Il magnate condannato e prescritto che insulta l’Italia: “Io, perseguitato”

“Mi sono reso conto di provare dentro di me un odio per gli italiani e che io sono il solo a soffrire per questo. Ho lavorato in modo mirato sulla situazione. E quando oggi penso all’Italia provo solo compassione per tutte le persone buone e oneste che sono costrette a vivere in questo Stato fallito”. Condannato in primo e secondo grado. Prescritto. Ma oggi insulta l’Italia. Ecco Stephan Schmidheiny; il miliardario svizzero ha rilasciato un’intervista al quotidiano Nzz am Sonntag (poi ripresa dal sito di informazione Area di Lugano e da La Stampa). Dichiarazioni in cui la vittima pare essere lui, l’ex signore dell’Eternit oggi 72enne e con un patrimonio di oltre 2 miliardi. L’uomo che in primo grado era stato condannato a 16 anni per disastro ambientale e in appello a 18. Ma intervenne poi la Cassazione a sancire la prescrizione. A sentire Schmidheiny, però, la vittima è lui, l’accusato; non le 392 persone per la morte delle quali ieri è stato rinviato a giudizio per omicidio volontario: “Non ho intenzione di vedere una prigione italiana dall’interno. Ritengo che alla fine il mio comportamento sarà giudicato correttamente e un giorno verrò assolto”. Schmidheiny si sente perseguitato dalla giustizia italiana: “È pazzesco. Abbiamo fatto tutto il possibile e quanto era ragionevolmente esigibile secondo lo stato delle conoscenze di allora per risolvere il problema dell’amianto. Ma quarant’anni dopo si viene accusati di omicidi di massa e perseguitati per decenni”.

L’intervista si sofferma sulla sofferenza dell’accusato che si definisce “una persona sensibile” e si assolve: “Ero troppo giovane, impreparato. Ho dovuto imparare tutto molto in fretta. A volte mi stupisco di essere sopravvissuto a quel periodo”. Schmidheiny racconta: “All’inizio pensavamo che si trattasse di diritto, di fatti, di giustizia, ma nel corso del tempo questa impressione è svanita. Ciò mi è pesato molto. Ma poi ho capito che mi sarei dovuto occupare della mia igiene mentale per non lasciarmi abbattere da tutti questi incredibili attacchi”. Insomma, da Schmidheiny sembrano arrivare parole di comprensione più per se stesso che per le vittime. Condite con quelle espressioni: “Odio per gli italiani” e “Stato fallito” che subito sono rimbalzate da noi.

“La traduzione dal tedesco non era puntuale”, si è limitato a dichiarare l’avvocato Astolfo Di Amato, difensore di Schmidheiny.

Poche, però, le reazioni dal mondo politico. Tra queste ci sono le parole di Debora Serracchiani (Pd), capogruppo in commissione Lavoro alla Camera: “Le parole di Schmidheiny lasciano sconcertati. Davanti a una tragedia che ha visto 392 persone ammalarsi e morire, qualunque sia la difficoltà di un processo e in base a quanto già accertato, non sono accettabili espressioni di questo tenore. Prima di tutto per rispetto delle vittime e dei loro familiari”.

Una replica a Schmidheiny arriva da Assunta Prato, rappresentante delle famiglie delle vittime dell’amianto a Casale Monferrato, che in una lettera scrive: “Sarebbe ‘tortura di Stato’ quella che chiede a un Tribunale di processare la persona che in una riunione coi maggiori dirigenti e manager in rappresentanza dei suoi stabilimenti in ogni parte del mondo, a Neuss in Svizzera, nel 1976, disse: ‘Questi dati (sulla sicura cancerogenicità dell’amianto) non devono arrivare agli operai e ai cittadini’… La persona che poi fece distribuire a tutti quei manager e dirigenti una specie di prontuario con domande e risposte preconfezionate per negare, minimizzare, in una parola mistificare la realtà per non perdere una fetta di mercato troppo importante e redditizia… La persona che a Casale Monferrato abbandonò lo stabilimento Eternit (92.000 metri quadrati) pieno di tonnellate di amianto, libero di uscire da varie aperture e dalle finestre, del tutto rotte o con teloni di plastica a sostituire i vetri, per inquinare la città ancora per ventiquattro anni, fino a quando fu bonificato grazie all’intervento pubblico”.

Tumori per lavoro. La Cassazione oggi naviga a vista

Amianto: colpevoli o innocenti? In Cassazione c’è un problema. Lo segnala Raffaele Guariniello, che da magistrato ha svolto inchieste e sostenuto l’accusa in molti processi per avvelenamento da amianto e ora, terminata la sua esperienza in magistratura, è presidente della Commissione sull’amianto istituita dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa. “Anche il 2019 si è chiuso tra radicali dissensi nella giurisprudenza della Corte in tema di tumori professionali”, spiega Guariniello. “È ormai dal 2018 che la Cassazione a volte conferma, a volte cancella sentenze emesse sulla base degli stessi elementi”. Prima le condanne erano tutte confermate. Da allora, invece, ci sono conclusioni diverse anche da parte della stessa sezione della Corte di cassazione.

Due esempi recenti: la sentenza del 28 ottobre 2019 sull’Olivetti di Ivrea e quella del 12 novembre sull’Ilva di Taranto. La prima conferma l’assoluzione in appello dei dirigenti che erano stati accusati di aver esposto all’amianto, tra il 1962 e 1997, i lavoratori che erano poi morti per tumori pleurici, peritoneali e polmonari. L’assoluzione è motivata con “l’incertezza che riguarda il momento dell’insorgenza irreversibile del tumore” e dunque “l’impossibilità di stabilire in modo univoco” a quali dei dirigenti “che si succedono in un determinato arco temporale, va attribuita la responsabilità”.

La seconda sentenza prende in considerazione la morte o la malattia professionale di 16 lavoratori dell’Ilva esposti a una miscela di acidi, diossina, carbone, silice, ferro, metalli pesanti, amianto, polveri sottili e sottilissime; e il decesso di altri 15 operai esposti all’amianto e morti per mesotelioma o cancro al polmone. In Cassazione arriva una condanna, inflitta dalla Corte d’appello di Taranto per omicidio colposo. La quarta sezione della Suprema corte annulla. Non si può condannare – sostiene – perché non si può stabilire le responsabilità singole dei “diversi garanti tra loro succedutisi” negli anni e non è decisiva la “teoria dell’effetto acceleratore” che li accomuna tutti.

Prima del 2018 non era così, argomenta Guariniello. La Cassazione, ancora nella sentenza del 31 gennaio 2018, sostiene che “l’indirizzo assolutamente maggioritario in seno alla giurisprudenza di questa Corte ha sostenuto la fondatezza” dei giudizi di merito, “secondo cui le esposizioni successive aggraverebbero comunque il decorso” della malattia, nel senso che ridurrebbero i tempi di latenza (nel caso di malattie già insorte) “oppure accelererebbero i tempi di insorgenza” (nel caso di malattie insorte successivamente). Ecco la “teoria dell’effetto acceleratore”.

Nel giugno 2019 arriva invece in Cassazione la sentenza che condanna i responsabili della Fincantieri di Monfalcone per la morte per mesotelioma di alcuni lavoratori e della moglie di un operaio esposta all’amianto per il contatto con le tute da lavoro del marito. Conferma la condanna la stessa quarta sezione della Suprema corte che cinque mesi dopo, nel novembre 2019, l’annulla invece e manda assolti gli imputati dell’Ilva.

Di fronte a questi giudizi discordanti, il sostituto procuratore generale e il procuratore generale presso la Corte d’appello che aveva ricorso in Cassazione chiedono l’intervento delle Sezioni unite della Suprema corte, affinché decidano una strada univoca. Richiesta respinta: perché le Sezioni unite si pronunciano su questioni astratte di legittimità e di diritto, mentre qui il contrasto è su come valutare concrete prove di fatto.

Insomma, conclude Guariniello, quella che resta aperta è la discussione sulla teoria dell’“effetto acceleratore”: questa sostiene che il tumore si sviluppa anche dopo l’avvio del processo cancerogeno, con la protrazione nel tempo dell’esposizione all’amianto. All’opposto, c’è la teoria “della dose killer”, la quale nega che a essere determinante sia la durata dell’esposizione.

Così: chi è responsabile dell’avvelenamento? Nessuno, perché non si può provare quando scatta e chi fa scattare la “dose killer”; o invece tutti i responsabili della fabbrica che nel tempo si succedono, lasciando che l’esposizione ai veleni si protragga e si verifichi l’effetto accumulo? La Cassazione sembra ondivaga tra le due risposte.

Guariniello pone allora la domanda finale: “Non è doveroso scongiurare esiti così diversi – condanna o assoluzione – che derivano non da dati di fatto, né da questioni di diritto, ma dalle capacità dei giudici di merito, di primo grado e d’appello, di essere convincenti nel sostenere o nel negare la teoria dell’‘effetto acceleratore’?”. Sarebbe doveroso, ma come riuscirci? “Forse con un intervento legislativo del Parlamento”.

Eternit bis, Schmidheiny ancora rinviato a giudizio

Rinviato a giudizio per omicidio volontario. Accusato della morte di 392 persone esposte all’amianto a Casale Monferrato.
Il miliardario svizzero, Stephan Schmidheiny, mister Eternit, torna a processo.

Lo ha deciso ieri il gup Fabrizio Filice di Vercelli. Adesso il processo – vista l’accusa di omicidio volontario – passa alla Corte d’assise e si sposta a Novara. La prima udienza è fissata il 27 novembre. Ma se il capo di imputazione non dovesse cambiare, stavolta Schmidhieny non potrà contare sulla prescrizione. Gli avvocati Astolfo Di Amato e Guido Alleva avevano chiesto l’archiviazione: “Siamo delusi, ma il processo non finisce qui”. Opposta la reazione dei familiari delle vittime di una tragedia che in Italia ha provocato oltre duemila morti. Che ha segnato la vita di Casale Monferrato, dove ogni settimana si celebrava il funerale di una vittima dell’amianto. Una tragedia che non è ancora finita: “Tutti hanno diritto ad avere giustizia”, commenta Nicola Pondrano, ex lavoratore di Eternit rappresentante della Afeva, Associazione familiari vittime dell’amianto. Aggiunge: “Se Schmidheiny fosse stato giudicato per omicidio colposo avremmo perso per via della prescrizione l’80 per cento della rappresentanza delle 392 persone morte per mesotelioma. Adesso, anche se l’imputazione è delicata, lotteremo”.

Il procedimento Eternit Bis è diviso in quattro tronconi: a Torino (competente per lo stabilimento di Cavagnolo) nel maggio scorso Schmidheiny è stato condannato in primo grado a quattro anni con l’accusa di omicidio colposo per la morte di due dipendenti. Già allora la reazione fu dura: “È il capro espiatorio dell’inerzia dello Stato italiano”, disse un collaboratore di Schmideiny. Poi c’è Napoli, dove il processo riguarda la morte di sei operai e di alcuni familiari. Per i fatti riguardanti la sede Eternit di Rubiera è invece competente il tribunale di Reggio Emilia. Il quarto troncone, quello più importante, riguarda Casale.

Per Schmidheiny è, appunto, il secondo processo. Nel 2013 la Corte d’Appello di Torino lo aveva condannato a 18 anni di reclusione per disastro ambientale. Accusa che la Cassazione l’anno successivo aveva dichiarato prescritta: “La prescrizione non risponde a esigenze di giustizia ma ci sono momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte”, aveva detto allora il sostituto procuratore della Cassazione Francesco Iacoviello.

Pareva una dichiarazione di resa per la giustizia che da anni si occupa delle oltre 2000 persone uccise dall’amianto “respirato” in quattro fabbriche. “Per me – aveva detto Iacoviello – l’imputato è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte”, ma il problema è “che il giudice tra diritto e giustizia deve sempre scegliere il diritto”.

Prescrizione, quindi. Anche se la decisione della Cassazione era stata molto discussa. Il nocciolo della questione è stabilire il momento da cui far scattare l’inizio della decorrenza dei termini di prescrizione. Per la Cassazione bisogna considerare il momento in cui è avvenuta l’esposizione all’amianto. Per i magistrati piemontesi – l’accusa era affidata al pm Raffaele Guariniello – occorre invece partire da quando si manifesta la malattia, considerando che l’amianto continuerà a provocare vittime fino al 2040. Altrimenti, sostennero in aula i pubblici ministeri, molti reati di disastro ambientale, sarebbero destinati alla prescrizione.

In certi casi – come per il mesotelioma che ha un periodo di latenza molto lungo – si verificherebbe il paradosso che gli effetti del reato diventerebbero manifesti a prescrizione già avvenuta.

Renziani e dem litigano sulla cronista Angeli

Lei si dice “combattuta” perché “della politica mi fido poco” e ne ha parlato l’altro giorno ai suoi corsisti della Luiss. Ma soprattutto perché si tratta di un impegno importante che le imporrebbe di lasciare il suo mestiere. Federica Angeli, la cronista di Repubblica che vive sotto scorta dopo le minacce subìte dal clan Spada di Ostia, ci sta pensando sul serio. Anche se le elezioni del 1° marzo che si dovranno celebrare dopo che Paolo Gentiloni ha scelto di lasciare il seggio alla Camera per diventare Commissario europeo, si stanno rivelando una via crucis dalle parti del centrosinistra.

A lanciare la candidatura della giornalista Italia Viva di Matteo Renzi e Azione di Carlo Calenda insieme a +Europa di Emma Bonino che premono sugli altri partiti della coalizione e in particolar modo il Pd che per sostituire Gentiloni aveva invece pensato a Gianni Cuperlo. Una mossa che ha spiazzato tutti e non solo per le modalità scelte da Renzi &Co che hanno preferito la fuga in avanti, anticipando la proposta alla stampa. In realtà in molti pensano che sia l’ennesima presa di distanza dell’ex premier dalla maggioranza i cui azionisti di riferimento sono i dem ma pure i pentastellati che la Angeli non ama affatto. Tanto che ad agosto quando Renzi aveva tenuto a battesimo l’alleanza con i 5 Stelle, era stata spietata: “Voilà. Da #senzadime a #vabenetutto”.

Già oggi si dovrebbe trovare una quadra sulle suppletive. Ma lunedì, dopo le elezioni in Emilia-Romagna, si capirà anche molto altro. In particolare quanto Renzi si spingerà in là con il suo controcanto alla maggioranza. Che nonostante tutto ha trovato un’intesa sulla riforma del processo penale che promette di accorciare i tempi dei processi e rende digeribile ai dem la riforma della prescrizione. Lui invece parrebbe intenzionato a tirar dritto e a supportare Forza Italia che chiede di cancellarla.

Per uno strano scherzo del destino proprio la prescrizione è in questi giorni l’incubo di Federica Angeli: “Amici e amiche, è ufficiale che il processo contro Armando Spada andrà prescritto. Questa Italia funziona cosi” aveva scritto su twitter la cronista, certa che Spada, accusato di tentata violenza privata, la farà franca: si arriverà a sentenza solo se sarà riconosciuta la recidiva al suo presunto aggressore. Comunque, essendo già in corso il processo, non scatterebbe lo stop alla prescrizione in appello previsto dalla riforma Bonafede, che peraltro Renzi-Calenda-Bonino vorrebbero far saltare.

Ma ora il pensiero è se accettare o no la loro proposta. Federica Angeli già in passato ha rifiutato altre offerte di scendere nell’agone politico. I suoi sostenitori la spingono a candidarsi ma lei per ora sta alla finestra anche se ha fatto un in bocca al lupo a Sandro Ruotolo, altro giornalista costretto a vivere sotto scorta che correrà per le suppletive a Napoli in un seggio per il Senato, sponsorizzato dal Pd e dal partito di De Magistris. Lui se eletto si iscriverà al Gruppo misto fedele alla promessa di essere il candidato di tutti, dalle Sardine agli operai. Prematuro sapere cosa farebbe alla Camera la giornalista anti-clan.

Per via Borrelli 33 mila firme Mozione M5S, ma il Pd frena

La petizione su Change.org promossa dal Fatto per chiedere al Consiglio comunale di Milano di intitolare una strada della città a Francesco Saverio Borrelli sta volando: le firme sono oltre 33 mila. A testimonianza dell’affetto che la figura di Borrelli, capo del pool di Mani Pulite, suscita tra i cittadini. La raccolta di firme ha ispirato Patrizia Bedori, consigliera del Movimento 5 Stelle a Palazzo Marino, che ha depositato una mozione per l’intitolazione di una via o una piazza al magistrato scomparso lo scorso 20 luglio, all’età di 89 anni. Alla cerimonia, fuori dalla Basilica di Santa Croce, c’era un signore con un cartello: sopra tre volte la scritta “Resistere”, per via di quell’appello all’indipendenza della magistratura che oggi non ha perso nulla della sua attualità e urgenza.

Sono tante le cose che dovremmo ricordare di lui. Nei suoi 47 anni di servizio fu un esempio, al di là della stagione di Tangentopoli. Nel 1978 mentre era presidente della VIII Sezione penale del Tribunale di Milano, la procura mandò Corrado Alunni – brigatista fondatore di Prima linea – a giudizio per direttissima. Era l’epoca in cui non si riuscivano a fare le Corti d’Assise perché i giudici popolari si davano malati. E perfino qualche magistrato lo faceva. Borrelli era il presidente della sezione davanti alla quale Alunni doveva essere giudicato, ma era a casa con una gamba ingessata. Rientrò in servizio, presiedette il processo, condannò Corrado Alunni a 12 anni. Questo episodio lo raccontò Pier Camillo Davigo in un’intervista. Concludento così: “Se si devono correre dei rischi, li deve correre il presidente di sezione e non qualcun altro al suo posto, disse all’epoca Borrelli. Io pensai: questo è un uomo coraggioso e con il senso delle istituzioni”.

Nella mozione dei 5 Stelle si legge che Borrelli “rappresentò e rappresenta l’icona della lotta contro la corruzione, una figura di Procuratore capo garante non dei poteri ma dei diritti, che avviò una delle più decisive stagioni di inchiesta sulla corruzione e sui rapporti illeciti tra politica e affari della storia italiana”. L’idea nasce come controproposta all’intitolazione di una via a Bettino Craxi presentata dal consigliere di Milano Popolare, Matteo Forte. L’ostacolo potrebbe essere il tempo: per legge dovrebbero essere trascorsi dieci anni dalla morte della persona a cui s’intende intitolare la strada. Regola alla quale però si può derogare. Lamberto Bertolè, presidente del Consiglio comunale di Milano (Pd) spiega che il suo partito non ha ancora preso una posizione perché la mozione è appena stata depositata. “Premetto che io sono la persona che, su segnalazione di un cittadino, ha portato alla Commissione per le benemerenze civiche del Consiglio la proposta di dare l’Ambrogino d’oro post mortem al dottor Borrelli. Sono ben consapevole del debito che la città di Milano ha nei suoi confronti. Sono però favorevole a mantenere la regola dei dieci anni perché sottrae la questione della toponomastica alla cronaca e alla polemica politica”. Una deroga insomma creerebbe dei precedenti, e chissà cosa potrebbe succedere, per esempio in caso di cambio del colore della giunta.

Di diverso avviso la consigliera Bedori: “Ho chiesto che la mozione per Borrelli venga discussa insieme e quella per Craxi. Mi sembra un giusto contrappeso: da una parte un latitante, dall’altra un servitore dello Stato che ha fatto dell’integrità morale la bandiera di una vita. Per quanto riguarda il ‘fattore tempo’, è facilmente aggirabile. C’è una circolare del 1992 con cui il ministero dell’Interno fornisce direttive per superare la regola dei dieci anni. Quindi si può fare, basta volerlo”.

Dal governo al vertice di Deutsche Bank

Le porte girevoli a certi livelli funzionano bene, in Germania come nel resto del mondo. È questa la prima ragione per cui l’ex leader tedesco dell’Spd e pluri-ministro Sigmar Gabriel potrebbe essere eletto nell’organo di vigilanza della Deutsche Bank alla prossima riunione degli azionisti. Ma non è l’unica. La notorietà dell’ex ministro degli Esteri tedesco, già titolare dell’Economia e ancor prima dell’Ambiente, non bastano a spiegare l’assunzione nell’empireo della finanza tedesca. Un posto al Consiglio di sorveglianza della principale banca tedesca in un momento come questo è faccenda delicata per una banca in corso di ristrutturazione profonda, con 18.000 posti da tagliare nel mondo e un valore delle azioni ai minimi termini. La decisione di scegliere Gabriel, riferisce Der Spiegel, sarebbe stata presa a margine di una cena al Forum economico di Davos con il numero uno della banca, Christian Sewing, il ceo di Volkswagen Hebert Diess e 50 investitori provenienti in gran parte dal mondo arabo.

Gabriel, aggiunge il quotidiano Handelsblatt, nei tempi in cui era ministro-presidente della Bassa Sassonia e sedeva per questo nel consiglio di Sorveglianza di Volkswagen (essendo il Land azionista di Vw) aveva conosciuto la famiglia reale del Qatar, azionista della casa automobilistica tedesca, così come della Deutsche Bank. Secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung , i qatarini in questi mesi hanno tentato di estendere la loro influenza nella banca per proteggere quel 6,1% di investimenti azionari. La presenza di un politico navigato come Gabriel potrebbe rassicurare la famiglia reale.

Prima di lui altri “prominenti” della politica hanno percorso la stessa strada. Il caso più clamoroso fu quello dell’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, che appena pochi mesi dopo l’addio alla cancelleria tedesca nel 2005, assunse l’incarico nel 2006 da Vladimir Putin per il gasdotto Nord Stream della compagnia russa Gazprom. Lo scandalo si arricchì quando fu nominato presidente del Consiglio di Sorveglianza della società petrolifera russa Rosneft nel 2017 nel pieno della crisi in Crimea.

Per evitare che le porte girevoli girino troppo velocemente, la legge tedesca impone ai ministri un periodo di attesa di 18 mesi tra l’incarico governativo e altri impieghi. Ma in pochi hanno resistito alla tentazione di esercitare la propria influenza per trovare un lavoro all’altezza del precedente. Così l’ex ministro della Salute Daniel Bahr fino al 2013 è approdato nel 2017 al consiglio di amministrazione della società di Allianz per l’assicurazione sulla malattia Apkv. Oppure Ronald Pofalla, ex ministro nel governo Merkel II, passato al consiglio di amministrazione delle ferrovie tedesche, la Deutsche Bahn. O ancora Dirk Niebel, da ministro per la Cooperazione economica e lo sviluppo fino al 2013, è traghettato alla sponda opposta, diventando nel 2015 un lobbista delle armi per il gruppo Rheinmetall. E pensare che lo stesso Gabriel, in un’intervista del 2018, ha detto: “Non bisogna bussare alle porte dietro cui si è stati seduti”. Parole sante.

I vertici Eni guidavano il “complotto” contro i pm

Soldi Eni per far tacere i testimoni che accusano di corruzione i vertici della compagnia petrolifera. È questa l’ultima accusa che la Procura di Milano rivolge ai manager del Cane a sei zampe. Innanzitutto a Claudio Granata, l’uomo più vicino all’amministratore delegato Claudio Descalzi, nonché candidato alla sua successione. Ma anche a Michele Bianco, vicepresidente esecutivo degli Affari legali, e ad Alfio Rapisarda, responsabile della security. I tre manager sono accusati di associazione a delinquere. Granata e Bianco anche di induzione a rendere dichiarazioni false all’autorità giudiziaria. Due giorni fa sono stati perquisiti i loro uffici e le loro abitazioni, come quelle di un avvocato di Catania, Alessandra Geraci, accusata di corruzione fra privati. Perquisizioni anche per l’ex parlamentare Denis Verdini.

La storia è quella del “complotto” avviato nel 2015 dall’avvocato siciliano Piero Amara, allora legale esterno dell’Eni, che presenta prima alla Procura di Trani, poi a quella di Siracusa, false prove di una macchinazione ai danni di Descalzi. L’obiettivo è quello di intorbidare le acque e danneggiare le inchieste che Fabio De Pasquale della Procura di Milano stava svolgendo su ipotesi di corruzioni internazionali in Nigeria e in Algeria. Amara viene arrestato nel 2018 dalla Procura di Messina e patteggia 3 anni, per altre vicende di corruzione. Sulle storie che coinvolgono Eni, sostiene in un primo momento di aver fatto tutto da solo, per ottenere crediti presso la compagnia. Negli ultimi mesi, interrogato più volte a Milano dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal sostituto Paolo Storari, racconta invece di aver avuto un mandato dai vertici Eni – Granata e Bianco – per far ritrattare a Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni, le accuse che questi aveva rivolto a Descalzi, coinvolgendolo nel pagamento della mega-tangente da oltre 1 miliardo di dollari che la compagnia avrebbe pagato per ottenere in Nigeria il campo petrolifero Opl 245.

Scatta il cosiddetto “patto della Rinascente”, siglato nel marzo 2016 dopo un incontro al grande magazzino romano di piazza Fiume. Amara lo racconta in un suo memoriale: “Le dichiarazioni di Armanna scossero il mondo Eni che temeva che la Procura di Milano potesse emettere delle richieste di custodia cautelare nei confronti dello stesso Descalzi”. Così, continua Amara, Granata lo incarica di “gestire Armanna”: gli viene promessa la sua riassunzione in Eni dopo la sentenza di primo grado sul caso Nigeria; e un pagamento di 1,5 milioni all’anno (finora almeno 5/6 milioni di euro) che la compagnia ha versato alla azienda nigeriana Fenog che a sua volta li ha girati ad Armanna come pagamento di consulenze. In cambio Armanna ha ritrattato le sue accuse a Eni e a Descalzi, inserendo in una memoria consegnata alla Procura di Milano il 23 maggio 2016 tre punti indicati in una annotazione preparata proprio da Granata.

Amara ha raccontato ai magistrati milanesi che anche la fase del “complotto” a Trani e a Siracusa è stata da lui gestita insieme agli uomini Eni, l’avvocato Bianco e, per Siracusa, anche Granata. Per imbastire questa trama, i rapporti riservati tra Granata e Amara – secondo le dichiarazioni di quest’ultimo – sono stati tenuti dal capo della security aziendale, Rapisarda. Per compensare questo lavoro, Eni ha pagato consulenze legali all’avvocato Geraci, che poi ha versato una parte dei soldi a una società di servizi dietro cui c’è Amara.
L’avvocato Bianco – sempre secondo Amara – aveva chiesto ad Armanna di lasciar cadere le accuse a Descalzi e Granata, scaricandole semmai su due manager licenziati dalla compagnia, l’ex capo degli Affari legali Massimo Mantovani e l’ex capo della divisione Exploration & Production Antonio Vella. La stessa richiesta sarebbe arrivata ad Amara, su un foglietto, anche da Verdini. L’avvocato Bianco è accusato anche di aver chiesto ad Amara di retrocedergli in contanti una parte delle somme pagate da Eni.

L’altro ponte Morandi, Agrigento in piazza

Da Nord a Sud si lavora a diversa andatura. Così, mentre il ponte Morandi di Genova potrebbe già essere pronto in primavera dopo il crollo del 2018, il suo omonimo che si trova ad Agrigento, nell’estremo sud, attende da mille giorni l’inizio dei lavori dopo la chiusura avvenuta il 16 marzo 2017, dopo una chiusura precedente durata altri due anni (2015).

È il viadotto Akragas, sulla cui carreggiata, prima ridotta a una sola corsia, poi chiusa definitivamente, è cresciuta ormai l’erba. La chiusura del ponte che collega Agrigento a Porto Empedocle, è avvenuta per il pessimo stato dei piloni. Tanto utile quanto odiato dagli agrigentini, quel colosso di cemento armato, che poggia su una necropoli, è stato progettato da Riccardo Morandi e costruito nel 1970 senza alcuna cura del paesaggio nella Valle dei templi, simbolo di Agrigento e Patrimonio dell’Umanità Unesco. Anche l’ex assessore Sebastiano Tusa e Vittorio Sgarbi si schierarono per l’abbattimento. Alla fine dei tavoli con l’Anas si è deciso di avviare il restauro e la messa in sicurezza (30 milioni di euro), ma tutto è fermo. L’ultima data annunciata da Anas per l’avvio dei lavori nella parte cruciale del viadotto (Akragas I) è adesso la fine del 2020.

A chiedere una accelerazione sono i cittadini con una petizione online. Le vie di accesso però, piuttosto che riaprire, chiudono. Così la galleria Santa Lucia, via alternativa per Porto Empedocle, chiusa nel settembre 2018 e mai riaperta: i lavori sono iniziati dopo un anno. Non sono state ancora completate le due strade principali per Palermo e Catania: dopo il fallimento della Cmc e le vicissitudini di governo, solo adesso sono ripartiti i lavori, ma ancora a rilento: dovevano essere già finiti. Nell’entroterra i paesi fanno i conti con strade ormai abbandonate. La fine delle Province in Sicilia ha fatto il resto, i Comuni faticano a interloquire con i tanti commissari che si succedono al Consorzio dei Comuni.

Contro l’isolamento si mobilità anche la Chiesa, che ha organizzato, con l’appoggio dei sindacati, una marcia “della gente indignata”, a cui hanno aderito i sindaci dei 43 Comuni, associazioni, istituzioni e scuole: migliaia di persone scenderanno in strada sabato mattina per chiedere interventi sulle infrastrutture, cruciali per la provincia che più di altre soffre l’emigrazione. Chi sceglie di rimanere e si dedica all’agricoltura e all’allevamento in questi giorni non riesce a raggiungere le campagne e i caseifici a causa delle strade distrutte o impercorribili dopo le prime piogge.

La banda ultra-larga in ritardo di tre anni: a rischio i fondi Ue

La banda ultralarga dovrebbe far viaggiare la nostra connessione Internet velocissima: è l’Agenda digitale europea, che pianifica per il 2025 la cosiddetta “Gigabyte society”, basata su una rete talmente veloce da poter ospitare le tecnologie 5G, il cosiddetto “Internet delle cose” che solletica gli appetiti di Stati e grandi imprese di Tlc. Al di là delle legittime opinioni su quanto questo sia necessario e/o positivo, emerge ora un dato di fatto spiacevole. Se la connessione dovrà infatti essere velocissima, la realizzazione dell’infrastruttura necessaria lo è molto meno: in tre anni ha accumulato ritardi per tre anni (non è un refuso).

Tradotto: il progetto, lanciato a marzo del 2015, prevedeva il raggiungimento di una serie di obiettivi entro il 2020, l’altroieri nell’apposito Comitato governativo dal nome vagamente esotico (CoBUL) s’è scoperto che invece l’orizzonte più probabile è il 2023. Problema: i fondi comunitari, parte della programmazione 2014-2020, vanno rendicontati entro il 2022 e quindi si rischia che quei finanziamenti vadano persi o, ammesso di dirottarli su altro in tempo utile, si debbano comunque recuperare quelli per la rete veloce dalla nuova programmazione settennale, che però è ancora oggetto di negoziato.

Per capire serve ripartire dall’inizio. Il piano per la Banda ultra-larga (BUL, appunto) è stato lanciato cinque anni fa. Si trattava di aiutare con fondi statali ed europei la creazione dell’infrastruttura materiale nelle cosiddette “aree bianche”, quelle “a fallimento di mercato”. Insomma, quei comuni, quei quartieri o quelle aree (ad esempio quelle montane) in cui nessun operatore privato avrebbe mai portato la rete veloce perché non sarebbe conveniente.

Si è scelto di procedere mettendo a gara vari lotti e affidando poi al vincitore la concessione per 20 anni sull’utilizzo dell’infrastruttura stanziando pure i fondi per “invogliare” Pubblica amministrazione (scuole, università, centri per l’impiego e aziende sanitarie), Pmi e famiglie a scegliere la BUL. Dell’attuazione di questo progetto – nel senso di stabilire il fabbisogno infrastrutturale, predisporre le gare e controllare i concessionari – è stata incaricata Infratel, società in house del ministero dello Sviluppo economico da martedì guidata da Marco Bellezza, finora consigliere di Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli.

Qui, però, si parla del passato. Infratel ha fatto quel che doveva e predisposto le gare: i primi due bandi, che coinvolgono 5.500 Comuni, sono stati aggiudicati nel corso del 2017; l’ultimo per Calabria, Sicilia e Sardegna, con altri 1.900 Comuni, s’è invece chiuso ad aprile 2019. Gli appalti li ha vinti tutti Open Fiber, la società partecipata alla pari da Enel e Cassa depositi e prestiti, e il cronoprogramma presentato dall’azienda e accettato da Infratel prevedeva la conclusione dei lavori in 36 mesi, entro il 2020 insomma. Il valore delle opere si aggira sui due miliardi e mezzo: circa un miliardo lo mette Open Fiber.

Giovedì però la stessa Infratel, che aveva già avvisato dei ritardi accumulati nei mesi scorsi, ha spiegato ai ministri riuniti nel CoBUL – a partire da quella all’Innovazione Paola Pisano – che probabilmente per finire tutto si arriverà al 2023, scatenando una notevole incazzatura tra i presenti anche (ma non solo) per la messa in discussione dei soldi Ue.

Curioso, peraltro, che la società pubblica – nelle ultime riunioni del Comitato governativo (19 dicembre e 23 gennaio) – non abbia mai parlato di colpe del concessionario (nonostante Open Fiber per giustificarsi dei ritardi in Veneto, abbia persino sostenuto di non riuscire a trovare lavoratori). Un mese fa, l’allora ad Domenico Tudini aveva comunque fatto un quadro terribile della situazione: gli ovvi ricorsi giudiziari (risolti), alcune difficoltà progettuali (s’è voluto riusare molte infrastrutture esistenti, che però spesso non erano nello stato descritto sulle carte) e una drammatica lentezza nell’ottenere i permessi. “Noi abbiamo 883 cantieri aperti, in qualche modo sospesi perché mancano i permessi: oltre 200 per colpa di Anas, oltre cento di Rete Ferroviaria Italiana” e pure “molte società regionali” – nonostante i governatori si lamentino assai dei ritardi – rispondono con lentezza esasperante.

Risultato: a fine 2019 meno del 50% dei cantieri aveva terminato la progettazione esecutiva e solo poco più di duemila erano avviati. I lavori conclusi sono qualche decina, quelli “collaudati” pochissimi anche per il modello di intervento scelto da Open Fiber, che sfrutta la rete Enel.

Ora, al solito, si pensa a poteri in deroga da dare a commissari ad hoc per scavalcare ogni problema. Non un bel viatico per le gare sulle “aree grigie” (a parziale fallimento di mercato), che dovrebbero partire entro quest’anno.

“Può registrare il marchio Italia Viva”. Ma la lettera è al Matteo Renzi sbagliato

Quando ha aperto la lettera dell’Ufficio Brevetti e Marchi, spedita con tutti i crismi dal ministero per lo Sviluppo economico, Matteo Renzi non ha creduto ai suoi occhi. E non perché, con tanto di bolli, controbolli e protocolli, il ministero gli stesse comunicando che il marchio “Italia Viva” non è ancora registrato. E neanche perché quello stesso ministero, per garantire una “tutela giuridica” dello stesso “marchio” del nuovo corso renziano, pretendesse il versamento di una tassa di registrazione di quasi 800 euro. No, Matteo Renzi è rimasto sconvolto da quella lettera, perché il Matteo Renzi che l’ha ricevuta non è l’ex sindaco di Firenze ed ex segretario del Pd, ma un 35enne consulente informatico teramano, condannato dall’omonimia a vivere da qualche anno una doppia vita, quella del creativo inventore di siti web, e quella di alter ego involontario dell’ex presidente del Consiglio.

Anche se l’Abruzzo e la Toscana s’affacciano su due mari diversi, è stata proprio quell’omonimia a regalare al Renzi abruzzese una sorta di doppia residenza a Rignano sull’Arno, con una costante esposizione, specie sui social dove, nonostante le foto, gli indirizzi e i post, non manca mai qualcuno che sente il dovere di far arrivare a una supplica, una richiesta, un commento politico, quando non addirittura un insulto, al Matteo sbagliato.

Anche quando i genitori del Renzi nazionale vennero arrestati, ci fu anche chi, mosso da un senso di umana partecipazione, sentì il bisogno di esprimere vicinanza al Renzi teramano, che fu costretto a postare su Facebook una nota di servizio, con la quale informava tutti che i suoi genitori stavano bene e che stavano a casa per scelta e non per ordine di un magistrato. Mai, però, gli era successo che quell’omonimia traesse in inganno un ministero della Repubblica, come è avvenuto stavolta, con la lettera arrivata ieri mattina. Anzi: doppiamente arrivata, perché forse a causa dell’errore, l’Ufficio del Mise ha inviato una seconda lettera, ma anche questa regolarmente indirizzata al Renzi sbagliato. Certo, un ministero dovrebbe avere una certa facilità nel raggiungere l’indirizzo esatto di un ex ministro nonché ex presidente del Consiglio. E ci si aspetterebbe che l’Ufficio Brevetti, non sbagli l’indirizzo di chi ha presentato una richiesta, scrivendo ad un omonimo che, oltretutto, non ha mai registrato nulla né scritto al ministero.

E stupisce anche, tra le righe, lo scoprire che Italia Viva, presentata con tanto di “logone” disceso dall’alto della Leopolda, non sia ancora un marchio registrato.

Ma non tutto è stato vano, perché adesso che il Matteo Renzi teramano sia l’omonimo ufficiale del segretario di Italia Viva è più che ufficiale. È brevettato.