Stokar, ex poliziotto filo-nazi che indaga su tre ragazze migranti squartate

Sergio Stokar, per una circostanza misteriosa, ha perso la memoria ed è finito a vivere alle Zattere, “città” invisibile di migranti irregolari aggrappata a una ricca città del Nord-Est. Un agglomerato che si autogoverna con regole proprie, in un vero regime autarchico. Hanno un ospedale, un mercato, il bar, il barbiere, tante altre cose e sono amministrati da un Consiglio di tre persone: un siriano, un nigeriano e una tosta rumena sessantenne.

Stokar è lo sceriffo di questo universo parallelo, le Zattere, e viene convocato dal Consiglio per indagare sulla strana morte di Krystyna Nowak, bellissima escort di lusso di Cracovia. È stata buttata giù da un palazzo ma già era stata ammazzata. Stokar e Krystyna hanno avuto una relazione e i ricordi rinnovano un dolore lacerante per un uomo come lui: un ex poliziotto filo-nazista, lasciato dalla moglie Carla e finito alle Zattere. “Una volta non riuscivo a passare vicino a un kebabbaro senza provare l’impulso di raderlo al suolo (…). Per non dire dell’aspetto delle loro donne per strade, nanerottole vestite di stracci in poliestere con al seguito una nidiata di merdine scure (…). Ora cammino in mezzo a loro, vivo in mezzo a loro e non mi danno quasi più fastidio”.

Ma qual è stata la vita di Stokar prima delle Zattere? Di lui si sa che lavorava come poliziotto con la presidente del Senato; era sposato; era nazista, appunto; ed era bravo per il suo fiuto di detective. Poi l’abisso e l’autodistruzione con cocaina e alcol. Il nuovo romanzo di Tullio Avoledo, che vive e lavora a Pordenone, è davvero nero come la notte. E il risveglio di Stokar alle Zattere deve fare i conti pure con tre povere ragazze migranti ritrovate squartate. A pezzi e senza più la testa.

 

Nero come la notte – Tullio Avoledo, Pagine: 524, Prezzo: 19,90, Editore: Marsilio

Il consenso spiegato ai bimbi (con i toni del gioco)

Tu sei il re. Del tuo mondo, del tuo universo, ma soprattutto del tuo corpo. Nessuno può decidere per te quando si tratta di un bacio, di un abbraccio, di un pizzico o anche solo del solletico. Sei tu che detti le regole, che stabilisci i confini. E se c’è qualcuno che non li rispetta, chiedi aiuto. Non è semplice spiegare ai ragazzi più piccoli il valore del consenso, e allora cosa c’è di meglio di un libro a fumetti divertente, chiaro, immediato? Ci ha pensato la ricercatrice ed educatrice Rachel Brian, divenuta celebre per aver firmato il video “Tea Consent”, tradotto in oltre 20 lingue e con all’attivo più di 150 milioni di visualizzazioni. Dai un bacio a chi vuoi tu, un volumetto consigliato da Amnesty International, uscirà il 28 gennaio per DeAgostini e sarà un ottimo aiuto ai genitori che vogliano affrontare con i bambini i temi del bullismo e della pedofilia. Senza retorica alcuna, ma senza mai perdere il tono lieve del gioco, i fumetti spiegano le sostanziali differenze tra consenso e diniego, laddove ciò che ci mette in difficoltà o in imbarazzo può – anzi deve – essere fermato. “Se qualcuno ti sembra gentile, nella maggior parte dei casi è gentile – si legge – ma c’è chi si impegna a ottenere la tua fiducia solo per tradirla. Si chiama adescamento”. E, qui il messaggio più importante, “non è colpa tua”. Trovare le parole giuste per i bambini non è facile: ecco, questo libro andrebbe letto in tutte le prime elementari.

 

Dai un bacio a chi vuoi tu – Rachel Brian, Pagine: 64, Prezzo: 12,90, Editore: DeAgostini

La psichedelica carriera di Bowie nelle tavole pop di Mike Allred

Comincia come una biografia ordinaria, i faticosi inizi, i contatti con i discografici, qualche trucco di marketing per farsi notare nella schiera di aspiranti celebrità pop, come cambiarsi il nome per attribuirsi un tocco di mistero. Ma il graphic novel dedicato a David Bowie diventa presto un’altra cosa, come inevitabile visto il protagonista. I dettagli triviali dei contratti, delle percentuali agli agenti, delle sale da riempire e delle ansie per il marketing del nuovo album finiscono sullo sfondo. E le tavole di Mike Allred affrontano il nucleo incandescente della avventura umana e artistica di Bowie, la capacità di trascendere ogni categoria, di inseguire un’essenza inclassificabile che le parole non riescono a descrivere, perché il linguaggio è inevitabilmente definizione. Mentre a Bowie di definizioni non se ne applicano. In uno dei momenti più riusciti del graphic novel, il biondo Bowie si trova a confrontarsi con il suo emergente alter ego, Ziggy Stardust, in una sorta di dialogo astrale. Ziggy è consapevole che gli eccessi del rock uccideranno la sua forma mortale, ma Bowie accetta comunque l’evoluzione, “ne vale la pena, perché quello che fai è importante”.

I testi dello scrittore Steven Horton sono abbastanza convenzionali, ma poi c’è il talento di Allred a far vibrare le pagine sulle note del Duca bianco. Allred è cresciuto con Bowie, in realtà ha sempre disegnato le sue canzoni anche e soprattutto quando si occupava di supereroi come Madman, X-Statix o Silver Surfer, le cui storie sembravano sempre filtrate attraverso lo sguardo allucinato e poetico tipico di Bowie. Adesso Allred si dedica alla biografia di David-Ziggy. E il risultato è forse il migliore tra i tanti tributi arrivati dopo la more di Bowie nel 2016.

Bowie – Steven Horton e Mike Allred, Pagine: 160, Prezzo: 24, Editore: Panini Comics

 

La nuova vita dei classici del Mantegna

Nel Castello di San Giorgio di Mantova, dentro una stanza ubicata nel torrione nord-est chiamata La Camera degli Sposi o Camera picta (usata da Ludovico Gonzaga come sala delle udienze e camera da letto di rappresentanza), si può provare l’esperienza di essere all’interno di un luogo chiuso e di potere comunque utilizzare l’espressione “alzare gli occhi al cielo”. E ciò grazie alla volta, che il maestro del Rinascimento Andrea Mantegna (1431-1506) ha affrescato con al centro il famoso oculo, meraviglioso esempio di trompe l’œil: un tondo dipinto, come fosse aperto verso il cielo (che cita il Pantheon), in cui si vede una balaustra da cui si sporgono dame e putti in perfetta prospettiva verticale. L’intero spazio della Camera picta è il più magniloquente storytelling laico del Quattrocento, voluto da Gonzaga per onorare la sua famiglia. Non è, allora, un caso che sia proprio la proiezione virtuale di tale inamovibile tesoro dell’arte nella corte di Palazzo Madama a Torino a varare l’esposizione Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno (a cura di Sandrina Bandera, Howard Burns e Vincenzo Farinella, visitabile fino al 4 maggio), che raccoglie più di cento opere, quaranta delle quali dell’artista veneziano tra dipinti, incisioni e disegni. Le altre appartengono ad altri maestri a lui affini, cioè ad antichi e moderni, come ben racconta il titolo.

Di umili origini (aveva fatto anche il pastore di armenti), Mantegna partiva sempre dallo studio dei suoi amati classici – dalle letture di Plinio (il suo livre de chevet) e dai busti romani o dalle copie del suo coevo Pier Jacopo Alari (in mostra, Busto di Marco Aurelio colato d’oro) –, per dare loro nuova vita affondandoli nel naturalismo del Rinascimento. Sfilano così, l’irresistibile Sant’Eufemia e l’ipnotica Madonna dei Cherubini con il Bambino aggrappato al collo della mamma e alle spalle un maëlstrom di putti canterini di Mantegna accanto alla Testa di cavallo di Donatello, la solenne Madonna Tadini di Jacopo Bellini.

E ancora, l’attitudine del San Bernardino da Siena di Francesco Squacione (che fu il suo maestro), si specchia nell’architettura del Battesimo di Cristo di Mantegna; o il suo Ritratto di uomo in veste di protonotario apostolico messo in sinossi con la particolare luce di Ritratto d’uomo di Antonello da Messina. Non mancano opere iconiche come L’Ecce Homo che con realismo impietoso mostra un Cristo umiliato dalle flagellazioni, in cui scorgiamo lo stesso genio espressivo del vertiginoso Cristo morto (inamovibile dalla Pinacoteca di Brera).

 

Andrea Mantegna, Fino al 4 maggio Palazzo Madama, Torino

Noi sopravvissuti e il dono della memoria

Cosa si prova nel (ri)scoprire la verità? Quella verità che si conosce, perché a quell’evento si è assistito di persona, ma che il tempo e il dolore hanno contribuito a rimuovere? Quella stessa verità che serve invece a comprendere quanto poco si sapeva di un fratello che ci cresceva accanto e che adesso non c’è più? Claudio Lagomarsini è un ricercatore di Filologia romanza e Ai sopravvissuti spareremo ancora è il suo esordio nella narrativa. Quello che lui compie, in realtà, è un viaggio a ritroso nel tempo.

Il protagonista di questo romanzo appena edito da Fazi vive oltreoceano, ma deve tornare in Italia perché sua madre gli ha affibbiato l’ingrato compito di vendere la vecchia casa di famiglia, vicino al mare, in cui non abita più nessuno da troppi anni. La casa in cui, lo si percepisce dalle prime battute, è accaduto qualcosa da cui non si torna indietro. Eppure il suo sarà un tuffo proprio in quell’indietro. Attraverso l’escamotage narrativo – un po’ banale, in verità – del ritrovamento dei quaderni di suo fratello più grande Marcello, il nostro “Salice” io narrante rivivrà in pochi giorni – giusto il tempo di organizzare gli ultimi scatoloni e consegnare le chiavi di casa all’agenzia immobiliare – l’estate del 2002, quella in cui entrambi vivevano lì con la madre e il compagno di lei, soprannominato Wayne. Il padre no, era andato via lontano e si faceva sentire ogni tanto. Accanto a loro, l’onnipresente nonna e il vicino anziano e spaccone, il Tordo, con una moglie gravemente malata, un fucile nascosto e una relazione segreta, ma neanche troppo, proprio con la nonna dei due ragazzi. È in una dimensione perduta che si svolgono i fatti, la dimensione di una provincia del nord ovest italiano già in declino, in cui i rapporti umani cominciano a sgretolarsi dietro la voglia di non fingere più. Le cene tutti insieme sotto il gazebo nonostante i pessimi rapporti di vicinato, l’illusione di una famiglia allargata in cui i figli di Wayne sono così contrari e così falsi, le ragazze amate che non ricambiano, le versioni da passare ai compagni, la sensazione di essere diversi e non integrabili: Lagomarsini ci trasporta in un passato che abbiamo tutti vissuto, in cui l’odore di salsedine sulla pelle si confonde con quello delle prime voglie, delle scoperte e, soprattutto, delle delusioni. Un mondo patriarcale e stupido, superficiale e sessista.

“Proprietà privata. Spareremo ai trasgressori. E a chi sopravvive spareremo ancora”, recita un cartello. Il “Salice” è un sopravvissuto perché in quell’estate del 2002 è successo qualcosa che ha cambiato per sempre il corso delle vite di tutti. Da allora in poi la mancanza ha preso il posto delle risate, l’assenza quello dell’ipocrisia. “L’angoscia resterà, la perdita è incolmabile – ci racconta il protagonista alla fine –. Finalmente mi lascio andare, abbandono le mie stupide ansie di controllo e piango. A singhiozzi, addirittura, come non riuscivo a fare da anni. È anche un pianto di gratitudine: se pure non gli ho mai tenuto compagnia, con i quaderni che si è lasciato dietro Marcello è riuscito a farmi sentire meno solo”. Il protagonista, in fondo, è proprio lui.

 

Ai sopravvissuti spareremo ancora, Claudio Lagomarsini, Pagine: 240, Prezzo: 16, EditoreFazi

Tom Cruise e la sua nuova missione a Roma

Fabrizio Corallo

Tom Cruise tornerà a interpretare il ruolo dello spericolato agente segreto Ethan Hunt nell’ottavo capitolo della celebre serie di action movie Mission Impossible girato in gran parte a Roma. Le riprese del nuovo film dal titolo provvisorio Lybra sono previste a partire da metà marzo tra il centro storico e il quartiere Monti e dureranno per circa un mese e mezzo. In Mission Impossible 3, nel 2005, il divo americano aveva già recitato una lunga e spericolata sequenza di una corsa in motoscafo lungo il Tevere, evitando come di consueto il ricorso a stuntmen e controfigure.

A 15 anni dal suo fortunato The Passion (oltre 600 milioni di dollari ai botteghini di tutto il mondo) Mel Gibson è ritornato nei mesi scorsi sul luogo del delitto dirigendo tra Israele, Marocco ed Europa La passione di Cristo 2: Resurrezione che come accaduto per il prototipo verrà presentato nelle sale soltanto per tre giorni durante la Settimana Santa. Interpretato come il precedente da Jim Caviezel nel ruolo di Gesù, oltre che da Maia Morgenstern, Christo Jivkov e Francesco De Vito, il sequel mostrerà nei dettagli l’angoscia provata dai discepoli di Cristo nei tre giorni che vanno dalla Crocifissione alla Resurrrezione.

Colin Firth e Stanley Tucci hanno concluso la lavorazione di Supernova, un dramma romantico on the road diretto in Inghilterra, nel Lake District, da Harry Macqueen, l’autore del recente Hinterland. Sullo schermo la storia d’amore tra Sam e Tusker, partner da 20 anni, che viaggiano attraverso l’Inghilterra sul loro camper per visitare amici, familiari e luoghi importanti del loro passato. Da quando a Tusker è stata diagnosticata una forma di demenza senile per i due uomini il tempo da trascorrere insieme è diventato l’unica cosa a cui dare importanza.

“Star Trek: Picard”, più che dello Spazio si parla di politica e immigrazione

“Non voglio che la partita finisca”, dice Jean-Luc Picard nella prima scena di Star Trek: Picard (da oggi su Amazon Prime Video). Si tratta di un sogno: il vecchio capitano dell’Enterprise sta giocando a poker con il suo amico androide Data, che nella realtà è morto da due decenni. Ma è anche una dichiarazione di intenti. Picard ha appeso l’uniforme della Flotta Stellare al chiodo e vive nella sua tenuta in Francia occupandosi di vino. Ha capito però che il momento di tornare in campo, cioè nello spazio, sta per arrivare: “Negli ultimi 20 anni non ho vissuto – spiega – ho aspettato di morire”.

Al comando dell’Enterprise D e poi dell’Enterprise E, Picard è uno dei personaggi più amati della saga. L’ultima apparizione ufficiale è nel film del 2002 Star Trek – La Nemesi; la serie riparte dalla morte di Data, accaduta proprio in Nemesis, ma anche dalla distruzione del pianeta Romulus raccontata nel film Star Trek del 2009. “È stato un capitolo della mia vita e della mia carriera che ha avuto un grosso impatto su di me, ma sono andato avanti”, aveva detto Patrick Stewart a proposito del suo ruolo. Invece no: a quasi 80 anni l’attore britannico accetta di vestire ancora una volta i panni di Picard non per rappresentare un capitano coraggioso capace di fronteggiare ogni tipo di pericolo, ma per approfondire la psicologia di un uomo anziano con tante avventure alle spalle, che ora si sente abbandonato e inutile.

Star Trek: Picard è anche una serie attuale e “politica”. Al centro di tutto c’è il rapporto fra gli umani e le altre specie, si parla di diversità e di immigrazione: “Il tema è alla base di questa stagione e credo che in futuro si inasprirà ulteriormente”, ha detto Stewart. Una considerazione a margine. L’attesa per lo spin-off sul capitano Picard sembra confermare che la saga stellare funziona sempre di più in tv e in streaming e sempre di meno al cinema. Una cosa simile sta accadendo con Star Wars. Negli Stati Uniti The Mandalorian, la serie spin-off di Guerre Stellari che a marzo arriverà anche in Italia su Disney+, ha riscosso più successo del film L’Ascesa di Skywalker.

 

Misera Tempest in un bicchiere

Due i momenti trasgressivi dello spettacolo: l’inizio con venticinque minuti di ritardo – causa spettatori garruli e maleducati – e La donna cannone di De Gregori arrangiata in versione rock-roca-scordata. Per il resto, Wasted – dell’acclamata poetessa-rapper-performer inglese Kate Tempest (all’anagrafe Kate Esther Calvert, classe 1985) – è una accozzaglia di finte trasgressioni, finto maledettismo, piagnisteo generazionale, esistenzialismo all’Ikea.

Dopo aver messo in scena Settimo cielo di Caryl Churchill (sempre londinese, ma di quasi 50 anni più vecchia e sovversiva di Tempest), Giorgina Pi sceglie ora di allestire un’opera di dubbio appeal teatrale, nella forma quanto nella sostanza: è la storia, infatti, di tre ragazzi annoiati e strafatti che si ritrovano insieme dieci anni dopo la morte del loro più caro amico, Tony. Nel frattempo, Charlie (Sylvia De Fanti) è diventata una mediocre insegnante della scuola pubblica; Dan (Xhulio Petushi) è rimasto un musicista scoppiato, che vive di sussidi di disoccupazione; Ted ha trovato il posto fisso, convive con la compagna e paga le bollette, ed è qui interpretato dal bravissimo Gabriele Portoghese, la cui ironia salva dall’insipida, generale mediocrità, ma non basta.

“Mica è giusto darsi tanto da fare per finire da nessuna parte”: in scena si vedono solo tre bamboccioni ex ribelli – ma a cosa si sono ribellati? Ai divieti di mamma di fumare le canne? –, che ciancicano di sogni infranti e illusioni perdute. È una posa, un facile snobismo, il desiderio di essere come tutti, pur non rendendosi conto di essere proprio come tutti: banali, con “una dipendenza, una depressione”, una paranoia, una fuffa qualsiasi.

“Questo spettacolo vuole onorare le esistenze che si sentono sprecate – spiega la regista nelle note –, il dolore che si prova quando ci si sente condannati all’ineluttabilità di una vita non scelta, predestinati a una condizione di infelicità”. Eppure, nonostante le pretese di lirismo, fin irritanti, la drammaturgia risulta sciapa, sciatta: una misera e innocua Tempest in un bicchier d’acqua.

La regia tenta di riempire e vivacizzare il testo con luci, video, musiche, fumisterie e persino bambini in scena (aiuto), ma la pezza è quasi peggio del buco.

La melassa finto-esistenziale inghiotte tutto e, spiace per i “cuori che pulsano più lentamente di un tempo”, ma Cechov era più trasgressivo: è davvero “troppo tardi”, anche per raccontare certe storielle in palcoscenico. Non è più la Londra nera del punk tra i 70 e gli 80, ma nemmeno la Scozia Anni 80-90 di Trainspotting ed eroinomani vari: il maledettismo è morto, i tossici pure, e gli “arrabbiati” del teatro non si sentono più molto bene. Alla rabbia Tempest preferisce la consolazione, in un finale di riscatto e redenzione, speranza e spiritualità così stucchevole che vien da rimpiangere l’inizio della pièce e il suo sussurrato manifesto: “Non abbiamo niente da dirvi”. Appunto.

 

Roma, Teatro India, fino a domenica – Wasted Di Kate Tempest Regia di Giorgina Pi

Il contrario della povertà è l’ingiustizia. Il diritto di opporsi

La certezza della pena (di morte), l’incertezza della giustizia: in mezzo, Il diritto di opporsi, titolo italiano di Just Mercy, il fortunato memoir dell’avvocato afroamericano Bryan Stevenson (edito in Italia da Fazi) e ora anche il film diretto dall’hawaiano Destin Daniel Cretton. Incarnato da Michael B. Jordan (Creed), Bryan si laurea ad Harvard e anziché inseguire ricche parcelle si dirige in Alabama a rappresentare pro bono le persone condannate ingiustamente ovvero difese malamente: supportato dall’attivista locale Eva Ansley (Brie Larson), fonda la Equal Justice Initiative e s’imbatte nel caso di Walter McMillian (Foxx), che nel 1987 finisce nel braccio della morte per l’efferato omicidio di una diciottenne bianca. Il movente è razziale, non quello dell’omicidio però, bensì quello dell’individuazione del “colpevole”: Walter ha avuto una relazione extraconiugale con una donna anglosassone e, in soldoni, la deve pagare.

Complice la testimonianza mendace e coatta del balordo Ralph Myers (Tim Blake Nelson), l’innocente Johnny D, come è soprannominato McMillian, attende la sedia elettrica a Monroeville, dove ebbe i natali Harper Lee, la scrittrice premio Pulitzer de Il buio oltre la siepe: anche qui, il titolo originale viene metaforicamente meglio, To Kill a Mockingbird, “Uccidere un usignolo”.

Bryan prima conquista la fiducia di Johnny D, poi inizia a lottare contro un sistema, e un concorso di colpa, ipocrita e brutale: “Il contrario della povertà – sosterrà al Senato – non è la ricchezza, bensì l’ingiustizia”. Razzismo e sperequazione a triangolare, non sarà facile venirne a capo, sebbene le prove depongano a favore di McMillian e la trama cospiratoria si sveli: che cosa chiamiamo giustizia, e perché vige ancora la pena di morte? Interrogativi affidati a un film di dichiarato, genuino impegno civile, issato sulle spalle solide ed eroiche – al limite dell’agiografia – dell’avvocato Stevenson e ingentilito dalla prova emotiva ed emozionante di Jamie Foxx, che conferma di essere attore superiore, anche se al cospetto di un Jordan mono-espressivo e una Larson anodina è fin troppo facile. Foxx eleva il court drama dal diligente ed edificante compitino morale, da dietro le sbarre ci appassiona umanamente al caso McMillian e, sì, istilla il dubbio: non meritava la nomination agli Oscar quale attore non protagonista? La risposta è positiva, ma addebitare all’#OscarsSoWhite la sua assenza sarebbe stolidamente geometrico, se non stolto tout court: la diversity non abiterà i 92esimi Academy Awards, ma con le “quote nere”, cui dobbiamo qualche singolare exploit afroamericano, nelle ultime edizioni come la mettiamo? Sui titoli di coda scorrono fotografie e destini dei reali protagonisti, le lacrime di Foxx da raccogliere e conservare, e un’allarmante considerazione da portare a casa: certo, gli avvocati non sono tutti uguali, ma nemmeno la legge è uguale per tutti. Dal 30 gennaio in sala.

 

Vita da allenatori tra il campo e il lager

Football e Shoah, dallo scudetto ad Auschwitz, ovvero la Memoria di cuoio. Anche il “gioco più bello del mondo” pagò il conto all’Olocausto, e fu un conto atrocemente salato: dai numeri sulle maglie a quelli sulla pelle. Per troppo tempo il mondo ipocrita del pallone ha taciuto e omesso. A ragionare sul perché ci ha provato lo storico Giovanni A. Cerutti, ripercorrendo la tragica parabola del grande trainer Arpad Weisz, il tecnico che fu il più giovane a conquistare lo scudetto della serie A, primato che resiste tuttora (1929/30 con l’Ambrosiana-Inter: aveva 34 anni). Col Bologna intascò altri due titoli di fila, dal 1935 al 1937. Pareva destinato a successi sempre più incredibili. Invece, mercoledì 7 settembre 1938 il settimanale Calcio Illustrato, bibbia popolare del football durante il fascismo (e anche dopo), pubblica una colonnina che è una sentenza, a pagina 8, sopra la réclame di Radiomarelli. Senza firma. Basta il titolo: “Bonifica”.

È l’irruzione delle leggi razziali nel calcio. Dove “vi è una zona in cui è trapiantata, crediamo, una discreta rappresentanza israelita straniera, ed è quella degli allenatori. Non riteniamo di dover fare dei nomi, ma è certo che fra i moltissimi allenatori danubiani non mancano gli israeliti. Ebbene, che costoro – venuti tutti fra noi dopo il 1919 – debbano far le valigie entro sei mesi, non ci rincresce davvero, così finiranno di vendere fumo con quell’arte imbonitoria propria della razza, e lasceranno i posti a tanti ex-giocatori di razza italiana, che sono benissimo in grado di tenerli, e che al confronto con gli stranieri di cui sopra non sono inferiori che sotto una voce: la facciatosta! La bonifica della razza è pertanto destinata ad avere più che salutari conseguenze calcistiche”.

Gli allenatori “danubiani” nel mirino erano una cinquantina, la maggior parte ebrei. Sono loro che hanno alzato la qualità tecnica della Serie A. Ma l’orrore è ormai alle porte. L’articoletto è solerte, tempestivo. Al decreto legge in difesa della razza varato dal Consiglio dei ministri (1-2 settembre) segue lo stesso 7 settembre la firma di Vittorio Emanuele III. È attorno a questo ignobile nodo che si sviluppa il saggio L’allenatore ad Auschwitz (Interlinea ed.) di Cerutti. Scacciato dall’Italia, Weisz si rifugia in Olanda, ma l’invasione nazista lo obbliga a nascondersi. Catturato dalle Ss finisce ad Auschwitz. Muore nel dicembre del 1944. Aveva 48 anni, vittima delle leggi razziali e delle camere a gas. Come la moglie Elena e i figli, Clara di 8 anni e Roberto di 12. Su di lui calò per decenni il sipario dell’amnesia.

Béla Guttmann, classe 1989, pure lui ungherese come Weisz, pure lui ebreo e allenatore, fu più fortunato. Sopravvisse (non il padre, non la sorella, non la famiglia allargata). Come sfuggì al genocidio non lo rivelò mai. Non se la sentiva. Ci ha provato David Bolchoner, autore di The Great Comeback (2010), tradotto finalmente in Italia da Milieu edizioni (Il Grande Ritorno. Dall’Olocausto al trionfo). Bolchover dedica molti capitoli al periodo e ai luoghi da cui proveniva: la vivacissima e creativa società ebraica della Mitteleuropa negli anni che precedettero il suo quasi totale annientamento. Giovanissimo centrocampista, con la Nazionale magiara aveva persino segnato un gol alla Germania. Nel 1922 approda all’Hakoah di Vienna, polisportiva sionista il cui nome significava “forza, potere”. Sulle maglie campeggiava una grande stella di David, segno d’orgoglio e di sfida, in un contesto permeato di odio nei confronti degli ebrei. Vince contro tutto e tutti lo scudetto austriaco del 1925. Béla ne è il carismatico capitano. La squadra viaggia e domina. Umilia i maestri inglesi a casa loro. Piega lo Sparta Praga, il Real Madrid di allora. Ma la diaspora dei migliori causa l’inevitabile declino. La resa dei conti arriva con l’Anschluss. Il club è sciolto. I successi cancellati: 37 membri dell’Hakoah sono inghiottiti dalla Shoah, sette erano calciatori. Béla era già lontano, a New York. Tornerà nell’infausto 1938. Fa sua la Mitropa Cup il 30 luglio del 1939.

Cinque settimane dopo, Hitler invade la Germania. Per qualche tempo, Béla dribbla i rastrellamenti. Non i campi di lavoro forzato. Né la deportazione, all’inizio del 1944. Scappa dal convoglio diretto ad Auschwitz. Torna a Budapest, vive come un topo sino alla fine del 1944. Nel 1949 arriva in Italia per allenare la Triestina. Passa al Padova, il Milan lo ingaggia nel 1953: porta Schiaffino e Cesare Maldini. Siederà anche sulla panchina del Vicenza. Alla fine, saranno 21 i trasferimenti internazionali di Guttmann, ebreo errante del calcio, padre fondatore di un gioco non ancora globalizzato ma di cui aveva anticipato i tempi, a cominciare dalla propria carriera, che lo portò a peregrinare, prima e dopo la guerra, in 14 Paesi e altrettanti campionati. Coi suoi metodi innovatori resuscitava squadre moribonde e le rendeva competitive. Il capolavoro? Le due Coppe dei campioni consecutive (1961 e 1962) vinte dal Benfica, autentica cenerentola del calcio europeo. Pretese più soldi, dopo il secondo trionfo, i dirigenti del Benfica dissero di no. Lui li maledì: “Non vincerete più una Coppa dei Campioni per cent’anni!”. Sono passati 58 anni. L’anatema resiste.