Fiaccole per Regeni in tutta Italia. La madre: “Finora 4 anni di fuffa”

25 gennaio 2016 – 25 gennaio 2020…4 anni … grazie di cuore a chi ci sta vicino…!!!!”. Poche le parole di Paola Deffendi, mamma di Giulio Regeni, pubblicate su Fb a quattro anni dalla scomparsa del ricercatore friulano. Un post nella giornata in cui oltre 80 città italiane hanno aderito alle fiaccolate organizzate da Amnesty International Italia. La famiglia Regeni non smette di chiedere verità e giustizia per il figlio. Una “questione di Stato” per il presidente della Camera, Roberto Fico che invita le istituzioni a “essere un’unica voce” auspicando che il “2020 sia l’anno della verità” sulla fine del ricercatore italiano; rapito in Egitto il 25 gennaio del 2016 e poi ritrovato senza vita il 3 febbraio. Ieri alle 19.41 le fiaccole si sono accese in Italia; alle 19.41 dello stesso giorno di quattro anni fa il nome di Giulio Regeni si è unito all’elenco di chi è sparito. Nel nulla. Il mondo politico nazionale, a parte dichiarazioni spesso di circostanza, ha fatto ben poco. Di tanto in tanto si torna a invocare che l’Italia ritiri l’ambasciatore dal Cairo. A ricordare il giovane ricercatore restano gli striscioni gialli – spesso ingrigiti dal tempo – con il suo viso sorridente e la scritta “Verità per Giulio Regeni” che in non poche circostanze sono stati anche oggetto di contese politiche. Come se la parola “verità” risultasse così tanto fastidiosa da dover essere cancellata.

Ad oggi dalle autorità egiziane non è emerso nulla rispetto a chi ha ordinato, eseguito, coperto il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio. Recente l’annuncio del procuratore egiziano Hamad al-Sawi di “una nuova squadra che studia, classifica tutti i documenti e lavora per prendere tutti i provvedimenti necessari per scoprire la verità in totale imparzialità e indipendenza”.

Il commento della mamma di Giulio: “Sono stati 48 mesi di fuffa”. Procedono, con difficoltà visto l’atteggiamento egiziano, anche i pm di Roma.

Di ieri le dichiarazioni di Sabrina De Carlo, portavoce alla Camera del M5S sui tempi di lavoro della Commissione d’inchiesta sulla morte di Giulio. Il tempo “è limitato perché la Commissione durerà circa un anno e dobbiamo quindi impegnarci il più possibile affinché venga ripristinata un po’ più di verità su questa questione. In questi anni, ha poi aggiunto, “è mancata da parte delle istituzioni un po’ di attenzione. È ovvio che sia molto difficile fare luce su quanto accaduto perché ci sono equilibri da rispettare. È una battaglia importante sui diritti umani e ritengo che sia necessario fare il possibile affinché si possa raggiungere un qualche risultato”. Mentre la politica parla di equilibri, la famiglia di un cittadino italiano scomparso nel nulla, attende. Paola e Claudio Regeni hanno pubblicato “Giulio fa cose” edito da Feltrinelli; il libro del loro calvario – ad oggi – alla ricerca della verità sulla morte del figlio.

Prima del morto roghi e fughe: “Gradisca è una polveriera”

Quaranta atti vandalici gravi. Materassi bruciati, porte sfondate, strutture danneggiate. Tre tentativi di fuga, di cui due riusciti, solo a gennaio. E poi risse quotidiane e atti di autolesionismo. Il tutto a poco più di un mese dall’inaugurazione. “Il Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo – ammette Giovanni Sammito, segretario provinciale e membro del direttivo nazionale del Siulp, fra i sindacati più rappresentativi della polizia di Stato – è una polveriera”. E in Italia non è il solo.

Nella struttura riaperta il 16 dicembre in provincia di Gorizia, il 18 gennaio è stato trovato morto il 38enne georgiano Vakhtang Enukidze. Secondo le testimonianze di una decina di migranti, amplificate dalla denuncia delle associazioni e dei Radicali, l’uomo sarebbe deceduto dopo una colluttazione con un gruppo di agenti, intervenuti per sedare una rissa con un egiziano. I testimoni-chiave sono stati tutti rimpatriati nei giorni successivi. Uno di loro si è reso disponibile a tornare in Italia per testimoniare nell’eventuale processo.

Una storiagiovane, quella della struttura aperta a fine 2019 nell’ex caserma “Ugo Polonio”, a un cancello di distanza da un Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Il 20 gennaio, commentando la morte di Enukidze, il prefetto Massimo Marchesiello ne sottolineava le “criticità strutturali”. Solo due settimane prima tre ospiti erano riusciti a eludere la sorveglianza e a fuggire. Il 12 gennaio otto persone avevano saltato il muro di cinta alto 4 metri: solo in tre sono stati riacciuffati. L’ultimo tentativo il 17, quando un piccolo gruppo di migranti ha provato a scappare da una camera sacavando un tunnel che avrebbe dovuto portarli al di là del muro esterno, ma è stato fermato. Spesso, poi, gli ospiti danneggiano le strutture. “In meno di un mese abbiamo registrato oltre 40 episodi tra incendi e atti di vandalismo”, spiega Sammito.

Una situazione difficile, causata anche dalla coabitazione tra persone che hanno commesso reati e semplici migranti. Da un punto di vista normativo, infatti, i Cpr non sono carceri, perché le persone “ospitate” sono solo in attesa del rimpatrio: chi è stato condannato ha già scontato la pena in galera, mentre gli altri sono senza documenti o hanno irregolarità col passaporto. Così “si ritrovano insieme delinquenti e persone normali – spiega Sammito – e tutto ciò crea caos”. Per questo “il Cpr di Gradisca è come un carcere, anzi peggio – continua il sindacalista. Dovrebbe gestirlo la Polizia penitenziaria, che ha altri protocolli. Quella di Stato non si trova dentro la struttura, ma interviene su richiesta del gestore, una cooperativa, per fare il lavoro sporco”. Difficile anche la comunicazione: “Non ci sono mediatori o interpreti – dice – 60 persone parlano lingue incomprensibili a fronte di agenti che spesso hanno difficoltà con l’inglese”.

Ci sono versioni contrastanti sul fatto che Enukidze possa aver partecipato alla fuga del 12 gennaio: qui, secondo le ricostruzioni sommarie, il georgiano avrebbe perso il suo telefonino, episodio che ha scatenato la rissa con l’egiziano per la quale sono intervenuti i poliziotti. Un’altra testimonianza, raccolta dal “Collettivo Tilt”, parla di due “pestaggi” da parte della polizia. Sammito invita alla cautela: “I magistrati stanno visionando i filmati – afferma – se qualcuno ha commesso abusi o ha perso la testa, verrà sanzionato. Ma da qui a dire che la morte del georgiano sia stata causata dall’intervento degli agenti, ce ne vuole”. Alcune testimonianze, nota Sammito, parlano di atti di autolesionismo da parte di Enukidze: “Inoltre, c’è il problema dell’infermeria, che è in sottonumero”.

Quello friulano è il secondo Cpr più grande d’Italia, dopo quello di Torino: ce ne sono 8 in tutto il Paese: Trapani, Caltanissetta, Ponte Galeria, Potenza, Bari, Torino e Brindisi, oltre a Gradisca. Che dovrebbe contenere 150 persone, ma per ora la capienza è limitata a 66 a causa di lavori di ristrutturazione. Il Cpr è “strategico” per la sua posizione molto vicina al confine nord-est del Paese, porta aperta alla rotta balcanica, ha sottolineato il viceministro dell’Interno Vito Crimi il 9 gennaio in una risposta a un’interrogazione della deputata del M5s Sabrina De Carlo.

Anche le altre strutture sono in sofferenza. Su tutte quella di Torino: “Il 94% degli ospiti – spiega Felice Romano, segretario nazionale del Siulp – ha scontato pene per omicidi, tentati omicidi e stupri. Gli altri sono solo migranti senza documenti. La struttura è stata devastata diverse volte – conclude il dirigente – 25 giorni fa sono state date alle fiamme ben quattro aree. Sono stati devastati 112 posti su 160”.

Il “metodo Kurosawa” nelle false accuse al legale ambientalista

Il procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella, a giudizio per calunnia, un verbale di udienza “certamente falso” e due magistrati e un cancelliere che offrono tre versioni diverse dello stesso fatto accaduto in udienza, come in un film, scrive il gip, di Akira Kurosawa. Protagonista, suo malgrado, l’avvocato Giuseppe Arnone, il legale più processato d’Italia: contro di lui sono stati aperti 110 processi penali, per lui i pm hanno chiesto, finora senza esito, 13 anni e mezzo di carcere. Per cacciarlo da un’aula d’udienza, il 15 dicembre 2014, il pm Vella chiese l’intervento dei carabinieri senza attendere l’autorizzazione del giudice: una “sciocchezza” ha chiosato il gip David Salvucci (ha disposto l’archiviazione per abuso di ufficio), che ha però determinato una serie di conseguenze a cascata attivate dalla reazione di Arnone, che bloccò l’udienza per alcuni minuti, guadagnandosi l’imputazione di interruzione di pubblico servizio.

In una relazione all’allora procuratore capo Renato Di Natale Vella scrisse che l’interruzione era stata di “diversi minuti”, smentito dagli altri testimoni – compresi i carabinieri e il giudice che parlò invece di “pochi minuti” – e questo è costata al pm l’imputazione per calunnia. Ma è sul successivo tentativo di “coprire” a verbale l’imprudenza del pm che le carte dell’ordinanza del gip restituiscono scene da Un giorno in pretura con Alberto Sordi: “Il giudice Alessandra Vella – scrive il gip Salvucci – ha ritenuto, nell’immediatezza senza troppo riflettere di offrire a Salvatore Vella un appiglio al quale, invero, giammai avrebbe avuto bisogno di aggrapparsi, non assurgendo la sua iniziativa a rilievo penale o disciplinare di sorta”.

A verbale, infatti, il gip Vella (omonima del pm) scrisse: “Il pm su espressa autorizzazione del giudice chiede l’intervento dei carabinieri”, e in questa parte, dice il gip, il verbale “è certamente falso”, ritenuto però non punibile perché qualificato come “innocuo”, poiché “non incide nella sfera giuridica di Arnone”. Una certezza raggiunta ascoltando i testimoni presenti in aula quel giorno, gli stessi magistrati e il cancelliere, che su quella autorizzazione, mai avvenuta, hanno fornito tre versioni diverse: “Gli ho fatto (al pm, ndr) il gesto della cornetta del telefono – ha detto il giudice Alessandra Vella – e lui dice ‘chiamo, chiamo’. E quando io dico ‘espressamente autorizzati’ (i carabinieri, ndr) passano dentro l’aula”.

Per il pm quell’autorizzazione arrivò, invece, a voce: “Eravamo in udienza, lo disse verbalmente: il pubblico ministero è autorizzato a chiamare i carabinieri”. Le due versioni, insanabili, si unificano miracolosamente nei ricordi del cancelliere Daniela Canino: “L’avvocato non si allontanava al che il giudice gli (al pm, ndr) ha fatto il segno, era come la cornetta telefonica”. Quindi l’autorizzazione avvenne attraverso il gesto? “No, ha detto ‘pubblico ministero chiami’, cioè il gesto e la parola”. “Solo facendo ricorso all’imponente parabola sul relativismo e sulle mille sfaccettature della verità – ha chiosato il gip Salvucci – consacrata dal maestro Akira Kurosawa in Rashomon potrebbero accettarsi tre distinte versioni di quel fatto. Ma in quel caso si trattava di sceneggiatura, nella specie si è più propensi a ritenere che i racconti dei due Vella e della Canino non coincidono perché alcuno dei predetti testimoni ha inteso rassegnare il reale andamento dei fatti, e cioè l’assenza dell’autorizzazione a chiamare i carabinieri”.

Arrestato e poi scarcerato nel 2016, Arnone tornò in cella l’anno successivo, quando la procura gli contestò di avere diffuso un volantino che “riproduce la copertina di un libro di prossima pubblicazione dal titolo Storie comiche di otto importanti pessimi magistrati”. Un libro, scrisse la Procura in una nota, in cui Arnone “prende di mira due magistrati in servizio alla Procura di Agrigento, Salvatore e Alessandra Vella”. Proprio i due protagonisti dell’udienza incriminata, a loro volta denunciati per falsa testimonianza a Caltanissetta da Arnone che nella sua guerra contro la magistratura agrigentina ha incassato la settimana scorsa tre assoluzioni: era accusato di furto per avere trattenuto per due ore un fascicolo consegnato dalla cancelleria civile, di interruzione di pubblico servizio per avere detto al presidente del Consiglio comunale che suo zio era accusato di avere truccato l’appalto dei rifiuti di 45 miliardi di vecchie lire, interrompendo il Consiglio per circa 20 secondi, e di diffamazione (per lui il pm aveva chiesto un anno di carcere) per avere contestato a un deputato regionale di avere fatto acquistare dalla Provincia di Agrigento un quadro del cognato: “L’unico quadro mai acquistato dalla Provincia’’, commenta Arnone.

“L’Eni a scuola non va bene. Meglio altri prof di ecologia”

Eni insegnerà tutela dell’ambiente alle scuole e ai professori. Lo prevede un protocollo firmato dalla multinazionale dell’energia e dall’Associazione Nazionale Presidi (Anp): “Dal 21 gennaio Anp ed Eni organizzano in tutta Italia seminari su tematiche ambientali per affiancare le scuole e formare i docenti”. Gli argomenti dei seminari? “Cambiamento climatico, efficienza energetica, rifiuti e bonifiche”.

Appena la notizia si è diffusa nel mondo della scuola è scoppiata una mezza rivolta. Per rendersene conto basta leggere i commenti sui social: “Ma voi state fuori come i balconi”, è il primo messaggio. “Direte ai docenti che l’estrazione e la combustione di petrolio e gas causeranno la perdita totale della biosfera in cui cresceranno gli studenti?”.

Il dibattito si allarga nel mondo della scuola. Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc (Federazione Lavoratori della Conoscenza) Cgil, giudica la scelta “discutibile”. Certo, tiene a premettere, l’Anp è un’associazione (quella con più adesioni tra i 7.500 presidi italiani, ma non l’unica) e come tale è libera di fare le scelte che vuole. “Ma a parlare di sostenibilità ambientale avrei chiamato prima soggetti più idonei, quelli che ogni giorno studiano i cambiamenti climatici e li combattono. Per esempio enti di ricerca o associazioni ambientaliste. Chissà cosa dicono i presidi della scelta operata dalla loro associazione…”, si chiede Sinopoli. Dubbi diffusi anche tra i presidi. Basta ascoltare Ludovico Arte, dirigente scolastico dell’Itt Marco Polo di Firenze: “Trovo inopportuno e profondamente sbagliato che l’Anp abbia Eni come unico interlocutore di un protocollo per corsi rivolti ai docenti sulla sostenibilità ambientale”. A chi ci si dovrebbe rivolgere? “Ci sarebbero molti altri soggetti che da sempre si impegnano su questi temi”. Questo non significa escludere l’Eni: “Non troverei scandaloso invece che, all’interno di un corso di formazione sull’educazione ambientale organizzato con altri soggetti, ci fosse anche un intervento di rappresentanti di Eni che raccontino il loro punto di vista sul tema. Quali responsabilità eventualmente si riconoscono sull’inquinamento ambientale del pianeta; quali sono i loro investimenti sulle energie alternative e rinnovabili; qual è il loro impegno attuale per ridurre i livelli di inquinamento e salvaguardare l’ambiente”.

La polemica è particolarmente accesa nelle zone dove Eni svolge le sue attività di estrazione e raffinazione, cioè in Basilicata e Sicilia. “Eni da sempre cerca di entrare nel mondo della scuola”, racconta l’avvocato Giovanna Bellizzi che assiste le parti civili “nei processi per illecito smaltimento dei rifiuti e per disastro ambientale che in Basilicata vedono sul banco degli imputati dipendenti ed ex dipendenti Eni. Tempo fa era emerso che davanti agli istituti scolastici venivano distribuiti gadget con il logo della società. Poi ci sono i progetti di alternanza scuola-lavoro che fanno entrare i ragazzi nel Centro Oli Val d’Agri e a volte a noi paiono quasi volerli indottrinare”. Ma il punto, secondo Bellizzi, è anche un altro: “Certo, c’è la presunzione di innocenza, ma c’è da chiedersi se sia opportuno che a fare seminari in materia di sostenibilità, rifiuti e bonifiche sia una multinazionale con dipendenti imputati. Una società con interessi specifici nel settore”. Critico anche Arnaldo Lomuti, senatore lucano del M5S: “Le attività di Eni sono altamente impattanti proprio per i delicati equilibri dell’ecosistema. Oltre al gran contributo che le società petrolifere, in quanto tali, danno all’aumento di CO2 nel pianeta”. Il Fatto ha contattato Anp, ma non ha ottenuto risposta. Eni, attraverso un portavoce, commenta: “Rispettiamo tutte le opinioni, ma siamo convinti che nel corso del programma riusciremo a convincere anche gli scettici che le moltissime persone di Eni impegnate nella ricerca e sviluppo sono state in grado di trovare soluzioni all’avanguardia nel percorso verso la decarbonizzazione energetica”.

E adesso si mobilita la società civile

Corrado Stajano, scrittore e giornalista che a Milano ha dedicato uno dei suoi libri (La città degli untori), non ha dubbi sull’opportunità di dedicare una via a Francesco Saverio Borrelli: “Penso che sia doveroso farlo. Borrelli è stato un personaggio importante non solo per Milano, ma un protagonista della possibile rinascita di questo Paese. Il suo ‘Resistere, resistere, resistere’ è un programma che vale anche oggi”.
Il sociologo Nando dallo Chiesa aggiunge: “Borrelli è un magistrato che ha difeso la qualità della legge e della convivenza civile in una città come Milano, con una influenza che si è sentita in tutta Italia. E l’ha fatto senza secondi fini. Dopo aver fatto il procuratore, si è ritirato, non ha cercato posti o candidature che pure avrebbe facilmente ottenuto. L’ho proposto io, da sottosegretario del governo Prodi, come presidente del Conservatorio, conoscendo il suo amore per la musica e per garantire l’indipendenza di quell’istituzione, che aveva attirato gli appetiti di molti politici”.
Più cauto Umberto Ambrosoli, avvocato, ex consigliere regionale lombardo e poi presidente della Banca Popolare di Milano e di Banca Aletti. “Borrelli è stata persona estremamente seria, con alto senso dello Stato; ha guidato con mano saggia i ‘suoi’ sostituti della Procura ed è stato testimonianza di intelligenza, equilibrio e sobrietà. Il suo nome evoca una stagione che, pur con dei limiti, ha segnato un momento fondamentale di riscatto e di cambiamento. Tuttavia”, continua Ambrosoli, “per come è nata, la proposta di intitolazione di una via non mi trova entusiasta. Mi spiego: la genesi di questa proposta radica in una contrapposizione alla richiesta di taluni di intitolare una via a Bettino Craxi. Non, quindi, nella mera volontà di celebrare le particolari benemerenze di Borrelli, né nella condivisa consapevolezza del valore della sua opera. Anzi, all’opposto: una proposta divisiva, ai confini del provocatorio (seppur in prospettiva di reazione). E la memoria di Borrelli non merita certo questa condizione”. È stato lunghissimo, a Milano, il recupero della memoria sul padre di Umberto, Giorgio Ambrosoli, a cui la città ha dedicato una piazza (sindaco Gabriele Albertini) soltanto nel 2000, ventun anni dopo la sua uccisione da parte di un sicario di Michele Sindona.
“Recupero lungo, sì”, ammette Umberto. “Faccio un solo esempio: la partecipazione che c’è stata in occasione della commemorazione del quarantesimo anniversario della sua morte è stata assai maggiore di tutte quelle che ci sono state nei primi trent’anni”.
Oggi è soddisfatto? “Papà ha offerto una testimonianza importante di libertà e di responsabilità. Sì, sono contento che la sua memoria viva e aiuti tanti a decidere che persone essere”.

“Se Milano tentenna, Napoli c’è. Daremo noi una via a Borrelli”

“Milano tentenna? Napoli è pronta. Intitoleremo noi una strada a Francesco Saverio Borrelli”. Passeggiando per piazza Plebiscito, il sindaco Luigi de Magistris interviene nel dibattito nato dopo la mozione lanciata dal Fatto Quotidiano, sulla piattaforma online change.org, per chiedere al primo cittadino di Milano Giuseppe Sala di intitolare una via a Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo del pool Mani Pulite.

È da poco terminato il convegno “Le masso-mafie nell’epoca contemporanea” dinanzi a un centinaio di studenti. Tra gli ospiti intervistati da Rossella Guadagnini, oltre lo stesso De Magistris, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, l’avvocato Fabio Repici, il consigliere del Csm Mario Suriano e chi vi scrive. E ricordando che proprio Napoli ha dato i natali a Borrelli il collegamento è immediato. Gli leggiamo il testo della petizione: “Mentre una vergognosa campagna politico-mediatica tenta di riabilitare il pregiudicato latitante Bettino Craxi, a cui molti suoi simili vorrebbero dedicare una via di Milano, chiediamo al Comune di onorare con l’intitolazione di una strada della città l’ex procuratore capo ed ex procuratore generale Francesco Saverio Borrelli, integerrimo servitore dello Stato e simbolo di un’indimenticabile stagione di riscatto morale e civile: quella di Mani Pulite”.

Sindaco, la petizione del Fatto Quotidiano ha già raccolto 37mila sostenitori. Il procuratore Borrelli, scomparso lo scorso 20 luglio, era napoletano: che ne pensa di intitolargli una via nella città in cui è nato?

Ci inseriamo volentieri in questo dibattito. Napoli è pronta a dedicargli una via. Senza tentennamenti. Borrelli è stato un napoletano illustre. Attraverso il suo ruolo di magistrato ha portato e rappresentato l’etica, la professionalità e l’orgoglio napoletano fuori dai confini della nostra città.

A Milano il M5S ha raccolto il nostro invito e ha presentato una ha presentato in Consiglio comunale una mozione per chiedere a Sala e alla sua giunta di “intraprendere l’iter per l’intitolazione di una via o una piazza” della città al magistrato di Mani Pulite. C’è però una regola da derogare: non si possono intitolare vie o piazze a chi è scomparso da meno di 10 anni.

In realtà si può derogare: si chiede l’autorizzazione alla Prefettura. Noi l’abbiamo già fatto in almeno due casi.

Quali?

Abbiamo inoltrato una richiesta per Pino Daniele e per Luciano De Crescenzo. Siamo in attesa della risposta.

Chiederete una deroga anche per dedicare una strada a Francesco Saverio Borrelli, quindi.

Sì. Non mi sembra vi sia niente di complicato.

Il presidente del consiglio comunale di Milano, Lambero Berdolé (Pd), la pensa diversamente: ‘Sono consapevole del debito che la città di Milano ha nei confronti del procuratore Borrelli – ha dichiarato – ma sono favorevole a mantenere la regola dei dieci anni perché sottrae la questione della toponomastica alla cronaca e alla polemica politica’. Che ne pensa?

Mettiamola così: se Milano tentenna, Napoli è pronta.

Sempre a Milano, il consigliere Matteo Forte (Milano Popolare), ha proposto l’intitolazione di una via a Bettino Craxi. Che ne pensa?

Fermo restando il rispetto per i defunti, e la pietà che si deve a chiunque non sia più tra noi, è un’idea che non mi trova per nulla d’accordo.

Il motivo?

Non si può dedicare a una via a chi si è macchiato dei reati gravi che hanno caratterizzato tangentopoli. Siamo all’esatto opposto delle motivazioni per le quali m’impegnerò a ricordare il procuratore Borrelli. Parliamo di un uomo e di un magistrato che ha saputo garantire l’applicazione dell’articolo 3 della Costituzione, l’eguaglianza di ogni cittadino dinanzi alla legge, in più d’un momento delicato per il Paese. E non solo.

Che altro?

Ha saputo garantire e proteggere il lavoro dei suoi sostituti. Le loro indagini hanno potuto raggiungere qualsiasi livello del potere senza distinzioni. E questo, anche se dovrebbe essere scontato, nei fatti non lo è. Lo dico da ex pm: avrei tanto desiderato averlo io, quando lavoravo in Calabria, un capo come Borrelli. Ma non è stato così.

Gli “autografi” della Storia d’Italia: Craxi vale 350 euro, Togliatti 200

Tutto ha un prezzo: anche la storia d’Italia. Le sue carte ingiallite dal tempo e la firma degli uomini che hanno edificato, protetto, governato, a volte derubato e tradito lo Stato. L’autografo degli uomini di Stato è in vendita davvero, ha un costo materiale, un’autentica valutazione di mercato. Bettino Craxi? 350 euro. Giovanni Spadolini? 200 euro. Giorgio La Pira, preziosissimo: 500 euro. Umberto Terracini, uno dei padri della sinistra italiana: 600 euro. E via.

Nel catalogo pubblicato da Lim Antiqua – studio bibliografico e con sede a Monte Quirico, dalle parti di Lucca – ci sono oltre cento anni di storia italiana. Compaiono i nomi di statisti, ministri, presidenti del Consiglio, squadristi e gerarchi, intellettuali, quadri di partito e talvolta massoni. Lettere, cartoline e foglietti, manoscritti o dattiloscritti; piccole confidenze, raccomandazioni, ragionamenti: tutti con la firma in calce, originale, di nani e giganti del secolo scorso.

Il valore della memoria è incalcolabile, ma le sue carte costano assai. I collezionisti lo sanno bene. Il prezzo è determinato dal numero e la dimensione delle pagine, dalla rilevanza del contenuto e dal prestigio dell’autore: a ogni nome corrisponde una cifra.

Così scopriamo che le lettere di Bettino Craxi – magari agevolate dall’opera di beatificazione collettiva in atto – sono tra le più preziose in assoluto. La prima risale all’8 ottobre 1983, sul foglio avvizzito si legge una dichiarazione che il segretario socialista, allora presidente del Consiglio, ha trasmesso al telefono al giornalista Arrigo Levi (lo sappiamo perché ce lo dice un’annotazione aggiunta dall’addetto stampa di Craxi, Antonio Ghirelli, in testa al foglio). In quelle poche righe, Craxi tratteggia un giudizio sprezzante sull’Eurocomunismo (e di riflesso, come sappiamo, sul segretario del Pci Enrico Berlinguer): “Del resto – scrive Craxi – questi sono tempi in cui l’eurocomunismo recita il suo de profundis, a partire da Madrid dove si assiste all’incredibile metamorfosi di Santiago Carrillo”. La lettera craxiana costa 300 euro e non è nemmeno la più preziosa: nel catalogo è in vendita un’altra breve comunicazione (su carta intestata al “Segretario particolare del presidente del Consiglio dei ministri”) lasciata al suo portavoce: “Caro Ghirelli, eccoti il testo dell’intervista al New York Times. Grazie, Bettino”. Questa seconda carta costa 350 euro. La terza (300 euro) è inviata, invece, all’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt.

Se ci si abbandona un po’ alla suggestione, il catalogo sembra davvero rilasciare una scia di polvere e un profumo di Prima Repubblica. Ci sono tre lettere di Giovanni Spadolini (200 euro), compreso un messaggio di ringraziamento a chi si complimentava per la nomina al ministero dei Beni Culturali, nel 1979: “Grazie del pensiero augurale che mi accompagnerà nel nuovo difficile compito al servizio dei beni culturali minacciati o manomessi”.

Ci sono i documenti dei nomi storici del comunismo italiano: Palmiro Togliatti (200 euro), Pietro Ingrao (100 euro), Luigi Longo (200 euro). Ci sono ben dieci lettere (350 euro) firmate da Mario Berlinguer (padre di Enrico e Giovanni), relative all’attività di “Solidarietà Democratica”, il movimento del Pci che si occupava di assistere i militanti comunisti inquisiti o condannati. C’è una bella cartolina di un ghiacciaio innevato con la firma di Ugo La Malfa (90 euro). E ancora: un manoscritto di 14 pagine firmate da Giorgio La Pira, il “sindaco santo” di Firenze molto amato da Matteo Renzi. Un lungo ragionamento sulle prospettive dei cattolici: “La Chiesa entra arditamente, con la pienezza della sua forza, divina ed umana, temporale ed eterna, nel cuore stesso dell’epoca nuova nella quale è entrata la storia del mondo”. Prezzo: 500 euro. Più ancora di La Pira costa il comunista Terracini: il suo carteggio di 20 pagine ne vale addirittura 600, è il documento più prezioso di tutto il catalogo.

Ma le carte di Lim Antiqua si addentrano in un passato ancora più remoto: quello dell’Italia albertina, pre-fascista. E poi quella del ventennio.

Ci sono nove lettere di Luigi Facta (180 euro), l’ultimo presidente del Consiglio del Regno, l’uomo che ha spalancato, con la sua inettitudine, le porte di Roma alla marcia di Mussolini. Di Sindey Sonnino, il ministro degli Esteri del disastroso patto di Londra del 1915, abbiamo davvero solo l’autografo: la firma calligrafica su un biglietto bianco. Si compra con “appena” 50 euro. E infine, tra tanti documenti di epoca fascista, spicca quello di Emilio De Bono (150 euro), uno dei quadrumviri a cui il Duce affidò la responsabilità di organizzare l’insurrezione armata. Lettere private, e un messaggio alla camicia nera Aldo Finzi, camerata di un’avventura che ha sfigurato il volto dell’Italia: “Ricordo con caro piacere i tanti mesi che abbiamo lavorato con tanta serenità insieme. E come si andava bene!”.

Guerra alla Rai: il M5S difende l’ad Salini dall’assalto dem

Il Movimento 5 Stelle blinda l’ad Rai, Fabrizio Salini, e anche il direttore del Tg1, Giuseppe Carboni. In vista dell’incontro di domani tra Salini e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, chiesto dal primo per aprire un canale di comunicazione (i due non si sono mai visti), dai pentastellati si alza un cordone intorno all’ad, che da settimane è nel mirino del Pd. Molti tra i dem vorrebbero farlo fuori per il mancato riequilibrio, che in Rai vuol dire posti: il partito di Zingaretti si sente sotto rappresentato e vuole un tg. Salini ancora non l’ha concesso e da qui è partita la guerra. Tanto che al Nazareno hanno pure iniziato a valutare i curricula di possibili sostituti. “Forse qualcuno pensa che pure noi siamo d’accordo a mollare Salini, ma non è vero. L’ad deve restare al suo posto, così come il direttore del Tg1, che guadagna ascolti”, fa sapere una fonte pentastellata.

Intendiamoci, anche i 5 Stelle non sono entusiasti di Salini. Il cambiamento da loro tanto auspicato in Rai non si è visto. Il ritorno di Gabanelli e Giletti, per esempio. O l’arrivo di Enrico Mentana. Qualche programma più innovativo. Un po’ di coraggio in più. Ma la fiducia nel manager c’è ancora. Non è una cambiale in bianco però. “Salini deve iniziare a usare il lanciafiamme”, dicono dai 5 Stelle. Dove non si vogliono più vedere episodi definiti “scandalosi” come lo spot pro-Salvini di Porta a porta. E poi cambiare ora il vertice Rai significherebbe far scoppiare una bomba nel governo proprio nel momento in cui va ricalibrata l’alleanza col Pd, dopo l’uscita di scena Luigi Di Maio. Alla fine, seppur a malincuore (poiché secondo M5S in Rai il Pd è già gonfio di poltrone) ai dem verrà dato il Tg3 con Orfeo o Montanari, mentre Paterniti verrà sposta al coordinamento editoriale o all’approfondimento news. Tutto succederà nel prossimo Cda, il 30 gennaio, dove si voterà anche il budget.

“Quel selfie con Salvini mi costa il posto. Ma dentro la Cgil in tanti votano Lega”

Era in malattia dal lavoro per quella che lui chiama “una patologia di depressione ansiosa”. Eppure quel giorno Cristian Lanzi, 47 anni di Granarolo dell’Emilia (Bologna) rappresentante sindacale della Cgil, aveva deciso lo stesso di andare a salutare il suo mito: il segretario della Lega Matteo Salvini che nel pomeriggio del 18 novembre era a Minerbio (10 chilometri di distanza) per la campagna elettorale in vista delle regionali di oggi. Ma quel selfie scattato con il leader del Carroccio, gli è costato caro. I suoi datori di lavoro della multinazionale Schenker, come ha anticipato ieri Il Resto del Carlino, lo hanno riconosciuto dalle riprese di una televisione locale e hanno fatto partire tutte le pratiche per il licenziamento: prima è arrivato il provvedimento disciplinare e poi, mercoledì scorso, il benservito. Nella lettera di licenziamento l’azienda scrive che Lanzi “era personalmente alla visita del segretario della Lega a Minerbio, benché fosse in malattia dal 2 ottobre” e quel selfie ha “indispettito, non poco, anche i suoi colleghi di lavoro, soprattutto in considerazione della sua carica di Rsa”. Gli avvocati di Lanzi hanno già impugnato il licenziamento per “discriminazione politica”, ovvero il sostegno del lavoratore Cgil alla Lega.

Lanzi, ma che ha fatto: si è messo in malattia per andare al comizio di Salvini?

No, dal 2 di ottobre ero in malattia e il medico mi aveva consigliato di uscire e avere rapporti con altre persone fuori dagli orari di reperibilità delle visite fiscali. Così il 18 novembre, ho letto su Facebook che sarebbe arrivato Salvini a pochi chilometri da casa mia e quindi ho deciso di andare…

Ma non doveva restare a casa?

Sì, ma solo nelle fasce di reperibilità: dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. “Matteo” era a Granarolo dopo pranzo e il selfie l’ho scattato alle 16.10.

Vi siete parlati con Salvini?

Due battute veloci. Lui è uscito dall’azienda che aveva appena visitato e intorno a sé aveva un sacco di gente. Ci ha detto: ‘chi vuole fare un selfie si avvicini’. Io allora mi sono fatto coraggio e ci siamo fatti una foto. (Il 17 dicembre, l’ha impostata anche come immagine del profilo su Facebook con l’hashtag “#È ora, Liberiamo l’Emilia, ndr).

Ma qualcuno l’ha vista.

Una tv locale mi ha ripreso, mi hanno visto dei colleghi e qualcuno lo ha detto ai miei superiori. Il 25 novembre è partita una lettera di provvedimento disciplinare che però non mi è mai arrivata e a cui non ho potuto rispondere. Il 9 dicembre, dopo 60 giorni di malattia, ero abile a lavoro e sono tornato a fare il carrellista il 20 dello stesso mese. Poi, tre giorni fa, è arrivata la lettera di licenziamento.

Ribadisco: è andato da Salvini mentre era in malattia da lavoro.

Se nella lettera di licenziamento l’azienda sottolinea che mi sono fatto fotografare con Salvini e che ho dato fastidio ai colleghi, è probabile che l’azienda ce l’abbia con me perché sono leghista.

Addirittura. L’azienda non la pensa proprio così…

Beh sì, non si può certo escludere. Da questa mattina (ieri, ndr) sto ricevendo messaggi e telefonate di persone, anche alcuni colleghi, che mi esprimono la loro solidarietà.

Ma non trova paradossale che un iscritto alla Cgil sia dia malato per un selfie con Salvini?

Io il mio lavoro di Rsa aziendale, secondo la Cgil, l’ho sempre fatto in maniera egregia: non vedo cosa possa interessare alla Cgil cosa voto. L’importante è il mio lavoro. E poi, nel sindacato, non sono l’unico a votare Lega.

Davvero?

Sì, nella Cgil di Bologna alcuni votano a sinistra, certo, ma tanti votano Salvini e qualcuno anche il Movimento 5 Stelle. Io ho sempre votato Lega e non ho mai votato a sinistra.

E oggi?

Voterò convintamente per Lucia Borgonzoni: d’altronde ci vuole un cambiamento.

Schlein, i “coraggiosi” che possono dare l’aiutino alla sinistra

Partito Democratico, Più Europa, Psi, Pri, Europa Verde Volt, LeU, Mdp-Articolo 1, Sinistra Italiana, Possibile, Italia Viva, Azione, Italia in Comune: tutti insieme per Stefano Bonaccini. Tredici partiti da scegliere al posto della Lega e dei suoi alleati di centrodestra che sostengono Lucia Borgonzoni. Dopo le polemiche, gli appelli al voto utile e a quello disgiunto è arrivato il grande giorno dell’Emilia-Romagna e, forse, del Governo nazionale. Alle 23 chiudono i seggi, nella tarda notte si saprà chi ha vinto. In una campagna fortemente polarizzata come questa, in cui ogni voto per il candidato presidente è decisivo, potrebbero essere gli alleati a fare la differenza.

Per Europa Verde è il banco di prova dopo il successo di Greta e dei Fridays for Future, le manifestazioni studentesche per protestare contro il cambiamento climatico che hanno riempito le piazze italiane negli scorsi mesi. Gli aspiranti consiglieri regionali potrebbero intercettare il primo voto giovane e guadagnare quello degli scontenti delle politiche ambientali: la volontà di costruire autostrade come quella tra Campogalliano e Sassuolo nel modenese e la legge urbanistica che cancella la programmazione in capo agli enti locali e pubblici sono due spine nel fianco di Bonaccini. A sinistra e a sostegno del dem in corsa per il bis c’è solo la lista ‘Coraggiosa’. Nata sulla spinta dell’ex eurodeputata Elly Schlein con la volontà di ricompattare le diverse sigle di questi anni (con lei Possibile, Sinistra Italiana, Mdp-Articolo 1 e LeU) la lista ha tre parole chiave: ecologista, progressista e femminista. Tra le questioni messe in primo piano la redistribuzione, l’equità, la transizione ecologica, i diritti. Sono tra i pochi che hanno provato a parlare di contenuti in una campagna elettorale show: se ha funzionato lo diranno le urne.

Intanto il video di Schlein che chiede conto a Matteo Salvini delle sue assenze a Bruxelles è diventato uno dei più cliccati degli ultimi giorni. Incontrato per caso durante una serata di campagna elettorale nel Bolognese, Schlein non ha resistito: “Perché non siete mai venuti a nessuna delle 22 riunioni di negoziato sulla riforma di Dublino?” La riforma necessaria per cambiare la norma in base alla quale le persone sono costrette a chiedere l’asilo nel primo Paese in cui arrivano. Per un minuto e più l’ex ministro dell’Interno fa finta di nulla, guarda il cellulare, poi la risposta, falsa: “Ma io le riunioni che contavano le seguivo”. A sostenere i Coraggiosi diversi nomi di peso della politica come Pier Luigi Bersani, l’ex presidente della Regione Vasco Errani e il fu ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis. Diversi anche gli artisti che hanno fatto endorsement: la scrittrice Michela Murgia, l’ex allenatore del Bologna Renzo Ulivieri e i cantanti Francesco Guccini e Fiorella Mannoia. Pochi i politici di ‘professione’ candidati – tra cui Igor Taruffi, capogruppo uscente del gruppo Coraggiosa in Regione, promotore e primo firmatario della legge regionale sul Reddito di Solidarietà – mentre ci sono molti esponenti della società civile. Il gastroenterologo Paolo Trande, Maximiliano Ulivieri di lovegiver.it, il progetto per istituire la figura dell’operatore all’emotività e alla sessualità e Gessica Berti, la prima a querelare Salvini per le sue dichiarazioni sui negozi di cannabis light come “luoghi di diseducazione di massa”.