“Matrimonio riparatore”: Erdogan riprova a fare la legge

Alla fine del 2016, furono un’ondata di proteste di piazza e la forte indignazione internazionale ad affossare una proposta di legge che voleva reintrodurre in Turchia una forma di “matrimonio riparatore”. Ora, l’Akp di Recep Tayyip Erdogan ci riprova.

Inserita nei meandri di un ampio pacchetto di riforma del sistema giudiziario, la norma preparata dal partito del presidente potrebbe assicurare un salvacondotto agli autori di violenze sessuali contro le donne in caso di successive nozze, purché la differenza d’età sia inferiore a 10 anni. Una sorta di amnistia che per la maggioranza di governo ad Ankara serve soprattutto a sanare situazioni di fatto che riguardano zone rurali del Paese, in cui non sono rari i casi di “spose bambine”, visto che le nozze con minori sono vietate, e quando una ragazza resta incinta si configura il reato di violenza sessuale. Le proteste sono state immediate. Il testo è giunto per la prima volta in Parlamento la scorsa settimana, ma non è ancora fissata una data per il prosieguo della discussione. Le associazioni per la difesa dei diritti delle donne sono già sulle barricate nel timore di un colpo di mano in aula, dove le forze pro-Erdogan hanno la maggioranza assoluta.

La mobilitazione chiede il ritiro incondizionato di una proposta che potrebbe aggravare ulteriormente i problemi della violenza di genere e delle “spose bambine”. Stando al Chp, il maggiore partito di opposizione, nell’ultimo decennio le donne che si sono sposate a un’età inferiore a quella ammessa dalla legge sono state circa mezzo milione. Ma i casi sarebbero sottostimati, perché spesso queste nozze non vengono celebrate davanti a pubblici ufficiali, ma solo ad autorità religiose locali. Secondo la piattaforma Fermiamo i femminicidi, nel 2019 in Turchia sono state assassinate almeno 474 donne, in aumento rispetto alle già drammatiche cifre degli anni precedenti. E a uccidere o ferire sono in gran parte mariti, compagni e familiari.

“Gli ebrei dall’antisemitismo si devono difendere da soli”

Uniti nell’intento di fermare ogni forma di antisemitismo. I leader mondiali arrivati a Gerusalemme per il World Holocaust Forum, in occasione del 75° anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, che hanno parlato allo Yad Vashem, hanno condannato ogni forma di razzismo e paventato i pericoli dell’antisemitismo, specie in Europa, alimentati anche dalle nuove forme di comunicazione.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente Reuven Rivlin hanno esortato politici e capi di Stato ad aiutare Israele nella sua battaglia contro l’antisemitismo, rilevando che gli orrori dell’Olocausto non dovrebbero mai essere dimenticati. Dure le parole del presidente tedesco Franz Walter Steinmeier allo Yad Vashem: “Avrei voluto poter dire che i tedeschi hanno imparato dalla storia, ma non posso dirlo quando l’odio ancora si sta diffondendo”. Nella lettura data del primo ministro Netanyahu, l’antisemitismo oggi ha nuove forme e si è detto preoccupato soprattutto perché i leader mondiali non hanno una posizione unita contro l’Iran, “il regime più antisemita del pianeta”. “Israele ringrazia il presidente Donald Trump e il vicepresidente Mike Pence – ha aggiunto il premier – che si confrontano con i tiranni di Teheran i quali minacciano la stabilità del Medioriente e del mondo”. Anche gli altri governi dovrebbero mobilitarsi contro l’Iran, ha rimproverato Netanyahu, perché “il popolo ebraico ha appreso la lezione: non possiamo prendere alla leggera le minacce di distruzione, dobbiamo affrontarle quando sono piccole. E anche se apprezziamo molto l’aiuto degli amici, sappiamo che alla fine dobbiamo difenderci da soli”. Certo, ha aggiunto Netanyahu, “senza gli Alleati, a cui siamo eternamente grati, non vi sarebbero stati superstiti oggi, ma occorre ricordare che 80 anni fa, quando il popolo ebraico fronteggiava la distruzione, il mondo ci ha girato le spalle”. La memoria della Shoah è stata al centro dell’incontro fra Reuven Rivlin e Sergio Mattarella. Il presidente ha sottolineato che “l’Italia si esprime in ogni ambito internazionale contro l’antisemitismo” e poi ancora, ha ricordato la nomina di Liliana Segre a senatore a vita, la cui testimonianza “è stata per l’Italia un patrimonio prezioso”. Questo Forum è stato la migliore occasione diplomatica per Israele degli ultimi anni. La concentrazione di capi di Stato e di governo, teste coronate, ha offerto la possibilità di decine di incontri bilaterali, fondamentali quelli con il presidente russo Vladimir Putin – decisivo ormai nei destini del Medio Oriente – con il francese Emmanuel Macron e il vicepresidente Usa, Pence. In serata poi è trapelato che la Casa Bianca farà oggi un annuncio sul Piano di pace del presidente Trump sul Medio Oriente, il tanto atteso “Accordo del secolo”.

Guadagnando tempo, lNetanyahu si è già portato avanti. Da mesi sbandiera l’annessione della Valle del Giordano, come una scelta ineluttabile per Israele. Non è dello stesso avviso il rappresentante speciale dell’Onu, il russo Nikolay Mladenov: dice che è “un colpo mortale al processo di pace”.

Israele utilizzerà ragioni di sicurezza per giustificare l’annessione e gestirà i pochi palestinesi che vivono nella zona. Secondo l’Ong israeliana “Peace Now”, la mappa che Netanyahu fa circolare aggiungerebbe 1.236 chilometri quadrati a Israele, il 22,3 per cento della Cisgiordania, un’area che attualmente ospita 13.000 coloni israeliani e 4.500 agricoltori palestinesi.

Ai governi stranieri che si lamenteranno verrà detto che ciò non ostacolerà i colloqui di pace in futuro. Le proteste dell’Anp di Abu Mazen stanno suscitando interesse zero da parte della comunità internazionale. E se Donald Trump darà a Netanyahu il via libera, nulla potrà impedire a Israele di approvare la legge di annessione in pochi mesi.

L’allarme di Greenwald “Jair Bolsonaro vuole eliminare i giornalisti”

Glenn Greenwald era preparato: la Procura federale brasiliana ha aperto un’indagine su di lui per “crimini informatici”. Il giornalista premio Pulitzer, noto per aver raccolto le rivelazioni di Edward Snowden, è accusato di aver hackerato dei cellulari per indagare sullo scandalo di corruzione “Lava Jato”, coinvolgendo il ministro della Giustizia di Bolsonaro, Sérgio Moro. Greenwald, che ha pubblicato l’inchiesta sul sito The Intercept, che ha cofondato nel 2013, è da tempo uno dei bersagli favoriti del presidente Jair Bolsonaro. Lo abbiamo intervistato.

Jair Bolsonaro l’ha attaccata come giornalista, ma anche in quanto gay, sposato con il deputato di sinistra David Miranda, e padre. Si sente minacciato?

L’accusa del governo federale di un regime repressivo, nemico della libertà di stampa, non può essere presa alla leggera. È un attacco che prendo molto sul serio. Sapevo da tempo che poteva succedere e mi ero preparato.

Come spiega queste accuse? È odio verso di lei, il suo lavoro o verso ciò che rappresenta?

Tutte queste cose insieme. Il governo Bolsonaro ha già più volte minacciato di mettermi in prigione. Sono anche già stato aggredito fisicamente in radio da un giornalista sostenitore del presidente. Io e mio marito siamo stati spesso bersagli di attacchi e minacce di morte. Siamo fra gli obiettivi principali di questo governo, perché siamo una coppia gay in vista ma anche perché il nostro lavoro giornalistico, rivelando fatti gravi di corruzione da parte del ministro Moro, li minaccia. Si stanno vendicando.

Il procuratore la accusa di complicità con gli hacker. Cosa risponde?

Come nel caso di Snowden, le mie fonti possedevano già tutte le informazioni che hanno deciso di darmi quando ho parlato con loro per la prima volta. Quindi io personalmente non ho partecipato a nessun atto o crimine commesso prima. Bisogna notare che il procuratore in questione ha aperto lo stesso tipo di inchiesta anche contro il presidente dell’associazione degli avvocati brasiliani, a sua volta accusato di aver commesso un crimine per aver criticato il ministro della Giustizia. La richiesta di indagine è stata respinta dal giudice. È evidente che il procuratore abusa della sua funzione per punire i nemici politici del governo. Inoltre esiste già un rapporto della polizia federale in cui si afferma che non ho commesso alcun crimine e che, al contrario, ho condotto la mia indagine con “professionalità e prudenza”.

Tramite lei si vogliono intimidire altri giornalisti e futuri informatori?

In Europa e negli Stati Uniti non è ancora chiaro a tutti che Bolsonaro e il suo governo sono autentici fascisti. Si è spesso paragonato Bolsonaro a Donald Trump, ma Bolsonaro è molto più pericoloso e più estremo. Ha fatto pubblicamente l’elogio della dittatura militare che ha governato il Brasile fino al 1985. Perché vuole il ritorno della dittatura e vuole ricreare un clima di tensioni e paura. Colpendo me, intende intimidire i giornalisti, i dissidenti e chiunque si opponga al governo.

I giornalisti brasiliani si censurano a causa di questo clima di paura?

I media brasiliani continuano a indagare senza timori. Il principale quotidiano del paese, Folha de San Paolo, ha condotto numerose inchieste sull’attuale presidente. Bolsonaro li attacca e li minaccia costantemente e incoraggia i suoi sostenitori a fare lo stesso. Attaccare me è anche un modo per minacciare questi media che continuano a fare il loro mestiere.

Quello che le sta succedendo ha ricordato a molti il caso di Julian Assange. Le sembra un paragone giustificato?

Da diversi mesi ho cercato di allertare i giornalisti americani, dicendo loro che è il caso di preoccuparsi di più per le azioni legali portate avanti contro Assange: l’Amministrazione Trump sta creando un precedente che rappresenta una minaccia per tutta la stampa. Stanno inventando la teoria secondo la quale il destinatario di un’informazione non agisce più come giornalista se, in un modo o nell’altro, protegge la sua fonte. Ma è ciò che i giornalisti fanno tutti i giorni! Il New York Times e il Washington Post forniscono sui loro siti consigli e istruzioni per evitare inconvenienti alle loro fonti. Se si usa questa teoria per criminalizzare il giornalismo e fare del giornalista una sorta di cospiratore, come si sta tentando di fare con me e con Assange, allora ogni giornalista è in pericolo.

La situazione di Assange dunque la preoccupa?

Ciò che il governo britannico sta infliggendo ad Assange è moralmente deplorevole ed estremamente pericoloso. È un abuso di potere e un chiaro tentativo di distruggere colui che ha pubblicato informazioni scomode per il governo Usa e i suoi alleati. È anche una tragedia umana.

Che azioni legali porterà avanti lei adesso?

In primo luogo, per essere validata, la denuncia del procuratore deve essere accettata da un giudice. Il mio legale dimostrerà che non c’è base giuridica e che si tratta di abuso di potere. Una sentenza della Corte Suprema vieta dallo scorso anno alla polizia e alla Procura di indagare sul mio lavoro giornalistico, perché si tratta di violazione della libertà di stampa, che è garantita dalla Costituzione. Il recente attacco del procuratore è una violazione di questa sentenza della Corte Suprema.

 

L’addio di Simone e quel che dice a tutti sul lavoro rimasto solo

Sì, è vero, si sa da tempo, ognuno sta solo sul cuor della terra. E sì, com’è noto da tempo, si nasce e si muore da soli. E da solo, e per mano sua, è morto martedì Simone Sinigaglia, operaio veneto di 40 anni: s’è impiccato a un albero in un posto in cui amava andare a pescare. Da quel che raccontano i giornali locali l’altro ieri s’era presentato in fabbrica per il turno del pomeriggio e invece l’azienda – la Ivg Colbachini, grossa impresa del padovano che produce cavi di gomma – gli ha comunicato il licenziamento: a suo carico c’era una procedura per abuso della legge 104, nel senso che – secondo la proprietà – s’era preso un po’ troppi permessi per assistere la madre malata. Due ore dopo era morto, a sera i colleghi hanno interrotto il lavoro, ieri la fabbrica era chiusa. Ora il punto non è se il licenziamento sia “assurdo” o abnorme, come sostengono il fratello e la Cisl, ma proprio la solitudine in cui matura questa morte. Non è una solitudine individuale, è la solitudine del lavoro fondamento della Repubblica, che avvelena anche i territori che si raccontano ricchi: è la stessa che provano, soli eppure insieme, le centinaia di operai della Manital di Ivrea, quella degli 817 ex Auchan, in gran parte lombardi, che da ieri aspettano con terrore le lettere di licenziamento, e quella di altre migliaia in giro per l’Italia. Senza comunità, senza politica, senza fratellanza, senza lotta collettiva esiste solo la sconfitta individuale: si nasce e si muore da soli, è vero, perché – se è lecito violentare Céline – anche per piangere bisogna tornare tra gli uomini. Ciao Simone.

La Commissione indaghi sui misteri del boss Graviano

La Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia dovrebbe occuparsi dei misteri di Giuseppe Graviano. La sede opportuna per accertare quel che è accaduto nel 1992-1994 tra Palermo e Milano non può essere solo l’aula di un tribunale. Basta ascoltare l’interrogatorio di ieri al processo “’Ndrangheta Stragista” a Reggio, su Radio Radicale, per capire che non si può delegare un accertamento simile alla magistratura. Gli interrogatori, giustamente, sono ancorati ai reati, alle competenze territoriali. Puntano a dimostrare un capo di imputazione (gli attentati in Calabria del 1993-1994) e non estendono il raggio dell’analisi alla storia.

Il boss di Brancaccio, secondo le sentenze definitive è stato il regista della stagione terroristica-mafiosa ordita da Totò Riina nel 1992 per mettere in ginocchio lo Stato a cavallo tra Prima e Seconda repubblica. Graviano è stato condannato con il fratello Filippo e altri boss per le stragi del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e del 1993 a Firenze e Milano oltreché per gli attentati del 1993 e 1994 a Roma.

Nel 2016-2017, in cella, mentre era intercettato, ha parlato di ‘Berlusca’, secondo l’interpretazione data dai magistrati del processo Trattativa alle sue parole, e ha lasciato intendere di considerare questo soggetto (Berlusca?) un traditore, che nel 1992 gli avrebbe chiesto una cortesia. Interpretazione contestata dalla difesa di Marcello Dell’Utri.

Nel 2018, la Procura di Firenze ha iscritto nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con l’ipotesi (già archiviata in passato e tutta da dimostrare) che possano essere i mandanti delle bombe del 1993-1994.

Ieri, durante l’interrogatorio, Graviano ha lanciato nuovi messaggi. Il boss ha detto di aver saputo che innominati ‘imprenditori di Milano’ volevano che le stragi del 1992 e 1993 proseguissero. Poi, ripercorrendo la sua saga familiare, ha parlato di suo nonno e di suo cugino. Il nonno, a suo dire, avrebbe investito a Milano nel 1970-71. Mentre il cugino, Salvatore Graviano, figlio di Benedetto, avrebbe dovuto riprendere il discorso delle quote di queste società. Con chi? Di quali società? Non lo ha detto. Poi ha spiegato che furono arrestati entrambi, lui e Salvatore, tra gennaio e febbraio 1994 (ma il cugino poi fu assolto) e tutto saltò. Quanto al nonno, Graviano ne aveva parlato già nel 2016 in cella al compagno di detenzione Umberto Adinolfi. Il boss, mentre era intercettato, fece capire che quell’antico investimento familiare del 1970 fosse all’origine dei contatti di Giuseppe Graviano a Milano. Non solo. Quando Fiammetta Borsellino, nel dicembre 2017, aveva incontrato Graviano in cella a Terni per aprire un dialogo con il boss condannato per l’uccisione del padre, lui ne aveva approfittato per dire che a Milano incontrava tanta gente quando era latitante. Sapendo di essere intercettato, aveva detto a Fiammetta “lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi. Più che io, era mio cugino che lo frequentava”. Il boss fu arrestato il 27 gennaio 1994 (per inquadrare il periodo storico, è il giorno dopo il discorso della ‘discesa in campo’ di Berlusconi) al ristorante con il fratello, le mogli e un favoreggiatore. Quest’ultimo aveva ospitato Giuseppe a Palermo durante la latitanza ed era salito per far giocare il figlioletto al Milan. Graviano ha suggerito ai pm di indagare sui misteri di quell’arresto per trovare i mandanti delle stragi. Il 31 gennaio prossimo, l’interrogatorio continuerà. I messaggi di Graviano potrebbero essere basati su fatti falsi, ma comunque non possono essere lasciati cadere così. I pm hanno fatto la loro parte. Ora tocca alla Commissione di inchiesta raccogliere il testimone e fare la sua.

Renzi&Calenda, i Ric e Gian della politica

Dunque, vediamo: i fratelli Marx erano cinque, quindi non possono fare da paragone, neanche sommando l’ego dei due soggetti e arrotondandolo per difetto (il totale farebbe infatti qualche dozzina); Stanlio e Ollio facevano ridere gagliardamente, mentre i due in questione fanno ridere al modo malinconico di certi comici a fine carriera (e poi manca il magro). Di Renzi simile al clown Calvero, il personaggio di Charlie Chaplin in Luci della ribalta che fa da anni sempre lo stesso numero delle pulci credendo di essere il massimo della novità, abbiamo già scritto, e poi non si può ignorare ormai che si è costituita una coppia che cambierà i destini d’Italia. Vogliamo parlarvi di Renzi e Calenda, i Gianni e Pinotto, ma forse più i Cochi e Renato, o ancora meglio i Ric e Gian della politica italiana.

Chi li segue su Twitter sa che lì va in onda la loro Risatissima quotidiana. Le puntate: Calenda, leader prima del sottovalutato Siamo Europei e poi di Azione, ha rotto con Renzi perché Renzi ha appoggiato il Conte 2 nonostante Calenda non volesse; Renzi ha ignorato Calenda, ed è solo un caso di affetti incrociati che i suoi ascari abbiano dato a Calenda della persona in malafede; allora Calenda ha scritto che Renzi è “senza vergogna”, lasciando peraltro tutti di stucco visto che Renzi è il politico più amato d’Italia dopo, a scendere: Conte, Salvini, Meloni, Zingaretti, Di Maio e Berlusconi (Ipsos per Corriere); Renzi ha ignorato Calenda (che l’abbia silenziato o bloccato, come noi?); Calenda ha detto che Renzi è inaccettabile sul piano etico; Renzi ha ignorato Calenda, poi ha twittato che non appoggerà Emiliano; Calenda allora ha twittato: “Matteuccio bello però tocca che rispondi al telefono se vogliamo fare questa roba. Che devo fare, chiedo intercessione a Obama?”. Un appello straziante, specie da parte di uno che aveva detto: “Mi vergogno di aver lavorato con Renzi”. Ora, capite che qui siamo nel contesto del cabaret, non della politica, se non fosse che questa vicenda umana si incastra coi destini nazionali: infatti sia la Lega che Pd e M5S sono d’accordo su una legge elettorale con sbarramento al 5%, che terrebbe ingiustamente i due caratteristi e i loro aiutanti di scena fuori dal Parlamento. Per noi sarebbe una perdita incalcolabile. Entrambi neo-lib, entrambi acceduti al potere più alto (Renzi addirittura come Capo dei ministri, condizione certo ridimensionata dal fatto che uno dei ministri era Calenda), entrambi così pieni di talento che si sono auto-esentati dal darne prova, i due – che siedono l’uno in Senato e l’altro al Parlamento europeo coi voti ottenuti col Pd – sono usciti dal Pd, che obiettivamente li limitava, per correre da soli verso il successo e l’amore del popolo. Dal punto di vista umano, c’è da dire che Renzi è spietato e vendicativo laddove Calenda (che dice di ispirarsi a Churchill) tutto sommato è un simpatico bonaccione, uno che peraltro, a differenza del rignanese (convinto di essere un genio per insufficienza di prove), ha ammesso pubblicamente di non aver fatto altro per trent’anni che dire “cazzate”. Ma sul lato politico la novità è che i due, inebriati da una botta di popolarità, hanno deciso di correre insieme con un loro candidato “alternativo al Pd” (cioè contro il Pd) sia alle suppletive di Roma (le elezioni per rimpiazzare il seggio di Gentiloni), sia in Puglia, dove è deciso a ricandidarsi Michele Emiliano, l’unica persona che entrambi odiano di più di quanto si odino l’un l’altro. È un esperimento: i due abili strateghi si sono accorti che mettendo insieme il 3,9% a cui è dato Renzi e l’1,4% a cui è dato Calenda si supererebbe comodamente il 5% necessario a eleggere propri candidati (totale: 5,3%), senza contare l’aiuto fondamentale di +Europa (0.9%), ma giusto per stare proprio tranquilli. Noi speriamo nello sbarramento all’1%: una coppia comica simile la rivogliamo presto al governo (pro bono, consigliamo a Calenda di fare attenzione).

Il servizio pubblico del potere: Vespa

Lo spot di Salvini che nell’ora di massimo ascolto tra il primo e il secondo tempo di Juventus-Roma invoca su Rai1 il voto per la Lega in Calabria e in Emilia Romagna, perché così ci saranno nuove strade, una sanità che funziona, posti di lavoro, etc…, è l’ennesima gaffe (gaffe?) dell’ineffabile Bruno Vespa o l’ultimo avvelenato frutto di una totale disattenzione della pubblica opinione e della politica verso un tema sensibile come quello del pluralismo in tv?

Prima di chiederci, allora, come sia stato possibile che nessun direttore di rete o di testata si sia preoccupato in Rai, in prossimità di un voto così potenzialmente destabilizzante, di passare al vaglio le trasmissioni, gli ospiti, le modalità di promozione, (considerato anche lo scempio dei mesi scorsi) per evitare di mandare in onda un promo che diventa uno spot elettorale per la Lega; prima di chiederci se Vespa, che di solito lancia il suo programma titolando gli argomenti e annunciando gli ospiti, abbia subdolamente pensato, con quel promo che dava la parola al leader leghista, di fare un favore a quel partito o piuttosto si sia distratto (in ogni caso un fatto grave per uno come lui); prima di chiederci, infine, se sia possibile che nessuno debba pagare, che non ci sia un responsabile per tutto questo, dobbiamo constatare che purtroppo il politico Salvini, grazie alla compiacenza di chi dovrebbe vigilare, e il giornalista Vespa non sono affatto nuovi a queste performances.

Per esempio il leader leghista comparve per tre settimane di fila proprio a Porta a Porta nel mese di ottobre, in piena campagna elettorale per l’Umbria, complice anche il “duello” con Renzi, ma senza che nessuno battesse ciglio. Sempre Vespa riuscì ad ospitarlo all’inizio del 2019 per tre volte in un mese, il 10 gennaio e il 31, e poi l’11 febbraio: il solerte conduttore gli fece chiudere il suo programma prima dello stop sanremese e lo riportò sulla scena alla prima puntata utile dopo la chiusura del Festival. Sia chiaro, non è che avesse fatto diversamente con Renzi, ai bei tempi, o con Berlusconi che ospitava con una tale frequenza e deferenza che uno di solito compassato come l’allora presidente della vigilanza Rai, Petruccioli, una volta sbottò comunicandogli “sconcerto e ripulsa” per una puntata, sotto elezioni (le Europee del 2004), in cui l’aveva lasciato parlare ad libitum. Per inciso, un gigante Petruccioli, se oggi pensiamo che alla vigilanza c’è Barachini, voluto, ahinoi, anche dai Cinquestelle, già alle dipendenze Mediaset e del quale sinora non si è avuta prova dell’esistenza.

Però forse non è nemmeno giusto infierire su un professionista il cui curriculum è pure pieno di “attenzioni” non (giornalisticamente) dovute verso gli “editori di riferimento” (leggi il potente di turno). Perché, malauguratamente, non ci sono solo la Rai e Vespa. C’è, ad esempio, il “lavoro sporco” fatto da Mediaset e in particolare da Rete4 (ma anche il Tg5 non scherza) a sostegno della destra, un “lavoro” svolto senza nessuna vergogna visto che negli ultimi tre mesi del 2019 i talk della rete hanno concesso la parola quasi sempre a loro esponenti. Stiamo esagerando? Nemmeno per sogno, basta andare a vedere le tabelle dell’Agcom. Tra ottobre e dicembre, dunque, leggendo nel dettaglio le suddette tabelle e facendo di conto, non ci vuol molto ad accorgersi che nel periodo in questione su Rete4 si è celebrata una rappresentazione politica che per faziosità e devastazione di ogni elementare regola pluralistica va al di là dell’immaginabile: il minutaggio dei singoli nei talk della rete ci offre uno spettacolo raccapricciante. Infatti a parlare sono praticamente solo in tre: Salvini, con oltre sei ore, poi Meloni e Sgarbi (candidato con la destra in Emilia) con quasi tre ore a testa. Tutti gli altri racimolano solo una manciata di minuti: i 45 di Casini, i 42 di Di Maio, i 41 di Toti (ancora destra!), i 40 di Roberto Castelli (come se non bastasse Salvini!), i 38 di Mastella, i 36 della Boschi. Per sovrappiù ci sono per la Lega altri 49 minuti appannaggio della Borgonzoni nel solo mese di dicembre, che in piena par condicio regionale (è scattata il 7 dicembre) quasi doppia Bonaccini (i talk di Rete4 gli concedono 28 minuti).

Da tempo, dunque, si è passato il limite. E ogni decenza. Per rubare la metafora a Bersani, potremmo dire che la mucca dal corridoio si è spostata in video e da lì sembra non si voglia allontanare. Forse per Pd e M5S è giunto allora il momento di fare della questione sul pluralismo in tv una battaglia politica. Seria e forte. Di lotta e di governo.

Mail box

 

Citofonate a Salvini e chiedete: “Gli italiani sono delinquenti?”

Per quanto riguarda il fatto increscioso di citofonare da parte di Salvini al cittadino tunisino e visto il suo interesse a perseguire gli spacciatori, gli consiglio per un principio di non discriminazione di suonare anche a uno spacciatore bolognese per evitare disparità di trattamento. Inoltre, visto che il messaggio che trapela da questi comportamenti è quello di considerare tutti gli extracomunitari dei delinquenti, vorrei proporgli un test. Lui dice che se qualcuno in Italia lo chiama mafioso, non si offende. Ma se per caso andasse in Francia e partecipasse a qualche convegno e lo si presentasse a un alto rappresentante francese e questo dicesse: “Lei è italiano? Gli italiani sono tutti mafiosi”. Come reagirebbe Salvini?

Rossella Beccalossi

 

Il peggior crimine di Craxi: il favore in cambio del diritto

Ricordo che ai tempi, non iscritta mai a nessun partito, avevo molti amici anche tra i socialisti: persone colte, oneste, illuminate a cui dobbiamo molto. Poi è comparso Craxi e con lui il seguito ossequioso di affaristi, arrivisti e “clientes”; così la storia, fino allora nobile, del Psi è cambiata radicalmente. I lavori della prima linea MM si sono protratti in modo abnorme, la gestione degli appalti ha cominciato a essere sempre meno trasparente, sono arrivate le prime finanziarie con le quali negli enti pubblici, ospedali compresi, era difficile assumere… E sono arrivate le raccomandazioni a gogò, per tutto. Allo Stato di diritto si è sostituito uno “Stato di favori”. Era un sistema diffuso a tutti i partiti? Sì, e allora? È una giustificazione? Siccome rubavano tutti (e resta da dimostrare se rubassero proprio tutti), rubare diventava “cosa buona e giusta”. Ecco, il crimine peggiore di Craxi è stato proprio questo: aver sostituito il diritto con il favore e aver convinto le persone che il diritto non esisteva, bisognava pagare, in vario modo, magari con i voti, per ottenere qualcosa; di fatto aveva ridotto la “res publica” a “res privata”. Statista? Non facciamo ridere per favore. Era solo un latitante scappato dai processi e dalle condanne. Era innocente? Bene, doveva dimostrarlo nelle sedi giudiziarie: la legge che veniva applicata a tutti i cittadini a lui non andava bene? E tutti noi dovremmo riabilitarlo? Lo “Stato” avrebbe dovuto andare in pellegrinaggio ad Hammamet, magari a spese dei contribuenti? Un doveroso silenzio sarebbe d’obbligo e più dignitoso.

Albarosa Raimondi

 

Emilia-Romagna, il governo si rafforzerà col voto disgiunto

Penso che in queste elezioni regionali, in modo particolare in Emilia Romagna, si stia consumando una grande truffa in disprezzo di cittadini ed elettori.

I problemi riguardanti l’amministrazione per il buon governo di una regione sono stati occultati e ridicolizzati da una campagna elettorale fatta di slogan raccapriccianti e colpi di scena ad effetto per evitare ogni tipo di confronto sulle cose fatte e da fare. È stata occultata anche la candidata leghista Borgonzoni. Di fronte a questa brutalità e alla portata politica chiedo a militanti ed elettori pentastellati di fare il voto disgiunto: votiamo il simbolo M5S e sigliamo con una croce i candidati governatori Bonaccini (Emilia Romagna) e Callipo (Calabria). Penso che i responsabili M5S di queste due regioni debbano fare passare questo messaggio che non è solo coraggioso, ma anche di convenienza per lo stesso Movimento. Per quanto mi riguarda io, e tanti amici M5S e anche della lista “L’altra Emilia Romagna” faremo così.

Enzo Cecchini

 

Aderisco al vostro appello: subito una via per Borrelli

In un paese dove uno pseudo giornalista come Facci (ridere) definisce le sentenze “note di cancelleria” è naturale che un ladro sia santificato. Il craxismo è stata una dottrina per cui centinaia di amministratori locali, di tutti i partiti, hanno depredato le casse dello Stato e trasformato la ruberia in metodologia politica. Il bottino di Bettino è solo una parte infinitesimale di quanto questi ladri, per anni, hanno rubato agli italiani molti dei quali tanto coglioni da essere stati dietro a Craxi e da pensare, oggi, sia giusto dedicare vie e documentari al “leader maximo”. Ottima l’idea di lanciare una campagna per intitolare una via a Borrelli. Caro direttore, faccio mia la famosa frase di Borrelli e ti invito a “resistere, resistere, resistere!”.

Gianluigi Scaffidi

 

“È finita un’era” potevano dirlo De Gasperi e Gramsci

Luigi Di Maio sentenzia che con lui è finita un’era. Scosse sismiche previste nella notte per rivoltamento nella tomba di Alcide De Gasperi, Antonio Gramsci, Indro Montanelli ed Enrico Berlinguer. Invece Salvini fa gli scherzi al citofono, dimenticandosi di scappare prima di parlare. Fossi stata nel proprietario di casa avrei risposto: “Guardi, vada a Erba, e chieda a Olindo e Rosa”.

Angela Maria Piga

 

Continuate a informarci con grande professionalità

Buongiorno direttore, sono Vito, un pensionato, compro ogni giorno il Fatto. Le dico solo poche parole: grazie, grazie tanto a tutti del difficile e complicato lavoro. Ogni giorno ci informate con alta professionalità. Continuate sempre così.

Vito

Escluso all’ultimo nel 2019, Altaforte sarà bandito anche quest’anno

Buongiorno, ho letto ieri online di sfuggita che si è riproposta la querelle tra il Salone del libro di Torino e Altaforte, l’editore vicino a CasaPound, invitato a partecipare all’edizione 2020 nonostante l’anno scorso sia stato escluso all’ultimo minuto. Come è stato possibile? Perché il Salone ha deciso di accogliere chi aveva bandito appena un anno fa?

Gloria Genna

 

Gentile Gloria, innanzitutto non c’è stato alcun invito ufficiale, né ufficioso, ad Altaforte da parte del Salone del Libro di Torino: l’email – generica, “una comunicazione commerciale automatizzata” – è stata inviata dall’Associazione italiana editori (Aie) a molti piccoli e piccolissimi marchi per rafforzare la “bibliodiversità” della fiera: tra i destinatari (tutti coloro che hanno richiesto ad Aie un codice Isbn negli ultimi due anni) c’era anche “la casa editrice Sca2080 srl, con sede a Roma, che a quanto pare, risulta collegata al marchio Altaforte”, questa la spiegazione fornita dalla stessa Aie. “Se avessimo saputo che dietro quella sigla c’era Altaforte, avremmo preventivamente chiesto al Salone cosa fare o non fare” di quell’invito standard. La notizia – poi rivelatasi un involontario pasticcio – era trapelata proprio grazie a “Il primato nazionale”, rivista edita da Altaforte, che già gongolava per l’invito: “Parteciperemo nonostante le polemiche politiche che quasi sicuramente si solleveranno – ha dichiarato l’editore Francesco Polacchi –. Riteniamo che avere uno spazio sia un nostro diritto. Ma ci tengo a precisare che la causa di risarcimento per il danno di immagine subito l’anno scorso andrà avanti”. Grandi speranze, subito infrante. Il Salone ha, infatti, colto l’occasione al volo per “ribadire che i contratti sono da perfezionare per volontà delle due parti e, visto il pregresso avvenuto nel 2019, non intende sottoscrivere alcun contratto con le suddette società”. Ciò detto, Altaforte resta una foglia di fico: di fascio-fascette (autori negazionisti, titoli antisemiti, nemici dei diritti umani e amici di Salvini e CasaPound) sarà pieno anche quest’anno il Salone; quanto ai “limiti etici” della letteratura, vien da pensare alla Germania nazista, come ci raccontò Siti un anno fa.

Resta, infine, da capire come andrà a finire la succitata causa di risarcimento nei confronti di Altaforte, cacciato all’ultimo dalla fiera. A Torino dicono di “non saperne nulla”, almeno per ora. Tocca aspettare la prossima puntata.

Camilla Tagliabue

Wuhan, città ribelle contro il governo ammansita dal virus

Wuhan è una megalopoli da 11 milioni di abitanti oggi fantasma. La vera città proibita dopo che il governo cinese ha chiuso quella di Pechino per il rischio di contagio da coronavirus che proprio da Wuhan si è propagato, facendo 17 morti e 600 infettati per poi superare i confini nazionali e raggiungere Hong Kong, Taiwan, Singapore, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Brasile, il Vietnam, e forse anche la Scozia.

Nel giro di pochi giorni, dal 27 dicembre, giorno in cui nei forum medici iniziano a girare informazioni su “strani casi di polmonite”, il mercato degli animali da cui il virus si sarebbe propagato a partire dai pipistrelli per poi mutare nei serpenti e fare il salto all’uomo viene disinfettato e chiuso, e la città-capoluogo della provincia di Hubei viene blindata. Da Wuhan non partono treni e non ne arrivano, i trasporti pubblici sono fermi. Per strada si aggirano solo forze dell’ordine e operatori sanitari muniti di mascherine. Un’escalation di isolamento rapidissima, estesa da ieri anche ad altre quattro città della provincia: ultima Xiantao dopo Chibi, Huanggang e Ezhou. Pechino così come Macao vieta i festeggiamenti per il Capodanno cinese nonché l’uscita dei nuovi film in sala. I cinema sono pericolosi per il propagarsi del virus. Una quarantena senza precedenti nel nuovo secolo. Come pure senza precedenti, a luglio scorso, era stata la protesta di Wuhan contro l’apertura di un termovalorizzatore approvata dieci anni prima e il cui progetto sarebbe dovuto partire nel 2019. Una mobilitazione di decine di migliaia di persone allarmate che la vicinanza dell’impianto di conversione dei rifiuti alle case possa innalzare il rischio per gli abitanti di inalare di sostanze tossiche. Una protesta che arriva nel bel mezzo delle manifestazioni partite a Hong Kong il 9 giugno e dal movimento pro-democrazia riceve sostegno. È proprio a Wuhan, infatti, che la polizia in assetto antisommossa “prova” le repressioni che poi metterà in atto nell’ex colonia britannica. “Oggi, Wuhan, domani, #HongKong, solidarietà con le proteste ambientali in atto nella Cina continentale #Cina”, recitano gli striscioni degli studenti hongkonghesi in piazza contro la legge sull’estradizione. Nei video di luglio postati su Youtube, Wuhan è tutt’altro che una città fantasma. Per l’arteria principale sfilano i manifestanti. Dietro, la polizia avanza e in un attimo dissolve il corteo. Seguono gli arresti arbitrari.

Un assaggio di ciò che accadrà a Hong Kong nei mesi successivi. Pechino non può permettersi proteste, ma, al contempo, neanche di fare a meno dei termovalorizzatori per ripulire l’economia ad alto tasso di industrializzazione, specie in distretti molto inquinati, come quello di Wuhan. Dopo le proteste, però, le autorità locali fanno sapere di tenere in conto le rimostranze della popolazione e della costruzione dell’inceneritore non si parla più, come della legge per l’estradizione a Hong Kong.

Ora, a pochi mesi da lì, i residenti della regione di Hubei si trovano a fare i conti con un pericolo molto più concreto delle scorie del termovalorizzatore. E sarebbero potrebbero anche fronteggiarlo, perché – ironia della sorte – è a Wuhan che si trova il solo laboratorio cinese in grado di maneggiare i virus più pericolosi per l’uomo, come ricorda un rapporto recente del Cdc statunitense e come da piano post-Sars del 2003. La Cina, infatti, si è dotata di un sistema di laboratori di alta sicurezza, indicato con la sigla Bsl-4 di cui il più alto in grado è proprio la struttura, gestita dall’Accademia delle Scienze e situata in un quartiere centrale della città di Wuhan, realizzata in collaborazione con esperti francesi, statunitensi e australiani. La classificazione Bsl-4 implica che il laboratorio è dotato di procedure di sicurezza che impediscono la “fuga” di materiale biologico. O almeno così dovrebbe essere. Intanto, il governo ha annunciato la costruzione in sei giorni di un ospedale specializzato a Wuhan.