Con la Beretta e tre spritz J-Ax torna “ReAle”. E in tour

Alessandro Aleotti non ci gira intorno, va dritto al punto: “Sono reale perché vivo in un quartiere normale di Milano e sono anche Re Ale perché sono il king del rap in Italia”. Alla presentazione del suo nuovo disco – in arrivo alle 24 di stanotte – ReAle, J-Ax decide di far parlare i suoi collaboratori attraverso un video: Max Pezzali (“Per me gli Articolo 31 sono stati fondamentali”), Jake La Furia (“J-Ax è il 50 per cento dei motivi per cui faccio questo mestiere”), Paola Turci (“Ho scritto solo per lui il mio primo pezzo per altri”), Boombadash (“È stato il primo a credere in noi”), Enrico Ruggeri (“Il suo valore aggiunto è la curiosità”).

ReAle è un album “impegnato e cazzone” per ammissione dell’artista, pieno di spunti e legami con l’attualità, raccontata come fiction. E qui parte la prima polemica: “Se hai bisogno del rap, il genere che tira da dieci anni, e lo porti a Sanremo devi sapere che ha i suoi canoni. Eminem è stato strapagato per fare l’ospite al Festival eppure lui raccontava di come una bambina aveva ammazzato la madre. Quindi tutto questo casino intorno ai testi è una roba da poveretti: una canzone è una canzone, un film è un film. Io non ho mai usato certi cliché del rap, non ho mai spacciato, ma le canzoni non sempre si scrivono in prima persona, le mie spesso sono il frutto della ricerca su un tema o su un fatto di cronaca. E prima di Junior Cally il vespaio era su Sfera Ebbasta: il rap va accettato nella sua totalità”.

Mainstream (La scala sociale del rap), è “una lettura ironica della parabola sull’artista 2.0, quello che nasce sui social. Io oggi, per citare il testo, mi sento un artista a tutto tondo, il popolo ti ama ma la gente più alla moda ti dà contro”. Il brano più controverso è senza dubbio Beretta, una presa di posizione contro ogni tipo di femminicidio: “Quando una donna subisce abusi fisici e psicologici la legittima difesa ci sta. Ho preso la storia da fatti di cronaca, io giustifico la donna che uccide il suo aguzzino. Così adesso Matteo Salvini smetterà di dire che sto col Pd. Io sono un libertario”. Pericoloso prosegue il filo dell’attualità sulla radicalizzazione della guerra dei sessi sui social, Quando piove diluvia è autobiografica e stigmatizza i periodi difficili di J-Ax: nel testo anche un riferimento a Fedez e alla settimana successiva l’abbandono del connubio artistico (“Se volete sapere cosa è successo basta fare due domande agli addetti ai lavori, io non ne parlerò mai più”).

C’è Il Pagante che aiuta J-Ax in Per sempre nell’83 a raffigurare i luoghi comuni della borghesia milanese, ancorata agli anni 80: “La ricchezza di Milano è portata da fuori, da chi sta nell’hinterland e crede nella città. Chi ha le spalle coperte non si è evoluto”. I sentimenti sono espressi in Cristoforo Colombo, dedicata “alla donna di cui si innamora” mentre in Siamesi si parla di razzismo in tutte le sue declinazioni. Il terzo Spritz è la canzone più divertente, nella quale lo “zio” J-Ax prende un po’ per i fondelli i pischelli (“magari non sono più quel pugile sul ring, certo non sono più quello che scopa le bitch, sono ancora in mezzo ai ragazzini vestiti Supreme”) ma subito dopo torna serio e affronta temi sentiti dagli adolescenti, come in A me mi: “Come quando andavo a scuola a disagio nel mio corpo, come nell’ora di ginnastica me ne vergogno”. J-Ax farà un mini tour negli store presentando un live unplugged da domani.

“Spia in Libia e madre nel caos: ecco la mia Aba”

Dopo Mike Balistreri, poliziotto malinconico e irregolare della Trilogia del Male (e non solo), Roberto Costantini arriva oggi in libreria con un nuovo personaggio: Aba Abate. Un gioco di lettere per nome che ha origine nel severo padre di Aba, capo dei Servizi segreti che la vuole vedere primeggiare anche nell’appello di classe. E anche Aba fa la 007 in una Roma caotica, alle prese con una famiglia normale, marito e due figli. Il romanzo s’intitola appunto Una donna normale ed è una spy-story ad altissimo ritmo.

Costantini, ma come fa a inventarsi situazioni così estreme lei che fa una vita normale da dirigente?

Be’, si supplisce alla propria normalità con la fantasia. L’adrenalina nasce dall’immaginare il conflitto e crearlo. Ieri ho visto che Milan e Fiorentina sono ancora in Coppa Italia e ho immaginato la finale all’Olimpico. Be’, io metterei seduti vicino i due Matteo, Salvini e Renzi. Adrenalina pura…

Come nasce Aba Abate?

I personaggi dei romanzi sono spesso parte della realtà dello scrittore. La mia vita è circondata di donne capacissime e sottoutilizzate, di studentesse più brave dei colleghi maschi che non vengono scelte al momento dell’assunzione.

Aba cerca un little boy, cioè un giovane kamikaze africano, che deve arrivare in Italia per un attentato. Lei costruisce una storia su una circostanza che da noi sinora non è mai accaduta. Come mai?

Perché è una storia sui Servizi segreti e quindi nessuno può dire con certezza che non sia mai accaduta. E perché, incrociando le dita, ciò che non è mai accaduto può accadere domani.

Alla fine lei ringrazia gli “amici” dei Servizi segreti. Abbiamo corso forti rischi nella realtà?

Il successo dei Servizi è per sua stessa definizione invisibile. Il successo di Aba non può essere visibile come quello di Mike Balistreri che arresta assassini. Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Belgio, hanno avuto attentati gravi, noi per il momento nessuno. Credo sia logico pensare che non sia solo questione di fortuna.

Le ricerche di Aba sono un andirivieni continuo con la Libia, Paese caro a lei e Balistreri, e dove ci sono lager clandestini e lager ufficiali per i migranti.

Immaginate una donna normale in quell’inferno, oggi. Mentre il marito, i due figli adolescenti e gli amici pensano che sia un’impiegata amministrativa del ministero in missione in qualche tranquilla cittadina italiana… Aba attraversa un inferno molto reale, appena oltre il mare che ci separa.

I barconi, sembra di capire, sono un affare per tutti i vari attori, dai libici agli schiavisti fino all’anello finale degli scafisti.

La filiera economica dei cosiddetti barconi è complessa e articolata come quella di una vera azienda: ricerca dei clienti, marketing, produzione, logistica. Con azionisti “banditi”, cosa che è vera anche di certe aziende. Con coperture altissime, come per certe aziende. Smontare quella roba lì oggi è difficile come pensare di estirpare la delinquenza da certe zone in Italia.

La Storia vista dal buco della serratura dei Servizi, non solo i nostri, è sempre diversa da quella raccontata.

La Libia, più di qualunque altro luogo al mondo, è il vero specchio dell’Italia e dei Servizi negli ultimi 110 anni, in positivo e in negativo. Chiunque ascriva la nostra attuale debolezza al governo o ai Servizi di oggi o di ieri non ha la più pallida idea della realtà o è in malafede. L’errore non fu nel 2011 con la guerra fatta malvolentieri contro Gheddafi, lì il nostro potere negoziale era già azzerato. L’errore vero fu commesso nel 1969, quando una parte dei Servizi contribuì a disinformare Aldo Moro favorendo l’ascesa di Gheddafi.

Lei insiste molto sulla diversità fra le due sponde del Mediterraneo. Da un lato la povertà, dall’altra la ricchezza molle dell’Occidente. Come diceva il papà di Aba la soluzione è rendere questo mare enorme come l’oceano?

La soluzione del padre di Aba è molto attuale, era la stessa che voleva applicare il Generale MacArthur in Asia. L’altra soluzione, opposta, è un serio impegno dell’Occidente ricco a migliorare realmente le condizioni di vita in Africa. Solo che questo comporterebbe di abbassare il nostro di tenore di vita, e in democrazia queste ricette fanno solo perdere le elezioni.

Attorno ad Aba ruotano due universi paralleli. Il lavoro nei Servizi. E la famiglia, con il marito intellettuale Paolo e i due figli adolescenti. Due mondi che non si parlano, per ovvi motivi. Davvero esistono queste situazioni estreme nella realtà? A volte sembra la trama di un film incredibile…

È esattamente così. A chi ricopre certi ruoli è richiesta segretezza assoluta anche coi familiari. Provate a immaginarvelo concretamente. Piuttosto complicato, no? Eppure Aba gestisce la doppia realtà perfettamente da vent’anni. Solo che in questo libro diventa tutto più complicato.

Chi è davvero il professor Johnny Jazir, nome in codice Marlow? Un mercenario triplogiochista che vive in una baracca con tre mogli ragazzine schiavizzate o un eroe? Perché ricorda il doppio volto di Mike Balistreri…

Be’, questo fa parte del gioco… Come per Balistreri lascio a lettrici e lettori il giudizio su JJ.

Il finale lascia aperti vari interrogativi e c’è il prologo a una nuova storia. Aba è destinata a durare. Quello che sappiamo alla fine di questo libro è che le due vite, quella di Aba moglie e madre e quella di Ice, il suo nome in codice, non convivono più facilmente.

Qualcosa accadrà…

E Balistreri tornerà?

Mike è ormai un figlio. Tornerà se e quando lo vorrà lui. Forse vorrà conoscere Aba… hanno già una pagina Facebook insieme: Aba Abate e Mike Balistreri!

Non resta che aspettare…

Repubblicani, inizia il fuoco di sbarramento

Uno, non vogliono che parli perché non sa che cosa dice. L’altro, non vogliono che parli perché sa troppo bene quel che dice. La maggioranza repubblicana boccia le mozioni democratiche e fa muro perché il capo ad interim dello staff della Casa Bianca, Mick Mulvaney, e l’ex ambasciatore all’Onu e consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, non testimonino al processo sull’impeachment del presidente Donald Trump, in corso nel Senato di Washington. Entrambe sono considerati dal presidente e dai repubblicani mine vaganti. Nell’ottobre scorso, Mulvaney aveva ammesso che il magnate presidente aveva deciso di bloccare gli aiuti militari all’Ucraina per fare pressioni su Kiev perché avviasse un’indagine per corruzione su Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama e un potenziale avversario a Usa 2020, e suo figlio Hunter, socio d’una società energetica ucraina. Le dichiarazioni di Mulvaney erano la pistola fumante del cosiddetto quid pro quo, cioè del baratto tra interessi nazionali e interessi personali. Mulvaney successivamente ritrattò, ma Trump gli vietò d’andare a deporre di fronte alla commissione intelligence della Camera: aveva già fatto abbastanza guai. Diverso il discorso per Bolton: si dimise, o fu licenziato, dal vertice del National Securityall’inizio di settembre, quando il Kievgate c’era già stato, ma non era ancora esploso; e s’ignora se la vicenda abbia avuto a che fare o meno con la sua fuoriuscita dalla Casa Bianca.

Durante l’inchiesta della Camera, in autunno, Bolton ha più volte fatto sapere di avere cose da dire, ma di volerlo fare solo se autorizzato dal presidente o costretto dalla magistratura. Trump non intende dargli via libera e i repubblicani bloccano un’istanza dei democratici per convocarlo. Per contro, il segretario di Stato Mike Pompeo sarebbe pronto a testimoniare, se richiesto – ma lui sarebbe un teste a discarico -, mentre Trump, al rientro da Davos, dove ha partecipato al World Economic Forum, esprime il desiderio di assistere al processo, aggiungendo, però, che “probabilmente i miei avvocati avrebbero qualcosa da obiettare”. Il dibattimento sull’impeachment è ripreso ieri nell’aula del Senato, dopo una prima giornata procedurale fiume: una maratona di oltre 13 ore chiusa con l’approvazione della risoluzione presentata dal leader della maggioranza, Mitch McConnell sulle regole del dibattimento. Sono stati bocciati 11 emendamenti dei democratici, fra cui la richiesta d’acquisire vari documenti del Pentagono, del Dipartimento di Stato e dell’ufficio bilancio della Casa Bianca, carte collegate alla decisione di Trump di congelare 391 milioni di dollari di aiuti militari all’Ucraina, finché Kiev non aprisse l’indagine sui Biden. Accusa e difesa hanno tre giorni a testa per esporre le proprie tesi, in un arco di tempo non superiore a 24 ore. Le ultime battute della prima giornata del dibattimento in Senato erano state segnate da nervosismo. Il presidente della commissione giustizia della Camera, Jerry Naddler, riferendosi ai ‘no’ a raffica di repubblicani e Casa Bianca alle richieste dei democratici, ha detto: “Solo chi è colpevole cerca di nascondere le prove”. La seconda giornata è cominciata con l’intervento del presidente della Commissione Intelligence della Camera Adam Schiff: “Siamo qui per la rimozione di Trump, uno che si crede un Re”.

Bezos da Ryad: 007 sauditi spiavano il telefono del boss

Se la fonte non fosse Stephanie Kirchgaessner, corrispondente da Washington dell’autorevole Guardian, questa storia sembrerebbe il plot fantasioso di un film di spionaggio internazionale. Se si rivelerà tutto vero, le ripercussioni internazionali sono imprevedibili. Primo maggio 2018. Jeff Bezos, miliardario americano proprietario di Amazon e del Washington Post, sta chattando su Whatsapp con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Si sono conosciuti un mese prima a una cena, parte del tour americano con cui MbS cerca di convincere i grandi del mondo di essere il nuovo volto illuminato e modernizzatore del regime saudita.

Da Bin Salman, Bezos riceve un video. Secondo gli esperti, è “altamente probabile” che contenga un malware, un virus, che si installa sul suo telefonino e ruba dati. Forse lo stesso prodotto dalla società israeliana Nso Group, che fra aprile e maggio 2019 infettò, presumibilmente per conto di governi autoritari, 1400 utenti di Whatsapp, fra cui giornalisti, attivisti dei diritti umani e accademici. Da qui in poi si possono solo mettere in fila alcuni fatti, e spetta agli investigatori stabilire se siano correlati. Il primo: 5 mesi dopo, il 2 ottobre, il dissidente giornalista saudita ed editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi entra nel consolato saudita di Istanbul. Lo aspetta una squadra di 15 killer, che lo uccidono e smembrano il cadavere. La sua agonia viene registrata e rivelata alla stampa dalle autorità turche. Lo scandalo è enorme e arriva dritto a Bin Salman.

A novembre, sulla base di fonti di intelligence, la Cia determina che è stato il principe a ordinare l’omicidio di Khashoggi, i cui informati editoriali sul Washington Post disturbavano la narrazione di una nuova Arabia Felix. Prima di essere ucciso, il giornalista sarebbe stato spiato dal governo saudita anche grazie al malware di Nso. Il principe nega di essere il mandante, ma si assume la responsabilità politica dell’omicidio. Almeno formalmente, i rapporti fra il regno e la comunità internazionale si congelano.

Il secondo: il 10 gennaio 2019 il tabloid americano The National Enquirer pubblica una lunga inchiesta sulla relazione extraconiugale di Jeff Bezos con Laura Sanchez. Scoop che gli costa il matrimonio (e metà del patrimonio in alimenti). Fra i dettagli, messaggi telefonici intimi, mandati dal proprio telefono personale. Ottenuti come? Bezos scopre che la società America Media Inc, proprietaria del tabloid, e il suo amministratore delegato David Pecker sono indagati, oltre che per aver favorito la campagna elettorale di Trump impedendo a suon di dollari la pubblicazione di storie compromettenti per il candidato, anche per “una serie di azioni per conto del governo saudita”.

Il 7 febbraio 2019, Bezos rivela online di aver subito un tentativo di estorsione da Ami: smetti di indagare sui sauditi o pubblicheremo altro materiale compromettente. Rifiuta. Il giorno dopo il governo saudita nega ogni coinvolgimento nella pubblicazione; American Media dichiara di aver avuto i dettagli dal fratello della Sanchez. Riyad non ha ancora risposto alle rivelazioni del Guardian, ma l’Ambasciata saudita a Washington le ha definite “assurde” e ha sollecitato una inchiesta per fare chiarezza.

Inchiesta che ieri hanno richiesto anche gli investigatori delle Nazioni Unite per i diritti umani Agnes Callamard e David Kaye.

Secondo il loro rapporto, le prove trovate nel telefono di Bezos “suggeriscono il possibile coinvolgimento del principe ereditario nella sorveglianza di Mr. Bezos, nel tentativo di condizionare, se non mettere a tacere, la copertura giornalistica del Washington post sull’Arabia saudita”.

Ekaterini, la prima donna presidente sfida Erdogan

Per la prima volta nella storia della Grecia, una donna è stata eletta a capo della Repubblica. Ekaterini Sakellaropoulou, 63 anni, magistrato di lungo corso con una vocazione per l’Ambiente e presidente del Consiglio di Stato, ha ottenuto in Parlamento 261 voti su 300, ed è passata al primo scrutinio con il sostegno del partito conservatore al governo, Nea Demokratia, ma anche di Syriza, la formazione di sinistra dell’ex premier, Alexis Tsipras, e del movimento di centrosinistra Alleanza per il cambiamento (Kinal), l’ex Pasok. Per l’attuale primo ministro, Kyriakos Mitsotakis, leader di Nea Demokratia, è una vittoria: ha puntato su una personalità che gode di grande prestigio istituzionale, anche perché non ha trascorsi politici. Una delle motivazioni, quest’ultima, che aveva spinto Tsipras a nominarla nel 2018 presidente del Consiglio di Stato. Mitsotakis ha incassato il successo affermando “che i greci sanno essere concordi sulle scelte importanti”. E sanno anche interpretare i tempi superando i pregiudizi sessisti che ancora ostacolano l’ascesa delle donne. Sakellaropoulou, nativa di Salonicco, ha studiato Giurisprudenza all’Università di Atene e si è specializzata in Diritto amministrativo e costituzionale alla Sorbona di Parigi per poi rientrare in patria dove ha scalato la gerarchia della magistratura amministrativa fino ad arrivarne al vertice. È stata molto attiva anche nelle relazioni internazionali, assumendo diverse cariche nell’Associazione dei funzionari giudiziari del Consiglio d’Europa, della quale è stata per due volte presidente e ha fatto parte di varie commissioni consultive, tra cui quella del ministero degli Esteri. A tal proposito nel suo discorso ha sottolineato che proteggere l’integrità territoriale della Grecia e i suoi diritti è fondamentale per tutelare lo status del Paese in quanto perno per la stabilità dell’intera regione: un chiaro messaggio alla Turchia.

Scioperi, nel caos di Parigi vince la linea verde di Hidalgo

Lo sciopero contro la riforma delle pensioni entra oggi nel suo 50° giorno. La Francia si prepara a una nuova mobilitazione nazionale domani, proprio quando il progetto di legge sarà presentato al Consiglio dei ministri. Nella “tragedia” di un Paese bloccato, a essere in qualche modo “favorita” è la sindaca di Parigi Hidalgo che fa campagna per una mobilità basata sull’ecologia: più zone pedonali, meno automobili, più zone verdi e ha moltiplicato le piste ciclabili negli ultimi anni. I parigini mai quanto in questo periodo hanno apprezzato le sue scelte, dato che biciclette e monopattini sono andati a ruba rappresentando almeno in città una valida alternativa al blocco dei mezzi. Di certo, dopo 50 giorni, il bilancio è pesante. Ecco i numeri.

Ammonta ad almeno 850 milioni di euro il danno alla Sncf: per la società delle ferrovie è il conflitto più lungo di sempre (il record precedente, di 28 giorni, risaliva al 1986-87). Nel metrò parigino, la Ratp ha calcolato un buco di 200 milioni di euro. Lo sciopero è costato 400 milioni di euro al giorno alle aziende, piccole e medie, secondo François Asselin, presidente della Confederazione nazionale delle Pme. Solo il settore alberghi e ristoranti ha perso intorno ai 740 milioni di euro. A Parigi, nel bel mezzo delle feste di fine anno, gli alberghi hanno registrato fino al 50% in meno di prenotazioni. Anche per i teatri parigini il bilancio è in rosso.

In media si sono venduti il 55% di biglietti in meno. Per l’Opéra, dove tutti gli spettacoli sono stati annullati dal 5 dicembre, mai sciopero è stato così lungo. I dipendenti, dai ballerini ai tecnici, vogliono salvare il loro regime speciale nato 350 anni fa, insieme all’istituzione. Anche se, stando ad un sondaggio Odoxa, il 66% dei francesi continua ad approvare la protesta, il 57% ritiene che sarebbe bene mettere fine a questo sciopero che ha lasciato a piedi migliaia di francesi a Natale, congestionato le strade, messo nei pasticci chi doveva comunque raggiungere il posto di lavoro, causato il rinvio di esami alle università e annullato udienze nei tribunali. Da alcuni giorni il ritorno inatteso di treni e metrò dà ai francesi e ai parigini soprattutto, una parvenza di normalità. Ma lo sciopero non è finito, ha solo cambiato volto: i ferrovieri hanno cominciato a lanciare ciabatte contro il ministero dell’Economia, più di mille medici si sono dimessi dalle funzioni amministrative, alcuni avvocati hanno passato la notte in tenda davanti al tribunale di Bobigny, altri hanno bloccato il Palazzo di giustizia di Parigi stendendosi per terra, l’orchestra dell’Opera ha improvvisato concerti gratis. Il sindacato Cgt che continua a mobilitare i suoi per ottenere il ritiro del testo ha rivendicato martedì un black out gigante nel sud di Parigi che ha causato disagi all’aeroporto di Orly. Ieri due tecnici sono stati arrestati per aver tagliato l’alimentazione a una fabbrica classificata Seveso che produce aerosol in Dordogna.

Nei giorni scorsi gruppi di militanti Cgt hanno occupato la sede della Cfdt, il sindacato moderato accusato di scendere a compromessi con il governo. Altri hanno fatto irruzione nel teatro Bouffes du Nord dove si trovavano Emmanuel Macron e la moglie Brigitte. A Marsiglia, Bordeaux o Le Havre è ancora in corso l’operazione “porti morti”. Domani, per la settima giornata di mobilitazione nazionale, nuovi cortei. Quelli del 15 gennaio avevano riunito 187 mila persone, secondo il ministero dell’Interno, meno comunque delle 806 mila contate il 5 dicembre. Treni e metrò si attende, un “venerdì nero”.

La data è strategica: il testo comincia il suo iter al Consiglio dei ministri. L’articolo 1 introduce il nuovo sistema universale a punti e stabilisce che “un euro di contributi apre gli stessi diritti a chiunque”. Nella legge, che alcuni media francesi hanno potuto consultare, figura anche la contestata misura dell’età di equilibrio, che dovrà progressivamente spostare l’età della pensione piena, oggi fissata a 62 anni. Ma la misura resta sospesa nell’attesa di conoscere le proposte dei sindacati, che da fine gennaio ad aprile si riuniranno per discutere dell’equilibrio finanziario della riforma. La legge sarà discussa alle Camere dal 17 febbraio, per un voto entro l’estate e l’entrata in vigore il primo gennaio 2022.

Cine 34, ed è subito un piacevole Amarcord

Che cosa significa rivedere a casa propria, alla televisione, un film come Amarcord? Significa innanzitutto ricordarsi di quando lo si vide la prima volta, a maggior ragione essendo Amarcord un film sulla memoria, diretto da Fellini a 53 anni, l’età in cui i sogni diventano più simili ai ricordi, meno ai desideri. Strano, ma poche cose resistono all’invecchiamento quanto i ricordi, sembra sempre di ricordarli per la prima volta, forse perché non sono mai gli stessi. Nel dicembre 1973 affrontai uno dei miei primi viaggi in treno da solo; appena arrivato a Milano mi diressi in una delle sontuose sale di Corso Vittorio Emanuele; mi ritrovai in una sala sotterranea con le poltrone di velluto azzurro e aspettai con il fiato sospeso lo spegnersi delle luci perché, diceva Fellini, i film vanno visti immersi nel buio, aspettando che dallo schermo ti arrivi la vita. Rivedere Amarcord, con cui il canale Cine 34 ha voluto celebrare il centenario dalla nascita di Fellini e il suo primo giorno di vita, significa chiedersi cosa resti 47 anni dopo. Il cinema d’autore è appeso a poche anime postmoderne (non ci sarebbe Sorrentino senza Fellini, non ci sarebbe Tarantino senza Leone), quei cinema “salotto di Milano” sono diventati grandi magazzini, nelle obitoriali multisale trionfano Me contro te, Luì e Sofì. Alla storia del cinema italiano è stata dedicata una rete provvidenziale: colma una lacuna di programmazione e fa ammenda di un vuoto della memoria collettiva. Amarcord.

Ambrogio Mauri, la forza di opporsi a Tangentopoli

In questi tempi di commemorazioni commosse, santificazioni tentate e amnesie selettive, voglio ricordare un uomo, un vero protagonista di Tangentopoli. Morto e dimenticato. Si chiamava Ambrogio Mauri. Imprenditore. Nella sua officina di Desio, in Brianza, il padre aveva cominciato a riparare i tram dell’Atm, l’azienda dei trasporti di Milano. Poi l’officina era cresciuta, si era trasformata in fabbrica, aveva iniziato a costruire autobus innovativi e competitivi. È Ambrogio Mauri ad avere l’idea del jumbo-tram, ottenuto unendo con piattaforme girevoli tre vetture. È lui che per primo sperimenta la carrozzeria in alluminio. Progetta il Bi-bus, l’autobus bimodale elettrico e a gasolio. Realizza il primo bus a pianale ribassato, senza gradini. Ma aveva deciso di non ungere le ruote per vincere le gare, di non pagare il pizzo mafioso della tangente ai partiti, nella craxiana Milano da bere che oggi torna a essere nostalgicamente celebrata.

Così viene escluso dagli appalti più grandi, vende i suoi bus in Italia, ma a Milano è emarginato dalle gare Atm, controllate dai cassieri di partito. Sconfitto dall’Iveco in una gara per la fornitura di cento bus a pianale ribassato, va a vedere la presentazione al pubblico dei due primi mezzi e ha un fremito: non sono dell’Iveco, ma sono i due prototipi che lui aveva venduto all’Atm qualche tempo prima. In quel momento, dopo anni di battaglie, si dichiara sconfitto. Domenica 20 aprile 1997 scrive otto lunghe lettere ai famigliari e agli amici, va nel suo ufficio in fabbrica, estrae dal cassetto una Magnum 357 e si spara un colpo al cuore. Dopo aver sollevato il maglione, per non bucarlo: ultimo gesto di un uomo che nella sua vita non aveva mai sprecato niente.

La sua storia è scritta in un libro che sarebbe bello far tornare nelle librerie. S’intitola: Un uomo onesto. Storia dell’imprenditore che morì per aver detto no alle tangenti. Scritto da Monica Zapelli, l’autrice del film I cento passi, è stato edito da Sperling & Kupfer nel 2012. “Questa è la storia di un uomo normale”, scrive Zapelli. “Ambrogio Mauri non voleva fare la rivoluzione, voleva costruire autobus”. Impresa impossibile, nella Milano di Tangentopoli dove molte gare d’appalto si decidevano in un ufficio di piazza Duomo 19. Allora, le buste chiuse delle gare d’appalto, con le offerte più innovative, competitive e convenienti, erano meno pesanti delle buste gialline delle mazzette ritirate dalla Enza Tomaselli, la mitica segretaria di Bettino.

Nel 1992 di Mani Pulite, Ambrogio Mauri va a una serata organizzata dall’Associazione industriali di Monza, che ha invitato a parlare Antonio Di Pietro. Il magistrato spiega che cosa gli imprenditori potrebbero fare per spezzare il patto che li lega ai politici e agli amministratori che decidono le commesse pubbliche. Ambrogio Mauri si alza, si volta verso la platea dei suoi colleghi industriali e dice: “Alzi la mano chi di noi non ha mai pagato almeno una volta l’ufficio acquisti di un’azienda”. Alza la mano. Si guarda attorno. È l’unico. Allora si rivolge a Di Pietro: “Dottore, o sono tutti monchi, o lei deve cambiare mestiere”.

Bruno Rota, quando arrivò al vertice di Atm chiamato dal sindaco Giuliano Pisapia, regalò per Natale il libro su Ambrogio Mauri a tutti i manager dell’azienda. Fu uno choc. Ne regaleremo una copia anche all’attuale sindaco di Milano, Giuseppe Sala, così che ne possa tener conto, nel caso volesse dedicare una via a qualche personaggio che ha onorato la città, o consegnare un Ambrogino d’oro alla memoria.

Sarebbe bello che leggesse questo libro anche Stefania Craxi, che ha perso un padre e conosce dunque il dolore di Roberta, Carlo e Umberto, figli di Ambrogio Mauri.

Un manifesto per la sinistra che non c’è

Da oggi in libreria per Chiarelettere l’ultimo libro di Tomaso Montanari, “Dalla parte del torto”. Ne pubblichiamo uno stralcio.

Abbiamo molte cose per cui vale la pena di combattere: una democrazia vera, un Parlamento vero e la partecipazione di tutti alla vita democratica. Un conflitto vero, per una vera giustizia sociale. Una società umana, un’idea forte di collettività. Una ricostruzione dello Stato: di uno Stato giusto, capace di affermare e difendere l’interesse generale. L’amore per la Terra: la sostenibilità della nostra esistenza. Un’altra modernità. Il diritto di tutti alla vita. La liberazione dei corpi dal potere. La dignità della persona umana: riconosciuta a ogni concreto essere umano.

Ma la prima battaglia da vincere è quella per cambiare noi stessi. Liberandoci dalle credenze, dalle pigre ovvietà solo apparentemente vere: come l’ossessione di andare al governo. Un’ossessione che dà forma a tutti gli altri obiettivi politici (personali e collettivi): che sarebbero la visibilità mediatica, il successo, la vittoria. Il potere del capo. La verità è che si tratta di falsi dèi: di idoli da abbattere perché sono altrettanti ostacoli alla costruzione di una sinistra che da troppo tempo non si chiede invece perché vuole arrivare al governo, cioè per fare che cosa. La consapevolezza davvero cruciale è che governare è solo una parte della politica: e non la più importante. Ciò che vogliamo non è il potere sulla società, ma il potere nella società: il potere, dato a tutte e tutti, di salvare le proprie vite dal dominio del mercato. Il potere nei luoghi di lavoro, nelle lotte per le donne, per la difesa dell’ambiente, il potere della conoscenza e del pensiero critico aperto a tutti: questo potere diffuso e democratico è il vero obiettivo di una sinistra che voglia cambiare il mondo e non solo le vite dei suoi rappresentanti. È un’idea diversa della politica, ed è un’idea che permeò profondamente la stagione della Resistenza: per poi venire tradita dalla “politica politicata” dei grandi politici di professione, tutti immersi nel gioco del potere. La reciproca incomprensibilità tra le lotte quotidiane e diffuse della democrazia di ogni giorno e la “politica del governo” è, ancora oggi, alla base dello scollamento tra la sinistra che esiste e resiste per le strade del Paese e la sua rappresentanza politica. Quello scollamento non è solo un problema da risolvere, è la chiave per comprendere cosa coltivare, dove cercare, in cosa sperare. Non è dall’alto, neanche oggi, che si può ripartire: ma dal basso delle associazioni, dei comitati spontanei di ogni tipo, dei centri sociali, dei preti di strada, delle scuole di periferia, del lavoro ben fatto di chi vive in comunione con la terra e con le cose. Dal basso delle lotte quotidiane, delle vertenze, delle “intelligenze contro” che accendono, nonostante tutto, il Paese. È solo battendo strade come queste che si può evadere dalla stanza senza porta e senza finestre in cui il discorso pubblico italiano ha murato il futuro della sinistra politica: quella in cui, per esistere politicamente, bisogna fondare un partito, candidarsi alle elezioni e cercare di andare al governo. Messa in quei termini forzati, la sinistra che non c’è non ci sarà mai. Perché un partito, le elezioni, il governo sono le possibili conseguenze di una esistenza nella realtà: non ne sono il presupposto. E, più profondamente, perché “un partito occupato nella conquista o nella conservazione del potere governativo non può discernere in queste grida altro che rumore”: le grida di cui parla Simone Weil sono quelle di coloro a cui “viene fatto del male”. La sinistra “astratta” – quella delle idee, quella della sacrosanta difesa della dignità della persona umana, quella della necessaria rappresentanza politica – non può esistere se non passando attraverso la sinistra concreta. Che non è solo l’unica sinistra che possiamo avere qui e subito: è anche l’unica sinistra che il mondo lo cambia davvero.

Per i politici, ridateci Fruttero&Lucentini

Quanto ci mancano Fruttero e Lucentini! Forse solo loro potrebbero commentare degnamente non solo la transizione acrobatica di Giuseppe Conte dalla versione Conte 1 alla versione Conte 2, ma anche l’aplomb del presidente del Consiglio in carica, la calma apparentemente serafica con cui affronta le quotidiane risse di governo, la capacità negoziale, quel suo fintamente placido “incassare” le difficoltà come un pugile che si lascia pestare senza un lamento, e intanto prepara la prossima mossa. Insomma, un perfetto physique du rôle.

Se avessi un tavolino adatto e conoscessi un medium affidabile, a Fruttero e Lucentini chiederei se non riscontrano, in questo premier foggiano, qualche tratto di quello spirito levantino che descrissero così bene, secoli fa, a proposito di un altro pugliese, Aldo Moro. Un inventore di “convergenze parallele” e di altre figure di geometria non euclidea, che lo spirito subalpino dei due scrittori vedeva come appropriata a un Medio Oriente di pazienti trattative, calcolati silenzi, parlare coperto. Un Medio Oriente, si capisce, esteso alle Puglie. Ma Fruttero e Lucentini avevano una spiegazione pronta: dietro la maschera di quel professore barese, giurista e democristiano, si celava in realtà – scrissero – un abilissimo arabo, Al-Domohr. Capace di costruire alleanze con il Pci, ma anche di negarle. Di asserire marmoree fedeltà agli Usa, ma conversando con l’Urss; di schierarsi con Israele e (lo stesso giorno) aprire alla Palestina; di far professione di laicità andando a messa. Onde, per dire, la teoria delle convergenze parallele, esposta in “diciotto volumi (rilegati in marocchino!) scritti in puro arabo del deserto” risultava incomprensibile ai più. Quel fine ritratto ebbe il solo torto di uscire (nel romanzo L’Italia sotto il tallone di Fruttero e Lucentini) non molto prima del rapimento di Moro, e poi del suo assassinio, tragico per lui e per l’Italia; e anche se il profilo di Al-Domohr non aveva proprio nulla di irrispettoso, parve inappropriato in quelle circostanze, e fu rapidamente dimenticato.

Sarebbe forse il caso di riesumare quel testo spiritosissimo e acuto: che partiva dall’ipotesi, oggi forse ancor utile, di una speciale inclinazione levantino-pugliese ad adattarsi alle circostanze, a navigare sotto costa, a tirar fuori le unghie il meno possibile, facendo finta di niente, a proclamare intenzioni per poi mutarle chiosando serenamente se stesso, dando per scontate le più inusitate metamorfosi. D’accordo, un “carattere pugliese” in verità non esiste, come non esiste un “carattere piemontese”; ma forse qualcosa della scuola di Al-Domohr resiste e si perpetua in un altro giurista pugliese, Yusuf Al-Kwnt detto Giuseppi. Avrà forse trovato in un cassetto di Palazzo Chigi un manuale di geometrie non euclidee, ricco di ellissi quadrate, sfere cubiche e pentagoni triangolari. Dovrebbe essersene accorto Salvini, caso mai fosse capace di una pausa di riflessione (nulla di più improbabile). Dovrebbe aver capito che il suo più grande errore non fu scatenare la stolta crisi d’agosto che lo buttò fuori dal governo, ma rifiutare, al momento della formazione del governo gialloverde, che a Palazzo Chigi andasse Di Maio. Si illudeva, il leghista, che un premier spuntato dal nulla, senza esperienza e senza poter controllare un partito, sarebbe stato alla sua mercé. E ora non gli resta che fantasticare come sarebbe stato più facile far fuori Di Maio, prendendosi Palazzo Chigi anche senza andare alle elezioni. Peccato che, nel suo malcelato disprezzo dei terroni, non gli venga in mente di studiare un qualche bignamino sull’etica di Al-Domohr.