“Il vero outsider è Bonaccini. Oggi si scontrano le 2 Emilie”

È un Mattia Santori diverso, quello che si prepara alla domenica elettorale. Dice che la linea è cambiata: “Cerchiamo di non entrare nel voto a gamba tesa”. E pensa, di ritorno dal tuffo nel mare di Romagna, più al futuro delle Sardine che all’esito del voto. Alla fine, però, accetta di parlare.

Qual è stato il tema di questa campagna elettorale?

Non si è capito quanto in competizioni di questo tipo il Bonaccini di turno sia l’outsider. Ce ne siamo accorti stando dentro l’arena, e non fuori a guardare…

Avevi detto di non voler intervenire a gamba tesa…

Noi non siamo in contrapposizione con altre forze politiche, siamo persone. Fuori da ogni schema politico: è per questo che arriviamo meglio. Le sardine sono nate quando la candidata del centrodestra Lucia Borgonzoni era già avanti di 6 punti nei sondaggi. Bonaccini è già un miracolo che se la giochi testa a testa. All’indomani della vittoria in Umbria di Donatella Tesei, ci chiamavano per raccontarci della propaganda della Lega. Erano arrivati a dire che il Pd era pronto a rubare le pensioni alle vecchiette in fila alle Poste. Anche in Emilia, c’è stato uno scollamento tra il reale e il virtuale veicolato da social e media. Non abbiamo perso una piazza contro Salvini, eppure era sempre davanti a noi sui media.

Quindi se si perde è tutta colpa di giornali e tv?

La vera notizia di questa campagna elettorale è stata, possiamo dirlo, la piazza di Bologna coi suoi 40 mila. Io avevo però metà dei giornalisti che mi chiedevano di Salvini…

Metti le mani avanti?

Assolutamente. Noi non abbiamo fatto appello al voto disgiunto, perché non è il nostro ruolo. Abbiamo detto due mesi fa: “SVEGLIATEVI”. E poi non abbiamo mai mollato. Ma ora sta alla responsabilità di ciascuno. Se non vogliamo restare spiaggiati.

C’è un po’ di amarezza?

Non sono scoraggiato. Comunque vada il voto. Solo molto stanco, ma contento. Andiamo verso un periodo di lavoro sulla struttura che intendiamoci darci. Stiamo già pensando alla riunione che avremo domani e poi fino al 14-15 marzo a Scampia, dove partirà la fase 3 delle Sardine. Lavoreremo meno all’arrembaggio delle piazze, e più per un’identità. Candidarci per ora resta fantapolitica. Ma abbiamo una pagina Facebook che, a livello di engagement, senza spendere un euro, è un patrimonio umano e politico preziosissimo. Una volta costruita la macchina, tra un anno saremo una Tesla che va ai 300 all’ora.

Pure la Bestia va ai 300 all’ora.

La macchina social di Salvini ha una potenza 100 volte superiore a qualsiasi altra. Sia per i soldi investiti, sia per i meccanismi di screditamento e disinformazione che è in grado di costruire. Può colpire me, come il Pd, come Di Maio o Toninelli. Appena ti esponi vieni attaccato. Si tratta di intimidazioni a mezzo hater. Io non ho cancellato nessun insulto social perché non sono Liliana Segre. Sono l’amico di una vita, l’insegnante dei tuoi figli, tuo cugino.. uno che non ha mai guadagnato più di 1.500 euro al mese. Altro che assoldato dai poteri forti. Sono attacchi scuola Trump e voto Brexit, per intenderci. Ma una forza politica che vive sul, e del, web dura finchè il sovranismo internazionale decide di foraggiarla. Quando il cavallo cambierà, e passeranno a tifare per la Meloni, Salvini verrà dimenticato.

In molti, social o non social, però già votano per Salvini. Anche nella tua regione.

L’Emilia-Romagna è divisa in due. Da una parte, quelle persone che oggi andranno solo a mettere una X. Dall’altra, quanti, per ragioni di vita, di volontariato, di associazionismo, costruiscono giorno dopo giorno la comunità in cui vogliono vivere.

Un messaggio per quell’altra Emilia.

Il messaggio è questo: oggi non si gioca una sfida tra partiti, ma tra due modi di vedere la società. Ci sono problemi anche nel centrosinistra, qui però è come se stessimo guardando una partita di calcio e, all’improvviso, appena l’arbitro si gira, c’è un giocatore che prende a pugni l’avversario. Noi la stiamo dando vinta, o persa, a qualcuno che la partita la gioca molto sporca. Non si sta votando un centrodestra liberale, perché i comunisti devono morire. Si vota per la democrazia. “Dignità” è stata da subito la nostra parola chiave. Dignità per il migrante come per l’elettore emiliano-romagnolo che, per due mesi, si è sentito solo raccontare di affidi, mucche, campanelli e Parmigiano reggiano.

Il governo, le dimissioni del capo politico dei 5S: pensi che l’eco di Roma si sentirà nelle urne?

Perché Di Maio avrebbe dovuto aspettare il voto per dimettersi? È come con la ragazza, non c’è mai il momento giusto per lasciarsi: se devi farlo, lo fai e basta.

Il momento più bello e quello più brutto di questi mesi.

Il più emozionante, l’assemblea aperta a Bibbiano. Vedere tutte quelle persone che, pur di esserci, erano per terra, stipate nei corridoi… Con le lacrime agli occhi, parlavano delle loro storie e si confrontavano. Un conto è andare in un territorio che teme il populismo, tipo a Bologna il 14 novembre, un conto è andare lì dove il populismo lo stai già subendo. A Bibbiano ho visto 300 persone che avevano le cicatrici di mesi e mesi di campagna elettorale sulla loro pelle: quelle cicatrici, però, si sono trasformate in energia. E a detta di molti, quella di Bibbiano è stata la piazza più bella di tutte.

Il momento più brutto?

Dopo la puntata di Dimartedì di Floris. Non perché ne siamo usciti male, ma perché sono stato catapultato in quel mondo dei media che non corrisponde al reale. Lo sapevo e ho sbagliato. Non puoi esprimere bellezza tra un Sallusti e un Senaldi…

Come passerai la giornata?

Una domenica di riposo. Incontrerò i miei amici che, dall’estero, sono tornati per votare, andrò a messa, e dalla mia ragazza. Maratona elettorale con gli intimi. E poi, da domani, si torna a lavorare.

I due Caputo rientrano in Regione (senza Salvini)

Socchiusa la porta di un’aula giudiziaria, si apre il portone dell’assemblea regionale con tanto di salto dalla Lega a Forza Italia. Mario Caputo era il primo dei non eletti di Noi con Salvini nel 2017. Ora prenderà posto tra i deputati dopo un ricorso contro l’elezione di Tony Rizzotto, da venerdì dichiarato ineleggibile dalla corte d’Appello di Palermo.

Su Caputo pende una richiesta di rinvio a giudizio della procura di Termini Imerese per attentato ai diritti politici dei cittadini. Ma a fare discutere è anche la probabile scelta, in linea con quella di Rizzotto, di non sposare il nuovo gruppo di Salvini.

Caputo punta dritto a Forza Italia. Che è l’ex partito del più noto fratello Salvatore, detto Salvino, deputato per quattro legislature nel centrodestra, ex dirigente leghista ma non ricandidato nel 2017 a causa di una condanna definitiva per abuso d’ufficio.

Sarebbe stato però un peccato sprecare la sua popolarità. Da qui la scelta di optare per il fratello Mario ma con un clamoroso trucco: cioè quello di fare credere ai cittadini, secondo i pm, che il candidato era proprio l’ex deputato Salvatore. Per riuscirci sarebbe bastato da un lato “diffondere manifesti e fac-simili elettorali con il solo cognome Caputo e senza fotografia” e dall’altro registrare la candidatura di Mario “con l’appellativo di Salvino”, cioè il nome con cui era conosciuto il fratello Salvatore. Se nella scheda scrivevi Salvino Caputo, in realtà votavi Mario. Nell’inchiesta i pm ricostruirono anche alcune ipotesi di voto di scambio, protagonista Salvatore Caputo, tra promesse di lavoro e corsie preferenziali per i test universitari.

Emilia-Romagna e Calabria alle urne: ecco come si vota

Da stamane alle 7 fino alle 23 di questa sera si vota in Emilia-Romagna e Calabria per eleggere il presidente e i consigli regionali. Quella che segue è una breve guida ai sistemi elettorali in vigore nelle due Regioni, a partire dalla Calabria su cui ieri Il Fatto ha commesso un grosso errore: nella punta dello Stivale non è più in vigore, infatti, il cosiddetto “voto disgiunto” tra liste e candidato governatore. Approfondendo la legge calabrese, però, oltre a scoprire quel che manca, il voto disgiunto, si scopre quel che c’è: incoerenze, errori di scrittura e almeno una previsione normativa che potrebbero dar luogo a motivati ricorsi.

Calabria. I circa 1,8 milioni di elettori calabresi devono eleggere il presidente (i candidati sono quattro , sostenuti da 14 liste) e 30 consiglieri regionali. Il sistema funziona come segue. L’80% dei seggi (24) è attribuito col proporzionale in 3 circoscrizioni: Cosenza (9), Catanzaro-Crotone-Vibo Valentia (8), Reggio Calabria (7). Ottengono eletti le liste che hanno superato il 4% dei voti a livello regionale. I restanti 6 seggi sono assegnati alle liste circoscrizionali che appoggiano il presidente eletto (premio di maggioranza) qualora queste non raggiungano il 50% dei seggi (15 su 30), mentre – se la coalizione raggiunge o supera la metà dei seggi – ottiene un premio dimezzato (3 seggi), il che – in alcuni casi – rende paradossalmente più conveniente restare sotto la maggioranza assoluta. In ogni caso la legge prevede che il vincitore abbia almeno 16 seggi su 30 (premio di governabilità).

Come detto, la Regione Calabria ha scelto – come ad esempio Marche e Abruzzo – di non consentire il voto disgiunto: è vietato, insomma, votare la lista del M5S o della Lega e poi il candidato presidente del centrosinistra Pippo Callipo (e viceversa, ovviamente). Si può votare nei seguenti tre modi: barrando solo il nome del candidato presidente; barrando il candidato presidente e una lista a lui collegata; barrando solo la lista (in questo caso il voto va anche al candidato governatore). Si può esprimere una sola preferenza. È eletto presidente chi prende più voti degli altri (non è necessario raggiungere la maggioranza assoluta), il secondo classificato è eletto di diritto in Consiglio regionale.

La Calabria in questi anni non si è dotata di una legge elettorale organica, ma ha proceduto facendo modifiche alla legge quadro nazionale: ne è risultata una normativa scritta in modo spesso confuso, con rimandi interni errati, a volte incoerente e palesemente illegittima almeno per quanto riguarda la parità di genere.

Dal 2016, infatti, la legge nazionale prescrive che “in ciascuna lista i candidati devono essere presenti in modo tale che quelli dello stesso sesso non eccedano il 60% del totale e sia consentita l’espressione di almeno due preferenze, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso”. Nella legge calabrese, invece, non solo non c’è la doppia preferenza alternata per genere, ma soprattutto – invece del criterio 60-40 – c’è questo: “Le liste elettorali devono comprendere candidati di entrambi i sessi”. Anche uno solo evidentemente: il risultato è che nell’ultimo consiglio regionale c’è stata a lungo una sola donna. Un bizzarro infortunio, infine, può essere considerata la pubblicazione sul sito della Regione di Istruzioni ai presidenti di seggio – che sono quelle del Viminale datate 2015 – in cui si parla del “voto disgiunto” e del “listino regionale”, anch’esso abolito o, meglio, ridotto al solo nome del candidato presidente.

Emilia-Romagna. Sono quasi tre milioni e mezzo i cittadini emiliano-romagnoli chiamati al voto oggi nei 328 Comuni della Regione per eleggere il loro presidente e 50 consiglieri: gli aspiranti governatori sono sette, sostenuti da 17 liste, i 739 candidati nelle liste sono quasi perfettamente divisi tra uomini e donne e la legge regionale prevede la doppia preferenza di genere. In Emilia-Romagna, al contrario che in Calabria, è possibile anche il “voto disgiunto” tra candidato governatore e lista di partito. Il sistema elettorale funziona così: 40 seggi su 50 (l’80%) sono attribuiti col proporzionale alle liste presentate nelle nove circoscrizioni (che coincidono con le province). La soglia di sbarramento è del 3% regionale, a meno che il candidato presidente non abbia superato il 5%.

Il governatore eletto – anche qui basta prendere un voto più degli altri – fa “scattare” l’elezione maggioritaria di 9 consiglieri nel listino regionale collegato al suo nome. Il 50esimo seggio spetta invece di diritto al candidato presidente arrivato secondo.

Si può votare, dunque, in 4 modi: solo per il presidente; per il presidente e per una lista a lui collegata; solo per una lista (il voto va automaticamente anche al candidato governatore); per un candidato presidente e una lista che ne appoggia un altro (è questo il cosiddetto “voto disgiunto”).

Sgarbi non è prof: a Perugia non s’è mai visto

Dice di voler diventare il sultano di Forza Italia. Anche se Silvio Berlusconi al massimo lo vede come assessore alla cultura nella giunta di Lucia Borgonzoni: Vittorio Sgarbi, capolista di Forza Italia in Emilia Romagna pensa come sempre in grande e spesso le spara grosse. Come quando nel 2018 aveva comunicato ufficialmente all’amministrazione della Camera dove era stato eletto, di essere professore ordinario di storia dell’arte all’Università per stranieri di Perugia, pur non essendolo. Ora il Miur lo ha scritto nero su bianco: “Dalle informazioni in possesso di questo ministero (…) non risulta essere inserito nei ruoli di professore ordinario” ma neppure di associato, di ricercatore a tempo indeterminato o a contratto. Insomma niente di niente. E così per non rischiare di perdere il seggio a Montecitorio ora Sgarbi dovrà sbianchettare il titolo di cui si era fregiato. E che tanti grattacapi ha procurato non solo alla Camera, ma pure all’Ateneo umbro. Che in effetti nel 2017 gli aveva fatto un contratto, ma da professore straordinario che però poi è stato stracciato perché il critico d’arte non ha mai preso servizio. All’Università per Stranieri di Perugia infatti, Sgarbi aveva fatto giusto in tempo a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico, ovviamente con il tocco e tutto il resto. Salvo poi volare in Sicilia per un incarico di assessore. Poi erano venute le elezioni politiche ed era stato eletto a Roma. E così a Perugia si erano convinti a invocare il recesso per giusta causa, anche perché la cattedra su cui avrebbe dovuto insegnare Sgarbi per 3 anni era stata finanziata dalla Fondazione CariPerugia con 300 mila euro che, a causa dell’impasse, sono restati fermi a lungo.

Insomma un gran pasticcio. Ma del resto Sgarbi anche a Montecitorio ha lasciato il segno. La Camera prima di invitarlo a rettificare il curriculum di accademico perugino, lo aveva tampinato per mesi perché aveva omesso di dichiarare una serie di incarichi che invece aveva davvero e che in teoria possono far scattare l’incompatibilità con il mandato parlamentare: proprio per questo i deputati che vengono nominati per una qualche carica in enti pubblici o privati e anche se assumono funzioni o attività imprenditoriali o professionali, devono comunicarlo entro 30 giorni all’Amministrazione in cui sono eletti.

Sgarbi aveva comunicato esclusivamente la carica di Presidente della Fondazione Cavallini-Sgarbi di Ferrara. Ma poi era venuto fuori che era pure presidente dell’Associazione culturale Rinascimento di Forlì, della Fondazione Canova di Possagno (TV) e del Museo di arte moderna e contemporanea di Rovereto. Di qui la richiesta di chiarimenti. Ne è seguita una missiva in cui ha confermato l’incarico al Mart (su cui ha imbracciato una contesa asprissima con il consigliere M5S di Trento Alex Marini), ma pure all’Associazione Rinascimento di Forlì e alla Fondazione Canova. Già che c’era ha dichiarato anche di essere pure membro del cda del Museo nazionale di scienza Galileo, del comitato scientifico delle Nuove Gallerie dell’Accademia di Venezia e della Galleria nazionale di Urbino, oltre che direttore artistico della Fondazione Pallavicino onlus di Genova. E ancora. “Sono presidente della squadra del Cervia Calcio, membro del Comitato nazionale per le celebrazioni dei 500 anni della morte di Raffaello Sanzio e nel cda Uni Rai, associazione del ministero dell’Istruzione dove presidente è il dr Cesare Romiti”. Sicuramente l’informazione non era richiesta, ma ha voluto abbondare: “Sono accademico dell’Accademia georgica di Treia e della Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savigliano del Rubicone. E infine comunico che il 27 settembre 2019 nel Santuario della Steccata a Parma, mi sono state conferite le insigne dell’onorificenza del Sacro Ordine Imperiale Angelico costantiniano di San Giorgio. Confidando di aver risolto ogni equivoco, porgo i sensi della mia stima”.

Ferrara, faida leghista (in chat)

Nulla è più pericoloso della sincerità. Specie in politica. Ancor di più se sei in consiglio comunale a Ferrara, il modello che Salvini vuole esportare in tutta l’Emilia-Romagna.

Ma forse il Capitano non è al corrente di cosa pensino i suoi stessi consiglieri dell’amministrazione estense, in mano al suo uomo di fiducia Alan Fabbri e al suo vice, Nicola ‘Naomo’ Lodi. Da mesi il gruppo del Carroccio è un ribollir di mugugni e malumori, tanto che gli stessi leghisti parlano di “non il nuovo che avanza, ma il marcio” e “poltronificio associato”. Sulla graticola finisce Anna Ferraresi, la vittima della “proposta indecente” ricevuta dall’allora collega di partito Stefano Solaroli: un lavoro in cambio delle sue dimissioni.

La consigliera, ora nel gruppo misto, è spalleggiata da altri scontenti. Raccolgono i loro sfoghi in una chat ristretta, i cui contenuti sono stati pubblicati da estense.com.

A fine agosto la “ribelle” è reduce da un redde rationem imposto da Lodi. Il vicesindaco è spalleggiato da Solaroli e dal capogruppo Benito Zocca. In tre la redarguiscono: o con noi o contro di noi. Ferraresi è presa di mira per le sue iniziative e perché osa scrivere, questa volta nella chat dell’intero gruppo, che “sarebbe buona cosa se vogliamo davvero fare il bene della nostra città iniziare a fare le cose per bene, con cognizione di causa. A me non va bene questo atteggiamento sempre superficiale su tutto. Ci facciamo ridere dietro”.

Dopo l’incontro cerca conforto nella chat carbonara. Lo trova: “Io sono sconvolta dal fatto che fossero tre contro una”, “Per me è vile e bestiale che si siano accordati in tre per tirare merda all’Anna”. Un altro ancora si preoccupa dell’indomani, quando la giunta, dopo che si è aumentata lo stipendio, pensa di alzare anche gli emolumenti dei consiglieri: “Il poltronificio associato mi ha detto ciò. Se passa che figura ci fa il sindaco?”. Un terzo ancora non ha dubbi: “Il sindaco ci fa una figura di merda”. Per la cronaca, l’atto è passato.

Altro pomo della discordia è la gestione dei fondi spettanti al gruppo. Il capogruppo vuole assolutamente un forno a microonde e un frigorifero. Sale l’indignazione. “Ritengo che l’acquisto non sia una scelta corretta – è uno dei commenti -: i fondi vanno impiegati per attività strettamente attinenti al nostro lavoro”. Nel frattempo il Comune boccia la richiesta. “Scusate – protesta Ferraresi -, ma prima di fare la figura di m…a non si poteva parlare prima? L’ufficio consiliare non è un luogo di ristoro”. “Trovo vergognosa la richiesta”, le fanno eco.

Ma sono diverse le gesta, specialmente del vicesindaco, a rodere il consenso della Lega in città. E i consiglieri ne sono consapevoli. “Ci sarà di sicuro un calo di voti, ma non so quanto interesserà – interviene uno di loro. Tanto la poltrona per cinque anni c’è”.

Si arriva al giorno dell’incontro segreto con Solaroli, quello dell’audio dello scandalo. “Se ti minaccia denuncia l’accaduto! Tu stai solo portando avanti istanze dei cittadini”. “Certo – replica Ferraresi – ma tanto, credimi, ad Alan (il sindaco, ndr) non frega un cazzo. È informato”.

“Ma come cazzo pensano di andare avanti? Come in una dittatura?”, è la domanda che sorge spontanea a un ulteriore consigliere. “Se non mi dispiacesse come leghista e per Salvini – aggiunge –, mi augurerei che perdessimo la Regione perché calano i voti a Ferrara. Cosa probabile”.

La conversazione si conclude con un amaro esame di realtà: “Questi leghisti non sono il nuovo che avanza, ma il marcio”.

In Francia si arriva a ripetere le elezioni

Da tempo sui social il silenzio elettorale è diventato niente più che un optional, il cui rispetto è demandato solo al bon ton dei soggetti. Le violazioni di ieri si aggiungono dunque a quelle dei mesi scorsi e la sensazione di impotenza è evidente. Né l’Agcom riesce a porvi rimedio, se non a “babbo morto” e con sanzioni che il più delle volte non appaiono tali da impedire il ripetersi delle scorrettezze. Se però sulle tv c’è un’inadeguatezza evidente tra il controllo sul pluralismo e la realtà di una pratica quasi sempre irrispettosa, a volte palesemente fuorilegge (come avviene ad esempio su Mediaset), sui social siamo all’anno zero.

Tranne qualche commendevole raccomandazione della stessa Agcom che invita al rispetto della par condicio

anche sui nuovi media, c’è il vuoto. Eppure in altri paesi, come in Francia (dove hanno affrontato il più vasto tema della normazione dell’intero sistema dei nuovi media) e in Spagna, l’obbligo del silenzio elettorale è stato da anni esteso ai media online. Sempre in Francia le sanzioni prevedono anche l’eventuale ripetizione delle elezioni in caso di palesi scorrettezze da parte dei media. È chiaro che il problema è innanzitutto legislativo, cioè adeguare-estendere la vecchia legge di par condicio

alla nuova realtà, cosa non complicata e difficile se ci fosse la volontà. Poi c’è il problema dell’Agcom, un istituto che pur disponendo dall’origine di poteri autonomi (niente gli vieterebbe di estendere la par condicio

ai nuovi media), non dispone di poteri sanzionatori cogenti, come si vede in queste settimane, e come si è visto in passato. Dalle nostre parti, poi, il Garante ha storicamente funzionato poco e male anche per propria colpa ( si vedano gli anni ‘caldi’ a cavallo tra i Novanta e i Duemila). Anche più di recente avrebbe potuto magari fare, più che esortazioni cortesi in un settore cruciale, una segnalazione ufficiale al Parlamento per colmare i vuoti normativi. Ma il pallino rimane comunque in mani governative.

Paure e ironie, l’attesa dei dem al Nazareno: “Se l’eroe Bonaccini vince, sarà segretario…”

Nicola Zingaretti è andato a chiudere la campagna elettorale in Calabria, a Catanzaro, dove la sconfitta del suo candidato, Pippo Callipo, viene data per certa da giorni e confermata da tutti gli indicatori. L’iniziativa finale ufficiale del segretario del Pd con Stefano Bonaccini è stata fatta giovedì sera, a Bologna, al circolo Arci Benassi. Location con posti limitati e orario fuori dai circuiti dei Tg.

Una doppia scelta che illumina un dato: il presidente uscente dell’Emilia-Romagna, nonché candidato governatore, ha preferito una presenza limitata del segretario del Pd. D’altra parte, se vince, sarà una sua vittoria. Se perde, una sconfitta attribuita soprattutto al partito nazionale e alla gestione del governo. La sua vera chance di essere il vincitore dipende dal voto disgiunto e da un’altissima partecipazione.

Ancora, stasera il comitato elettorale ufficiale sarà a Bologna. La maggior parte dei big del partito seguirà lo spoglio da casa. A meno di decisioni dell’ultimo minuto, in caso vada bene. Perché la paura di una sconfitta epocale è tale che è meglio stare lontani dalle telecamere. Questo per quel che riguarda la vigilia. Da domani, anzi da stanotte, comincia un’altra storia. Che riguarda non solo il segretario, ma la natura stessa del Pd. Zingaretti ha già annunciato un cambio di nome, uno scioglimento, un congresso. Una sorta di processo guidato verso un partito più a sinistra. Ma l’accelerazione e l’imprevisto sono dietro l’angolo.

Un’eventuale sconfitta in Emilia potrebbe sconvolgere i piani della vigilia. Che sono comunque quelli di mantenere lo status quo, sia al governo sia al partito, come dicono tutte le dichiarazioni ufficiali. Le dimissioni del segretario non sono all’ordine del giorno: sono pronti a blindarlo Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, prima di tutti. Anche perché è sempre meglio lasciare lui a gestire la débâcle. Ma se l’onda verde è imponente, l’operazione potrebbe non riuscire. Anche perché c’è il solito Matteo Renzi, che pensa di incunearsi nel dibattito già in corso tra i dem, tra chi vuole sciogliere il Pd così com’è per farlo diventare un soggetto più di sinistra e chi invece vuole continuare a rafforzare la sua anima riformista. L’ex premier ha un progetto: portare Dario Franceschini a Palazzo Chigi e con l’occasione pure Zingaretti al governo. Nel frattempo, lasciare a gestire l’“asta fallimentare” del partito (ovvero la sua trasformazione in un soggetto di sinistra) al vicesegretario Andrea Orlando. E nel frattempo scommettere sull’esodo verso il centro degli ex renziani rimasti nel partito. Sogni di grandezza, almeno in parte. Ma l’asse tra Franceschini e Lorenzo Guerini (e dunque Base Riformista) è sempre più forte. Come è vero che critiche alla gestione di questa fase sono arrivate più o meno velatamente da Graziano Delrio ed esplicitamente da Matteo Orfini. Con Andrea Marcucci che è tutto tranne che allineato sulla linea della segreteria. Nessuno è pronto a sostituire il segretario, ma tutti sono pronti a lanciare un attacco finale al quartier generale, che traballa di suo. Tra le variabili da attenzionare, l’eventuale distacco tra Lucia Borgonzoni e Bonaccini e il risultato della lista dem.

Naturalmente, esiste anche la possibilità di una vittoria di Bonaccini. A quel punto, Zingaretti, forte di un po’ di ossigeno, cercherà di ricapitalizzare, lanciando il cambiamento del Pd, da una posizione relativamente più semplice. Nei limiti: il tracollo possibile di M5S terremoterà il quadro e potrebbe trascinarte con sé l’amalgama con i grillini, che è stato tra i primi obiettivi della sua segreteria. Non solo. “Se Bonaccini vince, è un eroe. Sarà lui il prossimo segretario del Pd”. Qualcuno lo dice in battuta, ma in realtà è un’ipotesi che circola da mesi.

Il Conte2 rischia: la mina di Renzi arriverà martedì

La tentazione è lì, pronta a esplodere martedì quando Camera e Senato dovranno approvare le linee guida sulla giustizia del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ed è a Palazzo Madama che il manipolo di renziani italo-viventi proverà a far ballare la maggioranza, proprio nel giorno in cui alla Camera si voterà sulla pdl del forzista Costa sulla prescrizione. Ma come voteranno i renziani in Senato? In pratica, è la domanda e quindi il segnale che conferma l’agitazione del leader di Iv in questi giorni, con gli spin che arrivano numerosi alle redazioni sulle manovre per far sloggiare Giuseppe Conte da Palazzo Chigi. Anche nel caso di vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna, sia chiaro. L’allarme è arrivato soprattutto ai piani alti del governo dove ci si limita a dire che “c’è uno strano clima”.

Ed è per questo che a poche ora dal decisivo voto regionale di oggi c’è una crescente ansia nel Palazzo. Al punto che resuscita l’antica formula dell’unità nazionale. Ieri due esponenti molto diversi tra di loro, Maurizio Lupi da destra e l’ex grillino Lorenzo Fioramonti da sinistra, hanno rilasciato due interviste per invocare un nuovo governo qualora il Conte II dovesse cadere. Insomma lo spettro che s’aggira è quello delle elezioni anticipate, e che fa paura anche a Silvio Berlusconi, in teoria uno dei capi del centrodestra che domani dovrebbe andare a citofonare Mattarella per chiedere le urne in caso di sconfitta emiliana del Pd.

Ma davvero il quadro politico è così in fibrillazione? Sì e no allo stesso tempo. È vero che Renzi minaccia e provoca i giallorossi sul tema della giustizia e in particolare sulla prescrizione (la prossima settimana ci sarà pure l’ennesimo vertice di maggioranza in merito), con Dario Franceschini che sarebbe pronto a incunearsi come aspirante premier in un’eventuale crisi di governo. Epperò è impossibile prevedere cosa succederà se Matteo Salvini dovesse conquistare la più importante roccaforte rossa dal Dopoguerra in poi, l’Emilia-Romagna. Si possono tracciare scenari a iosa ma bisogna attenersi anche alle dichiarazioni rassicuranti del premier e del segretario dem sulla prosecuzione di questo esecutivo a prescindere dal risultato.

Senza dimenticare che il pessimismo di queste ultimissime ore appare irrazionale per un semplice motivo: nessun sondaggista può calcolare quanto sarà l’affluenza, la vera incognita elettorale. Al Nazareno confidano che un numero alto di elettori soprattutto a Bologna, Reggio Emilia e Modena (e in alcuni casi c’è stata la fila per ritirare il certificato elettorale a differenza di cinque anni fa quando l’astensionismo superò il 60 per cento) possa trainare al successo Bonaccini. Vedremo.

Nel frattempo, il post-voto emiliano-romagnolo (e calabrese, ma qui la vittoria del centrodestra appare scontata) partorirà la data chiave del referendum sul taglio dei parlamentari. Forse il consiglio dei ministri la fisserà già la prossima settimana. Si parla di una delle quattro domeniche tra l’ultima decade di marzo e la prima di aprile. Un modo ulteriore per blindare la legislatura. Con le urne referendarie fissate e in caso di crisi, Mattarella dovrebbe assumersi la responsabilità di sospendere il referendum e consentire il voto politico. Il quale potrebbe anche slittare in autunno, invece, per fare il referendum in primavera.

Scenari, appunto. Che devono tenere conto, poi, del fatto non secondario che nessuno, tranne Matteo Salvini, vuole andare al voto. Certo, Renzi potrebbe essere tentato dal voto anticipato per congelare il Parlamento attuale (945 componenti al posto di 600) e il Rosatellum, ma il suo sembra più un bluff che altro. Non c’è nulla da fare, bisogna aspettare le urne. In un’atmosfera di grande paura giallorossa.

Altro che silenzio: Salvini fuorilegge parla sui social

Luca Morisi l’inventore della “Bestia” social di Matteo Salvini ce la metterà tutta fino all’ultimo minuto utile: le 23 di oggi quando in Emilia Romagna si chiuderanno le urne per eleggere il nuovo presidente della Regione. “Continuiamo a girare, messaggiare, usare i social: non vale qui il silenzio elettorale. Convinciamo e vinciamo, ve lo assicuro” ha scritto su Facebook invitando i sostenitori del Carroccio a non mollare. Perché in assenza di regole scritte è il web l’ultima trincea della caccia all’ultimo voto. Salvini non se lo fa dire due volte e infatti ieri ha ripreso di buon mattino l’assalto a Twitter e Fb per suonare la carica: sui 59 migranti recuperati dalla Ocean Viking, contro comunisti e Sardine. Soprattutto insiste sulle croci da mettere sulla scheda elettorale con cui conta di dare lo sfratto al governo tutto “tasse, sbarchi e manette”.

“Salvini si spinge perfino a mettere in discussione il voto disgiunto: ha paura e si dimostra ancora campione di fake news”, ribatte la segreteria del Pd quando a insistere sulla violazione del silenzio elettorale da parte del leader leghista è rimasto solo Michele Anzaldi di Italia Viva. Carlo Calenda è più realista: “Sono come le polemiche sul Festival di Sanremo, una costante. O iniziamo a fargli 2 milioni di euro a post di multa, o parliamo d’altro”. Insomma alla fine della giornata il clima è quello che è. Ma nessuno arriva a chiedere l’intervento della Polizia postale per l’oscuramento degli account, come in passato.

Restano le raccomandazioni dell’Autorità delle comunicazioni in base alle quali il silenzio prima delle elezioni dovrebbe valere anche per i social. Ma nessuno lo rispetta. Anche perché, come spiega al Fatto il commissario Agcom Antonio Nicita “la competenza a intervenire è delle prefetture che finora non hanno seguito la nostra impostazione che deriva dalla constatazione che le piattaforme online sono state già equiparate dalla Cassazione penale a luoghi pubblici”.

Agli internauti refrattari alla propaganda salviniana non resta che difendersi con l’ironia: “Scatta il silenzio elettorale: citofoni staccati fino alle 23” scrive un utente riferendosi allo scampanare di Salvini a caccia di spacciatori veri o presunti al quartiere pPilastro di Bologna che ha provocato un mezzo incidente diplomatico con la Tunisia. “L’unico silenzio elettorale è quello che ha osservato per tutto il tempo Lucia Bergonzoni” scrive un altro che commenta la sottoesposizione della candidata della Lega quando la polemica via web ha ormai toccato vette da fight club.

Il primo colpo lo sferra proprio il Carroccio che denuncia il candidato governatore del centrosinistra Bonaccini, reo di non aver disattivato alla mezzanotte le inserzioni a pagamento sui social. “Poiché ha contravvenuto alle norme elettorali abbiamo deciso di procedere alla riattivazione delle nostre, in attesa di chiarimenti”. Ad udire i leghisti che invocano il cartellino giallo per il presunto fallo, lo staff del governatore uscente va su tutte le furie. “Sconcerta la segnalazione della Lega di presunte violazioni del silenzio elettorale da parte altrui. La Lega è un partito che ha fatto della sistematica violazione di queste regole il proprio abituale comportamento. E il suo leader non ha mai rispettato il silenzio elettorale nemmeno da ministro dell’Interno, quando avrebbe dovuto svolgere una funzione di garanzia per tutti. Non sono nelle condizioni di dare lezioni di moralità e legalità a nessuno”. Insomma il “cessate il fuoco” non tiene: alla fine Bonaccini posta pure lui un messaggio per ringraziare tutti e convincere gli ultimi indecisi. La caccia social all’ultimo elettore può proseguire.

Bonafede e malafede

Anzitutto una rettifica importante col capo cosparso di cenere. Ieri ho scritto che chi non vuol regalare a Salvini anche l’Emilia Romagna e la Calabria, e prossimamente tutta l’Italia, può usare il voto disgiunto: votare la lista che preferisce e poi barrare il nome del candidato governatore che ha più chance di battere quello di centrodestra. Cioè Bonaccini in Emilia Romagna e Callipo in Calabria. Lo confermo per l’Emilia Romagna, ma non per la Calabria, la cui legge elettorale non consente il voto disgiunto: lì chi lo pratica annulla la scheda. In Calabria, chi vuol votare Callipo deve scegliere una lista a lui collegata e non, per esempio, quelle dei 5Stelle.

Ora, corretto il mio errore, vorrei occuparmi di quello commesso del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede l’altra sera a Otto e mezzo. Una giornalista di Repubblica, ignara di vent’anni di battaglie del suo giornale per bloccare la prescrizione, contestava la legge che blocca la prescrizione: “Lei non pensa agli innocenti che finiscono in carcere?”. Argomento demenziale, visto che la blocca-prescrizione non cambia di una virgola la sorte degli eventuali innocenti in carcere. I quali non possono essere i detenuti che espiano la pena, cioè i condannati in via definitiva, per definizione colpevoli. Ma i detenuti in custodia cautelare (arrestati prima della sentenza in base a “gravi indizi di colpevolezza” per evitare che fuggano o inquinino le prove o reiterino il reato): che però, per la nostra Costituzione, sono già “presunti innocenti”. Quindi non c’è nulla di scandaloso se un “presunto innocente” è in carcere: è la legge che lo prevede. Solo la sentenza definitiva dirà se era colpevole o innocente. Nel frattempo anche chi è stato colto in flagrante, o ha confessato, o è stato fotografato o filmato o intercettato mentre commetteva il reato, resta “presunto innocente”. Ma, se viene arrestato, la durata della custodia cautelare non dipende dal sistema di prescrizione, bensì dai termini fissati dalla legge per ogni fase e grado del processo. Se il processo dura troppo, l’imputato uscirà anche in futuro per decorrenza dei termini (che la legge Bonafede non sfiora neppure). Certo, senza prescrizione in appello, chi prima poteva farla franca dopo la prima condanna, ora potrà tornare dentro fino a sentenza definitiva e, se condannato, restarci per espiare la pena. Ma è tutto fuorché innocente. Per la custodia occorrono “gravi indizi di colpevolezza”. E i giudici dichiarano prescritto il reato solo se ritengono che l’imputato non sia innocente: altrimenti, per legge, devono assolverlo, non avendo un bel nulla da prescrivere.

La prescrizione durante il processo è riservata ai colpevoli. Infatti chi si ritiene innocente può rinunciarvi per farsi assolvere oltre i termini e, se viene dichiarata dal giudice, può impugnarla per chiedere l’assoluzione. Quindi l’argomento “innocenti in carcere” non c’entra nulla con la blocca-prescrizione, che non manda in carcere nessun innocente. Serve solo a buttarla in caciara, come quando si parlava degli scandali di B. e i suoi servi strillavano: “E le foibe? E Cuba? E Stalin? E Pol Pot?”. Stupefatto da un’obiezione così strampalata, Bonafede risponde: “Cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere…”. Senza aggiungere ciò che la sua frase sottintende: “…con la blocca-prescrizione”. Quando poi la giornalista gli ricorda i detenuti risarciti, scioglie subito il quiproquo: “Ah ok, quella è un’altra questione e infatti sono il ministro che più di tutti ha inviato gli ispettori per verificare i casi di ingiusta detenzione”. Se il dibattito fosse fra persone competenti e in buona fede, l’equivoco si chiuderebbe lì. Invece si scatena la solita canea politico-mediatica sulla presunta “gaffe” del ministro ignorante, manettaro e giustizialista, mentre le lobby avvocatesche chiedono la sua testa e i giuristi per caso lo sbeffeggiano sui giornaloni tirando in ballo Enzo Tortora, cioè fingendo di non capire o non capendo proprio.

A questo punto è forse il caso di chiarire una volta per tutte il concetto di innocente/colpevole. Che non equivale affatto a condannato/assolto. L’innocente è chi non ha commesso il reato, il colpevole colui che l’ha commesso. Ma, se uno è innocente o colpevole, lo sa soltanto lui, che però non può giudicarsi da solo. Così, da che mondo è mondo, si delegano dei giudici a valutare eventuali testimonianze e prove, regolate da limiti precisi. La loro sentenza (assoluzione, o condanna, o prescrizione) è una pura convenzione: salvo rarissimi casi, non potrà mai fotografare l’intera “verità storica”, ma solo analizzare gli elementi utilizzabili raccolti, cioè la “verità giudiziaria”. In questa convenzione, da tutti accettata per evitare che le vittime si facciano giustizia da sole, è previsto che un probabilissimo colpevole venga assolto perché le prove non bastano al giudice per condannarlo. E, in Italia, che un sicuro colpevole non sia condannato perché è passato troppo tempo.

Per la Costituzione, anche chi sa di essere colpevole e di averla fatta franca per mancanza di prove (che è stato bravo a nascondere) o per prescrizione (che è stato bravo a far scattare, facendosi scoprire dopo anni o facendo durare il processo all’infinito), è “innocente”. Il che non vuol dire che abbia subito una “ingiusta detenzione”, o che il suo processo sia un “errore giudiziario”, o che chi l’ha visto delinquere abbia sbagliato persona. Il mondo e soprattutto l’Italia sono pieni di innocenti per legge ma colpevoli nei fatti, e nessuno lo sa meglio di loro. Gli errori giudiziari più diffusi non sono gli arresti e le condanne di innocenti (sempre possibili, nella fallibile giustizia umana): sono le scarcerazioni e le assoluzioni dei colpevoli.