“Io, fregato dai voltagabbana… Il mio clientelismo era meglio”

“Un arraffa arraffa continuo. Chi chiede, chi avanza, chi tradisce, chi perisce. Ma sai che dico? Mi dimetto da sindaco. E mo’ basta! Faccio piazza pulita”.

Incredibile! Clemente Mastella, il principe dei voltagabbana, è stato gabbato.

Non mi piacciono le facce, le richieste continue, non mi piacciono le persistenze.

Benevento perde un papà, un fratello, un compagno di avventura.

Non perde niente perché Mastella si dimette il 2 febbraio, ma poi si ripresenta. Anticipo solo il voto, lo collego a quello regionale. E mi faccio una lista coesa, specchiata, forte.

Infatti stupiva che lei davvero lanciasse la spugna a terra e rinunciasse. Non sembrava Mastella.

Ma ha capito cosa sta succedendo qui a Benevento?

Che lei è azzoppato dai voltagabbana. Si chiama nemesi.

Lei non sa quanti soldi sto portando in città. Con me una marea di progetti regionali ed europei è stata finanziata. Dal depuratore alla nuova stazione ferroviaria, ai Pics. Trentadue milioni di euro là, cinquanta milioni di euro qua, dieci di sopra, altri di sotto.

Fantastico.

Sa che sono stati assunti una ventina di giovani senza che io abbia voluto conoscere un solo nome?

Lei sembra irriconoscibile.

Mi crede se le dico che di tutte queste opere che stanno per giungere in città a me interessa zero. Non ci metto bocca. Voglio solo che si facciano. A una certa età uno ha altre urgenze.

Lei era il principe della clientela.

La clientela come bisogno, come necessità.

L’invalidità civile.

Al nord avevano la cassa integrazione e da noi c’era l’invalidità. Stiamo parlando di sostegno al reddito.

Però fa impressione ugualmente che lei si scagli contro i politici richiedenti asilo.

Ma ai miei tempi era una cosa alta. Qua è bassa bassa.

Il municipio di Benevento ha le sue necessità corporali.

Se sapesse cosa chiedono! Io non sono il tipo che tiene tutto per sé, ma vogliono sempre di più.

Appalti, incarichi, subappalti, micro appalti, fetenzie di ogni genere.

Io mi dimetto! Il 2 febbraio Benevento sarà senza il suo sindaco.

Le dimissioni moralizzatrici chiuderebbero una vita politica fitta di successi.

Io mi dimetto da sindaco, ma mi ricandido a sindaco.

Se si ricandida i suoi avversari diranno tante cose brutte. Ci rifletta, ci ripensi.

Ma io a Benevento ci vivo sei mesi all’anno, figurarsi. Non ho mai messo becco in città nei trent’anni in cui esercitavo un certo potere (e un certo appeal, diciamolo pure), vuole che abbia paura delle piccole maldicenze?

Benevento sta per esplodere, per risplendere.

Milioni e milioni di euro.

Anche se lei ha dichiarato il dissesto del bilancio comunale.

Per forza! Ho trovato un buco di 120 milioni di euro.

Ha un sacco di debiti da restituire, ma ha un sacco di soldi da spendere.

Ho lavorato in parallelo: di qua il buco, di là il futuro.

Parecchi alleati si sono dimostrati infidi.

Un mio consigliere comunale perfino arrestato in una retata della Dia.

È brutto.

Bisogna far cambiare aria.

La città capirà?

O rivinco o riperdo.

Condivido.

Non ho fantasmi da coprire, ambizioni da inseguire. Quel che ho fatto ho fatto.

Mastella aveva un unico amore: Ceppaloni. Il paese natale, le pietre di casa.

E mi sono sempre tenuto fuori da Benevento.

Che ora vuole redimere.

Ho una certa età, sai che mi importa dell’insuccesso.

Farà una battaglia contro i voltagabbana, i trasformisti, i poltronisti.

Ai miei tempi c’era un discorso politico sotto. Ero piccolo, se non alzavo la voce chi mi sentiva? Il Pd voleva affamarmi.

Ben gli sta al Pd, lei ora vota Forza Italia.

È chiaro. Mia moglie Sandra è senatrice.

Adesso è Sandra la capofamiglia.

Mi godo i sei nipoti.

Non è che fa tutto questo casino per sistemare un figliolo?

I miei figli hanno interessi lontani dalla politica.

Bellissimo.

E sono un nonno felice.

Ci ha fatto prendere paura quando è stato ricoverato in terapia intensiva.

L’asma, le complicanze, mi mancava l’aria.

La ricordo sempre alle prese con l’aerosol.

Cavolo, stasera devo fare l’aerosol.

Conte “il francescano” e l’abbraccio con la Cei

Non sarà stato il battesimo del nuovo partito cattolico del presidente Giuseppe Conte. Eppure la giornata di ieri ad Assisi per la firma del manifesto “per un’economia a misura d’uomo e contro la crisi climatica” qualche indizio lo ha fornito sul “nuovo umanesimo” teorizzato dal premier.

Anzitutto, il coté che ha fatto da cornice ai discorsi istituzionali e alla firma del documento: il cuore del cattolicesimo mondiale – che Conte ha preferito al meeting annuale di Davos – dove 800 anni fa San Francesco scrisse il Cantico delle Creature. Da qui ieri è partita, come dice il presidente della Fondazione Symbola Ermete Realacci, “un’alleanza” per “affrontare la crisi climatica conciliando sviluppo e salvaguardia ambientale”.

Poi ci sono i protagonisti che sono sfilati nel Salone papale del Sacro convento, uniti da una matrice comune: quel cattolicesimo sociale a cui Conte è sempre stato legato e che vedrebbe di buon occhio una discesa in campo del premier dopo l’esperienza a Palazzo Chigi. Sul fronte ecclesiastico, i capifila sono i padroni di casa, il custode del Sacro Convento padre Mauro Gambetti e il direttore della Sala Stampa padre Enzo Fortunato, che si lasciano andare alla retorica delle grandi occasioni: “Vogliamo cambiare il mondo”, dice il primo lasciando all’altro l’elogio del “noi” per combattere la crisi climatica.

Entrambi accolgono il premier con sorrisi e calorose strette di mano ma, di tutta la giornata, l’immagine che resta è l’abbraccio tra il presidente umbro della Cei Gualtiero Bassetti e lo stesso Conte. Lui ringrazia e fa capire subito l’importanza della giornata, che lo ha portato a rinunciare al meeting con i grandi della terra: “Quando nessuno sapeva dell’esistenza di Davos, qui si tutelava già l’ambiente”. Nelle prime file, ad accogliere il presidente del Consiglio è venuto tutto il gotha dell’imprenditoria e dell’associazionismo cattolico italiano: ci sono i presidenti di Confindustria e Coldiretti Vicenzo Boccia ed Ettore Prandini, il presidente dell’Enel, Francesco Starace, ma anche due donne che Conte negli ultimi mesi ha conosciuto bene, entrambi possibili candidate dell’alleanza giallorosa in Umbria: la sindaca di Assisi Stefania Proietti e l’amministratore delegato di Novamont e presidente di Terna, Catia Bastioli.

Poi ci sono i promotori del manifesto, tutti punti di riferimento di quel mondo cattolico che a Conte strizza l’occhio da tempo: il sociologo Mauro Magatti, il banchiere Leonardo Profumo ma anche il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà di CL, Giorgio Vittadini, fino ai rappresentanti italiani a Bruxelles David Sassoli e Paolo Gentiloni. Il manifesto si ispira all’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco ed è un’unione perfetta tra “sostenibilità”, “green economy” e “la bellezza dell’Italia”, con una spruzzata di “coesione sociale”, per azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050.

Il discorsofinale spetta al premier, che chiude con una promessa a effetto: “Qui da Assisi parte il percorso per inserire la protezione dell’ambiente e della biodiversità nella Costituzione italiana”. Applausi.

Il digiuno farsa di Salvini finisce con tortellini e babà

Solo due giorni di digiuno, poi Matteo Salvini ha ricominciato a mangiare. Ieri il leader leghista l’ha annunciato in diretta tv, davanti alle telecamere di La 7. “Due giorni mi sembrano più che sufficienti. Anche perché digiunare a fronte di tortellini col Parmigiano reggiano che mi hanno messo di fronte oggi è impossibile”, ha detto, parlando dall’Emilia, dove era impegnato nell’ultimo sprint di campagna elettorale. A esser pignoli, però, non si capisce quanto sia effettivamente durato. Avrebbe dovuto iniziarlo lunedì 20, quando nella Giunta in Senato è andato in scena il voto sulla Gregoretti. “È dura perché dovrò evitare tortellini e lasagne, ma farà bene anche a me”, ha detto annunciando il suo personalissimo Satyagraha. “Ma per favore, il digiuno è una cosa seria e lui sta sempre in mezzo a porchetta e wurstel”, lo attacca subito Roberto Giachetti, l’ex radicale ora renziano che di digiuni se ne intende. “Atto ridicolo”, lo bolla Roberto Saviano. Insomma, quello di Salvini sembra un insulto a tutti i grandi digiunatori della storia, da Pannella a Gandhi. E invece il Capitano fa sul serio.

La mattina di martedì 21 posta un video in cui beve qualcosa. Sarà un cappuccino con doppia schiuma e cioccolato? Assolutamente no. “Digiuno sì, ma almeno ginseng, vitamine e magnesio oggi me li concedo. Alla vostra!”, dice. Tra martedì e mercoledì si fa Emilia e Calabria e ritorno, con decine di appuntamenti elettorali, come si fa? Lui però sembra resistere. Sempre martedì, a sera, è Barbara Palombelli a collegarsi col ristorante bolognese dove il Capitano è a cena con alcuni sostenitori. “Ma che fa, mangia??”, si chiede Barbara, e sembra di sentire il professore della clinica per dimagrire di Fantozzi. Sembra di no. Mentre tutti i suoi gozzovigliano tra gnocco fritto, mortadella e tagliatelle al ragù, il povero Capitano è orfano di piatto e posate, davanti solo a un bicchiere di vino rosso. Al suo fianco c’è l’ex portiere dell’Inter e della Nazionale, Gianluca Pagliuca, evidentemente un suo fan.

Anche mercoledì passa a stecchetto. “Ma poi, nel segreto della stanza in hotel, chi ci dice che non abbia saccheggiato le noccioline del frigobar?”, si chiedono i cronisti al seguito. Nel frattempo a Montecitorio i leghisti digiunano ognuno a modo suo. Premesso: l’iniziativa “digiuno per Salvini”, che sul sito ha raggiunto 5.248 adesioni, prevede un giorno di astinenza da cibo, a propria scelta. “Per noi oggi solo un caffè”, dicono alla buvette i leghisti Dario Galli e Cristian Invernizzi. Claudio Durigon, stazza importante, giura di aver digiunato per un giorno intero. “Non ho avuto grandi risultati sul fronte della linea, perché il giorno dopo ho mangiato di più…”, afferma. “Io il digiuno lo faccio domani (oggi, ndr). In questi giorni ero in Emilia Romagna, era impossibile…”, fa sapere Igor Iezzi. Paolo Tiramani è stato ligio al dovere. “Questi due anni a Roma mi hanno fatto ingrassare. Ero già a dieta ferrea, quindi un giorno di digiuno non mi è costato molto…”, ammette. Di altri non si ha notizia. “Molti l’hanno fatto, ma la maggior parte no. Forse non si arriva a un terzo…”, sussurra un senatore.

Nel frattempo il web si è scatenato. Da una parte i suoi fan a sostenerlo, dall’altro innumerevoli prese per i fondelli. Ogni regione ci ha messo del suo e sui social si può trovare il campionario completo della gastronomia italiana, da Nord a Sud, dal risotto allo zafferano alla ’nduia, passando per trofie al pesto (di cui lui è golosissimo), amatriciane, carbonare, orecchiette, zuppe di pesce e paste alla norma. Gli sfottò sono anche in video. In uno c’è un ragazzo a tavola, una donna gli porta un piatto di pasta al forno e lui: “Oggi non mangio, digiuno per Salvini”. “Ma fammi il piacereee…”, la risposta, con tanto di sganassone.

Del resto le parole digiuno e Salvini sono quasi un ossimoro. Il leader leghista negli ultimi due anni ha ingurgitato di tutto, spesso in favore di social. “Buon appetito e bacioni!”. E anche in questa campagna elettorale non si è risparmiato, arrivando addirittura a baciare una coppa. “Se mi condannano, voglio scontare la pena qui…”. Due giorni di astinenza, se davvero ci sono stati, devono essere stati un sacrificio enorme.

M5S, appello a De Luca: “Fatti da parte”

Alla fine, il problema è sempre lui, Vincenzo De Luca. Il giorno dopo le aperture del ministro pentastellato dello Sport, Vincenzo Spadafora, all’ipotesi di un’intesa Pd-M5S in Campania (“bisogna sedersi e parlare, una delle due parti deve convincere l’altra”), senza veti o pregiudiziali di partenza su un eventuale De Luca bis, la capogruppo regionale M5S Valeria Ciarambino dagli studi dell’emittente locale Canale 9 ha ribadito che i margini sono stretti. Strettissimi. La cruna dell’ago di “un passo indietro, un gesto di generosità, simile a quelli che ha fatto Luigi Di Maio per far nascere due governi”.

Ciarambino, di fede dimaiana, cinque anni di opposizione durissima “agli scempi della giunta di Vincenzo De Luca”, lo chiede ai dem di fede deluchiana, e in fondo allo stesso De Luca, di cui non fa il nome: “Se alcune persone, responsabilmente, sapranno fare dei passi indietro per dialogare, senza considerare la politica come posizionamento di pedine, allora forse potrà nascere qualcosa che eviti alla Lega di radicarsi in Campania”.

Al governatore saranno fischiate le orecchie. Dalle telecamere di un’altra emittente, Lira Tv, poche ore dopo, ha detto qualcosa sulle dimissioni di Di Maio che poteva valere anche per il dibattito in Campania: “Mi auguro che il travaglio odierno del M5S sia la presa d’atto di una esperienza che è stata fatta e che, come capita a tutti, dà degli insegnamenti che vanno accolti. Grande rispetto, ma anche un grande richiamo al principio di realtà”.

Le parole di Spadafora non hanno emozionato l’ex candidato sindaco M5S a Napoli, Matteo Brambilla: “Sono posizioni personali del ministro, non del movimento campano – dice Brambilla al Fatto Quotidiano – per quanto mi riguarda nessuna alleanza. Chi vive in Campania sa giudicare cosa è significato il governo Pd della Regione nei trasporti e nella sanità”.

Luigi Gallo, presidente della commissione cultura della Camera, storicamente vicino a Roberto Fico, legge invece con occhi diversi le dichiarazioni di Spadafora. Invitando “ad abbandonare la visione romanocentrica e ad accogliere la sfida dei territori”. Gallo è favorevole alle alleanze: “Mobilitare un popolo per cambiare i governi delle regioni verso i rifiuti zero, lotta alle mafie e alla politica malata nella sanità, bonifiche dei veleni, è un’impresa epocale: dopo dieci anni possiamo dire con certezza che non possiamo realizzarla da soli”.

In casa dem a Napoli regna l’attesa. Per il momento pesa la decisione del M5s di correre da soli nel collegio 7 di Napoli per le suppletive al Senato – il candidato è Luigi Napolitano, un vecchio amico di Di Maio – nonostante il centrosinistra avesse messo in campo il giornalista Sandro Ruotolo.

Un nome capace di unire Pd, il sindaco Luigi de Magistris, la sinistra di Leu e le Sardine. E, con qualche sforzo e mettendo i puntini sulle i di un giudizio completamente negativo sull’amministrazione De Magistris, pure i renziani di Italia Viva.

Poteva essere il laboratorio di un’alleanza larghissima da riproporre per la Campania. Magari sul nome del ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. Uno tra i più favorevoli nel M5s a lavorare su alleanze.

“Siamo riformisti per natura. Ma ora serve un progetto”

La vita è strana, e figurarsi la politica. Ma Roberta Lombardi, la prima capogruppo alla Camera della storia dei Cinque Stelle, non è stupita dal ritrovarsi come reggente Vito Crimi, il primo capogruppo in Senato, che con lei respinse le proposte di Pier Luigi Bersani in diretta streaming. “Era nell’ordine delle cose, lo prevede lo Statuto”, ricorda ora.

Cosa gli ha detto dopo che è subentrato a Luigi Di Maio?

Con Vito ci sentiamo spesso, facciamo entrambi parte del comitato di garanzia. Sono contenta che il M5S sia nelle sue mani, perché è una persona concreta, credibile e affidabile anche nelle situazioni più difficili.

Ora dovrà gestire gli Stati generali di marzo. Ma come, e con chi?

Non esiste una regola, sono i primi della nostra storia. Però verranno organizzati da Crimi, assieme ai sei facilitatori nazionali.

Saranno un congresso?

Toccheranno tre argomenti: i valori di riferimento, le regole interne e l’organizzazione, e i temi futuri. Di obiettivi ne abbiamo già realizzati tanti, dal Reddito di cittadinanza al decreto Dignità e alla legge anticorruzione, e dobbiamo esserne orgogliosi. Ma ora va capito cosa fare da grandi.

Chi scriverà le regole?

Io andrei a riprendere il lavoro svolto tra giugno e luglio nelle assemblee regionali e sulla piattaforma web Rousseau, quando abbiamo raccolto i pareri e gli spunti degli attivisti e dei gruppi locali su riorganizzazione e collocazione politica del M5S. Una volta compreso l’orientamento della base, va scritto un documento che poi si potrà emendare su Rousseau e nelle assemblee locali.

Negli Stati generali andrà affrontato il tema delle leadership, ossia se trovare un nuovo capo politico oppure passare a una segreteria?

Secondo me andrebbe discusso prima, su Rousseau e nelle assemblee locali. A mio avviso è necessario tornare a una forma collegiale, per noi identitaria, in cui però ci sia un primus inter pares perché la legge richiede un capo politico. Ma dovranno essere gli iscritti a decidere la linea politica.

Lei cita spesso la piattaforma, ma molti parlamentari vorrebbero ridurne il peso.

Il ruolo di Rousseau nella partecipazione degli iscritti non è negoziabile. Ma va valorizzata con votazioni molto più strutturate e neutrali. Gli iscritti devono avere la maggiore informazione possibile per votare in modo consapevole. E ogni quesito dovrebbe allegare i pro e i contro.

E la collocazione politica, si decide a marzo?

Sì, certo.

Lei dove vuole stare?

Leggo di contrapposizione tra riformisti e neutralisti. Ma prima di arrivare a quella domanda, dovremmo chiederci se vogliamo fare l’opposizione dura e pura oppure se lavorare, mantenendo la nostra identità, con chi voglia realizzare i nostri temi. Vogliamo essere governisti? Serve un verdetto definitivo.

Mettiamo che sia sì. Lei con chi vuole stare al governo?

Nella nostra storia tutto dice che siamo progressisti e riformisti, per natura. Ma non dobbiamo essere noi 5Stelle a modellarci agli altri, bensì costringerli a migliorarsi. Lo stiamo facendo nel Lazio, dove sono capogruppo in Regione. Grazie a noi il Pd si è convinto a realizzare cose come l’ampliamento del parco dell’Appia Antica.

Però pare che sia una dicotomia su questo, tra la classe dirigente in gran parte pro Pd, e la base dove invece sembrano di più i contrari.

È vero, e l’abbiamo alimentata innanzitutto noi nei cinque anni all’opposizione, attraverso un linguaggio semplicistico che serviva ad alimentare il consenso. Ma poi è arrivato uno più bravo di noi in questo campo (Salvini, ndr) e ci ha ritorto contro questo linguaggio. D’altronde se definisci superficialmente il Pd come il partito di Bibbiano e poi ci fai un governo, come lo spieghi alla gente?

Di Maio ha detto: “Agli Stati generali discuteremo il come, poi verrà il chi”. È d’accordo?

Sì. Però con i facilitatori si è seguito il principio opposto: prima i nomi, poi i contenuti. Ed è sbagliato. Prima la mission, poi le regole, quindi i nomi.

Lei chi vorrebbe alla guida?

Nomi non ne faccio, potrei bruciarli. Ma vedo parecchi in grado di farlo.

La cosiddetta opposizione interna pare disorganizzata. Esistono davvero alternative a Di Maio e ai suoi?

Tanti di noi in questi anni hanno portato contenuti importanti, ma sono rimasti sempre scollegati. Io chiedo di mettere assieme tutte queste idee e di metterle a disposizione di una collegialità.

Serve una piattaforma.

Il termine non mi piace. Serve un progetto comune.

Gli Stati generali saranno una resa dei conti?

Temo che nella mancanza di pianificazione non si facciano i necessari passaggi di condivisione prima di marzo. Forse sarebbe necessario più tempo, e rinviare gli Stati generali di un paio di settimane.

Beppe Grillo ha salutato solo oggi Di Maio. Pare di nuovo lontano.

Lui è il Garante, e in questa fase deve entrarci.

Quelle 2 piazze “ignoranti” nella lunga notte a Bibbiano

A Manaus, nel bel mezzo della Foresta Amazzonica brasiliana, c’è un punto in cui si incontrano due fiumi: uno più caldo e scuro (Rio Negro), l’altro più freddo e trasparente (Rio Solimoes). Quando confluiscono e diventano un unico fiume, quel fiume, il Rio delle Amazzoni, resta di due colori per molti chilometri. Giallo da una parte, grigio dall’altra. Ecco, se dovessi descrivere cos’era Bibbiano giovedì, direi che era il Rio delle Amazzoni là dove due piazze che geograficamente si incontrano, riescono a sembrare distanti anni luce e popolate da specie diverse. La piazza “di Salvini” e quella delle Sardine erano a un isolato di distanza, ma immerse in un’atmosfera così diversa che trovarsi lì è stata un’esperienza surreale. Pesciolini luminosi appuntati sulle giacche, cartelli pacifici, cibo, tè caldo e il liscio in filodiffusione da una parte, cartelli con scritto “comunisti ladri di bambini”, crocifissi esibiti da individui tra il marziano e lo psichiatrico e individui urlanti dall’altra. Nulla nel mezzo. Come se Bibbiano fosse orrore o spensieratezza, inquisizione o rimozione, il coro cupo “Giù le mani dai bambini” che ha chiuso il comizio di Salvini o il liscio allegro ballato sul prato dalle Sardine. Giovedì, a Bibbiano, c’era tutto fuorché Bibbiano. C’era la propaganda di qua e il volemose bene di là, ma una siderale mancanza di informazione e consapevolezza riguardo il cuore del problema che è, ricordiamolo, una scia di dolore lunga almeno 25 anni. Una scia di dolore causata da psicologi, assistenti sociali, onlus che individuano abusi anche dove non ci sono, utilizzando metodi anti-scientifici e orientanti. Mi sono guardata intorno, giovedì a Bibbiano, e ho sentito che era tutto stonato. Il clima festoso delle sardine e l’inquisizione grottesca dei salviniani. E quindi ho fatto la cosa più semplice: ho chiesto a chi era lì “parlami di Bibbiano”. Torniamo alla ragione per cui un’anonima cittadina di 10.000 abitanti è diventata il cuore della campagna elettorale, di scontri politici e ideologici. Mi sono infilata nella piazza di Salvini e ho cominciato a chiedere alle persone cosa sapessero di Claudio Foti, dell’inchiesta “Angeli e demoni”, delle accuse. Ho riconosciuto subito la famosa mamma che salì sul palco di Pontida con Salvini e la cui figlia non era di Bibbiano come fatto credere da Salvini. Mi ha detto che era lì per essere vicina ai genitori di Bibbiano.

Le ho chiesto di raccontarmi cosa sa, di cosa è accusato Foti. “Mi vuoi mettere in difficoltà? Mi sembra di essere all’università. Non voglio parlare di Bibbiano!”, ha replicato nervosa. Quindi a Bibbiano non si parla di Bibbiano. C’è un gruppetto di persone arrivate da Massa Carrara, tutti con i cappellini gialli e le spillette della Lega. Parlo con un signore loquace, a cui faccio le stesse domande: “Io so di cimiteri e di elettroshock fatti ai bambini”. Gli spiego che a Bibbiano non c’erano né riti nei cimiteri né elettroshock, e lui: “Sinceramente non ho voluto approfondire, sono militante e sono qui per sostenere la battaglia di Salvini!”. Quale battaglia non lo sa, meglio non approfondire. C’è un tizio con due cani al guinzaglio, entrambi con la pettorina della Lega. Posa tronfio davanti ai fotografi che non si lasciano sfuggire la nota di colore. “Di Bibbiano cosa ha capito?”, domando. “Che occorre parlarne!”. “Me ne parli!”. “Io devo parlarne? Lo chiedo io a lei, che è una giornalista!”. “Io ho scritto molti articoli sul Fatto su Bibbiano”. “Il Fatto non lo leggo perché è carta per accendere il camino”. “Ok, mi parli di cosa ha letto sul Giornale, Libero, dove vuole!”. “Io leggo libri”. “Allora avrà letto Bibbiano e dintorni di Tortorella”. “No, non l’ho letto, e comunque con me i mezzucci non funzionano”. Insomma, bisogna parlare di Bibbiano, ma senza saperne un cazzo. Poi c’è una tizia che brandisce un crocifisso. “Salvini rappresenta i miei valori, per il resto di Bibbiano bisogna stare attenti a parlarne”, dice. C’è poi una signora che aggiunge linfa al dibattito: “Non so bene cosa sia successo qui, ma Salvini può capire il dolore dei genitori perché è un padre presente”. Una signora bionda la butta sul tecnico: “Claudio Foti si è inventato delle direttive scientifiche che le chiama Cismai!”. La correggo spiegandole che il Cismai è un centro che coordina altri centri che si occupano di abusi e lei: “No! Glielo dico io!”. In pratica una versione più autoritaria dell’indimenticato “Questo lo dice lei!” della Castelli a Padoan. Per fortuna arriva Salvini e interrompe questo viaggio nell’ignoranza più malinconica a cui si possa assistere, penso. È lì con la Borgonzoni che tace per almeno un’ora nel suo ruolo, sul palco, di Mauro Repetto degli 883. Lo slogan del capitano è “Giù le mani dai bambini”, come se ci fosse qualcuno dall’altra parte che invece promuove atti libidinosi e rapimenti di minori in Aspromonte. “Sono pronto a dare la vita per i bambini!”, urla alle folle, manco Claudio Foti fosse uno spirito maligno e occorresse il suo sacrificio umano per vederlo dissolto in una nuvola di zolfo. Passa la parola ad alcune mamme di Bibbiano e poi a quella del piccolo Tommy, il bambino rapito e ucciso nel 2006 che non c’entra nulla e parla di permessi premio ai condannati, ma tutto fa brodo. C’è gente che urla “Al muroooo”, “Fanculooooo”, ed è la stessa gente a cui un minuto prima ho chiesto “Cosa è successo a Bibbiano?” e rispondeva “Boh”. Un tizio mi dice “Faccia di merda”, la signora di fianco borbotta sempre rivolta a me “Comincia a comprare la preparazione H”, poi vogliono spaccarmi il telefono perché non devo riprenderli e “Vattene nella tua piazza, quella delle Sardine!”. Allora ci vado, nella piazza delle Sardine. Fermo una ragazza con un pesce di cartone in testa. “Sono una Sardina perché un fatto di cronaca non deve essere strumentalizzato dalla politica!”. “Neanche da voi però. Cosa è successo a Bibbiano lo sai?”. “Faranno il loro corso le indagini!”. “Le indagini sono chiuse”. “Non so di cosa è accusato Foti, non sono la persona indicata per parlare di queste cose”.

Ci riprovo con due Sardine più attempate, non sanno nulla neanche loro, “Questa è una piazza di coscienza”, mi spiegano. Intanto qualcuno mi offre un tè e mi ritrovo con una sardina di carta in mano, mentre Mattia Santori spiega che è la prima volta che la militanza della sinistra funziona. Già, funziona. Solo che ora che abbiamo sistemato “il fare”, bisognerebbe sistemare anche il “sapere”. Perché quel Rio delle Amazzoni di cui scrivevo all’inizio, quello le cui due correnti scorrono insieme ma mantenendo a destra e sinistra colore e temperatura diversi, a un certo punto, dopo chilometri, si mescolano. La melma nera si amalgama con l’acqua chiara. Diventano un unico fiume. Ecco, speriamo che l’ignoranza non finisca per miscelare tutto.

“Non siamo tifosi, aiutiamo l’uomo del Pd”

“Voterò Bonaccini come presidente e la lista Movimento 5 Stelle, è una scelta di testa, la migliore che si possa fare a queste elezioni”. Raffaella Sensoli, consigliera uscente M5S, è stata la prima a proporre il voto disgiunto. Opzione che oggi, a meno di 24 ore dal voto, la riminese rimarca con orgoglio: “L’attuale governatore è più vicino alla linea e al programma del Movimento. Nei prossimi cinque anni Stefano Bonaccini potrebbe cogliere molte più proposte nostre rispetto a quello che farebbe Lucia Borgonzoni, candidata della Lega”.

La campagna elettorale è giunta al termine, come le è sembrata?

Particolare. C’è stato un candidato che ha fatto il candidato, Bonaccini, e poi c’è stata una candidata posticcia accompagnata dal suo leader Matteo Salvini, una candidata, per citare Amadeus, “un passo indietro”. Non mi piace come comportamento da parte di un’eventuale presidente, non mi ha convinto in quei pochi contenuti espressi, non mi piace la sua idea di sanità, forgiata sul modello lombardo con il 50% in mano ai privati. È stata una campagna becera ma sui profili Facebook di Borgonzoni e Salvini si sono visti solo messaggi di buongiorno, foto con cuccioli animali e cibo, mi sembrano più adatti a condurre una puntata di Linea Verde.

Quindi come presidente dell’Emilia-Romagna voterà Bonaccini del Pd invece che Simone Benini, il candidato del M5S?

Avere una rappresentanza in Consiglio è importante, ma per la presidenza regionale è sufficiente un voto in più e scelgo Bonaccini. Possiamo avere anche molte divergenze ma non è uno che sfrutta i sentimenti e la pancia in modo becero. Il Movimento non può gareggiare alla corsa per il ruolo da governatore, ne sono consapevoli gran parte degli elettori che potrebbero decidere di votare solo per il Pd: con il voto disgiunto si conferma la propria adesione ai nostri principi ma si contribuisce allo stesso tempo alla sconfitta della Lega.

Non si è ricandidata, dopo cinque anni da consigliere regionale e altrettanti di militanza, le mancherà la politica?

Prima di entrare nel Movimento, non capivo nulla di politica, mi sembrava una “cosa” lontana e complicata, delegata ad altri. Quando ho sentito Beppe Grillo dal vivo per la prima volta, dieci anni fa qui alle Regionali, dire “pensate con la vostra testa” mi è scattato un click e ho capito che quella “cosa” riguardava anche me. Credo di aver usato la testa anche in questo caso, mi dispiace che alcuni intransigenti mi abbiano criticato. Ho ricevuto altrettanti messaggi di sostegno però, ho sostenuto una coalizione M5S-Pd fin dal primo giorno e non so se è un’occasione che ricapiterà, ma adesso non è il momento del voto di orgoglio o di tifoseria.

I fattori decisivi: affluenza, Romagna e le “zone rosse”

Il punto più basso risale all’ultimo voto regionale, quello del 2014. Alle urne si presentarono 1 milione e 300 mila persone, pari al minimo storico del 37,7 per cento di affluenza. Roba mai vista in Emilia Romagna, dove anche lontani dai fasti della Prima Repubblica (quando si viaggiava sopra il 90 per cento) gli elettori non erano mai scesi così in basso. Comunque vada domenica, è certo che l’affluenza tornerà a salire e che proprio il numero dei votanti sarà decisivo per l’esito della contesa tra Stefano Bonaccini e Lucia Borgonzoni. A spiegarlo sono gli stessi sondaggisti, tutti concordi – stando alle ultime rilevazioni pubblicabili – sull’incertezza del risultato e sul fatto che alla fine la portata nazionale del voto spingerà le persone alle urne: “Il 37 per cento del 2014 era figlio di un altro mondo – spiega Roberto Weber, presidente di Ixè – ed era un segnale di disagio che il gruppo dirigente del centrosinistra non colse affatto. Oggi credo che sia ragionevole una stima superiore al 65 per cento”.

Tra chi prega per un’affluenza alta c’è soprattutto Stefano Bonaccini, almeno secondo Antonio Noto (Noto Sondaggi): “Un dato alto favorirebbe più il centrosinistra, perché se il centrodestra dovesse vincere credo lo farà soprattutto grazie a quei delusi di sinistra che sceglieranno di rimanere a casa”.

Da considerare, però, saranno anche le zone geografiche in cui crescerà maggiormente l’affluenza. Secondo gli istituti di ricerca, la Regione è infatti divisa in aree ben distinte: “Nei grandi centri come Bologna o Modena – spiega Noto – il centrosinistra è avanti, mentre l’area che confina con la Lombardia guarda a destra. La parte contendibile è sostanzialmente quella della Romagna”.

“Se fosse quella parte a voltare le spalle a Bonaccini – ipotizza Weber – allora sarebbero guai per il centrosinistra”. Il piano di Bonaccini però sembra proprio quello di puntare a fare il vuoto nelle sue roccaforti perché costituiscono i collegi più popolosi, dove portare qualche migliaio di persone in più ai seggi potrà fare la differenza.

Non solo. Oltre all’affluenza, Bonaccini spera nel sostegno del voto disgiunto, ovvero del meccanismo elettorale che consente di votare per una qualsiasi lista e per un candidato presidente non sostenuto da quella lista: “Il disgiunto credo sarà quasi tutto a favore del centrosinistra – è la versione di Marco Valbruzzi (Istituto Cattaneo) – anche se di solito parliamo di pochissimi punti percentuali”. È ipotizzabile che parecchi elettori dei 5 Stelle scelgano di sostenere il Movimento, ma di dare il voto anche a Bonaccini come presidente, in modo da non disperdere il proprio voto nella sfida con la Lega. “Non è un caso – continua Valbruzzi – che nei suoi comizi Bonaccini continui a ricordare questa possibilità del disgiunto. Sa benissimo che può essere un vantaggio”. A condizione che gli elettori ne siano consapevoli: “È una scelta abbastanza di élite, non è facile che le persone la conoscano”.

In una contesa così risicata, però, anche un paio di punti potrebbero essere preziosi. Il precedente, ben augurante per il centrosinistra, lo ricorda Weber e risale al 4 marzo del 2018, quando insieme alle Politiche nel Lazio si sceglieva anche il nuovo governatore: “Il 15 per cento dei voti incassati da Nicola Zingaretti, ovvero 150.000 voti, non erano collegati alle liste che lo sostenevano”. Conseguenza quindi di alcuni voti dati soltanto al segretario – senza specificare alcuna lista – ma anche di una buona quota di voto disgiunto: due elementi che ora potrebbero tornare comodi anche a Bonaccini.

Più difficile invece, stando almeno alla vicepresidente di Tecné Michela Morizzo, che il governatore possa beneficiare di un chiaro “effetto Sardine”: “Nutro perplessità sul fatto che questo movimento incida in maniera netta sulla partecipazione. A differenza dei 5 Stelle degli albori, per esempio, non si tratta di persone deluse da destra e sinistra che hanno smesso di votare, ma di cittadini che già votano per la maggior parte a sinistra, pur essendone in qualche modo delusi”.

Senza dimenticare che polarizzare la discussione attorno a Matteo Salvini, come in effetti è avvenuto anche per bocca delle Sardine, potrebbe non essere stato un favore al candidato di centrosinistra: “Mi sembra che in campagna elettorale Bonaccini abbia cercato piuttosto di concentrarsi sull’Emilia-Romagna e sulla sua amministrazione – dice ancora la Morizzo – tenendo ben lontane le questioni nazionali”.

Voto disgiunto: tentazione Bonaccini per M5S, FI e FdI

L’opzione voto disgiunto potrebbe cambiare l’esito del voto in Emilia-Romagna. In maniera più o meno esplicita, in queste ultime ore si rincorrono gli appelli per votare una lista, da destra a sinistra, e contemporaneamente barrare la casella col nome di Stefano Bonaccini, candidato dem in corsa per il bis. Un’opzione prevista dal sistema di voto regionale insieme alla doppia preferenza di genere. La partita è strategica, ne dipendono le sorti del futuro consiglio: alla lista, o coalizione di liste, che appoggiano il governatore eletto sono garantiti almeno 27 seggi, pari al 54% del totale.

Ieri sera al tg di Peter Gomez sul Nove, Sono le venti, l’appello estremo dello stesso Bonaccini: “Si può votare il proprio partito o movimento di riferimento e dare un senso alla propria identità e mettere una croce sul simbolo del partito che si preferisce, ad esempio il Movimento 5 Stelle. Però, siccome il M5S con questa legge elettorale – che è a turno secco e la notte del voto, chi ha un voto in più vince… – non potrà mai vincere, chi pensa che non sia indifferente vinca io o la mia avversaria può mettere la croce sul nome del presidente. Quindi un voto al M5S e un’altra croce su Stefano Bonaccini”.

A proporlo per prima è stata una consigliera del Movimento 5 Stelle, Raffaella Sensoli, subito seguita da un ex grillino, Federico Pizzarotti attuale sindaco di Parma, e rilanciata dallo stesso Bonaccini fin dal suo primo palco elettorale in piazza a Bologna. Gli elettori del Movimento potrebbero così sostenere le proprie “sentinelle utili” evitando la conquista del Carroccio. Un’ipotesi oggi plausibile dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico e le ultime imprese di Matteo Salvini. Il palco a Bibbiano, città suo malgrado simbolo dell’inchiesta sul presunto scandalo degli affidi, e l’aver citofonato a un ragazzo nel quartiere periferico bolognese del Pilastro, insinuando che fosse uno spacciatore hanno spaventato anche i “compagni” più lontani da Bonaccini.

È a loro che si è rivolto, con un’intervista al manifesto, Adelmo Cervi, 77enne figlio di Aldo, uno dei fratelli fucilati dai fascisti nel 1943 a Reggio Emilia: “Lotterò fino all’ultimo perché la Lega non passi. Se mai dovesse andare male, mi batterò per dire che la colpa non è di quella sinistra che da tempo non vota con il Pd. Faccio un appello: proviamo a far passare un po’ di sinistra radicale in consiglio regionale, ma c’è solo un candidato che può battere quello della Lega ed è Bonaccini. Quindi dobbiamo fare il voto disgiunto e dare il voto a lui”.

D’accordo Fausto Anderlini, sociologo di Bologna: “Una campagna ignobile e limacciosa, una delle regioni più progredite d’Europa trasformata in terreno di caccia. Domenica c’è un solo voto utile da dare, un voto democratico e antifascista, che sbarri la strada a una spaventosa regressione civile”. Anche i moderati Gian Luca Galletti e Pier Ferdinando Casini hanno deciso di dare una mano al dem: un tentativo di raccogliere voti al centro è la candidatura di Giuliano Cazzola, ex sindacalista e deputato del Pdl, capolista per +Europa. E mentre girano, veri o presunti, volantini elettorali col voto disgiunto a Bonaccini e a candidati di Forza Italia – bollati come fake dalla capogruppo in Senato Anna Maria Bernini – c’è chi invita alla calma come Giovanni Salizzoni, inventore del modello Guazzaloca: “Anche con Guazzaloca sembrava che dovessimo massacrare Bologna ma non è successo, Lucia ha le stesse credenziali che aveva Giorgio quando divenne il primo sindaco non comunista della città”.

Se i cosiddetti moderati sembrano divisi, anche a destra la crisi è dietro l’angolo. Prova ne sono le recenti frecciatine di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, a Matteo Salvini, ultima in ordine di tempo contro la citofonata al non pusher. Meloni, anche a discapito dell’alleato leghista, punta molto sul risultato della sua lista traghettata dalla new entry di quest’estate, il deputato Galeazzo Bignami. Ma lui smentisce categoricamente l’ipotesi di votare disgiunto per Bonaccini.

Turarsi il naso

In una situazione normale, non ci sarebbe nulla di allarmante se l’Emilia Romagna, da sempre governata dal centrosinistra, spalancasse le finestre per cambiare un po’ l’aria e passasse al centrodestra. Accadde a Bologna nel 1999, quando un candidato normale del centrodestra, Guazzaloca, batté il centrosinistra e lo costrinse a cambiare: cinque anni dopo vinse Cofferati. Ora purtroppo la situazione non è normale. Per i motivi che, non bastando le sceneggiate di Salvini, il vicesindaco leghista di Ferrara, Nicola Lodi, si è incaricato di riassumere in un video: “Vi avverto, vi farò molto male, noi faremo di tutto, vi faremo un culo così. Segnatevelo, vi faremo un mazzo così, per fermarci dovete spararci”. Con simili squadristi, i discorsi su destra, sinistra e terze vie sono un lusso che le persone normali non possono permettersi. Tantopiù che il simpatico “trattamento Lodi” sarebbe riservato non solo all’Emilia Romagna, ma pure al resto d’Italia, avendo Salvini trasformato le Regionali in un’ordalia sul governo nazionale (che non c’entra nulla).

Inutile ripercorrere qui gli errori commessi da 5Stelle e centrosinistra l’un contro l’altro armati. Di Maio aveva lanciato le candidature civiche giallo-rosa. Poi però si è subito arreso dopo l’Umbria, senza pensare che con più tempo e candidati più noti – tipo Callipo in Calabria – le chance di vittoria sarebbero aumentate. I guastatori renzian-calendiani e le beghe locali hanno fatto il resto. Con la ciliegina sulla torta di Casaleggio jr. che ha messo ai voti su Rousseau una scelta che il padre avrebbe fatto da solo: ritirare il simbolo in attesa di tempi migliori. Ma ora la frittata è fatta e gli elettori non intruppati nella Lega e nel Pd che vogliono mandare nei consigli regionali i propri rappresentanti e, al contempo, evitare alle due regioni e poi all’Italia di cadere nelle grinfie degli squadristi, hanno una sola opzione: il voto disgiunto. Sulla scheda l’elettore può barrare due caselle: una lista e un aspirante presidente. Non ci vuole Nostradamus per sapere che in Emilia Romagna il governatore sarà Bonaccini o Borgonzoni e in Calabria Callipo o Santelli. Invece, per i consiglieri regionali, contano i voti di lista. Chi vota 5Stelle (o FdI) e non vuole regalare i pieni poteri a Salvini con quel che resta di B., può scegliere la propria lista e, come governatore, Bonaccini o Callipo. Per il secondo – persona perbene e nuova alla politica – non occorre neppure turarsi il naso. Per il primo sì: molte ragioni avrebbero consigliato un candidato di discontinuità. Ma, a proposito di nasi, tra una puzzetta e una cloaca c’è una bella differenza. Chi non vota Bonaccini e Callipo vota Salvini.