Sindrome Coronavirus Sospetti su paziente a Bari

La trasmissione tra uomo e uomo per ora è avvenuta solo in Cina, e interessa nuclei familiari e i sanitari degli ospedali dove sono ricoverati gli infettati dal Coronavirus che inquieta il mondo. Il tasso di mortalità è del 4% (26 morti su 616 infettati in tutto il mondo), nella media delle influenze di stagione: attorno al 3-5% (quasi esclusivamente neonati od over 70). Eppure il panico della pandemia si diffonde ben più veloce del virus stesso. Ieri a Bari un caso sospetto ha allarmato le autorità sanitarie: per sapere se ha davvero contratto il Coronavirus 2019-nCoV bisognerà aspettare la risposta delle analisi dell’istituto Spallanzani di Roma. Nel frattempo, per la donna ricoverata al policlinico di Bari, era stato disposto l’isolamento nel reparto di malattie infettive dove è stata ricoverata due sere fa. La donna – secondo indiscrezioni una cantante lirica – è rientrata dalla Cina dopo un tour che ha toccato anche la zona di Wuhan. S’è presentata al pronto soccorso con i sintomi di una forte influenza, febbre e tosse, e sono state avviate le procedure previste per impedire la diffusione dell’eventuale virus: i sintomi erano giudicati “non dissimili da quelli provocati dal Coronavirus”. I suoi campioni biologici sono stati inviati all’istituto Spallanzani di Roma per effettuare gli accertamenti necessari.

Nel frattempo, nell’epicentro di quella che anche ieri l’Oms ha escluso essere un’emergenza internazionale di salute pubblica – “è troppo presto” – le autorità del regime cinese hanno dichiarato off limit altre 3 città vicine a Wuhan.

Altri casi di contagio sembrerebbero essersi verificati in Europa e sono stati segnalati in Scozia e Irlanda dove sei cittadini cinesi, arrivati con un volo da Wuhan, sono stati ricoverati per sintomi sospetti. Mentre in Francia è rientrato il caso di una donna con sintomi analoghi a quelli del virus.

Con il passare delle ore e l’aumento dei casi di contagio, arrivati a 616, a Pechino la forte preoccupazione per la diffusione dell’epidemia ha indotto le autorità ad adottare misure più drastiche: la Città Proibita è stata chiusa e tutti i festeggiamenti per il Capodanno cinese annullati. Stop alle celebrazioni anche nella regione semi-autonoma di Macao. Venti milioni sono coinvolti nella quarantena delle metropoli in cui abitano: dopo Wuhan, blindate anche Xianning, 2,5 milioni di abitanti, e Huanggang, 6 milioni e mezzo, a 60 chilometri dalla capitale della provincia di Hubei ritenuta il focolaio del coronavirus e dove ieri sono stati bloccati tutti i trasporti pubblici, compresi treni e aerei. Le misure di sicurezza sono scattate anche a Ezhou, cittadina da 1,1 milioni di abitanti, dove le autorità hanno deciso di bloccare “temporaneamente” il traffico dei treni.

Nelle città cinesi sono rimasti “intrappolati” anche dei cittadini italiani: una ventina, tra residenti, studenti e turisti che si trovano proprio a Wuhan, che conta 11 milioni di abitanti.

“Quel migrante è morto dopo due pestaggi”

“Enukidze è stato pestato in due occasioni prima di morire”. Nuovi dettagli dalle testimonianze fornite ai pm di Gorizia sulla morte di Vakhtang Enukidze, il 38enne georgiano trovato morto lo scorso 18 gennaio in una stanza del centro permanenza rimpatri (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, poco distante dal capoluogo giuliano.

Secondo una decina di stranieri, ascoltati nei giorni scorsi dal pm Paolo Ancora, l’uomo potrebbe essere morto per le percosse di un gruppetto di poliziotti intervenuti per sedare una rissa. I testimoni, in gran parte africani, sono stati però rimpatriati nelle ore successive al colloquio con il magistrato, avvenuto presso la sede del Cpr. Decisione accolta con disappunto da Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, che insieme al leader dei Radicali Italiani Riccardo Magi, ha denunciato l’episodio in una conferenza stampa alla Camera dei deputati: “Le testimonianze coincidono tutte – spiega Schiavone al Fatto –. Ma le persone andavano ascoltate in procura, in un ambiente protetto. Una parte di loro andava trattenuta in Italia, altrimenti c’è il serio rischio che, una volta tornati nel loro Paese, non possano testimoniare in sede di incidente probatorio e di processo. Averli espulsi rischia di compromettere le indagini”.

Le ulteriori testimonianze, raccolte dal Collettivo Tilt, che sarebbero già agli atti dell’indagine, raccontano di ben due “pestaggi” da parte delle forze dell’ordine ai danni di Enukidze.

È il 13 gennaio, il georgiano ha perso il telefono. Lo cerca, non vuole rientrare in stanza: “Il suo telefono si è perso – spiega il testimone – lui non ricordava dove l’aveva lasciato. Da lì hanno cominciato a picchiarlo con il manganello, aveva tutto il corpo rosso proprio di lividi”. Vakhtang sarebbe dovuto partire per la Georgia il giorno dopo, ma il trasferimento salta. Il 17 gennaio, secondo chi racconta, il dolore è insopportabile. “Da lì – dice il testimone – lui ha cominciato di nuovo a spaccare degli specchi davanti a loro, e lì ci stava un altro ragazzo da dietro. La polizia ha detto a quel ragazzo dietro di buttare un pezzo di ferro fuori, e quando lui si è girato hanno cominciato a litigare. I poliziotti hanno aperto la porta e sono entrati dentro”.

Qui il secondo, presunto, pestaggio: “Lo hanno messo in mezzo, quanti erano… otto. Lui in mezzo circondato da 8 poliziotti. Quando lo hanno attaccato al muro uno di loro gli è saltato addosso di forza e lui da lì la testa gli è caduta e ha sbattuto al muro”. Le testimonianze, ovviamente, sono tutte da valutare. Le dichiarazioni andranno incrociate con quelle dei poliziotti in servizio e, soprattutto, con le immagini delle telecamere di sorveglianza. La Procura di Gorizia intanto indaga per omicidio: lunedì ci sarà l’autopsia sulla salma del 38enne che non risulta avere precedenti per reati commessi in Italia. Enukidze, a quanto si è potuto apprendere, si trovava nel Cpr di Gradisca d’Isonzo per un problema con il permesso di soggiorno.

Il caso è stato paragonato da Radicali Italiani e da alcuni media al caso di Stefano Cucchi, il geometra romano ucciso nel 2009 a causa delle percosse subìte in una caserma dei carabinieri, vicenda per la quale a novembre scorso due carabinieri sono stati condannati in primo grado a 12 anni di carcere. Il paragone ha suscitato la rabbia del capo della polizia Franco Gabrielli. “Fare parallelismi – ha detto – a dir poco arditi di una vicenda che non è stata ancora definita con vicende per la quale sono stati impegnati anni e processi, lo trovo offensivo”.

“Il vaccino non è affare privato”. I pm contro i “furbetti no vax”

“Le vaccinazioni dei bambini non riguardano solo le persone singole, non sono un affare privato, ma interessano la salute di tutti, in quanto bene collettivo. Non c’è solo il rischio di un alunno di ammalarsi, c’è anche quello di far ammalare gli altri, i compagni di classe, soprattutto se si tratta di soggetti deboli”. Paolo Luca, procuratore della Repubblica di Belluno, ha dato il via a un’inchiesta che sta scuotendo il mondo scolastico e dimostra che se le leggi vengono approvate, obbligando alle vaccinazioni, poi devono essere applicate. Non si può sperare di farla franca con una semplice autocertificazione che nessuno controlla. È da questa considerazione che è partita la prima indagine a vasto raggio in Italia per scoprire i genitori “furbetti no-vax” e i presidi compiacenti che hanno chiuso un occhio.

Nella prima categoria ci sono già un centinaio di indagati, a cui sono stati notificati altrettanti decreti penali di condanna per falsa dichiarazione a pubblico ufficiale, pari al minimo della pena di 15 giorni di reclusione, convertita in 1.125 euro di pena pecuniaria. Nella seconda, una trentina di dirigenti scolastici che hanno accettato, senza fare verifiche, le dichiarazioni delle famiglie secondo cui i loro figli erano in regola con tutti i vaccini. I loro nomi sono stati iscritti nel registro degli indagati per omissione d’atti d’ufficio.

È rimasta per tre mesi riservata la notizia che a Belluno la Procura avesse dato incarico ai carabinieri del Nucleo Antisofisticazione e Sanità di Treviso di spulciare tutte le circa 10 mila posizioni di bimbi iscritti negli asili e nelle scuole elementari. Poi il ministero della Sanità ha diffuso l’informazione, anche come deterrente nei confronti di tutte le scuole italiane. “Ho avviato un’indagine capillare, partendo da Feltre, per passare poi a Belluno, al Cadore, all’Agordino e alle altre zone della provincia” ha spiegato il procuratore Luca.

I carabinieri hanno incrociato i dati contenuti nei documenti di iscrizione con quelli della banca dati dell’Ulss. Sono stati spulciati i nomi dei bambini realmente vaccinati finché è rimasto un elenco di inadempienti. Prima di Natale sono stati notificati un centinaio di decreti penali di condanna. Una parte dei destinatari si sono affrettati a pagare i 1.125 euro.

Una parte residua (circa il 10 per cento) non lo ha fatto e quindi se la vedrà al processo, in cui dovrà dimostrare che le vaccinazioni sono state realmente fatte. Il capitolo più impegnativo, anche da un punto di vista giuridico, è quello dei direttori didattici. La norma prevede che debbano controllare le autocertificazioni. Se non lo hanno fatto è per negligenza o per dolo? Per mancanza di impiegati o per colpevole mancanza? La Procura dovrà dimostrare che c’era la consapevolezza di omettere un atto d’ufficio di fronte ai documenti esibiti dai genitori di bambini fra i 3 e i 6 anni di età che sono risultati carenti dei requisiti per l’accesso. L’ex dirigente dell’ufficio scolastico provinciale di Belluno, Gianni De Bastiani, ha commentato: “Ero a conoscenza delle richieste dei carabinieri, non dell’esito delle indagini. Osservo però che questi poveri presidi si trovano tra l’incudine e martello. È vero che ci sono delle circolari ben precise del ministero e che le autocertificazioni andrebbero controllate, ma non sempre nelle segreterie c’è il personale in grado di farlo. Troppe carte e troppa burocrazia si aggiungono al compito della didattica”.

L’inchiesta ha come inizio il 2018 perché è allora che è entrata davvero in vigore la legge Lorenzin, prima rallentata da moratorie e rinvii. Prevede che i minori, da 0 a 16 anni, assumano 10 vaccini, contro tetano, difterite, poliomielite, epatite B, morbillo, varicella, pertosse, Haemophilusinfluenzae tipo B, rosolia e paraotite). Altrimenti scattano il divieto di iscrizione all’asilo e una multa fino a 500 euro.

“Autostrade valuti se sulla A7 sia meglio ristrutturare i viadotti o rifarli da capo”

Recuperare i viadotti o ricostruirli? Questo è il dilemma. I tecnici del ministero delle Infrastrutture hanno chiesto ad Autostrade una valutazione costi benefici su almeno due viadotti della A7, la Milano-Genova. La convinzione è che costerebbe meno tirare giù e ricostruire ex novo diverse strutture piuttosto che consumare risorse in un lavoro di recupero che rinvierebbe solo la soluzione del problema. Servirebbero, insomma, investimenti massicci che si legano a filo doppio con la questione della concessione. Perché, fanno notare al ministero, la A7 ha comunque quasi novant’anni ed è giunta in molti punti a fine corsa.

A Genova da qualche settimana è arrivato Placido Migliorino, il tecnico del ministero che nelle intercettazioni dell’inchiesta sul ponte Morandi veniva indicato come il “mastino”. L’uomo che con i suoi severi controlli delle infrastrutture provocava scompiglio. Si occupava del Centro-Sud, ma la ministra Paola De Micheli lo ha incaricato di esaminare anche i viadotti di Liguria e Piemonte. I risultati delle ispezioni si sono visti subito. Sono emersi problemi strutturali sui viadotti dell’uscita di Genova Est che sono stati sottoposti a limitazioni del traffico: senso unico alternato e distanza minima tra mezzi pesanti per evitare sovraccarichi. I lavori dovranno cominciare in tempi brevi, come sul viadotto Veilino dove sono emersi ammaloramenti a due cerniere di taglio che uniscono le campate. Autostrade dovrà monitorare costantemente il viadotto (ogni trenta minuti in caso di allerta rossa) e chiuderlo se si verificassero movimenti del terreno.

Ieri Migliorino ha ispezionato tre viadotti dell’Autofiori a Imperia (gruppo Gavio). Finora sono emersi soltanto dilavamenti superficiali.

Ma il nodo della questione sembra essere la A7 (Autostrade) e in particolare i viadotti Scrivia Pietrafaccia e Scrivia Arnasso. Qui i tecnici del ministero si sono posti una questione di fondo che va oltre i lavori di messa in sicurezza immediati: la tratta Genova-Serravalle fu inaugurata nel 1935 dal re Vittorio Emanuele III. E oggi se la passa piuttosto male (da mesi è un rosario di cantieri e corsie chiuse). Tanto che il ministero ha chiesto ad Autostrade di studiare se convenga proseguire con le ‘toppe’ o se sia meglio abbattere i viadotti e ricostruirli. Si pone il problema di ridisegnare l’arteria fondamentale per Genova e il suo porto.

Messina Denaro, la rete del boss è arrivata a Milano

Manager in Ferrari, plenipotenziari di Cosa Nostra, uomini legati alla ’ndrangheta, trafficanti di armi e droga, sequestratori. Sono tante oggi a Milano le figure che ruotano attorno ad alcuni narcos vicini a Matteo Messina Denaro. Eccola, dunque, la narcorete della primula rossa di Cosa Nostra sotto la Madonnina. Raccontata nell’inchiesta Eden 3 della Procura di Palermo che nel novembre scorso ha portato a tre arresti e a 19 indagati per un traffico di droga tra Campobello di Mazara, territorio del boss latitante da 27 anni, e il capoluogo lombardo. Reati contestati: traffico di droga e spaccio non aggravati dal metodo mafioso, anche se diversi indagati, secondo i pm, agivano per sostenere i detenuti della famiglia mafiosa vicina a Messina Denaro. Sei posizioni indagate sono state trasferite alla Procura di Milano che ha chiuso le indagini e dovrà chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione.

In questa storia ciò che conta non è tanto il reato quanto i nomi che ruotano attorno ai trafficanti siciliani. Di Campobello di Mazara sono Giacomo Tamburello, Nicolò Mistretta e l’ex avvocato Antonio Messina. I tre sono considerati i “vertici del sodalizio” vicino a Messina Denaro. Tutti hanno legami stretti con Milano e il suo hinterland. Ad esempio Peschiera Borromeo.

Qui, ai tavolini del bar Black and White, l’ex avvocato Messina incontra il narcos Giuseppe Fidanzati, figlio di Gaetano già reggente della famiglia mafiosa dell’Acquasanta a Palermo. Fidanzati, anche lui indagato, parla di una persona chiamata “Iddu” incontrata alla stazione di Trapani. Per gli investigatori “Iddu” si “ritiene essere uno tra Matteo Messina Denaro o il nipote Francesco Guttadauro”. Ripartiamo allora dall’autosalone Pegaso di viale Espinasse, già raccontato dal Fatto, e da Luigi Mendolicchio che qui, secondo la Procura di Catanzaro, faceva riunioni per affari di droga. Mendolicchio è indagato anche nel fascicolo siciliano. A lui è contestato un episodio di acquisto. Dalle carte emergono i suoi i legami con i vertici attraverso Massimo De Nuzzo, milanese, e, per come emerge dall’indagine Belgio 2 dei primi anni Novanta, già trafficante vicino alla cosca calabrese dei Di Giovine. Dirà Mistretta a De Nuzzo riferito a Mendolicchio: “Se lo vuoi chiamare ti do il numero che ha lui? Lo devi chiamare da una cabina”. I due si incontreranno. Con loro c’è un’altra persona che con il telefono di De Nuzzo parla a Mistretta.

Si tratta di Giuseppe Calabrò, detto “u Dutturicchiu”, legato alle cosche di San Luca e in rapporti con Mendolicchio. Mistretta e Calabrò (non indagato in Eden 3) pianificano per vedersi. Dirà il calabrese: “Io ora sono a posto, sono libero, e sto qua a Milano”. Mendolicchio, secondo i pm di Palermo, rappresenta “l’anello di congiunzione” tra i trafficanti vicini a Messina Denaro e il calabrese Vincenzo Stefanelli (oggi indagato), già coinvolto nel sequestro di Tullia Kauten (1981), legato alle ‘ndrine liguri e a Calabrò. Tra gli acquirenti del gruppo siciliano ci sono anche Giovanni Brigante e Andrea De Curtis (indagati dalla Dda di Palermo). Entrambi sono figure note nel milieu malavitoso di Milano. Anche Brigante fu coinvolto nell’indagine Belgio 2. Secondo la Procura acquistava droga direttamente dal clan Di Giovine. Dirà Tamburello a Brigante: “Sappi che ne abbiamo, finito questo c’è pronto l’altro, io devo prendere un po’ di soldi (…) cerchiamo anche contatti grossi”. De Curtis, invece, sarà coinvolto nell’inchiesta Terra Bruciata e, secondo i collaboratori Vittorio Foschini e Giustino Fiorino, entrerà nel gruppo del siciliano Biagio Crisafulli detto Dentino, per anni il re di Quarto Oggiaro e in contatto con il gotha della ’ndrangheta lombarda. De Curtis e Tamburello saranno intercettati a discutere di partite di droga “perse”. Tra gli acquirenti anche il rapinatore Andrea Sardina arrestato nel 2014 per un colpo da 163 mila euro alla società Valtrans. Durante la rapina Sardina indossava una pettorina della Guardia di finanza.

Altro nome è il calabrese Giovanni Morabito. Con lui Tamburello pianifica una partita di 300 chili di hashish. Morabito, per i pm siciliani, è legato “all’articolazione milanese della ’ndrina Morabito” di Africo. Negli anni Novanta frequentava il ristorante Vico Equense ritenuto luogo di ritrovo degli uomini del boss Mimmo Branca legato alla cosca Libri di Reggio Calabria. Davanti al locale nel 1992 fu parcheggiata l’auto usata per l’omicidio di Carmine Carratù. Morabito risulta poi parente del narcotrafficante Leo Talia. In quegli anni Morabito acquistò una casa a Peschiera Borromeo, dove la Dda di Palermo ha fotografato gli incontri tra i trafficanti di Campobello di Mazara e il narcos siciliano Giuseppe Fidanzati. Insomma, nomi, contatti e luoghi di Milano sulle tracce di Matteo Messina Denaro.

“Dal mio arresto scoprirete i veri mandanti delle stragi”

Per scoprire i mandanti delle stragi del 1992 e 1993 bisogna indagare sull’arresto di Giuseppe e Filippo Graviano. L’input investigativo non arriva dall’ultimo pentito di Cosa Nostra, ma da chi per quelle stragi è stato condannato e – finora – non ha mai collaborato con la giustizia: cioè lo stesso Giuseppe Graviano. Il boss di Brancaccio, l’uomo che custodisce i segreti del biennio a colpi di tritolo, capace di cambiare la storia d’Italia, ha rotto il silenzio dentro a un’aula di tribunale dopo 26 anni. Da due mesi “Madre natura”, come lo chiamavano i suoi uomini, voleva parlare al processo “’Ndrangheta stragista”, chiedendo però di potere ascoltare prima le intercettazioni dei suoi colloqui in carcere con il compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi. Dialoghi in cui, secondo la Corte d’assise di Palermo che ha celebrato il processo sulla Trattativa, definisce Silvio Berlusconi un “traditore”: nel 1992 “Berlusca” – come lo chiama il boss – gli aveva chiesto una “cortesia” per poi abbandonarlo.

La difesa di Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado al processo Stato-mafia, ha sempre contestato che in quelle registrazioni Graviano pronunciasse proprio il nome dell’ex premier e anche il perito incaricato dalla Corte d’assise di Reggio Calabria non è riuscito a trascrivere alcune delle intercettazioni tra Graviano e Adinolfi, a causa dei troppi rumori di fondo. Per la Procura calabrese, che a quelle registrazioni ha dedicato un capitolo intero dell’integrazione di misura cautelare, quel “Berlusca” è invece proprio Berlusconi.

Curiosamente proprio nel giorno in cui il leader di Forza Italia è in Calabria per la campagna elettorale delle regionali, Graviano si è collegato con la corte d’assise di Reggio per rispondere alle domande dell’aggiunto Giuseppe Lombardo. E per la prima volta ha parlato di stragi, di mandanti e di misteri. Durante la prima ora del processo ha cercato di negare ogni accusa, di bollare come false le contestazioni dei pentiti, continuando a trincerarsi dietro alla sua pluriventennale omertà. A un certo punto, però, il pm ha detto: “Lei mi deve fare capire quale è il disegno che accomuna tutti i collaboratori di giustizia che parlano di lei, allora io procederò a indagare su questo disegno”. Graviano ha risposto: “Vada a indagare sul mio arresto e sull’arresto di mio fratello Filippo e scoprirà i veri mandanti delle stragi, scoprirà chi ha ucciso il poliziotto Agostino e la moglie, scoprirà tante cose”. Che intende dire Graviano? Cosa c’entra il suo arresto con l’omicidio mai risolto del poliziotto Nino Agostino, ucciso in Sicilia insieme alla moglie del 1989? E che c’entra l’arresto dei Graviano coi mandanti delle stragi?

I fratelli di Brancaccio vengono fermati a Milano. A incastrarli è involontariamente Giuseppe D’Agostino, un palermitano che va trovarli a Milano per accompagnare il figlio Gaetano a fare un provino con i pulcini Milan. “Se i carabinieri diranno la verità su come sono andati i fatti, se anche D’Agostino Giuseppe dirà chi li ha invitati a fare il provino al Milan, e la società di Milano, voi scoprirete chi sono i veri mandanti”, ha detto il boss in aula.

Il pm lo incalza: “Lei ci vuole dire oggi chi sono i responsabili delle stragi?”. “Io non faccio l’investigatore”, risponde fiero il boss prima di aggiungere: “Io dentro al carcere ho incontrato certe persone, che mi hanno raccontato che a imprenditori di Milano interessava che non si fermassero le stragi”. Chi sono questi imprenditori? “Madre natura” non risponde ma dice semplicemente che “si evince anche dalle intercettazioni con Adinolfi. Io parlo di un imprenditore, come si evince dalle intercettazioni, però a me non fate dire nessun nome perché io non riferirò nessun nome”.

Il botta e risposta col pm diventa serrato: perché le bombe dovevano proseguire? Anche qui il boss di Brancaccio rimanda alle intercettazioni con Adinolfi: “Io non lo so perché avevano interesse a farle proseguire. Non sono nella mente di quelle persone, avete le intercettazioni”. Il pm ci tiene a mettere a verbale: “Lei ci sta dicendo che da quelle intercettazioni noi possiamo ricavare i dati per completare il suo discorso odierno?”. “Sì”, risponde Graviano. “Sia sugli imprenditori che su tutto il resto?”.

“Sì, le ho detto di si. Io non racconto bugie al signor Adinolfi perché io lo rispetto”, ripete il boss. Che in pratica cerca di accreditare le parole pronunciate in carcere come genuine, senza ripeterle. Poi torna a parlare delle bombe sostenendo di aver saputo che “in quel periodo c’era un ministro degli Interni che cercava un accordo. Per fermare le stragi si sono rivolti alle persone di Enna”. Cioè la città dove Totò Riina radunò il gotha di Cosa nostra nell’inverno del 1992 per progettare la strategia stragista.

Insomma le dichiarazioni del boss sono un mix di riferimenti a fatti realmente accaduti, interpretazioni personali e frasi che hanno tutta l’aria di essere messaggi trasversali. Inviati a chi? “È come dicono le sentenze: Arrestato Graviano si è fermato tutto. Ma non si è fermato nulla perché c’è stato l’attentato a Contorno e così via”.

Il tentato omicidio del pentito Totuccio Contorno risale al 14 aprile 1994: è tra le contestazioni inserite dalla Procura di Firenze nell’inchiesta sui mandanti delle stragi riaperta nel 2017 a carico dello stesso Berlusconi.

“Abbiamo avuto tante spese…” Le banche stangano i correntisti

Con il nuovo anno anche l’ultimo baluardo dello “zero spese” si è schiantato contro il regime dei tassi negativi imposti dalla Banca centrale europea e dal concorso ai salvataggi bancari. Così Fineco (ex banca online di Unicredit), ha annunciato che dal primo febbraio aumenterà le spese di tenuta dei conti correnti. Un drastico cambiamento di rotta che porterà 1,3 milioni di clienti a dover sborsare fino a 47,40 euro l’anno (il costo del canone mensile sarà di 3,95 euro) cui aggiungere anche i costi per i bolli. Importo che si potrà azzerare solo con una serie di operazioni come l’accredito dello stipendio o la rata del mutuo. “I due fattori che maggiormente hanno influito sul rincaro – ha scritto Fineco – sono la riduzione dei tassi d’interesse di mercato in un quadro di perdurante debolezza dell’economia (specie a livello europeo) e gli oneri incrementali connessi alla normativa in tema di tutela dei depositanti”. Ciò che dicono tutti gli istituti prima di comunicare l’ennesimo rialzo.

Quello che, però, appare chiaro è che la motivazione adottata dalla “banca che semplifica la banca” non trova giustificazione nei conti del gruppo, che sono in crescita. Come del resto quelli di tutti gli altri che, prima di Fineco, hanno dato via nel corso dello scorso anno al valzer degli aumenti. Tra le maggiori banche tradizionali, le due più convenienti offrono costi di poco inferiori a 100 euro l’anno: sono Mps con un Indicatore dei costi complessivi (Icc) dichiarato nei fogli informativi di 92,60 euro (stabile rispetto a 12 mesi fa) e Banco Bpm con 97,98 euro (+13,5%). La più cara, invece, è Intesa San Paolo a 204,80 euro (+2,5%), ma il cui conto è in promozione a 145,30 euro fino a giugno, come rileva Corsera. Seguono Bnl con il nuovo conto “Semplifica” a 184 euro (+10% dal precedente “PraticoNew”) e Unicredit a 178 euro con “Genius Gold” (+2%). Peggio, almeno come incremento, va ai clienti delle banche online: il rincaro di Banca Sella è del 115% sul 2019, CheBanca! si ferma al 68% e Fineco arriva all’85%.

Insomma, repricing che tutte le banche, in primis le big, hanno varato sia sui conti tradizionali che su quelli online per risollevare i propri margini sempre più compressi. Sostanzialmente il principio è chiaro: per rispondere ai tassi negativi della Bce (che le costringe a pagare per depositare la liquidità non impiegata presso Francoforte) le banche hanno deciso di scaricare i maggiori costi sui correntisti. La politica monetaria – indispensabile per tenere in piedi i cocci dell’eurozona – non è però l’unico argomento usato dagli istituti. L’altro sono i costi dei salvataggio bancari. Per la precisione sono i fondi versati al Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt), che garantisce i correntisti fino a 100 mila euro in caso di dissesto dell’istituto , ma che è anche lo strumento che il settore usa per soccorrere i gruppi in difficoltà.

A questo si aggiunge il fondo usato nel 2016 per Etruria e le altre banche mandate in “risoluzione” dal governo Renzi. Secondo l’Associazione bancaria italiana (Abi), tra il 2015 e il 2018 – escludendo dunque i salvataggi di Carige (700 milioni) e Pop Bari (per ora 300 milioni) – tra i contributi ai vari fondi, gli istituti italiano hanno speso 12,5 miliardi. Di questi, 6,4 sono andati al fondo di risoluzione, 3,3 al Fitd e 2,8 al fondo Atlante, quello messo in piedi nel 2017 per cercare di salvare le popolari venete (e che oggi rileva e gestisce i crediti deteriorati).

Da Unicredit a Ubi Banca, sono state le stesse banche nel corso degli ultimi due anni a usare i salvataggi come causa delle modifiche unilaterali. Come emerge dal monitoraggio di SosTariffe.it, i conti online hanno registrato nell’ultimo anno rincari medi del 29,44%, mentre quelli tradizionali del 27%.

Sono le coppie, con i conti cointestati, a dover sostenere una spessa maggiore: dai 45,31 euro dello scorso gennaio si passa ai 60,23 di quest’anno. Meglio va ai single, per i quali c’è stato un aumento di una decina di euro: si va infatti dai 35,03 euro di gennaio 2019 ai 45,14 euro di gennaio 2020 (+28,85%). Sul fronte delle banche online, spiega SosTariffe.it, i maggiori incrementi si devono al rincaro che hanno subito i bonifici disposti allo sportello, il cui prezzo è passato dai 2,91 euro ai 3,94 euro attuali (+29%), e il costo relativo al prelievo di contante allo sportello (+27%; si va da 2,31 euro a 2,93 euro). Sono, poi, aumentati del 10% anche il prelievo Atm presso un’altra banca e quello in uno dei Paesi dell’Ue, saliti entrambi da 1,02 euro a 1,12 euro. Va detto che qualche conto corrente gratuito esiste ancora, ma bisogna comunque pagare le tasse: è l’imposta di bollo di 34,20 euro all’anno per giacenze medie superiori a 5 mila euro.

Inchieste e appalti persi: Manital in ginocchio

Una lenta agonia sta avvicinando quello che resta della Manital – un tempo leader nel settore delle pulizie e dei servizi alle imprese – al 31 gennaio, quando il Tribunale di Torino potrebbe dichiararne il fallimento. E ora è anche al centro di un’inchiesta per truffa. Il 7 gennaio le azioni della società sono state poste sotto sequestro dal Tribunale di Ivrea.

L’indagine è partita dopo varie denunce, una presentata dall’ex titolare Graziano Cimadom, e si concentra sul passaggio dell’azienda nelle mani della I.G.I. Investimenti di Giuseppe Incarnato, avvenuto a ottobre 2019. La scorsa settimana la Guardia di Finanza ha perquisito la sede piemontese e quella romana.

Esiti giudiziari a parte, la decomposizione di Manital è ormai nei fatti. Ogni giorno perde appalti pubblici, dai quali finora è dipesa gran parte del fatturato. Il Natale dei suoi 10 mila dipendenti sparsi in tutta Italia è stato terribile: da mesi non ricevono gli stipendi. Incarnato aveva promesso di sistemare tutto entro il 20 dicembre, ma non ha mantenuto la parola. I più “fortunati” sono retribuiti direttamente dagli enti pubblici committenti con il meccanismo della sostituzione, prevista dal codice degli appalti, ma la maggior parte è a mani vuote. Al Fatto risulta pure che da tre giorni è scaduto il documento unico di regolarità contributiva (Durc) della Manital, quindi ora le amministrazioni dovranno pagare in surroga anche l’Inps e l’Inail. I lavoratori temono che gli enti diano priorità ai debiti previdenziali e assicurativi e i loro salari subiscano altri ritardi. Chi ancora ci lavora parla di un’azienda senza più nemmeno i mezzi per lavorare.

La società che gestiva gli adempimenti sul versante lavoro ha rescisso il contratto, quindi non sono state ancora elaborate le buste paga di dicembre e le tredicesime. Senza i cedolini, gli enti pubblici non possono far partire i pagamenti degli stipendi. Non c’è più nemmeno l’ufficio dei servizi informativi. Questo emerge dal racconto dei lavoratori, che stanno manifestando ogni giorno. Tra loro, c’è chi addirittura spera nel fallimento, che quantomeno farebbe chiarezza. Una situazione paradossale, se si pensa che Manital aveva (e in certi casi ha ancora) commesse da parte di ministeri, agenzie pubbliche, Poste, grandi aziende private e parastatali. Manital, sollecitata dal Fatto a dare spiegazioni, continua a non rispondere. Alcuni giorni fa ha chiesto un incontro ai sindacati, ma Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UilTrasporti hanno rifiutato vista “l’inaffidabilità” dell’azienda.

Nonostante la situazione sia esplosiva da tempo, al ministero dello Sviluppo economico non è stato mai aperto un tavolo di crisi per Manital. Quanto alla nuova proprietà, la I.G.I. Investimenti di Giuseppe Incarnato, non ha mai convinto: la società ha fatturato nel 2018 circa 70mila euro, non proprio un gigante in grado di far fronte alle difficoltà di Manital. I sindacati sono preoccupati dalle perdite 2018 (7,5 milioni) e dal pesante indebitamento (262 milioni) cumulato soprattutto nei confronti dei fornitori. Per non parlare della spada di Damocle di un contenzioso da 200 milioni con l’Agenzia delle Entrate per una cartella del 2003. Forse, per i suoi piani, Incarnato, imputati nel procedimento a Roma sul crac dell’Idi, l’istituto dermatologico del Vaticano di cui è stato direttore generale, sperava nello sblocco di 600 milioni di commesse pubbliche già assegnate con l’obiettivo di portare Manital a fatturare 450 milioni entro il 2024. Evidentemente, come sanno i lavoratori, ha fatto male i conti.

Parte da Tesoro e banda larga il giro delle poltrone giallorosa

In attesa del grande pranzo di primavera, i partiti di maggioranza hanno attaccato in questi giorni l’antipasto delle nomine. Certo, risultano ancora scoperti Garante della Privacy e Autorità per le comunicazioni, ma intanto tra martedì e ieri sera qualche poltrona è stata fraternamente divisa. Il Consiglio dei ministri, ancora in corso mentre andiamo in stampa, dovrebbe ratificare quelle per le agenzie fiscali del Tesoro, già anticipate ieri, che sembrano un capolavoro di equilibrismo. Partiamo dall’Agenzia delle Entrate, che rischiava di restare “senza testa” tra pochi giorni e che è chiamata a garantire al governo cospicui incassi da lotta all’evasione nei prossimi anni: torna da direttore il tributarista “renziano” Enrico Maria Ruffini, cacciato dai 5 Stelle durante il governo gialloverde e ora accettato – su proposta di Pd e Iv – in una classica logica di scambio. Al Demanio, infatti, va Marcello Minenna, dirigente Consob considerato vicino al Movimento e già assessore per pochi mesi con Virginia Raggi (si dimise, comunque, in polemica con la sindaca).

Anche il nuovo direttore dell’Agenzia delle Dogane – che dovrà affrontare la Brexit e i mega-incassi attesi dal contrasto alle frodi e al gioco illegale – è considerato “5 Stelle”, ma forse è più in quota Giuseppe Conte: si tratta di Antonio Agostini, che avrebbe superato la concorrente Alessandra Del Verme della Ragioneria generale dello Stato, dal 2017 al Dipartimento programmazione economica di Palazzo Chigi, già alto dirigente dei Servizi segreti e di diversi ministeri. La cosa curiosa è che questo funzionario, ritenuto vicino a Gianni Letta, fu attaccato duramente dai grillini quand’era al ministero dell’Ambiente: oggi lo mettono addirittura a capo delle Dogane (e dei Monopoli).

Martedì, quando si è sbloccata la partita delle agenzie fiscali, i 5 Stelle hanno incassato pure altre due poltrone: Marco Bellezza e Eleonora Fratesi sono stati nominati rispettivamente amministratore delegato e presidente di Infratel, la società del ministero dello Sviluppo che ha tra l’altro gestito i bandi (tutti presi da Open Fiber) per portare la banda ultra-larga nelle cosiddette “aree bianche”, quelle in cui nessun operatore di mercato investirebbe mai perché poco profittevoli.

Bellezza, avvocato esperto nel settore digitale, è stato finora consigliere all’Innovazione al Mise di Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli: per il via libera dell’assemblea Infratel, però, ha avuto la benedizione non solo del ministero, ma anche di Invitalia, la partecipata alla cui guida i 5 Stelle hanno precedentemente dovuto ingoiare la conferma di Domenico Arcuri, che avevano provato a far fuori per mesi.

In attesa del mega-piano sull’Italia digitale, ieri la ministra grillina Paola Pisano – a proposito di Infratel eccetera – ha potuto apprezzare quanto la faccenda sia complicata: al cosiddetto Cobul (il Comitato per la Banda ultra-larga che non si riuniva da mesi) ha appreso che gli investimenti nelle aree bianche che andavano portati a termine entro il 2020 forse lo saranno nel 2023. “È inaccettabile”, dice a sera il ministro delle Regioni Francesco Boccia, pugliese che pensa soprattutto all’effetto sugli investimenti nel Sud.

Anche su questo potrà avere un ruolo l’ex consigliere ministeriale (e prima legale di Facebook) Marco Bellezza: siede anche nel cda di Cdp Venture Capital Sgr a cui fa capo il Fondo innovazione da un miliardo voluto da Luigi Di Maio proprio per fare da volano alle imprese innovative nel Mezzogiorno. Come andrà a finire non si sa, ma è evidente che il M5S sull’Italia digitale sta puntando tutte le carte, anche se vuol dire, ad esempio, accettare un renziano alle Entrate.

La prof. che piace ai leghisti: “Sarà la Guazzaloca di Toscana”

Qualcuno nella Lega Toscana racconta che la folgorazione sia arrivata nel settembre del 2018, quando Matteo Salvini era rimasto colpito da un suo articolo pubblicato sul Messaggero dal titolo emblematico: “Perché l’Italia non è un Paese razzista”. Firmato: Ginevra Cerrina Feroni. La tesi dell’editoriale era che non solo il nostro Paese nel tempo non era diventato più intollerante nei confronti degli immigrati (“l’inadempienza delle istituzioni ha provocato sentimenti diffusi, più che comprensibili, di paura, di precarietà, di insofferenza”) ma soprattutto che fosse “sconcertante” l’accusa nei confronti dell’allora ministro dell’Interno di aver “indotto” il razzismo. “Chi è questa Cerrina Feroni?” aveva chiesto Salvini alla segretaria regionale della Lega in Toscana, Susanna Ceccardi, prima di ringraziarla pubblicamente con il solito tweet: “Una professoressa di Diritto costituzionale smonta la narrazione (sinistra) di un’Italia diventata ‘disumana e razzista’. Leggetela anche voi!”.

Da quel momento è iniziato l’avvicinamento, per non dire corteggiamento. Fino agli ultimi giorni: Salvini sta pensando a lei per riconquistare la Toscana dopo cinquant’anni di governi rossi. In realtà un contatto c’era già stato un anno fa quando il leader della Lega le aveva chiesto di correre a sindaco di Firenze, ottenendo il suo rifiuto nonostante andasse dicendo che “sui temi che la Lega sta portando avanti mi riconosco pienamente”: “Mi è stato chiesto, ma non sono candidata – aveva detto lei – voglio continuare a occuparmi della mia città da professore universitario”. Eppure oggi, anche se chi la conosce bene continua a ripetere che “non ha intenzione di candidarsi”, di fronte a una richiesta diretta di Salvini, difficilmente potrebbe dire di no. E il suo sarebbe l’identikit perfetto per provare a conquistare l’ennesima roccaforte rossa: “Cerrina Feroni sarebbe la Guazzaloca toscana”, spiega un esponente del centrodestra toscano.

Cinquantaquattro anni, nata a Livorno e figlia di un deputato del Pci, Cerrina Feroni non è solo una delle più stimate costituzionaliste toscane, ma è anche molto inserita nei salotti della città che contano, con ottimi rapporti nel mondo cattolico fiorentino: è nel comitato scientifico della Fondazione Magna Carta dell’ex parlamentare berlusconiano Gaetano Quagliariello, che riunisce molti intellettuali del pensiero cattolico italiano. La professoressa Feroni poi conosce molto bene anche il suo ex collega e oggi premier Giuseppe Conte, ma è molto stimata anche nel Giglio magico di Matteo Renzi, grazie ai rapporti con l’avvocato Alberto Bianchi. I due sono entrambi allievi del costituzionalista Alberto Predieri: Bianchi è stato il suo collaboratore principale e nel 2001, dopo la sua morte, ha aperto lo studio legale “Alberto Bianchi e Associati” finito di recente sulle cronache nazionali per l’inchiesta della Procura di Firenze sulla fondazione Open. Cerrina Feroni invece dal 2014 è vicepresidente della Fondazione “Alberto Predieri”, un centro studi che si occupa dei temi giuridici legati all’attualità.

Negli ultimi mesi, il suo attivismo a favore di Salvini su Twitter (condivide regolarmente i tweet dei leghisti Alberto Bagnai e Claudio Borghi) e sui giornali (Il Dubbio e Il Giornale) ha insospettito in molti. Solo per parlare degli ultimi temi, a inizio dicembre definiva “aberrante” la riforma Bonafede sulla prescrizione perché così “si scarica sui presunti innocenti l’endemica patologia di un sistema giudiziario malato. Vergogna assoluta”, cinguettava adirata. Mercoledì, invece, ha scritto un editoriale in prima pagina sul Giornale contro il possibile processo a Salvini sul caso Gregoretti: una “deriva illiberale” e “un’ombra inquietante” sul voto in Emilia: “Far fuori, non per via politica ma per via giudiziaria, l’ex alleato di governo”, ha scritto la costituzionalista. Stavolta Salvini non l’ha retwittata. Presto però potrebbe chiederle di candidarsi.