Dopo l’ennesima chiusura di una libreria – Paravia, la seconda più antica d’Italia –, sul “Fatto” abbiamo ospitato una serie di riflessioni sulla crisi del settore: interviene ora Michela Sfondrini della Libreria Sommaruga di Lodi.
Ho letto con interesse e attenzione il dibattito che ha preso piede, in questi giorni, sul tema della difficile sopravvivenza delle librerie, dibattito alimentato dalla notizia della chiusura della storica Paravia a Torino. Non solo ho letto con interesse ma mi dichiaro, fin da subito, “interessata”: sono libraia, ormai da vent’anni, in una libreria indipendente, resistente e di provincia, direi un esemplare perfettamente rappresentativo di una categoria che fa fatica eppure, ogni giorno, ben consapevole delle difficoltà da affrontare, si attrezza di una misura di fantasia, flessibilità, passione e professionalità che meriterebbe, da parte dei nostri “decisori” e anche di tanti uomini di cultura, un’attenzione ben maggiore di quella che ci viene riservata.
“Bisogna creare una atmosfera cordiale, non standardizzata né morta”, suggerisce Montroni. “Le librerie sopravvivono se diventano luoghi sociali, in cui condividere un’esperienza, un libro. Il tema non è leggere ma discutere”, aggiunge Laterza. Ebbene, mi piacerebbe si sapesse che le librerie che resistono sono già esattamente come ci suggerisce di diventare chi è intervenuto sulle pagine di questo giornale.
Purtroppo la realtà è ben più dura di quella descritta e non bastano semplici accorgimenti affidati all’iniziativa o alle risorse personali e professionali del singolo libraio. Molto spesso chi chiude è già l’anima e l’animatore di spazi vivi, vitali e di incontro tra le persone; spesso chi chiude è promotore, protagonista o partecipante attivo del dibattito culturale del mondo cui appartiene, piccolo o grande che sia. Ma ciò non basta, non basta più.
Le ragioni della chiusura sono da ricercarsi altrove: nel pessimo funzionamento della filiera del libro, in primis, penalizzante per i “piccoli” e funzionale all’interesse dei grandi, e nello scollamento tra la retorica con cui si riconosce – ma solo a parole – il ruolo delle librerie come presidi sociali importanti e la realtà del mercato del libro di cui, francamente, la nostra classe dirigente si fa un baffo o che, nel migliore dei casi, non conosce a fondo. Il cosiddetto mercato del libro ha delle peculiarità non indifferenti che tutti ha favorito, finora, tranne che i librai indipendenti e le piccole librerie: concentrazioni abnormi sul fronte degli editori, saldature perfette tra chi edita, chi distribuisce e chi vende, ossia non semplici solide alleanze ma identica proprietà all’interno della filiera del libro, il prezzo solo apparentemente imposto e uguale per tutti, in realtà oscillante e a tutto vantaggio delle librerie di catena, dei supermercati o della vendita online.
Forse, sempre che lo si voglia, non è (ancora) troppo tardi per aprire un dibattito vero, lasciando spazio e voce anche ai piccoli e ai provinciali, certamente; però, è ora il momento per riaprire la partita della nuova legge sul libro, il cui percorso si è interrotto con la caduta del governo gialloverde, che rappresenta il fronte sul quale si giocherà il futuro non solo del mio lavoro – cosa che giustamente interessa forse solo a me – ma il futuro del libro, dell’editoria e di una bella fetta di cultura in Italia.