La morte dei fatti: stimare il latitante non è obbligatorio

Non è del tutto chiaro quale sia il gesto che la figlia di Craxi si aspetta dal presidente Mattarella. Se una cerimonia pubblica che nobiliti un politico condannato fra il ’96 e il ’99 per corruzione e finanziamento illecito, e fuggito nel ’94 a Hammamet per sottrarsi alle imminenti sentenze. O se quel che si chiede è un sovvertimento linguistico che sostituirebbe il termine latitante con quello di esule, cambiando non solo una biografia ma la storia italiana postbellica.

Craxi ridefinito esule certificherebbe la natura liberticida di uno Stato da cui il leader socialista non poteva che emigrare, se voleva salvare la democrazia costituzionale. Attesterebbe la presenza di una giustizia forcaiola, l’invalidità generalizzata delle sue sentenze. Anche qualora il potere giudiziario avesse commesso errori negli anni 90, e certamente ne commise, la sua legittimità verrebbe devastata.

A vent’anni dalla morte di Craxi ancora si discute del suo status – latitante o rifugiato? – e la piena riabilitazione è invocata dai molti che in questo lasso di tempo hanno imitato i suoi modi di far politica: solitari, spesso brutali, martirologici quando si profilavano indagini giudiziarie. Primum Vivere era il suo motto e voleva dire: la politica è un’avventura di visibilità che deve sopravvivere a ogni costo, e la sua molla è un vittimismo costante, clanico, pregiudizialmente ostile ai giudici. I fatti evaporano, diventando opinioni e in quanto tali discutibili. Regna non l’autonomia della politica, ma l’autonomia delle tavole rotonde tra giornalisti. Evapora anche la sentenza della Corte europea dei diritti umani, che nel 2002 ritenne il comportamento dei giudici conforme al diritto italiano.

Questo non significa negare le novità che Craxi incarnò con le sue politiche. Novità che nella sostanza sono due: l’atteggiamento tenuto durante il rapimento di Moro nel ’78, e il gesto di indipendenza dagli Stati Uniti (spettacolare anche se effimero) nella vicenda di Sigonella dell’85.

Premetto che, nel caso Moro, non aderii al partito della trattativa guidato dal Psi, ma col passare dei mesi e degli anni mi sono convinta che la linea di Craxi (e probabilmente di Paolo VI) era giusta e avrebbe forse salvato la vita di Moro con danni ben minori di quelli prodotti da un assassinio che gli anti-trattativisti precipitarono.

Il secondo caso è più che complesso: un gruppo di terroristi sequestrò la nave di crociera italiana Achille Lauro ed eseguì un misfatto che nessuna battaglia contro l’occupazione della Palestina poteva giustificare: Leon Klinghoffer, passeggero Usa ebreo e paraplegico, venne ucciso e gettato in mare. Interpellato da Craxi, Arafat si disse ignaro dell’operazione e mandò Abu Abbas come mediatore, anche se in seguito un tribunale italiano lo condannò in contumacia come artefice del sequestro (basandosi tuttavia solo su documenti americani e israeliani). La tensione fra i due alleati quasi sfociò in una colluttazione militare, nella base di Sigonella, tra le forze italiane e i soldati Usa accorsi per catturare subito sia i dirottatori sia Abbas. Craxi non tollerò l’incursione extraterritoriale e difese il negoziato in corso con Arafat. La polizia prese in custodia i dirottatori ma non Abbas, imbarcato in un aereo jugoslavo perché non ritenuto a quel tempo autore o mandante del sequestro. Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non erano in blocco terroristi, secondo Craxi. Su Israele e la Palestina occupata egli aveva una posizione autonoma, come l’ebbero altri statisti tra cui Moro.

Quel che crea turbamento, nella beatificazione di Craxi, è qualcosa di più profondo: è l’uso perverso che viene fatto, per fini politici contingenti, di personalità che vengono fatte parlare post mortem, e fagocitate cannibalescamente tramite riscrittura di particolari segmenti della loro storia. Fagocitate indistintamente da familiari e non familiari, in una confusione di ruoli che trasforma la giustizia in ordalia clanica tra consanguinei. È un vizio che da noi assume proporzioni grottesche: del defunto si fa subito un santino o parente stretto. È il caso di Craxi, ma in qualche modo anche del giornalista Giampaolo Pansa, nonostante le radicali differenze fra le responsabilità dell’uno e dell’altro. Ambedue sono osannati appena defunti e strumentalizzati per accendere polemiche, senza un interesse vero a quello che nell’arco di una vita hanno fatto o scritto (la sostanziale equiparazione tra violenze dei partigiani e violenze di Salò, negli scritti di Pansa degli ultimi 17 anni). Questa è, da noi, la “memoria condivisa”.

Ma torniamo a Craxi: di lui si ricorda oggi Sigonella, ma si dimentica che se fuggì fu perché sentiva venire condanne definitive, alla fine della legislatura quando la sua immunità sarebbe venuta meno. Non scandalizza che venga canonizzato da chi sempre lo sostenne: è segno di coerenza. Non coerenti sono i politici e giornalisti che ieri s’indignarono per la latitanza e oggi ammutoliscono imbarazzati. È come se fosse ormai un dato acquisito che in Italia esiste una dittatura dei giudici, che Craxi non poteva venire in Italia per curarsi e che non è cosa giusta difendersi nei processi e scontare le pene. Altre spiegazioni sono difficili da trovare.

Strano e opaco è il rapporto dell’Italia con il proprio passato. Non vi è stato, da noi, il lavoro sulla memoria storica avvenuto in Germania. Basti ricordare l’abbraccio di Andreotti al maresciallo Graziani, responsabile delle stragi in Etiopia e reduce di Salò, nel maggio del 1953. In Italia molto cattolicamente non si espia, ma si assolve con qualche Ave Maria e processione. E a forza di assolvere si crea appunto “memoria condivisa”: immenso malinteso di chi vuol abolire i conflitti ineliminabili per meglio attizzare conflitti evitabili.

In un articolo sul sito jacobin.italia, Luca Casarotti rievoca una frase illuminante contenuta in una sentenza pronunciata nel 2004 dalla Cassazione, a proposito del reato di diffamazione: “Non è obbligatorio stimare qualcuno”. Invece sembra essere obbligatorio stimare o riabilitare, se si vuol far parte della gente invitata in Tv per condividere memorie. La frase è riferita ai libri di Pansa, ma funziona molto bene per Craxi.

L’unica cosa che non torna, in questa bulimica fagocitazione dei corpi, è l’ammirazione che continua a circondare Enrico Berlinguer. Non si può beatificare al tempo stesso chi fu condannato per corruzione, e chi negli anni 80 auspicava una società che non fosse un “immondezzaio”.

C’è posta per Sala: mozione 5Stelle per la via a Borrelli

Una mozione per chiedere al sindaco di Milano, Giuseppe Sala, di avviare l’iter per intitolare una strada a Francesco Saverio Borrelli. Mentre è aperta la petizione promossa dal Fatto Quotidiano, che sulla piattaforma Change.org ha già quasi raggiunto le 20 mila firme in 24 ore, il Movimento 5 Stelle ha presentato in Consiglio comunale l’atto ufficiale con la richiesta al primo cittadino e alla sua giunta: “Intraprendere l’iter per l’intitolazione di una via o una piazza della città” al magistrato simbolo di Mani Pulite, scomparso lo scorso 20 luglio.

I 5Stelle, nel documento, spiegano che Borrelli “rappresentò e rappresenta l’icona della lotta contro la corruzione, una figura di Procuratore capo garante non dei poteri ma dei diritti. E avviò una delle più decisive stagioni di inchieste sulla corruzione e sui rapporti illeciti politica-affari della storia italiana”.

La mozione fa presente al sindaco che l’intitolazione di vie o piazze alle persone decedute da meno di 10 anni che si sono distinte per particolari benemerenze è consentita da una deroga della legge che regola le intitolazioni.

L’iniziativa potrebbe aprire un dossier inedito, magari contrapponibile a quello che in questi giorni ha visto la “beatificazione” a reti unificate dell’ex leader socialista Bettino Craxi. Cosa faranno, infatti, le forze politiche milanesi rispetto alla proposta dei 5Stelle una volta che sarà portata all’attenzione dell’aula? E, soprattutto, come si porrà il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che nei giorni della commemorazione di Craxi, aveva messo sul tavolo la proposta di una targa in suo onore? Se Craxi ha diritto a una targa, cosa deve spettare a uno dei simboli, se non altro per milioni di italiani, di un’Italia in lotta contro la corruzione?

Intanto la petizione del Fatto continua, ed è possibile firmare sul nostro sito. Perché proprio ora una campagna per intitolare una strada a Borrelli? La risposta è nel testo della petizione stessa, che nasce dalla proposta di un lettore: “Mentre una vergognosa campagna politica-mediatica tenta di riabilitare il pregiudicato latitante Bettino Craxi, a cui molti suoi simili vorrebbero dedicare una via di Milano, chiediamo al Comune di onorare con l’intitolazione di una strada della città l’ex procuratore capo ed ex procuratore generale Francesco Saverio Borrelli, integerrimo servitore dello Stato e simbolo di un’indimenticabile stagione di riscatto morale e civile: quella di Mani Pulite”.

Le dichiarazioni dei firmatari sono sintonizzate su questa impostazione: “Le strade vanno intestate a personaggi di alto spessore morale e civile, degni di essere ricordati per i loro meriti, le loro lotte e il loro impegno. Provo orrore a veder onorati, in egual misura, pregiudicati e condannati che meritano solo il nostro disprezzo” scrive Fulvia Borsi. Per Antonio Petrella, Borrelli è stato “un vero servitore dello Stato” mentre Giorgio Andreucci lo definisce “il simbolo dell’Italia pulita”. Maria Teresa Vasi è più diretta: “Per passeggiare con orgoglio in via Borrelli senza dover evitare via Craxi”.

E poi sono in tanti a ricordare il motto con il quale Francesco Saverio Borrelli è destinato comunque a essere ricordato, via o non via in suo onore: “Resistere, resistere, resistere”.

Tre donne in corsa (e una è anti-Luigi)

Nel bel mezzo dei tumulti ai vertici del Movimento 5 Stelle, anche la scelta dei candidati governatori per le regionali in Liguria, Puglia e Toscana diventa emblema della trasformazione in atto. Nei ballottaggi di ieri gli iscritti a Rousseau hanno infatti votato chi correrà alla presidenza in primavera, scegliendo tra filosofie e linee politiche ben diverse. E il risultato più clamoroso arriva dalla Toscana, dove Irene Galletti, consigliera uscente, stacca di 15 punti il capogruppo in Regione Giacomo Giannarelli. Uno schiaffo alla linea del leader dimissionario Luigi Di Maio, di cui in questi anni Giannarelli è stato emanazione locale con conseguenti oneri e onori: apprezzato per alcuni risultati ottenuti – i 5 Stelle hanno conquistato la sua Carrara – ma criticatissimo dagli attivisti per la gestione oligarchica del Movimento.

Di Maio, con scelta irrituale, aveva provato a blindare lui e gli altri suoi fedelissimi in Liguria e Puglia fissando il voto per i governatori su Rousseau prima di quello per i candidati consiglieri. Mossa che non è sfuggita ai suoi oppositori interni e che è stata presa come un’accelerata per mettere mano agli aspiranti presidenti pur da leader uscente. La strategia, fallita in Toscana, ha comunque funzionato in Puglia e in Liguria, dove a imporsi sono due dimaiane di ferro come Antonella Laricchia e Alice Salvatore.

La Laricchia, capogruppo negli anni all’opposizione di Michele Emiliano, supera Mario Conca di 400 voti (il 57 per cento contro il 43), mentre alla Salvatore bastano 541 clic per imporsi su Silvia Malivindi (58 a 42 per cento). Percentuali che comunque somigliano a una spaccatura a metà non solo in termini di voti, ma anche come modo di intendere il Movimento per il futuro. In ballo c’è infatti l’eventuale accordo con il centrosinistra in entrambe le Regioni: se in Toscana resta impossibile – Giani, il candidato renziano, è inviso persino a parte della sinistra – in Liguria e in Puglia qualche buona premessa ci sarebbe, a patto di riconsiderare la scelta dem del presidente uscente Emiliano. La Salvatore e la Laricchia però, come da linea Di Maio, ambiscono alla corsa solitaria. Sempre che da qui alla primavera non sia il nuovo corso nazionale dei 5 Stelle a decidere per loro.

Il piano del “regista” Di Maio: Di Battista e Appendino capi

L’ex capo non si vede più come centravanti, non adesso. Ma la maglia numero dieci sì, quella la pretende. “Ora Luigi ha voglia di fare il regista” sussurra un parlamentare il giorno dopo l’apocalisse, cioè dopo le dimissioni da capo politico di Luigi Di Maio, dopo “la fine di un’era” come l’ha definita lo stesso ministro a cui non manca l’autostima. Il 33enne già progetta una nuova fase a 5Stelle, da avviare a cavallo degli Stati generali di marzo. Da concretizzare poi, in primavera inoltrata. Sempre con lui al centro della partita, ma con un ruolo e uno schema diversi. In un Movimento che non lo avrà più come capo politico.

Perché Di Maio sa che il numero uno si prende i sorrisi e le luci delle tv, ma pure ogni rogna e ovviamente tante “pugnalate alle spalle”, come ha accusato mercoledì dal suo ultimo palco da capo. Si è stancato dei mille siluri interni, e poi “vuole tornare a fare politica, con la testa e le mani più libere” spiegano. Così ha deciso di dirigere il gioco un po’ più da dietro, nel nuovo M5S che nei suoi piani non dovrà più avere un solo capo, un leader massimo, ma una diarchia, con un uomo e una donna. E assieme a loro, una ristretta segreteria politica, “un cordone di protezione” come riassume un altro dimaiano doc. Però si deve partire dal vertice, dai due nomi che il fu leader vorrebbe lassù. E il primo è già uscito ovunque, è quello della sindaca di Torino Chiara Appendino, che però nutre molti dubbi, e lo ha già detto allo stesso Di Maio nell’incontro della scorsa settimana a Palazzo Chigi, in cui il ministro le ha spiegato il suo progetto.

L’altro vertice invece sarebbe Alessandro Di Battista, proprio l’ex deputato a cui mercoledì il ministro, senza citarlo, ha riservato un passaggio al cianuro, quello contro “chi è stato nelle retrovie senza prendersi responsabilità”. Così l’hanno interpretato tutti e ieri, a pomeriggio inoltrato, lo staff di Di Maio ha emanato l’ennesima smentita delle ultime due settimane, “smentendo categoricamente” che quelle parole fossero per Di Battista, “che Di Maio considera un amico”. Non è così. Però l’ex capo non può fare a meno di Di Battista per il progetto che ha in testa, quello di un Movimento come polo equidistante dal centrodestra come dal centrosinistra. “Un M5S stile 2013” riassumono, fortemente identitario, barricadero quando servirà. A cui serve come l’ossigeno Di Battista per ricompattare attivisti ed elettori storici.

Così le frecciate di mercoledì di Di Maio vengono derubricate a segnale: “Forse Luigi voleva dire ad Alessandro che deve cambiare registro”. Ma il punto resta la collocazione politica, ossia il no di Di Maio a qualsiasi ipotesi di un M5S inserito nel centrosinistra in modo strutturale. Anche se è la rotta che vorrebbe il premier Giuseppe Conte e che da cinque mesi indica anche Beppe Grillo. Però Di Maio e Di Battista vogliono tornare lì, all’autonomia da nave corsara.

Lo avevano detto al fondatore anche quella domenica di agosto in cui provarono a fermare il governo con i dem, e invece vinse il Garante. Ma ora le dimissioni di Di Maio possono rimescolare tutto. E d’altronde non è affatto un dettaglio che il ministro si sia tolto la cravatta sul palco, come chiosa simbolica del suo discorso. Voleva ribadire anche visivamente che si dovrà tornare al passato, quando nessuno nel M5S aveva la cravatta, tranne lui. Però senza esagerare, perché per esempio sulle grandi opere ha esortato a un cambio di approccio, cioè a non condannarle a prescindere. Anche per questo tornerebbe utilissima Appendino, amministratrice che deve essere pragmatica, del Nord, insomma la metà perfetta di Di Battista. Però è tutta da costruire questa strada, perché anche l’ex deputato va convinto. Dopo lo strappo per l’espulsione di Gianluigi Paragone, l’amico che Di Battista ha difeso, è stato l’ex parlamentare a riavviare i contatti con Di Maio dall’Iran. Ma ora deve capire moltissime cose. Per esempio cosa saranno gli Stati generali che l’ex capo vuole sterilizzare evitando la conta, cioè un vero Congresso. Oppure cosa ne pensa di tutto questo Grillo, il fondatore che continua a tacere. Nell’attesa, ieri Di Maio è apparso (senza cravatta) a Bologna, per un fioco scampolo di campagna elettorale. “Ai cittadini interessa poco il dibattito interno ma quello che vogliamo fare per loro” ha teorizzato di fronte a un po’ di militanti.

L’importante per lui era dimostrare che in Emilia Romagna ci è andato, nonostante tutto. Però colpisce di più un passaggio del Guardasigilli Alfonso Bonafede, ieri sera a Otto e mezzo: “Di Battista è una risorsa indispensabile per il Movimento”. E non erano solo parole di circostanza.

I dem lavorano per sostituire Salini e Foa

Preoccupato, furibondo, nervoso. Nel Pd monta l’insoddisfazione nei confronti della Rai. L’apparizione di Matteo Salvini nell’anticipazione della sua intervista a Porta a Porta, durante l’intervallo della partita Juventus-Roma, fa saltare ulteriormente i nervi ai dem.

Viene letto come l’ennesimo sgarbo nei confronti del partito, l’ennesima dimostrazione di mancanza di parità tra il trattamento riservato alla Lega e quello utilizzato nei confronti del Pd. E “il riequilibrio” disposto dal direttore di Rai 1, Stefano Coletta, che ha disposto un intervento di Nicola Zingaretti, durante il primo break di Don Matteo, ieri sera, non basta.

Nell’accusa di mancanza di pluralismo in Rai a vantaggio di Salvini, in settimana era finito nel mirino anche Cartabianca, che aveva ospitato il leader della Lega. E poi si fa notare che da Vespa mercoledì sera non c’è stato solo l’intervento di Salvini, ma anche Giancarlo Giorgetti.

“È una cosa clamorosa. Come lo era anche su Rai3 la sera prima. Il servizio pubblico non ha fatto bene il suo mestiere. Servirebbero sanzioni”, attacca Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, ricandidato al bis.

Sono settimane che i Dem vanno all’attacco della gestione del Direttore generale, Fabrizio Salini, scelto, insieme al presidente, Marcello Foa, dal Conte 1. La strategia, che prende forma ai piani alti del Nazareno, è fare leva sul piano industriale non attuato sulle “manchevolezze” dei vertici di viale Mazzini, per arrivare alla sostituzione dei due. D’altra parte è il ministero dell’Economia che può sfiduciarli. Ma questo coinvolgerebbe tutto il Cda, che verrebbe azzerato. La tentazione c’è da mesi. Ma potrebbe essere troppo tardi: se Bonaccini perde, nella migliore delle ipotesi il governo si indebolisce, nella peggiore si va ad elezioni.

Ieri, intanto, la consigliera di amministrazione in quota Pd, Rita Borioni, ha chiesto in una lettera aperta all’ad Fabrizio Salini “un intervento immediato e netto per riportare la Rai al rispetto degli obblighi di pluralismo e delle condizioni di parità di accesso, trattamento e imparzialità tra tutte le forze politiche”. Nella lettera, Borioni cita l’intervista di Salvini, ma anche “la reiterazione dei richiami di AgCom sulle criticità nella rappresentazione delle diverse forze parlamentari nei notiziari di diverse televisioni nazionali. AgCom aveva già segnalato la questione a fine novembre chiedendo che nell’attuale trimestre avvenisse un riequilibrio tra le forze politiche. Cosa che non è avvenuta”. Come spiega Francesco Verducci (membro della Commissione di Vigilanza) “va convocata con urgenza la Commissione di Vigilanza per valutare un atto di intervento nei confronti della Rai concessionaria del servizio pubblico per violazione del pluralismo”.

La toppa per Zinga non ripara il buco di Salvini da Vespa

Ieri Rai1 ha annunciato un intervento di Zingaretti durante le puntate di don Matteo. Un lettore distratto avrà pensato a un esperimento tra (Luca) Zingaretti in commissario Montalbano e Terence Hill in don Matteo. Invece la faccenda era seria e con la dovuta serietà, siccome il centrosinistra e il centrodestra si contendono l’Emilia Romagna con le elezioni di domenica, Viale Mazzini ha inoculato Nicola Zingaretti in una pausa di don Matteo per riparare all’errore (errore?) di Porta a Porta che mercoledì ha offerto un comizio di quaranta secondi a Matteo Salvini nell’intervallo di Juve-Roma di Coppa Italia. Come ogni sera, Vespa ha lanciato la trasmissione con un’anteprima, ma l’altro giorno, a differenza di martedì col segretario dem Zingaretti in coda a Napoli-Lazio, Salvini ha usufruito di uno spazio più simile a una chiusura di campagna elettorale, una sorta di appello al voto, anziché di un’asettica presentazione.

Vespa ha attribuito la svista alla redazione, si è assunto la responsabilità e poi ha suggerito a Stefano Coletta, il direttore di Rai1, di riequilibrare l’eccesso di Salvini con un’apparizione di eguale misura, si presume non di eguale efficacia mediatica, di Nicola Zingaretti. Il fattaccio su Salvini è accaduto in una Rai1 appena ricollocata nel centrosinistra con Coletta dopo la rimozione di Teresa De Santis, senz’altro più affine al centrodestra; tant’è che Coletta, proveniente da Rai3, prima del ribaltone del Papeete di Salvini rischiava di finire a spasso. Quindi ipotizzare una congiura di Rai1 contro Zingaretti, cioè contro il governatore uscente Bonaccini, è una baggianata. Almeno per la logica. E neppure consultare gli aruspici per scovare trame di Vespa ha senso, perché Vespa il governativo dovrebbe sfidare il centrosinistra che comanda in Rai con una scorrettezza così vistosa?

Più facile credere o a un eccesso di salvinismo dentro Porta a Porta oppure a una valutazione sbagliata nel mostrare Salvini in collegamento, mentre Zingaretti martedì era in studio nella sua solita compostezza. Il caso non può avvalersi subito di un incidente probatorio – l’amministratore delegato Salini ha ordinato un’istruttoria – però va illustrato con le sue dimensioni, che non sono piccine. Quando Salvini ha preso la parola da Vespa, verso le 21:40, su Rai1 erano sintonizzati 261.000 elettori emiliani su 3,5 milioni aventi diritto e 132.000 calabresi maggiorenni – si vota anche in Calabria – su 1,5 milioni. Nessuna piazza ha garantito a Salvini una platea del genere, soprattutto perché formata da ragazzi che non guardano i programmi d’informazione, prerogativa dei pensionati. Non sono offese gratuite bensì statistiche Auditel. Il martedì di Napoli-Lazio, in modalità diversa e in finestra identica, Zingaretti è apparso davanti a 209.000 elettori emiliani e 109.000 calabresi.

Nel centrosinistra non c’era consenso unanime nel mandare Zingaretti a cucire la toppa di Vespa, non soltanto per una questione di telegenia, ma perché il petto a petto con Salvini è perdente e oscurare il reale duello tra Stefano Bonaccini e Lucia Borgonzoni è un favore al centrodestra. Il segretario non ha accolto i consigli né di Matteo Renzi, non proprio ascoltato per motivate ragioni al Nazareno, né di Bonaccini che non trae forza decisiva dalla spinta dei democratici.

Nel delirio che precede l’apertura delle urne, il Pd ha invocato severe sanzioni di Agcom, l’Autorità di controllo per le comunicazioni che vigila sulla legge per la par condicio. Punizione esemplare, per chi? Non per Vespa, che è un fornitore esterno. Non per Salvini, che era un ospite. Per le casse di Viale Mazzini, che sono finanziate in gran parte con il canone pagato dai cittadini. Con solerzia Angelo Cardani, il presidente Agcom, ha fatto sapere che lunedì, a babbo morto, il consiglio dell’Autorità si riunirà per esaminare il problema. Cardani s’è comportato da signore, poteva ricordare a Zingaretti e compagni e all’intero parlamento che i vertici di Agcom sono scaduti a luglio e vanno avanti a colpetti di proroghe perché la politica non riesce a spartirsi le poltrone. Che provino con quelle di colore bianco. Come Porta a Porta, che sta lì da un quarto di secolo.

Il leghista sciacallo del dolore usa pure Tommy, ma fa flop

Nessun simbolo della Lega, poche le bandiere di partito e ancora meno i politici o i candidati presenti. È il comizio più atteso e discusso di questa infinita campagna elettorale di Lucia Borgonzoni, in corsa per diventare la prima presidente leghista dell’Emilia-Romagna, ma non sembra. La piazza di Bibbiano, comune simbolo dell’inchiesta sulla presunta mala gestio degli affidi, non si scalda e non si riempie come avrebbe auspicato il Carroccio. Di fronte alla sede del Municipio, al massimo saranno presenti mille persone, incluse le decine e decine di giornalisti. Inviati del quotidiano Le Monde, corrispondenti dall’Olanda e dalla Spagna, tutti in cerca dello show di Matteo Salvini. “Questa non è una serata di partito ma una serata che dovrebbe riunire tutte le persone perbene perché quando si tratta di difendere i bambini dovremmo essere tutti uniti. I protagonisti saranno solo mamme, papà e bambini. Ci sono centinaia di vittime di ingiustizie, noi abbiamo chiesto a cinque testimoni di parlare a nome di chi non c’è più”.

Storie tragiche, di famiglie separate dai propri figli per una valutazione, forse, troppo affrettata ma che nulla hanno a che vedere con l’inchiesta “Angeli e Demoni” aperta dal procuratore capo di Reggio Emilia Marco Mescolini e dalla pm Valentina Salvi. È il dolore a sfilare sul palco oggi, non i programmi per la Regione o la politica. Quella, forse, è a pochi metri di distanza, con le sardine in piazza Libero Grassi. “Abbiamo aperto il vaso di Pandora, c’è un sistema e noi siamo le vittime, con Salvini ci siamo sentiti protetti, finalmente abbiamo sentito lo Stato vicino” racconta dal palco una delle madri testimoni. Così come successo sul palco di Pontida, storica kermesse leghista, su cui salì “Greta di Bibbiano”, una bambina in realtà lombarda.

C’è anche Sara De Ceglie, la mamma, in piazza con lo striscione della sua associazione “Bambini strappati”. A pochi metri campeggia anche il cartello “Comunisti ladri di bambini” mentre una signora agita una croce e inveisce contro “il gender”. Il vero nemico sembrano le unioni civili e gay, contro cui anche la candidata Borgonzoni si è scagliata nel suo programma promettendo la cancellazione della legge contro le discriminazioni e le violenze determinate dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere.

Non è un caso che uno dei, pochi, politici presenti in piazza Repubblica sia Mirko De Carli del Popolo della Famiglia, alleato per le prossime elezioni. C’è anche Massimo Casanova, proprietario del Papeete ed eurodeputato eletto con il più alto numero di preferenze tra i leghisti alla scorsa tornata elettorale, e l’ex ministro Roberto Calderoli. Sul palco non salgono, lo spazio è solo per le famiglie spezzate.

Come quella di Tommaso Onofri, rapito e ucciso nel 2006 a Parma per chiedere un riscatto. “Mi sento vicina ai bambini di Bibbiano, hanno usato il nome di mio figlio nelle loro relazioni false, ma lui e noi non c’entriamo nulla, Matteo mi ha dato la possibilità di sfogarmi e spero che tutti insieme possiamo cambiare qualcosa” ha gridato Paola Pellinghelli, la madre. Nelle carte dell’inchiesta “Angeli e demoni” è emerso come Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza indagata, avrebbe usato il nome del piccolo Tommy per convincere i suoi sottoposti dell’esistenza di una rete di pedofili satanisti: tra le vittime, secondo Anghinolfi, ci sarebbe stato anche lui. Un fatto non vero e privo di alcun fondamento. “Ci sono oltre 26 mila bambini lontani, spesso per motivi giustificati ma se anche uno solo fosse lontano senza motivo allora è dovere di un popolo civile riportarlo a casa. Dobbiamo differenziare sull’accordo condiviso, mamma e papà possono anche litigare ma i bambini devono rimanere con le famiglie. Massimo disprezzo per quelle strutture che sui bimbi hanno fatto i soldi, viva Bibbiano e sappiate che sono pronto a dare la vita per riportare a casa questi bambini, giù le mani dai bambini” è la chiusa del leader leghista: l’unica che scalda la piazza.

A sentire le voci dei presenti sono pochi i bibbianesi autoctoni. Il paese sembra deserto, post evacuazione, i residenti scomparsi, chiusi nelle proprie case. “Qui siamo comunisti e ne andiamo fieri, sono uscito da casa solo quando ho visto che Salvini se ne era andato”. L’amico vicino sorride ma non conferma: “Dicono così ma poi votano Lega nel segreto dell’urna”.

Due giorni di attesa e lo sapremo. Nel frattempo Salvini, dopo la piazza del reggiano e aver esaurito la coda per farsi il selfie con lui, si è diretto a gran velocità alla discoteca bolognese Matis per concludere la serata. Da Bibbiano alla disco, tutto nella stessa serata. L’ennesima prova della strumentalizzazione vista ieri.

Le Sardine ribattono Salvini 5 mila in piazza contro mille

“Mattia, mattia, vieni qua”, gli urla dalla transenna una signora con un vistoso scialle rosso mentre Mattia è assediato dalle luci delle telecamere. “Vieni, vieni a farti dare un bacio, potresti essere mio nipote”, dice prendendolo dolcemente per un braccio e tirandolo a sé. Poi gliene schiocca uno su una guancia e gli dà una benedizione che sa di avvertimento: “Mi raccomando, guarda che noi in voi ci crediamo”. Santori sorride, tra il compiaciuto e l’imbarazzato, e poi continua a stringere mani. La signora Angela viene da Reggio Emilia, “ma l’età non te la dico”, sorride.

Scivola leggera verso quota 70, Angela, ma non è sola. Si è fatta gli 80 chilometri che la dividono da Bibbiano per essere in piazza Libero Grassi con le Sardine, il movimento nato dall’idea di quattro giovani (tra i quali il beneficiario del bacio), ma attira gente di ogni età. Tra la folla, anche in prima fila, spuntano occhiali spessi e teste imbiancate. Sono gli abitanti della cittadina emiliana stravolta dall’inchiesta sui presunti abusi nell’affidamento dei minori, ma sono arrivati da tutta la regione per questo secondo derby tra le Sardine e la Lega dopo quello disputato il 14 novembre a Bologna.

Le dimensioni rispetto ad allora sono, per forza, differenti. C’è un migliaio di persone a stringersi nei giacconi in piazza della Repubblica, dove il leader della Lega ha portato cinque madri a raccontare il dolore di vedersi strappare un figlio senza un perché. “Ma noi qui siamo quattro volte tanto, direi che sfioriamo le 5 mila”, dice soddisfatto Alessandro Maffei, rappresentante del movimento in Piemonte, da dove viene, ed Emilia, dove studia. È il popolo della sinistra che vede in questi questi ragazzi una speranza di scrollarsi di dosso un torpore che dura ormai da troppo tempo.

“Noi offriamo un’alternativa contro chi fa del populismo intriso di odio la propria offerta politica – spiega Youness Warhou, volto internazionale di questo movimento che ha tra gli obiettivi l’abolizione dei decreti sicurezza – A chi ci rimprovera di non averne una rispondiamo che siamo in una fase in cui facciamo richieste alla politica. Ne vogliamo una che sia capace di confrontarsi sui temi e sulla competenza e ci rifiutiamo di arrenderci a un dibattito in cui ha spazio solo chi grida allo scandalo”. “Hanno portato un po’ di figuranti sul palco per strumentalizzare un caso giudiziario – scandisce con perfetto tempismo Santori dal palco – e hanno consegnato un’intera comunità in pasto al sistema mediatico. Bibbiano è nostra da oggi, anzi è vostra”, conclude scatenando l’applauso conclusivo.

L’entusiasmo non nasconde i pensieri sul futuro, su cosa questi ragazzi vogliono diventare da grandi. Nati per chiedere una politica nuova, il loro Dna si è strutturato attorno a un vecchio escamotage, l’individuazione di un nemico. Il loro è Matteo Salvini: vogliono combatterne il linguaggio e il vuoto di contenuti, ma il rischio – come fu per altri partiti e movimenti con Berlusconi – è restare solo oppositori e perdersi i problemi delle persone. “È vero – risponde Santori al Fatto – infatti già a Bologna e a Roma abbiamo cominciato a staccarci da questa prospettiva effettivamente angusta. L’antiberlusconismo ha creato il mostro, lo stallo in cui versa questa sinistra, ne siamo consapevoli, e non vogliamo fare lo stesso errore”. La consapevolezza è preziosa, ma non basta: “Infatti passeremo il mese di febbraio, una volta posato il polverone delle Regionali, a raccogliere i idee dai territori per arrivare il 14 e 15 marzo a Scampia e metterle insieme, per capire quello che vogliamo fare e essere. Lì capiremo, ma la svolta c’è già stata”.

Il primo passo per diventare grandi arriverà al “congresso” convocato nella periferia simbolo di tutte le periferie, ma ora c’è il 26 gennaio, c’è l’Emilia-Romagna da non consegnare alla Lega. I sondaggi che circolano non fanno dormire sonni tranquilli e questo flusso di energia civica che non è ancora diventato movimento comincia a porsi delle domande sul proprio futuro: “Noi ce l’abbiamo messa tutta – dice qualcuno sotto al palco – ma se fossero veri i sondaggi che circolano vorrebbe dire che qualcuno ha fatto di tutto per consegnare l’Emilia a Salvini. Lui s’è presentato facendo il martire, noi gli abbiamo permesso di trasformarsi in imperatore”. Così sul banco degli imputati finiscono anche le scosse che attraversano il governo.

Sono i giorni della grande paura, che segna ormai anche l’appuntamento di sabato, il bagno collettivo al Papeete, luogo simbolo del salvinismo di governo: “Entreremo nell’acqua come sardine, usciremo come individui”, scandisce un ragazzo appoggiato alla transenna. Come a dire: se si dovesse perdere in Emilia, siamo persone, ne rispondiamo come cittadini e non come movimento. Un po’ a scrollarsi di dosso le aspettative che in molti hanno caricato sulle loro spalle. Per ora il pensiero è solo uno: “Dobbiamo evitare che Salvini vinca domenica – dice Teresa, 60 anni, tornando verso la macchina mentre le luci si spengono – Sarebbe un incubo”.

Le idi Di Maio

Nel più bel discorso della sua carriera politica, quello dell’addio, Di Maio non ha fatto l’autocritica che l’avrebbe reso perfetto. Ma ha detto cose condivisibili. Soprattutto una: i partiti muoiono sempre per cause interne, mai per quelle esterne. I nemici esterni spesso le rafforzano, attaccandole e compattandole. Ma contro quelli interni non c’è rimedio. I 5Stelle, quanto a nemici, non si son fatti mancare nulla: sempre avuto tutti contro. Ed è stata la loro fortuna nel terremotare la Seconda Repubblica, come l’altro movimento antisistema, la Lega, nello scardinare la Prima. Ma la Lega è sempre stata monolitica, leninista, fideisticamente raccolta attorno a un capo: prima Bossi, poi Salvini. Ha subìto scandali giudiziari, scissioni politiche e disfatte elettorali, ha cambiato linea e alleati ogni due per tre, è stata data cento volte per morta, ma è sempre rinata dalle sue ceneri grazie a un boss carismatico che condannava all’irrilevanza chi ne usciva, anche se al governo non combinava mai nulla. Secessione, devolution, uscita dall’euro, sovranismo: zero risultati. Il M5S, pur molto simile nelle origini, è l’opposto: un movimento orizzontale e anarchico, con due fondatori carismatici – Grillo e Casaleggio sr. – ma nessun capo riconosciuto. Anche quando, per legge, se lo sono dovuto dare, nessuno l’ha mai trattato come tale (salvo quando vinceva).

Risultato: un ronzio di fondo cacofonico che sovrastava e oscurava non solo la parola del leader, ma anche le promesse mantenute. E questo un po’ per peculiarità strutturali: il continuo turn over per il limite dei due mandati e la selezione a caso dei candidati, raschiando il fondo del barile dei meetup ormai spompati , o attingendo dalla “società civile” (che può riservare felici sorprese, come Conte, o furbastri della poltrona, del soldo e della vetrina come tanti fuggiaschi in Parlamento e sabotatori nei consigli comunali). Un po’ per i vizi di molti italiani che si affacciano alla politica: individualismo, litigiosità, opportunismo, immaturità, velleitarismo, smania di protagonismo. Questo è il vero bivio dei 5 Stelle. Non piazzare Patuanelli o Taverna o Appendino o Dibba al posto di Di Maio per massacrare anche loro. Né decidere se farsi annettere dal Pd o dalla Lega, stabilendo una volta per tutte da che parte stare: la loro forza è restare “né di destra né di sinistra”, non per tornare a strillare dall’opposizione, ma per mantenere i propri punti cardinali, darsene di nuovi e valutare a ogni elezione chi sia il partner migliore per realizzarli (ora il centrosinistra, domani chissà). Cioè creare una comunità e formare una classe dirigente compatta che non si sfasci contro il primo scoglio.

Il goliarda Alberto e la Voghera irriverente

C’è una lontana radice di irriverenza goliardica nel lavoro culturale di Alberto Arbasino, che ieri ha compiuto 90 anni, e risale alla tradizione laica di “goliardia è cultura e intelligenza”, non certo a quella dei “goliardoni” goderecci e bordellieri. La conosco perché, capitato per caso a Voghera nel 1954 e poi all’Università di Pavia, mi trovo in mezzo a ragazzi intelligenti, tutti lettori del Mondo di Pannunzio che ci fa incontrare e discutere per via Emilia. Sono gli amici vogheresi, pochi ma buoni, “del Nino Alberto”, così alla lombarda, all’anagrafe, classe 1930. In una città-crocevia (e anche questo conta) fra Torino (Voghera è stata sabauda)-Milano-Genova-Piacenza.

C’è un Cineclub, c’è il Circolo Goliardico che fa cultura e produce anche Numeri Unici annuali satirici, spesso urticanti. Dei quali Alberto è la prima frusta, come in un memorabile Coprifuoco che li porta tutti in tribunale per diffamazione. Il difensore che li fa assolvere è uno spiritosissimo avvocato liberale, Gino Manusardi, erede di una bella tradizione, suo zio, il fratello maggiore di Gina, la madre di Alberto. “La ragazza più intelligente”, mi dirà sempre Italo Pietra, direttore del Giorno, “fra le mie compagne del Liceo Classico di Voghera”. Il padre è autorevole farmacista in centro, in Via Emilia.

Un altro luogo di formazione del giovanissimo Alberto è Il Ritrovo, il circolo della borghesia cittadina, dove c’è anche un aggiornata biblioteca e dove si tengono concerti da camera di buon livello. Lui è già, al Liceo, un lettore onnivoro, laico, problematico, conosce benissimo il francese, ma si butta a capofitto nell’inglese maneggiandolo presto al meglio ed entrando nel mondo anglo-americano in Italia meno noto praticato. Inizialmente si iscrive a Medicina a Pavia. Ne arretra presto, per scegliere Legge. A Milano, non più Pavia, dove entra in contatto con un maestro di Diritto Internazionale, Roberto Ago. Carriera diplomatico, modello anglo-francese del diplomatico/scrittore, idealmente Bloomsbury Street? Un’idea, forse un progetto.

Comincia molto presto la collaborazione, fondamentale con gli intellettuali del Mondo di Pannunzio, e curiosamente da Voghera vi scrive un altro coetaneo, bolognese, Giuseppe Tarozzi poi al Sole-24 Ore. Insieme a un giovane sindaco socialdemocratico, Italo Betto, e ad altri amici come Tino Giudice, cugino di Goliarda Sapienza, di ascendenze garibaldine, fondiamo un settimanale radical-socialista (lui, Alberto, rimane più verso i liberali), Il Cittadino. Ci manda pezzi divertenti e irriverenti dalle capitali del mondo, che gira vorticosamente, dai teatrini off-off, dai festival più strani. Ha cominciato a scrivere quei densissimi Taccuini di incontri (ora depositati al Gabinetto Vieusseux), dai quali usciranno decenni dopo le 552 pagine dei Ritratti italiani (Adelphi).

Uno scrittore e saggista come lui, anglicizzante, è anomalo nel panorama italiano, e incuriosisce parecchio. Un’estate si presenta con scarso bagaglio e molte letture in Versilia dove hanno casa un po’ tutti. Gli interessano Roberto Longhi e Anna Banti, che con Paragone, Arte e Letteratura, fanno scuola e lì esce il primo dei sei racconti che, sponsorizzati da Italo Calvino, Einaudi edita nel 1957, Le piccole vacanze. Suscitano interesse in Italia e fiammate polemiche nella sua città per la riconoscibilità, spesso pungente, di alcune coppie, anche omosessuali, della borghesia. Dobbiamo difenderlo a spada tratta, in duelli di strada, nelle “vasche” serali.

Il suo lancio giornalistico avviene però al Giorno di Italo Pietra, insieme a Garboli, Citati, Giudici, Manganelli. Pagine dei libri curate da Paolo Murialdi, con grandi articoli e fulminanti corsivi di venti righe. In uno di questi Alberto scrive “a fuoco” che il solo vero merito dello scrittore Giovanni Papini è di “essere il nonno materno di Ilaria Occhini”. Italiani, aprite gli occhi: ecco un vero saggista, scrittore e giornalista, mai conformista, mai genuflesso. Auguri, Nino Alberto.