“Il mercato ha favorito tutti tranne i librai indipendenti”

Dopo l’ennesima chiusura di una libreria – Paravia, la seconda più antica d’Italia –, sul “Fatto” abbiamo ospitato una serie di riflessioni sulla crisi del settore: interviene ora Michela Sfondrini della Libreria Sommaruga di Lodi.

Ho letto con interesse e attenzione il dibattito che ha preso piede, in questi giorni, sul tema della difficile sopravvivenza delle librerie, dibattito alimentato dalla notizia della chiusura della storica Paravia a Torino. Non solo ho letto con interesse ma mi dichiaro, fin da subito, “interessata”: sono libraia, ormai da vent’anni, in una libreria indipendente, resistente e di provincia, direi un esemplare perfettamente rappresentativo di una categoria che fa fatica eppure, ogni giorno, ben consapevole delle difficoltà da affrontare, si attrezza di una misura di fantasia, flessibilità, passione e professionalità che meriterebbe, da parte dei nostri “decisori” e anche di tanti uomini di cultura, un’attenzione ben maggiore di quella che ci viene riservata.

“Bisogna creare una atmosfera cordiale, non standardizzata né morta”, suggerisce Montroni. “Le librerie sopravvivono se diventano luoghi sociali, in cui condividere un’esperienza, un libro. Il tema non è leggere ma discutere”, aggiunge Laterza. Ebbene, mi piacerebbe si sapesse che le librerie che resistono sono già esattamente come ci suggerisce di diventare chi è intervenuto sulle pagine di questo giornale.

Purtroppo la realtà è ben più dura di quella descritta e non bastano semplici accorgimenti affidati all’iniziativa o alle risorse personali e professionali del singolo libraio. Molto spesso chi chiude è già l’anima e l’animatore di spazi vivi, vitali e di incontro tra le persone; spesso chi chiude è promotore, protagonista o partecipante attivo del dibattito culturale del mondo cui appartiene, piccolo o grande che sia. Ma ciò non basta, non basta più.

Le ragioni della chiusura sono da ricercarsi altrove: nel pessimo funzionamento della filiera del libro, in primis, penalizzante per i “piccoli” e funzionale all’interesse dei grandi, e nello scollamento tra la retorica con cui si riconosce – ma solo a parole – il ruolo delle librerie come presidi sociali importanti e la realtà del mercato del libro di cui, francamente, la nostra classe dirigente si fa un baffo o che, nel migliore dei casi, non conosce a fondo. Il cosiddetto mercato del libro ha delle peculiarità non indifferenti che tutti ha favorito, finora, tranne che i librai indipendenti e le piccole librerie: concentrazioni abnormi sul fronte degli editori, saldature perfette tra chi edita, chi distribuisce e chi vende, ossia non semplici solide alleanze ma identica proprietà all’interno della filiera del libro, il prezzo solo apparentemente imposto e uguale per tutti, in realtà oscillante e a tutto vantaggio delle librerie di catena, dei supermercati o della vendita online.

Forse, sempre che lo si voglia, non è (ancora) troppo tardi per aprire un dibattito vero, lasciando spazio e voce anche ai piccoli e ai provinciali, certamente; però, è ora il momento per riaprire la partita della nuova legge sul libro, il cui percorso si è interrotto con la caduta del governo gialloverde, che rappresenta il fronte sul quale si giocherà il futuro non solo del mio lavoro – cosa che giustamente interessa forse solo a me – ma il futuro del libro, dell’editoria e di una bella fetta di cultura in Italia.

“Jo voleva bruciare 100 mila lire. Le gridai: ‘Ci arrestano’”

Tesa. “Zero”. Impossibile, almeno un po’. “Lo sarò prima di salire sul palco. Perché Sanremo non è un palco qualunque, e lo so bene”. Forse perché certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano (Venditti dixit), dopo 29 anni Sabrina Salerno si trova nuovamente all’Ariston, questa volta accanto al presentatore, Amadeus, e non in gara come nel 1991, quando con Jo Squillo cantava “siamo donne, oltre alle gambe c’è di più”, e “dentro di me pensavo: c’è bisogno di dirlo? sembra una cavolata”.

E invece?

Sbagliavo, e quando si è ventenni si rischia di banalizzare aspetti importanti della quotidianità; oggi più di ieri quella frase è importante.

Anche Amadeus è caduto su una frase infelice durante la conferenza stampa.

Ci sono rimasta male per lui, perché so perfettamente che persona è e qual è la sua sensibilità: in realtà voleva intendere il contrario, e ne abbiamo a lungo parlato.

E…

Anche a me capita di stare un passo indietro a mio marito, come può succedere il contrario, il Festival sarà una delle occasioni, o quando mi riconoscono per strada e, a volte, è lui a scattare la foto, con mio figlio che sistematicamente mi prende in giro.

I suoi la seguiranno a Sanremo?

Mio figlio non ci pensa proprio, resta a casa, preferisce non perdere ore alle superiori: per lui sono mamma e basta, la sfera professionale non la prende in considerazione.

Lei professionalmente nel 1991.

Pensavo solo a correre, correre, senza mai fermarmi; c’erano giorni in cui mi svegliavo e non sapevo il giorno della settimana e la città nella quale mi trovavo. Totalmente incosciente. Anzi: io e Jo, due incoscienti desiderose di farsi notare.

Senza gelosia reciproca?

Macché, al massimo abbiamo discusso prima di salire sul palco: come forma di provocazione Jo voleva bruciare in diretta una banconota da 100 mila lire, e io a gridarle: ‘Sei pazza? Ci arrestano, sicuro finiamo in galera’.

In compenso il suo bikini è rimasto storico.

Su quello non hanno protestato (ride, poi cambia discorso); il giorno prima mi ero scambiata la giacca con Loredana Bertè.

Come mai?

Non ricordo benissimo, ma credo per certificare la ritrovata armonia.

Cosa era successo?

Una lite sciocca nata durante un Festivalbar; ma a quel tempo era un classico, si creavano delle reali o presunte rivalità tra donne, e solo per questioni di copertine e visibilità; comunque la nostra venne sanata da Raffaella Carrà e l’incrocio delle giacche era un suggello di pace.

Ha rivisto la sua esibizione in “Siamo donne”?

Per carità, non mi guardo mai, mi imbarazzo, però ricordo il commento finale di Vincenzo Mollica: ‘Il duetto Salerno-Jo Squillo è l’unico momento divertente del Fetival di quest’anno’.

Contenti gli altri concorrenti…

In quell’edizione sono diventata molto amica di Mietta e Umberto Tozzi (anche loro erano tra i concorrenti) e ancora oggi ci sentiamo.

Lei personalmente nel 1991.

Non particolarmente serena, tormentata, alla ricerca di me stessa. Il contrario di quello che apparivo.

L’obiettivo di allora?

Lavorare anche all’estero, programmare il grande salto, non cadere nel clichè dei detrattori che mi incasellavano nel ruolo di ‘meteora’.

All’estero è conosciuta.

Il paradosso è che oggi forse lo sono più che in Italia: in Francia ho tra i 150 e i 180 concerti l’anno, e da molte stagioni, mentre in Spagna hanno pubblicato un libro con delle mie foto che ha venduto oltre 300 mila copie.

Oggi è sempre tormentata?

No, per fortuna ho impiegato bene questi 29 anni.

Canterà “Boys” sul palco?

Alt! E mica posso dirlo, come non risponderò mai a domande su pronostici e preferiti; però c’è un dato: con le sue polemiche, le sue discussioni, le pagelle, i commenti sugli abiti, Sanremo è uno dei pochi momenti comuni del Paese. Ed è bello, ed è raro. E sono felice di farne parte.

@A_Ferrucci

“Basta solo convertirsi, accettiamo cani e porci”

Dal 30 gennaio, in libreria con Chiarelettere “Se vuoi dirmi qualcosa, taci. Dialogo tra un ebreo e un ligure sull’umorismo”. Protagonisti, Moni Ovadia e Dario Vergassola. Ne pubblichiamo un’anticipazione dal capitolo “Cani e porci”.

Dario: Senta, Moni: l’ebraismo ortodosso è riluttante ad accettare le conversioni. Come mai da voi c’è più selezione all’ingresso che nel privé del Covo di Nord-est? Come mai non si può entrare che manco la P2?

Moni: No, all’ebraismo ci si può convertire, e tra l’altro sono state accettate alla conversione persone…

D.: Cani e porci.

M: Non si indaga sulla famiglia di nessuno. Per esempio, il figlio del grande gerarca nazista Martin Bormann, il segretario di Hitler, si è convertito all’ebraismo in Israele ed è diventato anche un rabbino ortodosso.

D.: Ma l’avrà fatto per provare l’ebbrezza?

M: Però è vero che non sono favorite le conversioni, perché è un po’ come dire “essere negro non ti bastava?” Il sottotesto è: ma chi te lo fa fare? Ti senti bene? Detto questo, però, alla fine vengono accettate. Ci sono diverse conversioni. Quelle ortodosse richiedono molti anni, dai dieci ai tredici anni di studio e di preparazione. Lo dico con una storiella così si chiarisce. Come si distingue una sinagoga ortodossa da una sinagoga conservative, che è un primo livello di riforma, e da una sinagoga liberal? Basta andare ai matrimoni. Al matrimonio della famiglia chassidica, la madre della sposa è incinta, perché fanno figli in continuazione; nella cerimonia conservative, è incinta la sposa; nella sinagoga liberal, è incinta il rabbino, perché abbiamo le donne rabbino.

D.: Nella parrocchia cattolica, invece, stanno mettendo incinta la sposa.

M: Comunque si accetta la conversione, e alcuni convertiti sono stati fra i più grandi maestri dell’ebraismo…

D.: Perché sono partiti con passione.

M.: …Convertiti e figli di convertiti, perché in realtà il patriarca di tutti i convertiti è Abramo, poiché è stato il primo a passare da una condizione di idolatra a una condizione di monolatra, fino a diventare il patriarca dei monoteisti. Dunque le conversioni sono accettate, però sono impegnative. Naturalmente, ci sono anche rabbini corrotti.

D.: Però si diventa ebrei per via materna, che tra l’altro è una bellissima coincidenza, perché anche da noi in realtà il padre non conta una mazza. È la madre quella che porta avanti tutta la baracca.

M: Sì, è così. La madre trasmette l’identità ebraica, perché l’etica ebraica ritiene che il ventre materno sia in grado di trasformare le tenebre in luce. Per cui non esiste lo stupro etnico, nell’ebraismo: il figlio della madre ebrea è ebreo. Il padre potrebbe essere un nazista, un kirghiso, un turkmeno… non ha importanza. Il padre non conta niente, nell’identità ebraica.

D.: Quando nasce è ebreo, non c’è niente da fare.

M: Sì, quando nasce da madre ebrea. Ma, perfino se lei potesse dimostrare che nella sua linea matrilineare dieci generazioni fa c’era una donna ebrea e che da quella donna sono discese da donna in donna fino a sua madre, anche se tutte le altre non sono state ebree e hanno praticato altre religioni, lei può rivendicare di essere ebreo.

D.: Cioè è come una cosa dormiente, che però ha un seguito.

M: Comunque la conversione è accettata, fino al punto che il più famoso convertito è stato un generale romano, nipote dell’imperatore Tito che lo aveva mandato a reprimere la Giudea. Lui si innamorò dell’ebraismo e si convertì. Si chiamava Onkelos, e il suo commentario alla Bibbia è considerato uno dei più importanti punti di riferimento della tradizione.

D.: Okay. Non l’ho interrotta perché questa la sapevamo già.

M: Certo, son cose di normale amministrazione.

La “tregua vigilata” dai mercenari siriani

Inaugurando a Istanbul la prima università turco-tedesca alla presenza di Angela Merkel, il presidente Recep Tayyip Erdogan non ha perso occasione per ribadire che “se la comunità internazionale non riuscirà a fermare il golpista Haftar in Libia, il caos si diffonderà in tutto il Mediterraneo”. La Cancelliera ha risposto che “siamo impegnati a mantenere il cessate il fuoco che dopo la sua definizione è stato occasionalmente violato. Ma dopo l’incontro a Mosca il conflitto è diminuito”. Merkel ha aggiunto che il format 5+5 si riunirà al più presto per rafforzare la tregua.

Intanto l’opinione pubblica turca continua a giudicare inopportuna la decisione di Erdogan di inviare soldati in Libia per difendere il premier del governo di accordo nazionale, Fayez al-Serraj. Anche per questa ragione, il “Sultano” ha deciso, per ora, di spedire nella capitale libica solo combattenti siriani, a parte una trentina di istruttori turchi. Finora sarebbero circa 2mila i mercenari e ribelli islamici prevalentemente siriani di etnia turcomanna impegnati a combattere con armi e soldi turchi il presidente dittatore Bashar al-Assad e attualmente concentrati nel nord della Siria dopo aver conquistato nel 2018 fa il cantone curdo di Afrin. Molti di loro facevano parte del cosiddetto Esercito nazionale siriano, involuzione, più che evoluzione, dell’ex Esercito libero siriano creato da Ankara e dai clan sunniti più potenti della Siria per detronizzare il rais siriano. I miliziani hanno raggiunto la Libia, dopo aver scavalcato senza ostacoli il confine, volando direttamente dalla Turchia a Tripoli. A rendere più invitante il teatro di guerra libico, c’è, ovviamente, la paga. Anche i più convinti jihadisti vengono indotti a continuare a combattere anche in altri paesi grazie agli aumenti di stipendio.

Nonostante le giustificazioni ammantate da imperativi religiosi, le milizie siriane sostenute da Ankara hanno commesso sui civili curdo-siriani – la maggior parte dei quali appartenente all’islam sunnita come i jihadisti – terribili violazioni dei diritti umani tra cui omicidi, torture e stupri. E ora sono pronte a ripeterle in Libia. “Questa è una situazione molto diversa dalla Siria”. Alla vigilia di Natale c’è stato un primo dispiegamento di 300 uomini della seconda divisione dell’esercito nazionale siriano, il 29 dicembre ne sono arrivati altri 350, tutti assegnati a posizioni di prima linea. Altri 1.350 uomini sono entrati in Turchia il 5 gennaio. Alcuni da allora sono stati schierati in Libia mentre altri sono ancora sottoposti ad addestramento nei campi della Turchia meridionale. Secondo gli osservatori anche i miliziani della legione islamica Sham stanno prendendo in considerazione l’idea di andare in Libia. È probabile che questi si uniranno alla divisione che prende il nome dal leader della resistenza libica Omar al-Mukhtar, che fu giustiziato dall’Italia nel 1931 e divenne popolare in Siria durante la primavera araba del 2011. I combattenti hanno firmato contratti di sei mesi con il governo di accordo nazionale libico sostenuto dall’Onu, anzichè con l’esercito turco, hanno spiegato fonti interne all’Sna. Lo stipendio sarebbe di 1500 euro al mese, una somma enorme rispetto alle 450-550 lire turche (52-72 euro) al mese che guadagnano in Siria. Ma ciò che ha fatto infuriate i turchi è stata la promessa del governo guidato dal partito di Erdogan di accordare la nazionalità turca ai tagliagole siriani disposti ad andare in Libia. Un altro escamotage architettato dal Sultano per ottenere nuovi voti alle prossime elezioni e scaricare su Serraj il peso economico dei miliziani sul suo libro paga dal 2011.

Trump: l’Accordo del secolo (scorso) cancella i palestinesi

L’Accordo del secolo – come lo ha definito la Casa Bianca – sarà finalmente rivelato martedì prossimo dal presidente Donald Trump, giusto un paio di giorni prima dell’arrivo del premier Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti. È stato invitato anche il suo rivale politico, l’ex capo dell’esercito Benny Gantz che guida il partito centrista Kahol Lavan. Ma l’ex generale ha fiutato una trappola politica e deciderà questo weekend se andare a Washington. Né l’Accordo del Secolo né la visita possono fare molto per promuovere la causa della pace, ma l’occasione promette di essere uno spettacolo surreale.

Se tutto andrà secondo i piani, Donald Trump, che è sotto processo al Senato per l’impeachment, ospiterà Netanyahu, che è sotto accusa per corruzione, frode e violazione della fiducia. La “presentazione” non include alcun rappresentante dell’altra parte del conflitto. I palestinesi rifiutano di impegnarsi con un’Amministrazione che considerano distorta a favore di Israele. L’Accordo sembra andare incontro a ogni più rosea aspettativa della destra israeliana sull’annessione della Cisgiordania. Dallo scorso settembre Netanyahu sbandiera l’annessione della Valle del Giordano, come una scelta ineluttabile per Israele. E nel Piano della Casa Bianca Israele si potrà annettere dal 30% al 40% dell’area C della Cisgiordania, che è oggi sotto il controllo israeliano sia militare che civile. In questa area c’è la Valle del Giordano, un polmone verde e agricolo dove attualmente vivono 13.000 coloni e quasi 5.000 agricoltori palestinesi. Il piano di pace inoltre lascia Gerusalemme nella sua interezza nelle mani di Israele con i palestinesi che avranno solo un accesso simbolico alla città. Ciò pone fine ai parametri proposti dall’allora presidente Bill Clinton nel 2000, che avevano lasciato il “miglio santo” (nella Città Vecchia) e i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est all’Autorità palestinese, come futura capitale della Palestina. Ai palestinesi verrebbe “assegnato” il loro Stato, anche se con forti limitazioni. Non potrà avere un esercito, né stringere alleanze con altri Paesi, non avrà alcun controllo del suo spazio aereo o né suoi confini. Ai palestinesi sarebbe inoltre richiesto di smilitarizzare la Striscia di Gaza e disarmare Hamas.

È sicuro, nessun leader palestinese è in grado di accettare proposte così draconiane. Husam Zumlot, alto diplomatico e consigliere del presidente Abu Mazen dice che l’ultima mossa da Washington “rafforza ancora di più il nostro rifiuto assoluto di ciò che l’Amministrazione Usa ha fatto finora, in particolare con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e altre decisioni che violano il diritto internazionale”. E Bassem Naia, esponente di Hamas avverte senza mezzi termini su Twitter: “I palestinesi ostacoleranno l’attuazione dell’accordo, a qualunque prezzo. Ci sarà una nuova #Intifada”. La Casa Bianca ritiene che sostanziosi aiuti economici discussi in Bahrein nel giugno 2019 saranno l’incentivo per i palestinesi. Jared Kushner, genero e consigliere di Trump, ha chiesto ai Paesi sunniti amici degli Usa di impegnare 50 miliardi di dollari in aiuti all’Anp. Fra loro il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman che ha dichiarato di aver precedentemente sprecato denaro per i palestinesi, ma che le cose ora sarebbero cambiate. La differenza tra i precedenti piani di pace e il piano Trump è che ci sono più di due partner nell’accordo proposto. Con i leader del Golfo a bordo, ritiene la Casa Bianca, i palestinesi non saranno in grado di far deragliare l’Accordo del Secolo. Non è stato però considerato “il fuoco amico”, quello del l’ultradestra nazionalista israeliana. L’Amministrazione Usa ha cercato di arruolare gli opinionisti di destra per sostenere l’Accordo, ma il leader dei coloni Naftali Bennett ha già chiarito la sua posizione: “Mai uno Stato palestinese”. L’Europa non è interpellata.

Taipei licenzia la legge anti-Pechino: “Stop infiltrati”

Da Hong Kong a Taiwan, dalle proteste contro la legge sull’estradizione, alla nuova legge anti-infiltrazione. Taipei, impegnata come Pechino in questi giorni ad arginare il contagio del nuovo Coronavirus con due casi di infezione accertati, ha divulgato la legge contro le ingerenze straniere. “Si tratta, spiega la rappresentanza di Taiwan in Italia di una risposta alla proposta in cinque punti del presidente Xi Jinping di accelerare l’unificazione con Taiwan”. Non è passato certo inosservato a Taipei né alla presidente Tsai Ing-wen rieletta l’11 gennaio per un secondo mandato dal 51% dei taiwanesi, l’intento del governo cinese di riannettere l’ex territorio. Sui cieli dell’isola, infatti, proprio l’altro ieri si è registrata una nuova esercitazione militare cinese con un gruppo di aerei che ha volato sulla punta più meridionale di Taiwan. Esercitazione seguita al discorso della presidente sull’indipendenza. “Non abbiamo bisogno di dichiararci uno Stato indipendente, siamo già un Paese indipendente e ci chiamiamo Repubblica di Cina, Taiwan”, aveva detto in un’intervista alla Bbc Tsai all’indomani delle elezioni. “Taiwan è in prima linea nei confronti di una Cina espansionista ed è influenzata dai suoi tentativi di infiltrazione e intervento. Di conseguenza, è necessario disporre di una legislazione che rafforzi la difesa della democrazia”, ha spiegato. Tra le misure presenti della nuova legge, il divieto per i cittadini di “accettare istruzioni, commissioni o finanziamenti da qualsiasi forza straniera ostile per contributi politici, campagne politiche, lobbying, influenza negativa in assemblee, proteste e ordine sociale, disinformazione”. Taiwan specifica che non si tratta di una limitazione al commercio nello Stretto: “Il lavoro, la vita di tutti i giorni, l’istruzione e i viaggi non saranno interessati” dalla legge che impedisce la manipolazione politica dietro le quinte da parte di forze straniere ostili”, conclude.

Crescita e leadership: il peso del Coronavirus su Xi Jinping

L’ultimo bilancio parla di 26 morti e 897 casi confermati, ma non sono ancora chiari ritmo e modalità di diffusione del Coronavirus che ha intanto raggiunto Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti e di cui casi sospetti vengono segnalati in Italia – a Parma e a Bari –, in Francia – a Bordeaux – e soprattutto in Gran Bretagna – una dozzina. La mappa del contagio varia di ora in ora: preoccupa il fatto che la notizia in Cina abbia, sui media, meno rilievo che altrove, nonostante siano state prese misure di prevenzione drastiche: il blocco degli spostamenti interessa decine di milioni di persone. Se l’opinione pubblica non è pienamente consapevole dei rischi della situazione, sarà meno psicologicamente mobilitata.

Uno crede che il difficile sia governare un Paese di oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti e imporsi al Partito che lo guida; oppure, confrontarsi con un nemico collerico e impulsivo, un omone grande e grosso, gradasso e spocchioso. E quando ti pare di avere sotto controllo Paese e Partito, e sei addirittura presidente a vita, e di avere neutralizzato l’invadente avversario, ti accorgi d’un virus che ha eluso regole e controlli, t’è penetrato dentro, sta già facendo danni letali ed espone al pianeta le lacune della tua governance.

È quello che sta accadendo alla Cina di Xi Jinping, di fronte all’emergenza Coronavirus a Wuhan, che pare sia stata affrontata con più prontezza e con più trasparenza di quanto non avvenne con la Sars nel 2003, ma di fronte alla quale emergono le ancestrali tentazioni cinesi alla segretezza e alla copertura e la scarsa dimestichezza con pubblicità e divulgazione. E Pechino deve pure fare i conti con la disomogeneità d’un territorio dove punte d’eccellenza sanitaria e tecnologica coesistono con sacche d’arretratezza e povertà, scarsa igiene e medicina tradizionale. Certo, nella megalopoli di 11 milioni di abitanti della provincia centro-orientale di Hubei, la Cina mette mano alle ruspe e in dieci giorni promette di costruire un ospedale dedicato al Coronavirus, là dove noi, con le nostre procedure e i nostri controlli, ci metteremmo mesi, probabilmente anni. Ma Pechino deve pure arrendersi a una serie di decisioni eccezionali, che sono segni di pericolo e d’allarme. Vale per la politica e vale per l’economia. Così, la Huawei ha annunciato il rinvio di una grande conferenza per sviluppatori che doveva svolgersi a febbraio. Sul sito dell’evento, si legge: “Attribuiamo grande importanza alla salute e all’incolumità di tutti gli ospiti che parteciperanno alla Hdc. Cloud 2020. Pertanto, vista l’attuale situazione relativa alla prevenzione e al controllo del Coronavirus, la conferenza sarà rinviata al 27 e 28 marzo”. E le qualificazioni olimpiche di boxe per Tokyo 2020, previste a Wuhan nella prima metà di febbraio, cambiano sede.

A rischio tenuta, per il momento, non sembra la governance interna. Ma, scrive il New York Times, l’esplosione del virus costituisce una minaccia per l’economia cinese, già in fase di rallentamento, e, di conseguenza, per l’economia mondiale. La Cnn rileva che una pandemia “è l’ultima cosa di cui l’economia cinese aveva bisogno”: il sistema sta ancora accusando l’impatto della “guerra dei dazi” con gli Usa, messa in stand by la settimana scorsa, e rischia di subire ora le conseguenze d’un colpo di freno agli spostamenti e ai consumi nei giorni del capodanno lunare, quando milioni di cinesi sono soliti spostarsi e consumare di più.

Considerazioni che valgono nel brevissimo termine. Ma se l’allarme dovesse protrarsi è impossibile prevederne le conseguenze. Fin dalle prime battute, la crisi ha fatto emergere lacune e disfunzioni nel modello di controllo e di risposta cinese. Nel 10° anniversario della Sars, Zhong Nanshan, uno degli eroi della lotta contro la polmonite atipica, aveva affermato che quello era stato “un momento di svolta” per la Cina: “Abbiamo fatto grossi progressi, ma i nostri passi sono lenti, specialmente in tema di sanità”. Sono passati altri sei anni. Il nuovo Coronavirus sta ora dando la misura della capacità del sistema sanitario cinese di reagire a un nuovo agente patogeno letale e della prontezza del governo nel gestire la crisi condividendo le informazioni con la comunità scientifica internazionale. Pechino ha costituito un gruppo di ricerca e una banca dati per analizzare le mutazioni del virus. L’esercito ha mobilitato i medici militari. Disneyland Shanghai è chiusa.

Nel segreto dell’urna Salvini ti citofona

Giusy levati, è arrivato Matteo e non ce n’è più per nessuno. Matteo Salvini non ha citofonato a una famiglia tunisina del Pilastro di Bologna; Salvini si è fatto riprendere mentre citofonava, cosa assai diversa, consapevole che quella citofonata avrebbe fatto il giro del Web in 80 secondi. Davanti a questa mossa da colonna infame, dàgli al migrante, l’opposizione comprensibilmente alza gli scudi. Ma Salvini non è così ingenuo, a nostro avviso è molto meno ingenuo della sinistra italiana, ogni giorno più simile all’Ispettore Clouseau. A Salvini, della famiglia tunisina, importa poco. Lui non è razzista, è cinico: gli importa del citofono, questo congegno umile, superato dai tempi, ormai anche i testimoni di Geova viaggiano su WhatsApp, ma insuperabile per l’uomo della strada. Che fa l’uomo della strada? Citofona. E che fa Salvini? Citofona. Come ognuno di noi, a ognuno di noi. Se il mezzo è il messaggio, il messaggio è il citofono. Anche in Tv sta in modalità citofono: mai in studio, in collegamento solo con il conduttore, come è naturale che sia (si è mai visto un dibattito al citofono?). Citofona Bruno e lui risponde subito (Vespa l’equivicino, ma c’è sempre qualcuno più vicino degli altri). Il citofono entra così a pieno titolo nella pittoresca parafernalia salviniana insieme al mojito, la Nutella, la divisa della polizia penitenziaria, la felpa, la ruspa e lo squacquerone. Il popolo applaude: Stalin non ti vede, Dio sì, ma Salvini fa di più. Ti citofona.

Ma Bruno Vespa è un “artista” o un influencer?

“Lo spot tradizionale non è un ‘influencer’, è un seduttore”
(dall’introduzione di Sergio Luciano a “Uno spot ci salverà” di Giulio Malgara – Piemme, 2020 – pag. 10)

Se fosse un errore, sarebbe imperdonabile. Ma anche se si trattasse soltanto di una “svista”, come Bruno Vespa ha tentato di giustificarla, si tratterebbe di una grave mancanza professionale. E comunque, lo spot elettorale di Matteo Salvini trasmesso da Rai Uno per annunciare la puntata di Porta a Porta durante l’intervallo della partita di Coppa Italia Juventus-Roma, la sera di mercoledì scorso, non può essere “riequilibrato” in alcun modo: perché l’informazione, in particolare sulle reti del servizio pubblico, non si dovrebbe fare con il bilancino bensì attraverso il contraddittorio, il confronto fra opinioni e interlocutori diversi. In realtà, alla vigilia di queste elezioni in Emilia Romagna, il più danneggiato dal comizio solitario di Salvini è stato il candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione, Stefano Bonaccini.

Né può bastare che Vespa si sia assunto tutta la responsabilità dell’incidente, scagionando la sua redazione. E non solo per il fatto che su di lui ricade una forma di responsabilità oggettiva, come per i direttori di giornale, in forza della presunzione giuridica che le colpe commesse dai suoi collaboratori derivano da un “omesso controllo” sul loro operato. Ma soprattutto perché Vespa, almeno da quando ha scelto di non fare più il giornalista per diventare un “artista” e aggirare così il tetto degli stipendi ai dipendenti pubblici, risulta recidivo nella sua parzialità e faziosità.

Se esistesse un’Autorità sulle Comunicazioni nella pienezza dei propri poteri, sarebbe già intervenuta tempestivamente per sanzionare questi comportamenti, piuttosto che limitarsi a denunciare le ripetute violazioni del pluralismo sulle reti pubbliche e private. Ma l’Agcom è in regime di “prorogatio” da oltre sei mesi e la politica non riesce ancora a nominare il nuovo collegio. “Un’Authority senza autorità”, appunto, come qui abbiamo già scritto in passato.

Spetta quindi al cda della Rai e in particolare all’amministratore delegato Fabrizio Salini, se non verranno sfiduciati prima dal ministro dell’Economia, promuovere un’azione disciplinare nei confronti del conduttore di Porta a Porta per salvaguardare l’interesse dell’azienda di Stato, la sua immagine e la sua credibilità. E se dovesse arrivare una multa per questa “opera d’arte” – come l’ha definita ironicamente Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti – non dovrà ripercuotersi sulle casse di viale Mazzini né tantomeno sui cittadini che pagano il canone.

Da quando teorizzò che l’editore di riferimento della Rai era la vituperata Democrazia cristiana, Vespa s’è distinto per la sua subalternità ideologica alla partitocrazia, schierandosi poi di fatto con Silvio Berlusconi e ora con Salvini. In quest’ultimo caso, si tratta di una sottomissione per così dire preventiva, trattandosi per il momento del leader dell’opposizione. Ma un “artista”, si sa, deve anticipare i tempi e le tendenze. E così il Nostro s’è trasformato ormai in un influencer che, dietro il paravento di una finta neutralità, sfrutta indebitamente la tribuna pubblica che gli è affidata per condizionare i risultati elettorali a favore del centrodestra. Di tutto ciò dovrebbe occuparsi la Commissione parlamentare di Vigilanza.

Questa, per restare nel gergo calcistico, è l’ennesima entrata a gamba tesa di Bruno Vespa. Un fallo da espulsione diretta. E merita senz’altro il cartellino rosso.

Recensire libri: l’indipendenza giova al lettore

L’indipendenza di chi scrive, di chi pubblica, di chi diffonde la parola in modo non effimero è una sfida sempre più importante in un mondo, anche occidentale, in cui la comunicazione, su Rete e su carta, è nelle mani di una minoranza sempre più ristretta. Alla libertà spesso abusata della Rete si contrappongono ragioni apparentemente plausibili, ma chi garantisce che i controllori futuri, di fatto già presenti, non diventino censori? E cosa significa la continuata chiusura di librerie e di edicole intorno a noi? Anche come luoghi di ritrovo e di discussione.

Questi interrogativi non hanno nulla di nostalgico. Quando, nei lontani anni Ottanta, un gruppo di volonterosi diede vita a una rivista di nome L’Indice dei libri del mese – un nome inventato da uno storico dell’arte, Enrico Castelnuovo, in paradossale polemica con la pratica di ogni censura – il CAF di Craxi, Andreotti e Forlani gestiva la restaurazione politica, i condizionamenti della proprietà editoriale crescevano a vista d’occhio, la libera e competente analisi dei libri era per nulla diffusa. Le regole che ci siamo dati hanno funzionato per 35 anni – è questo il compleanno che stiamo per festeggiare, grazie a una decisione dell’Accademia dei Lincei – ma spiace che siano sempre più attuali. Cominciamo dalla prima: che L’Indice non recensisce mai libri scritti da chi lo fabbrica e lo consiglia in maniera permanente. L’indipendenza, forse più difficile da esercitare, è quella nei confronti di noi stessi e degli ambienti, accademici e non, di cui siamo partecipi. Pur animati da buone intenzioni, non sempre riusciamo a evitare quella che Pierre Bourdieu chiamava i rinvii d’ascensore, ovvero scambi di favore, tra amici e colleghi. Più netta, quell’indipendenza nei confronti degli editori, anche se costosa e beffarda. In primo luogo perchè essere proprietari di se stessi garantisce libertà, ma costa sacrifici, incertezze, tensioni. Qualche volta, ai danni si accompagnano le beffe: “Inutile dargli la pubblicità. Tanto ti recensiscono lo stesso!”.

Ma che uso fare di questa libertà e di questa indipendenza? Che tipo di recensione serve e come la si diffonde, ora che l’autopromozione è diventata anche elettronica? Oggi in Italia si pubblicano oltre 50.000 libri, in continua crescita. Sempre più autori, sempre meno lettori. Sempre più tipografie a pagamento, sempre meno editori veri. Sceglierne mille, di libri, nel corso di un anno, è una grossa responsabilità, un ristretto ma importante dovere e potere quasi civico. Mille libri da descrivere – “In principio è il riassunto”, ci insegnava Cesare Cases – analizzare, discutere, giudicare, eventualmente valorizzare, oltre che libertà, richiede anche competenza. Non necessariamente il grande nome del recensore, che non di rado si trasforma in tuttologo, ma il più competente e il più motivato, quanto e più dell’autore che ne attende con ansia il giudizio. A servizio del lettore che sarà servito, dall’autore come dal recensore, tramite una cultura che sarà alta anche perché comprensibile, trasparente, non da iniziati.

Le regole, come quelle democratiche, non sono mai vigenti. Si trasformano, nella migliore delle ipotesi indicano una direzione. Chi le professa vorrebbe diffonderle, soprattutto in un’epoca in cui il pensiero su carta deve fare i conti con la rivoluzione tecnologica in atto. Per questo, la seconda parte del convegno presso l’Accademia dei Lincei sarà dedicato alla proposta di costituire una piattaforma che, oltre a sostenere tutto ciò che serve a supportare e diffondere la cultura del libro, a cominciare dalle librerie e dalle biblioteche, accolga e renda consultabili recensioni prodotte e altrimenti archiviate di giornali, riviste e, perché no, di singoli lettori che accolgano la sfida della scelta motivata e dell’analisi libera e competente.