresta a togliere i caselli e a far diventare le autostrade gratuite. Una politica iniziata già da qualche anno: per l’esecutivo iberico, infatti, quando scadono le concessioni normalmente ciò significa che l’autostrada è stata ammortizzata, quindi la concessione non viene prorogata, e tantomeno rimessa a gara, ma al contrario i pedaggi vengono aboliti. Manutenzione, esubero del personale e gestione delle aree di servizio sono problemi risolvibili, principalmente ricorrendo alle entrate derivanti dalle royalties (Aree di servizio, distributori etc.).

A colpire l’osservatore italiano è anche la capacità degli spagnoli di agire con rapidità e determinazione: lo Stato si è ripreso l’autostrada il giorno dopo la scadenza della concessione, anche se non erano ancora stati risolti i nodi del personale e della manutenzione. Nell’Italia dei rinvii e delle proroghe, invece, non stupisce per nulla che dopo la scadenza di altre due concessioni prorogate senza gara (la Torino-Quincinetto, Ativa, nel 2016 e la Torino-Piacenza, A21, nel 2017) il ministero abbia deciso ora di indire una gara per il rinnovo della concessione, con un bando pubblicato nel settembre scorso. Anche in questo caso si tratta di autostrade gestite dal gruppo Gavio, il secondo concessionario autostradale dopo Autostrade per l’Italia (Aspi), e anche queste infrastrutture sono ormai largamente ammortizzate e non necessitano di nuovi rilevanti investimenti.

Non bisogna dimenticare che i pedaggi servono a coprire i costi degli investimenti, la gestione della rete e la manutenzione ordinaria. Se invece vengono applicati anche quando l’arteria è pienamente ammortizzata, siamo di fronte a nient’altro che un’imposta sul transito. Perché dunque rinnovare queste concessioni rimettendole a gara? Visto che il ministero delle infrastrutture ha deciso di far subentrare l’Anas come gestore delle autostrade in caso di revoca o decadenza della concessione, si potrebbe iniziare subito ad affidare all’ente quelle scadute o in scadenza, e a mettere ordine in un settore in cui operano 26 concessionari, ognuno con pedaggi diversi ma tutti accomunati dalla poca manutenzione, che il ministero potrebbe facilmente assegnare in gara a costruttori specializzati.

Autostrade come l’Ativa e l’A21 hanno un’altissima redditività: il loro margine operativo lordo è infatti, rispettivamente, di 75 e 125 milioni di euro l’anno (questi ultimi pari addirittura al 67% dei ricavi!) Con questi proventi, lo Stato non avrebbe problemi a pagare gli indennizzi di subentro vantati dai concessionari uscenti. Queste società potrebbero continuare a incassare i pedaggi e trattenere gli utili per il periodo in cui gestiscono la concessione in proroga dopo la data di scadenza, ma questi utili dovrebbero essere computati a sconto dell’indennizzo di subentro. Se la ministra dei Trasporti Paola De Micheli vuole veramente cambiare politica nel settore, un primo segnale potrebbe essere proprio lo stop alle gare. Sarebbe infatti contraddittorio perseguire la revoca della concessione ad Aspi per poi riassegnare queste altre con una gara, che presumibilmente sarebbe vinta dallo stesso gruppo Gavio. I ricavi incassati nella fase transitoria, dovrebbero essere invece “girati” allo Stato come corrispettivo della proroga: si potrebbe costituire un fondo per la gestione delle autostrade da parte dell’Anas, e avviare il percorso riformatore nella gestione del sistema tanto necessario quanto atteso.

Ora il porno è diventato social: OnlyFans e le altre app del sesso

Sembrano (porno) influencer, ma il prodotto sono loro stessi. Molti si vedono come dei creatori di contenuti “perché – spiegano – per mantenere viva l’attenzione dei fan devi dar loro sempre qualcosa di nuovo e intrigante e soddisfare le loro fantasie”, quindi è importante che un topless sia originale o che si possa chattare privatamente o lanciare sondaggi per chiedere cosa si vorrebbe vedere o fornire servizi su misura. Non manca chi organizza giornate tematiche. E per fare tutto questo, i canali tradizionali non bastano più.

Le app che sono riuscite a coniugare pornografia e social network sono principalmente due, OnlyFans e – incolpevolmente – Patreon. La prima funziona così: ci si iscrive, si caricano foto, descrizioni e contenuti e si stabilisce quanto si vuole far pagare agli utenti ogni mese per dar loro accesso ai propri contenuti. È una piattaforma molto simile a Instagram e altri social, ci si abbona con pochi clic e funziona meglio se si ha già una base di fan disposti a pagare per seguire le esclusive. Patreon ha un funzionamento simile, ma nasce per i freelance e gli artisti, ricalca il concetto di mecenatismo: i Creator caricano contenuti esclusivi per chi paga, i Patron pagano per vederli. In pratica, non si ha più bisogno di intermediari e possono gestire come preferiscono la propria agenda. Alle piattaforme va una percentuale sulle transazioni che si aggira intorno al 20 per cento.

Onlyfans oggi è il punto di riferimento di quella che gli americani chiamano “industria dell’intrattenimento per adulti”. Ci sono migliaia di profili di pornostar e lavoratori del sesso, postano con costanza foto e video, chattano con chi si abbona ai loro canali (si va dalla decina di euro o dollari al mese a cento o cinquanta), si ingegnano per coinvolgere gli utenti. “Ha cambiato completamente la mia vita – ha raccontato all’Economist una ex attrice inglese di soft porn, Lucy-Anne Brooks – Guadagno tra 19mila e 22mila sterline al mese”. Spiega che non è un lavoro facile: ha un piano molto stringente di contenuti, programmato con precisione militare. Ogni giorno ha un tema diverso, l’“Help Me Monday”, in cui chiede ai suoi 780 fan cosa vorrebbero vedere sulla pagina o il “Fantasy Friday”, in cui indossa un costume, da James Bond ai supereroi. Aiuta i fan a rimanere coinvolti: “C’è un numero limitato di volte in cui puoi posare in mutande prima che le persone inizino a annoiarsi”.

Lanciata nel 2016, la piattaforma sostiene di avere 12 milioni di utenti registrati in tutto il mondo. Un business in crescita anche perché colma dichiaratamente il vuoto di Patreon che, da due anni, cerca di contrastare (riuscendoci) la presenza di contenuti per adulti. Accoglie, poi, le necessità del mondo del porno che è in costante evoluzione e che ha risentito dell’arrivo di internet e dei prodotti gratuiti, anche in termini di sfruttamento.

Nell’età dell’oro del porno, gli anni tra il 1969 e il 1984, il mercato dei film a luci rosse oscillava tra i 5 e i 10 milioni di dollari nei soli Stati Uniti (oggi varrebbe più di 25 milioni). Le produzioni del porno avevano grandi budget, attori esperti e noti e standard qualitativi ritenuti molto alti nel settore. Poi, il business è andato lentamente erodendosi con l’arrivo della pornografia gratuita e disponibile facilmente a tutti online: Brazzers, Porn Hub, Youporn su tutti. La produzione è aumentata, i video hard amatoriali e finti-amatoriali hanno generato un eccesso di offerta, il sistema si è ammalato: attrici e attori che hanno iniziato a girare centinaia di scene per poche centinaia di euro, sfruttamento, assenza di controllo, profitto per pochi. A nulla sono servite le piattaforme di live cam o le sezioni premium dei siti: le prime impongono vincoli ancora più stringenti, dettati dalla necessità di essere sempre in diretta, le seconde sono poco utilizzate e restano di nicchia.

Da qualche anno, però, qualcosa sta cambiando. Alcune stime parlano di un business di 97 miliardi di dollari (ma con profitti ancora di poche centinaia di milioni) in cui gli incassi principali arrivano da servizi specifici, come le piattaforme per la realizzazione di video hard amatoriali su richiesta. Lo ha spiegato Wired: nel quinquennio 2014- 2019 si è assistito a un incremento medio del 10,1 per cento del fatturato, un trend che gli analisti prevedono raddoppierà nei prossimi cinque anni. È la gig economy applicata anche a questo settore.

Di sicuro queste piattaforme, soprattutto per le donne, rendono superflua l’intermediazione – spesso maschile – che trae profitto dalla gestione della loro immagine. I diritti e i guadagni che ne derivano sono solo loro.

Ma non solo donne. In Italia, ad esempio, c’è chi ha deciso di utilizzare la propria notorietà di corteggiatore per arrotondare su questo tipo di piattaforma. Basta pagare circa 9 euro e si accede al profilo di Scobydoooxxl, ex corteggiatore con un account Instagram di 105mila follower. In passato, nelle sue stories, li ha invitati a seguirlo su OnlyFans. La prima foto postata sulla piattaforma risale al giugno del 2019, l’ultima (sono ventisei) a qualche settimana fa. Ci sono sia immagini in cui è semplicemente a torso nudo che altre molto spinte. Ogni tanto ha pubblicato qualche breve video. Il feed, ovvero il rullo di notizie che può vedere l’utente, è quasi del tutto simile a quello di altre piattaforme social. Se si seguono più persone, i loro aggiornamenti compariranno lì in sequenza. E sulla base di quanto scelto fino a quel momento, in alto a destra compaiono i suggerimenti: Daniele P., Tribalink2, Bell’Antonio, Max Felicitas. Nulla di nascosto. Tanto che, per la sua dichiarata funzione, la app OnlyFans non è più disponibile sul playstore di Android perché ne viola le condizioni sui contenuti a sfondo sessuale.