Cari 5S, ora la sfida è pensare al Paese

Cari 5 Stelle, e adesso che succede? Adesso che Di Maio, tirato per la cravatta (forse nella speranza di soffocarlo), se l’è sfilata, cosa farete?

All’ex capo politico non ho mai risparmiato critiche, sottolineando gli errori commessi e che, dal tracollo del trionfale 33% alle Politiche al 15% dei sondaggi di oggi, sono ormai sotto gli occhi di tutti. Una in particolare la sua responsabilità: non aver fatto pesare abbastanza quel 33% nelle dinamiche del governo gialloverde e avere invece inseguito Salvini sul suo stesso terreno (dall’immigrazione a… Sanremo), col risultato che, grazie a quell’abbraccio, il capitano s’è rafforzato, imposto come leader, gonfiato dal 17 al 30% e ha ottenuto ciò che voleva (Diciotti, decreti Sicurezza, legittima difesa, Rai), mentre voi vi siete spompati e, da movimento post-ideologico, avete virato a destra. E tra copia e originale, sapete bene che vince l’originale. Non ci vuole Konrad Lorenz per riconoscere la Mantide Religiosa (dell’Immacolato cuore di Maria), che divora il maschio dopo l’accoppiamento.

Usciti boccheggianti da quelle spire – e solo grazie all’autogol di Salvini, che ha così dimostrato quanto fosse in realtà resistibile – avete guardato, com’era naturale (fin dall’inizio, se non fosse stato per il “no” renziano) al Pd, facendo finalmente pesare i vostri numeri parlamentari e la Costituzione. Un percorso difficile, accidentato anche questo, ma l’unico possibile.

Sarebbe ingeneroso e ingiusto, però, non riconoscere anche gli indubbi successi di questa prima esperienza di governo sotto la guida di Di Maio: Reddito di cittadinanza, decreto Dignità (e stabilità) per i lavoratori, Quota 100, legge anticorruzione e blocco della prescrizione, lotta alla casta (taglio di vitalizi e parlamentari). Ed essere riusciti a stoppare l’aumento Iva 2020 con la manovra – nonostante il conto del Papeete –, aver rimpolpato le buste paga col taglio del cuneo fiscale, iniziato una lotta seria all’evasione fiscale dopo decenni di condoni e tracciato il solco per una politica ambientale sostenibile sono passi fondamentali verso la trasformazione dell’Italia in un Paese civile. L’avete fatto, e in poco tempo, nonostante il racconto dominante dell’informazione mainstream non ve lo riconosca e continui ad aggrapparsi a congiuntivi e gaffe di Toninelli. Come ha detto giustamente Di Maio: “Farci apparire impreparati e litigiosi è stato il modo per combatterci. Anche perché non potevano farci apparire disonesti e corrotti”. È così. Com’è vero che i 5S sono sempre stati considerati “usurpatori, perché non eravamo previsti”.

Il problema, però, cari grillini, è che una volta lo scontro era tra voi e il “sistema”, ora invece vi fate male (anche) da soli, internamente: al netto delle vostre costellazioni, delle 5 Stelle che sembrano ormai altrettanti sistemi solari (chi sta con Di Maio e Casaleggio, chi con Di Battista e Paragone, chi con Fico, Grillo, Conte… e chi se ne frega!), non potete umiliare l’entusiasmo che avete generato, e onorato nelle cose buone fatte, lasciando i vostri elettori col cerino in mano. Il “mare aperto” delle Sardine non era vostro? Ripartite da qui: da ciò che è giusto per il Paese e non dall’opportuno di Palazzo, tenendo presente che “uno vale uno ma uno non vale l’altro” (cit. Di Maio).

Chi sarà il nuovo capo politico lo vedremo (la Appendino? Magari), il vecchio ha fatto un gran discorso, tratteggiando con onestà (errori e successi) il passato e indicando il futuro. Ma al presente chi ci pensa? Salvini s’è mandato a processo da solo, pure voi?

In bocca ai lupi.

Mail box

 

Una poesia per mio padre morto nel lager di Mauthausen

Dedicato a mio padre Giuseppe Martelli morto a Mauthausen, N. 57251.

“Ricordi tristi nel Giorno della memoria./ L’Italia strano Paese prima dell’ultima guerra quasi tutti fascisti/ poi a fine tutti partigiani sempre più realisti del Re./ Dopo 80 anni, persa la memoria, si ritrovano saluti fascisti/ e persone disposte a inneggiare al Duce./ La Lega e Fratelli d’Italia hanno strizzato l’occhio/ ai fascisti di CasaPound e Forza nuova/ che fraternizzano con Lega e Fratelli d’Italia./ Gli antenati politici di questi figuri spedivano gli italiani/ nei lager nazisti per essere gassati./ Babbo, il tuo sacrificio e quello di tanti altri/ sembra non essere servito a nulla/ non ti angustiare!”.

Paolo Martelli

 

Dal virus cinese alle nostre stupide chiacchiere al cellulare

Super connessi e super inquinati i cinesi hanno diffuso anche il “virus” del serpente. Ma ora mascherine, silenzio e niente cellulare. Cosa ne pensano le compagnie telefoniche e i produttori di smartphone? Giorni fa, nell’emergenza meningococco, sono su un bus che porta a casa gli studenti: salgono una ventina di ragazzi e in un attimo sono tutti al telefono a parlare, mandare vocali, parlare tra di loro. Non un libro, un giornale, una riflessione in silenzio. Per carità, roba per vecchi. Parlare, parlare, starnutire senza fazzoletti. Diffondere batteri e virus.

Gabriella Zevi

 

Lo strampalato revisionismo all’italiana su Craxi

È davvero strampalato il revisionismo storico-politico all’italiana a cui si assiste in questi giorni del ventennale della morte di Craxi: esula dai fatti, solo teorie, sofismi e supercazzole, in cui eccelliamo. Invece conta che i governi Craxi portarono il debito pubblico dal 60 al 90 per cento del Pil in pochi anni. Spolparono le partecipazioni statali, mentre il deficit viaggiava sopra il 10 per cento e l’inflazione superava il 20. Risultato? Nel febbraio 1992 Andreotti firmò il trattato di Maastricht, pochi giorni dopo partì Mani Pulite. A maggio la strage di Capaci, a settembre l’attacco alla lira che uscì dallo Sme dopo aver perso circa il 30 per cento sul dollaro. Debito pubblico sopra il 100 per cento, deficit oltre l’11… Una stagione disastrosa, i cui fallimenti furono tali da aver avviato il Paese sulla china declinante dalla quale non si è più ripreso. Eppure c’è ancora chi riesce a dire che Craxi fu un gigante rispetto ai politici di oggi, ma allora erano banditi peggiori. E i problemi li abbiamo ancora tutti: il Pil non cresce più, il debito cresce sempre.

Martin Angioni

 

Salvini il citofonista ricorda le telefonate della Boschi

Leggendo vecchi articoli del Fatto, ho associato la sceneggiata penosa di Salvini che va a suonare al citofono a quello che fece quattro anni fa Maria Elena Boschi, quando chiamò al telefono i cittadini romani per convincerli a votare Roberto Giachetti come sindaco di Roma. Certo, i contesti sono un po’ diversi, ma resta il fatto che i due personaggi sono patetici.

Francesco Vignola

 

Le “sparate” inopportune di Paragone sul voto in Emilia

Ho avuto occasione di ascoltare in tv l’onorevole Paragone, deputato espulso dal M5S: la giornalista gli chiedeva, potendo votare in Emilia-Romagna, a chi avrebbe dato il suo voto. Risposta: “La Borgonzoni non ha esperienze amministrative, ma per discontinuità voterei a destra”. Perfetto! Veramente illuminato il suo ragionamento! E questi sono i politici attuali che lavorano (?) per il bene di noi italiani e per il futuro dei nostri figli e nipoti! Nessun altro commento da parte mia se non un senso di scoramento.

Luigi Alfredo Ferramosca

 

Una via per Borrelli: grazie! Aderisco alla petizione

Spettabile redazione, aderisco, con questa mia, alla vostra iniziativa per la titolazione di una via al magistrato Borrelli. Grazie.

Federico Vana

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore, con riferimento all’articolo di Patrizia De Rubertis pubblicato ieri sul suo quotidiano in tema di costo dei conti correnti, vorremmo segnalare per completezza informativa che in Italia è presente anche il cosiddetto “Conto di base”: un conto di pagamento che viene offerto dalle banche senza spese a chi appartiene a una fascia socialmente svantaggiata o è un pensionato a basso reddito. Il “Conto di base” infatti viene offerto a canone zero e con l’esenzione dell’imposta di bollo a tutti coloro che hanno un reddito particolarmente basso (Isee inferiore a 11.600 euro) e a coloro che percepiscono una pensione inferiore ai 18.000 euro lordi annui. Tale conto prevede una serie predeterminata di servizi (i principali servizi di pagamento e la carta di debito) e un numero predefinito di operazioni incluse. Il dettaglio dei servizi previsti e il numero delle operazioni incluse è riportato in una infografica predisposta e diffusa dall’Abi, insieme a numerose associazioni dei consumatori, sui propri siti internet, proprio per contribuire ad ampliare la conoscenza e diffondere l’utilizzo di questo importante strumento di inclusione finanziaria.

Gianfranco Torriero, Vicedirettore generale Abi

Uomo forte. Un mito che nasconde il vuoto di idee in una fase di transizione

UOMO FORTE? Cosa si intende per “uomo forte”? Forse un soggetto muscoloso, magari di bell’aspetto? Per taluni forse. Oppure si pensa a un soggetto volitivo che ha la forza di soggiogare altri? Forse. Invece per me “soggiogare” non è sinonimo di forza ma, al contrario, è debolezza, vigliaccheria, che si nasconde spesso dietro una arroganza che oggi definiamo bullismo. Viceversa, io ricordo due soggetti italiani ai quali nessuno attribuirebbe l’aggettivo di “uomo forte” e invece furono e resteranno nel tempo fortissimi: Giacomo Leopardi e Antonio Gramsci. Sono uomini forti perché, per ragioni diverse, ma non lontane tra loro, sono dentro di noi in modo indelebile. Ci hanno parlato, ci hanno insegnato, ci hanno fatto sognare, ci hanno fatto agire e la loro forza è diventata la nostra forza. L’aggettivo di uomo forte che le tv e i giornali usano per descrivere i due bulli del triste momento politico nostrano – ossia Salvini e Renzi – è inidoneo, inadatto e scientificamente errato. Avremo purtroppo presto la prova di quanto questi vigliacchetti – tipo il passato “duce” – tenteranno di nuocere al nostro Paese… Ma per fortuna gli eredi del vero “uomo forte” Gramsci sono scesi nelle piazze e sapranno dire “Stop!” ai due bulli.
Miriam Pellegrini Ferri

 

Gentile Miriam, complimenti ché con la sua bella e acuta lettera ribalta il paradigma nazionale dell’uomo forte, laddove cita Leopardi e Gramsci come maestri del pensiero e per questi uomini fortissimi, e non forti. Epperò dal punto di vista antropologico-politico, il mito dell’uomo forte si basa proprio sull’assenza di idee. Nel senso che un Paese sperimenta ciclicamente il desiderio di decisionismo quando il pensiero soccombe dinnanzi al carisma personale. È accaduto con Mussolini e Craxi, con Berlusconi, Renzi e Salvini. La invito a guardare i periodi storici. Il decisionismo craxiano, di cui tanto si discute nel ventennale della morte del segretario socialista, è stato l’epilogo della Prima Repubblica che poi ci ha consegnato la Seconda dei partiti personali e del rapporto diretto tra uomo forte e popolo. In politica non esistono vuoti. E così il vuoto di visioni e idee forti viene riempito dagli uomini forti. A proposito di Gramsci. Fu lui a studiare con attenzione anche il fenomeno del cesarismo, scrivendo nei “Quaderni del carcere”, che esso si manifesta quando il vecchio muore e il nuovo non nasce. È quello che sta accadendo in Italia da oltre trent’anni con un’infinita transizione, eternamente a caccia di decisionisti. L’ultima scena è il leader che citofona direttamente al pusher.
Fabrizio d’Esposito

Bettino l’“infame” si bevve Milano

Ora che le beatificazioni, le santificazioni e la contrapposta, inesorabile, damnatio memoriae vanno fatalmente a sfumare, anche se la figlia Stefania, testarda, sfinendosi, e sfinendoci, vuole fare dell’intero 2020 un ‘anno craxiano’, noi che socialisti libertari lo siamo stati e lo rimaniamo, perché coniugare le libertà civili con una ragionevole giustizia sociale ci sembra ancora l’idea più bella, cercheremo di fare qui un ritratto del leader socialista il più equanime che ci è possibile.

Credo che la vita politica di Craxi vada distinta in tre fasi. Nella prima, estremamente positiva, il segretario del Psi toglie al Partito socialista lo storico inferiority complex nei confronti di quello comunista (non per nulla la microcorrente di cui era a capo prima dell’elezione del Midas si chiamava Autonomia) e cerca di mettere il suo partito sulla strada di una moderna socialdemocrazia europea. Anche i finanziamenti illeciti, utilizzati già dai tempi di De Martino e Mancini, assumono in questa fase un colore, per così dire, diverso da quelli che sarebbero stati in seguito. Il Psi era stretto nella morsa del Pci che riceveva i soldi dall’Unione Sovietica (“l’oro di Mosca”) e la Dc che li aveva dalla Cia. Autofinanziarsi, sia pur illegalmente, in una situazione come quella diventava necessario per sopravvivere. “Primum vivere, deinde philosophari” mi spiegò anni dopo Claudio Martelli che era stato mio compagno di banco al Carducci.

Seconda fase. Il socialismo è una sorta di proseguimento laico del Cristianesimo, è la difesa, per dirla con Dostoevskij, degli “umiliati e offesi”. È ovvio che con i cambiamenti sociali cambia anche la categoria degli “umiliati e offesi” che non possono essere più solo gli operai sulla via di una lenta estinzione, ma non possono essere nemmeno i visagisti, i coiffeur famosi, gli architetti dalla rosea faccia di culo, le Ripe di Meana, insomma il partito dei “nani e delle ballerine” come lo definì il compagno Rino Formica, che non a caso è uno dei pochi socialisti che, insieme a Ugo Intini, non risulta abbia rubato. Insomma il Psi abbandona la difesa dei ceti medi, i nuovi “umiliati e offesi”.

Inoltre Craxi elimina ogni dibattito all’interno del partito. Se in quegli anni uno, essendo di sinistra, militava nel Psi e non nel Pci era proprio perché nel Partito socialista la discussione era sempre aperta, anche se a volte confusionaria ed eccessiva. In questo modo Craxi, come capita sempre ai leader carismatici, sentendosi dare sempre ragione, si isola e perde quell’intuito politico e il contatto con la realtà che erano stati all’origine della sua carriera.

È Craxi inoltre a innescare Berlusconi concedendogli graziosamente, attraverso la legge Mammì, in cambio di 23 miliardi, il controllo dell’intero settore televisivo privato. E Berlusconi finirà per togliere agli italiani quel poco del senso della legalità che gli era rimasto.

Se durante Mani Pulite l’ira della gente si concentrò soprattutto sul Psi è per l’arroganza e la strafottenza con cui i socialisti esercitavano il loro potere. La famosa “Milano da bere” se la bevevano solo loro. Si comportavano come dei novelli don Rodrigo. Uno dei segretari di Craxi, bel ragazzo, aveva come compito principale di ramazzare belle donne da offrire poi ai capataz socialisti in cambio di una comparsata nelle televisioni berlusconian-craxiane. Insomma eravamo al Cecco Angiolieri: “S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre/ le vecchie e laide lasserei altrui”. Nel 1983 scrissi per Il Giorno una lettera aperta a Claudio Martelli, allora vicesegretario del Psi, in cui gli dicevo sostanzialmente: guarda che se i partiti continueranno a esercitare illegalmente il loro strapotere in questo modo così evidente e sfacciato, nella gente monterà un’insofferenza sempre più esasperata che un giorno vi travolgerà. Una profezia che si avvererà dieci anni dopo.

Terza fase. Bettino Craxi diventa indifendibile sotto ogni punto di vista. Quando nel febbraio del 1992 Mario Chiesa, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu pescato con le mani sul tagliere mentre gettava nel cesso una mazzetta, Craxi affermò che era “una mela marcia in un bigoncio di mele sane”. Se avesse fatto allora quel discorso molto ricordato e troppo lodato che tenne in Parlamento sei mesi dopo dichiarando che tutto il sistema politico era corrotto, forse avrebbe salvato almeno la faccia. Ma chiamare in correità gli altri partiti quando tu stesso sei stato preso con le mani nel sacco è un’altra cosa. Non è un atto di coraggio, è un tentativo estremo di salvarsi.

Poi c’è la fuga ad Hammamet, seguendo un collaudato copione della classe dirigente italiana che quando viene messa di fronte alle proprie responsabilità se la dà a gambe, dal Re e Badoglio che fuggono da Roma lasciandola in balia dei tedeschi a Mussolini che, dopo tanta retorica sulla “bella morte”, che indusse molti giovani ad andare a morire per Salò in nome dell’onore e della lealtà, che allora erano dei valori, si fa pescare in una scomposta fuga travestito da soldato tedesco. Da Hammamet Craxi infanga l’Italia e con ciò, implicitamente, anche se stesso perché del nostro Paese era stato presidente del Consiglio. I democristiani si comportarono in modo diverso accettando le leggi del loro Paese, Forlani si difese nel processo e, condannato, fece i servizi sociali senza una parola contro la magistratura italiana, dimostrando un senso dello Stato che Craxi evidentemente non aveva. Se poi vogliamo guardare le cose solo in casa Psi, la fuga di Craxi lasciò allo scoperto tutti i compagni che rimanevano in Italia (anche Claudio Martelli poteva fuggire ma, come dice nel suo ultimo libro, prese la decisione di restare in patria). Insomma in termini malavitosi, ma qui stiamo ormai parlando di malavita, Bettino Craxi è stato un “infame”.

A me non è mai piaciuto maramaldeggiare sui perdenti. Nei giorni in cui Craxi cadeva definitivamente nel fango e sulla balena ferita a morte infierivano ogni sorta di fiocinatori, compresi i suoi stessi compagni, a cominciare da Martelli, il “delfino” (“ridaremo l’onore al Partito socialista”), scrissi su L’Indipendente diretto da Feltri, il più ‘forcaiolo’ di tutti (“il cinghialone” appioppato al leader socialista, termine che è suo e non di Di Pietro come è stato detto erroneamente in questi giorni, che trasformava una legittima inchiesta della magistratura in una caccia sadica, l’Enzo Carra esibito voluttuosamente in prima pagina in manette) io scrissi un articolo intitolato “Vi racconto il lato buono di Bettino” (L’Indipendente, 17 dicembre 1992). Di fronte a quel Craxi dai tratti “deformati, sfigurati, sconciati, malati” che si presentava ai nostri occhi in quei giorni, mi piacque ricordare che c’era stato anche un altro Craxi che aveva acceso grandi speranze in molti. Ma allo stesso modo, oggi non posso accettare la santificazione di un uomo politico che, a conti fatti, è stato deleterio nella storia del nostro Paese. Infine un “grande leader” come oggi Craxi viene definito da molti non può finire la sua carriera politica nelle mani di un malavitoso come Raggio.

Morì a Empoli durante un fermo di polizia, il Gip ordina indagini su 3 agenti e 2 medici

Il 31enne tunisino, Arafet Arfaoui, è morto il 16 febbraio 2019 durante un fermo della polizia di Empoli. Ma per la Procura di Firenze, il caso doveva essere archiviato dopo quattro mesi, senza nessun indagato. Una tesi respinta dal gip Gianluca Mancuso che ha imposto al pm Christine von Borries l’iscrizione nel registro degli indagati di sette persone: i cinque agenti di Empoli che quella sera arrestarono il giovane tunisino, ma anche il medico e l’infermiere del 118 che provarono a rianimarlo per quasi un’ora. L’uomo era andato in un money transfer per spedire 40 euro alla famiglia, ma il titolare gli aveva contestato la falsità di una banconota. A quel punto Arfaoui aveva dato in escandescenza prima di avere un arresto cardiaco dopo il fermo dei carabinieri che lo avevano sdraiato a terra con le manette ai polsi e le gambe immobilizzate con una corda. L’indagine, sempre a carico di ignoti, aveva portato alla richiesta di archiviazione: secondo la pm, il comportamento di agenti e soccorritori era stato corretto e la morte del giovane causata da un’alterazione provocata dall’assunzione di cocaina e dallo stress del fermo. Una tesi rifiutata dal gip che ha dato ragione all’avvocato della moglie, Giovanni Conticelli, ordinando nuove indagini “entro sei mesi”.

Georgiano morto al Cpr: il superteste è pronto a tornare

I rimpatri stanno avvenendo veloci. Gli stranieri che hanno dato la loro versione dei fatti stanno man mano lasciando il Paese. Difficilmente torneranno per deporre a un eventuale processo. Ma ora spunta un super-testimone che dai Balcani è pronto a tornare in Italia “perché il georgiano è stato massacrato di botte e tutti devono sapere”.

C’è uno spiraglio nell’inchiesta sulla morte di Vakhtang Enukidze, il 38enne trovato morto lo scorso 18 gennaio in una stanza del centro permanenza rimpatri di Gradisca d’Isonzo, poco distante dalla città di Gorizia, in Friuli-Venezia Giulia. Una decina di migranti ospiti del Cpr, in attesa che venisse eseguita la loro espulsione dal territorio italiano, hanno dichiarato al pm Paolo Ancora che l’uomo potrebbe essere morto per le percosse rifilategli da un gruppo di poliziotti intervenuti per sedare una rissa.

Il magistrato, che indaga per omicidio e omissione di soccorso, ha raccolto le testimonianze all’interno del centro, per poi dare il via libera agli espatri. Anche quello dell’egiziano con cui Enukidze si sarebbe azzuffato prima del presunto intervento della polizia e che, pur essendone uscito a sua volta malconcio, potrebbe aver cagionato danno al georgiano.

Gianfranco Schiavone, vice presidente dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) aveva fortemente stigmatizzato l’allontanamento dei testimoni. Ma ce n’è uno che ha contattato le associazioni e si è detto disponibile a tornare in Italia se convocato dalla Procura. Di nazionalità bosniaca, a quanto si è potuto apprendere, è stato espulso il giorno successivo alla morte di Enukidze.

Anche perché le versioni, pur fornendo un’indicazione chiara circa l’episodio del presunto pestaggio ai danni del georgiano, presentano dettagli ancora controversi. Alcuni testimoni, pur affermando che “Enukidze è stato picchiato in due occasioni prima di morire”, hanno spiegato che l’uomo nei giorni precedenti si era cagionato delle ferite all’altezza dello stomaco, con pezzi di ferro e di vetro, probabilmente per essere portato in infermeria o per essere allontanato da alcuni migranti rivali. E questo potrebbe portare a un indirizzo diverso per le indagini. Altri, invece, affermano addirittura che il georgiano sarebbe morto per un colpo subito alla testa da parte degli agenti.

Maggiori indicazioni potranno arrivare dall’autopsia, prevista nella giornata di lunedì, per il quale si sta aspettando anche l’arrivo della famiglia dalla Georgia.

Il caso del Cpr di Gradisca d’Isonzo è stato paragonato dal leader dei Radicali Italiani, Riccardo Magi, a quello di Stefano Cucchi, il geometra romano ucciso nel 2009 a causa delle percosse subìte in una caserma dei Carabinieri, vicenda per la quale il 14 novembre scorso due carabinieri sono stati condannati in primo grado a 12 anni di carcere. Il parallelo ha fatto arrabbiare il capo della Polizia, Franco Gabrielli, che lo ha definito “offensivo”.

Ieri, il presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, il leghista Massimiliano Fedriga, ha ribadito il suo sostegno alle forze dell’ordine: “Ci sono gli inquirenti che stanno conducendo le indagini in modo professionale e serio. Se invece c’è qualcuno che si diverte a muovere accuse, noi diciamo con chiarezza che siamo dallo parte delle forze dell’ordine”. E ancora: “Il Cpr di Gradisca è un’ottima struttura”, ha ribadito il governatore.

In realtà, sono gli stessi sindacati di polizia a lamentarsi dei problemi della struttura. Al portale Ilfriuli.it, Valter Mazzetti, segretario generale della Fsp, ha dichiarato che “in quel Cpr potenzialmente potrebbe accadere il peggio di continuo, perché si vive una situazione esplosiva. Gli operatori lavorano in carenza di precisi protocolli, con turni massacranti, quando c’è da fronteggiare proteste, rivolte, fughe, risse, che sono continue”.

I No Tav “denunciano” il resuscitato Foietta

Tra i No Tav c’è chi sospetta che Paolo Foietta, ex commissario del governo all’alta velocità Torino-Lione ed ex presidente dell’Osservatorio per l’asse ferroviario (cioè il tavolo di confronto sulla Tav tra governo, amministratori locali, associazioni datoriali, forze sociali e altri), abbia portato avanti il suo secondo incarico nonostante fosse decaduto il 14 febbraio 2019. A farsi portavoce di questi dubbi è il sindaco di Venaus (Torino), Avernino Di Croce: “Foietta nonaveva alcun titolo per convocare le riunioni dell’osservatorio! – piega al Fatto Quotidiano – È un’usurpazione di potere perché è decaduto dall’incarico. Ha convocato gli incontri in una maniera furba, come portavoce designato nella riunione 277 del 25 febbraio 2019, convocata nell’ultimo giorno del suo mandato”. Ed effettivamente nell’ultima convocazione c’è proprio con quella dicitura. Le convocazioni, ritiene il sindaco del Comune valsusino, potrebbero essere illegittime: “Un passo falso fatto sapendo che poi gli avvocati interverranno – teme Di Croce, secondo ilquale c’è un altro aspetto grave –. In queste riunioni parlano di compensazioni”. Quelle destinate ai proprietari delle aree che verranno espropriate: in ballo c’è lo sblocco di 98,95 milioni di euro che il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti non ha ancora sbloccato nonostante le lettere inviate dalle Regione Piemonte e dall’Osservatorio stesso.

Per questa ragione Di Croce ha inviato una lettera alla Procura di Torino chiedendo di verificare se la convocazione dell’Osservatorio fosse legittima e se Foietta abbia commesso irregolarità guidando l’Osservatorio dopo la scadenza dell’incarico.

Interpellato sulla questione, Foietta rimanda al testo dell’ultima convocazione in cui spiega come nella riunione 277 l’assemblea ha preso atto che il governo di Giuseppe Conte non aveva proceduto alla nomina di un nuovo presidente, né aveva espresso opinioni contrarie al proseguimento delle attività, l’assemblea lo ha nominato appunto portavoce per coordinare i lavori. “Le riunioni sono state fatte in sedi non istituzionali – aggiunge Foietta –. Le convocazioni non erano fatte su carta intestata per non abusare del marchio della Presidenza del Consiglio (da cui dipende l’Osservatorio, ndr) e il materiale non è stato pubblicato sul sito istituzionale”. Insomma, nessuna usurpazione: “L’Osservatorio ‘autoconvocato’ è un luogo di confronto, non decide nulla”.

D’altronde non avrebbe potuto fare altrimenti anche perché, terminato l’incarico di governo, è saltata la sua nomina a consulente dell’allora presidente del Piemonte Sergio Chiamparino in seguito a un parere contrario dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, chiesto dallo stesso Foietta.

Ora, però, non dovrebbero più esserci autoconvocazioni: il governo ha annunciato la nomina del prefetto di Torino Claudio Palomba alla presidenza e toccherà a lui fissare il prossimo incontro ufficiale. La nomina, che probabilmente verrà ratificata dopo le elezioni, non è gradita ai No Tav, né ai parlamentariM5s. Secondo Jessica Costanzo, Alberto Airola, Mattia Crucioli e altri, è una nomina “del tutto inopportuna” perché proprio la Prefettura “ha reiterato dal 2011 le ordinanze limitative della libera circolazione nell’area intorno al cantiere, violando i limiti indicati dalla Corte costituzionale”.

Raggi-Zinga, l’ultima guerra è sul bando Case popolari

Il bando della Regione Lazio per i nuovi alloggi popolari dura solo cinque giorni lavorativi. Così nessun comune partecipa e i soldi se li tiene l’Ater, l’azienda della Regione che gestisce l’edilizia residenziale pubblica. Quando il Campidoglio se ne accorge, un mese dopo, minaccia le vie legali e, alla fine, ottiene la proroga dei termini.

L’incidente istituzionale per ora è risolto, ma resta un giallo la vicenda della gara da 21,8 milioni di euro che gli uffici dell’ente guidato da Nicola Zingaretti hanno tenuto aperta soltanto dal 13 al 20 dicembre, per giunta con un weekend in mezzo. Una corsa contro il tempo impossibile da vincere, considerando che per accaparrarsi una parte dei soldi, derivanti dalla ripartizione di uno stanziamento del ministero delle Infrastrutture da 250 milioni, bisognava presentare dei progetti specifici.

Progetti regolarmente presentati dalle varie Ater – la società regionale è divisa per ambiti provinciali – che si sono spartite i fondi nazionali, lasciando fuori dalla graduatoria i comuni.

Vale la pena mettere i fatti in ordine cronologico. Il Cipe approva la delibera il 4 luglio 2019 e il 19 novembre lo stanziamento finisce in Gazzetta ufficiale, con 45 giorni di tempo per individuare i beneficiari delle risorse. La Regione Lazio ci mette tre settimane per scrivere il bando e nella giornata di venerdì 13 dicembre lo pubblica sul suo sito internet: la scadenza indicata è il 20 dicembre, appena 8 giorni dopo.

Sul Burl (il bollettino ufficiale regionale) ci finirà addirittura il 29 dicembre, a giochi fatti. Termini striminziti.

Nel frattempo, la Regione Lombardia tiene aperto il bando “gemello” per quasi due mesi, dal 9 dicembre al 27 gennaio, e l’Emilia Romagna addirittura per tre mesi, dal 22 novembre al 17 febbraio (tenere a mente la data). Una formalità la pubblica del bando sul bollettino regionale il 29 dicembre: a fare fede è la pubblicazione sul sito. Di cui – va detto – gli uffici capitolini non si accorgono minimamente. Arriva il nuovo anno. Il 3 gennaio 2020, un post sui profili social dell’assessore regionale alle Politiche Abitative, Massimiliano Valeriani, annuncia che “abbiamo finanziato 22 milioni per i nuovi alloggi popolari nel Lazio”.

Dal Campidoglio non fanno una piega. Le cose si muovono solo il 17 gennaio, a quasi un mese dalla scadenza del bando dopo un articolo del quotidiano online Roma Today, ispirato da una segnalazione dell’Unione Inquilini. Il taglio critico – ma puntuale – nei confronti del comune, però, scatena i tecnici capitolini. La sera, il consigliere M5S, Francesco Ardu, su Facebook ripercorre la vicenda e il 22 gennaio un comunicato della sindaca Virginia Raggi annuncia il ricorso al Tar e un esposto alla Procura della Repubblica. L’incidente istituzionale è alle porte. Il giorno successivo, il 23 gennaio, la Regione Lazio scrive al Mit e chiede (ottenendo) la proroga dei termini fino al 17 febbraio, che in realtà è il termine posto sin dall’inizio dalla Regione Emilia-Romagna, tre mesi contro gli 8 giorni del Lazio.

Al momento, circa più della metà degli stanziamenti sono finiti sul territorio di Roma, che possiede la stragrande maggioranza degli alloggi e una lista d’attesa per le case popolari composta da ben 13 mila persone ritenute idonee (più altri 7 mila richiedenti scartati). “L’operato della Regione non è stato perfetto – spiega Massimo Pasquini, presidente nazionale dell’Unione Inquilini – ma gli uffici capitolini hanno dormito: con l’emergenza che c’è a Roma, queste cose vanno monitorate. Tenendo conto che ci hanno messo 50 giorni per palesarsi”.

Un sonno collettivo, visto che nessun comune è finito in graduatoria, al contrario delle varie Ater provinciali.

Lanciarono la polvere addosso all’onorevole: processati come l’Ilva

“Sulla pelle dei tarantini ogni giorno arriva quella polvere, se per una volta è arrivata sulla giacca di un onorevole non dovrebbe essere una cosa così eclatante”. Si sono difesi così alcuni degli attivisti tarantini finiti sotto processo per la manifestazione contro l’allora premier Matteo Renzi e le proteste contro l’ex deputato tarantino del Pd, Michele Pelillo.

Era il luglio del 2016 e i due erano a Taranto per l’inaugurazione del Museo Archeologico. Una rivendicazione che, pur confermando una parte delle accuse formulate dalla Procura, offre una lettura politica dei fatti.

Alcuni degli imputati, per ironia della sorte, sono accusati di “getto pericoloso di cose” lo stesso reato contestato all’Ilva per le sue emissioni velenose. L’accusa, questa volta, è nata dal lancio da parte di alcuni manifestanti di un sacchetto di minerale di ferro che ha “imbrattato” l’abito dell’ex onorevole Michele Pelillo. In aula, qualche giorno fa, alcuni degli imputati, come l’attivista di “Giustizia per Taranto” Luca Contrario e l’ex operaio Ilva Cataldo Ranieri, hanno spiegato al giudice la loro versione dei fatti. Ranieri lo ha anche raccontato sui suoi social: “Ho detto al giudice – ha scritto su facebook – che quella ‘polvere nera non meglio identificata’ (così c’è scritto sul capo d’accusa), ha un nome e un cognome fino a oggi ignoto, ovvero Minerale di Ferro, o meglio ancora… ‘brillantina’ e che la stessa era stata prelevata da un balcone del quartiere Tamburi durante un giorno di esposizione al siderurgico, quello successivo alle dichiarazioni dell’ex onorevole al consiglio comunale. Era infatti fine maggio quando Pelillo affermava che Ilva non inquinava più, due mesi prima dell’inaugurazione del MarTa, volevo dirglielo all’onorevole che aveva detto una cazzata, ma non riusciva a sentirmi, qualcosa mi dovevo inventare”.

Ma c’è di più. Ranieri ha ricordato come quella polvere sia stata trovata nel cervello del piccolo Lorenzo Zaratta, uno dei bambini diventati simbolo dei danni causati dall’Ilva: “Per placare il dolore dei suoi genitori, alla sbarra – ha aggiunto Ranieri – non ci sono né imputati, né condannati. Per la giacchetta sporca di una testa di… onorevole, invece, si impegnano giudici, avvocati e soldi pubblici”. Ranieri, insomma, si è dichiarato colpevole: “Non mi preoccupa la condanna, rivendico il senso politico del gesto”. Ha poi aggiunto che il sacchetto che conteneva la polvere “è stato aperto prima del tiro, proprio per consentire al materiale polveroso di fuoriuscire durante la parabola, evitando così di fare male a chiunque cadendo”. Insomma “altro che violenza”, secondo l’ex operaio del siderurgico “la vera violenza la subiamo ogni giorno a Taranto, che si tratti di un cittadino o un lavoratore”.

Come raccontato qualche tempo fa dal Fatto, Cataldo Ranieri è uno dei lavoratori Ilva che ha creduto nelle promesse di chiusura delle fonti inquinanti, dismissione e bonifica annunciate dal M5s nella campagna elettorale per le politiche del 2018. Poco dopo è uscito dal Movimento deluso. La strada della riconversione l’ha scelta per la sua vita. Ha accettato l’incentivo di 77 mila euro netti offerto a chi, durante il subentro di ArcelorMittal, accettava di lasciare la fabbrica. Pochi mesi fa con il collega e compagno di Marco Tomasicchio, anche lui ex operaio ed ex militante che con il M5S si era anche candidato alle Comunali di Taranto, hanno deciso di investire quei soldi in un piccolo ristorante nel centro di Taranto. Lo hanno chiamato “A casa vostra”, perché, spiegò tempo fa al Fatto, “quando chiedevamo ai colleghi di lottare per cambiare Taranto e far cessare l’inquinamento ci gridavano ‘e poi se chiude l’Ilva dove vado a mangiare io, a casa vostra?’. Ecco, speriamo che vengano davvero a mangiare da noi. Dobbiamo rischiare se vogliamo riconvertire la città”.

La sconfitta di Foodora & C. “I rider sono dipendenti”

La Cassazione chiude la disputa giuridica: i rider che consegnano cibo a domicilio sono lavoratori dipendenti e gli vanno gli riconosciute le tutele del lavoro subordinato. Le retribuzioni devono essere quelle previste dai contratti collettivi e non quelle “a cottimo” applicate oggi dalle piattaforme digitali. La Suprema Corte ha rigettato anche l’ultimo ricorso di Foodora contro la sentenza pronunciata un anno fa dalla Corte di appello di Torino.

La decisione è del 14 novembre, ma le motivazioni sono uscite ieri. Conferma il secondo grado, e assesta un altro colpo alla liberalizzazione selvaggia nel food delivery. Rider considerati “partite Iva”, senza contratti, contributi, ferie o maternità. La negazione di questa base minima non è permessa dalla legge. Non solo per il “pacchetto rider” del decreto imprese, approvato in autunno e ancora non tutto in vigore, ma anche per lo stesso Jobs Act.

Questa causa è partita nel 2017 su iniziativa di alcuni ex fattorini co.co.co. di Foodora (che in Italia non è più operativa). La questione è stata affrontata in base alle norme della riforma renziana. Uno dei decreti del Jobs Act stabilisce infatti che “si applica la disciplina del lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente”. Come i rider, che non sono assunti dalle app, ma sono collaboratori “etero-diretti”. Quando l’applicazione chiede loro di consegnare un ordine, possono rifiutare di prenderlo in carico; una volta accettato, però, sono soggetti alle direttive del datore.

La Corte d’appello, ribaltando il Tribunale – che aveva dato ragione a Foodora – aveva detto che alla categoria si applicano diverse tutele del lavoro subordinato: le norme su sicurezza, retribuzione, orario, ferie e previdenza, ma non quelle sul licenziamento. Insomma, è escluso il risarcimento quando si viene cacciati ingiustamente. Fu una piccola svolta, ma le piattaforme non l’hanno applicata sperando in un dietro-front della Cassazione. Che non è avvenuto.

“Non ha senso interrogarsi se tali forme siano collocabili nel campo della subordinazione o dell’autonomia – ha scritto la Corte – perché ciò che conta è che, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato”. A maggior ragione sarà così con le novità introdotte dal governo Conte 2 che specificano ancora più chiaramente il divieto di cottimo e l’obbligo di copertura Inail che partirà a febbraio. A breve è attesa anche una sentenza del Tribunale di Bologna su un ricorso Cgil contro l’algoritmo che associa le valutazioni ai rider, discriminatorio poiché viola il diritto di sciopero. “Le multinazionali non possono più nascondersi dietro il falso mito del ‘nuovo’ lavoro”, ha commentato la segretaria nazionale Cgil, Tania Scacchetti.