Mail box

 

Craxi non fu solo un ladro: creò danni immensi al Paese

Stimatissimo signor Travaglio, concordo pienamente con il suo sdegnato rifiuto d’ogni tentativo di beatificazione di Craxi, ma non concordo affatto con gli argomenti da lei addotti. Con tutto il rispetto per la pietà che gli debbono i suoi figli, Craxi era gonfio di presunzione, arroganza e prepotenza, convinto che a lui tutto fosse permesso, anche mettersi in tasca notevoli somme di denaro. Non era però un volgare ladro: era un Napoleone fallito. Trattarlo come fa lei alla stregua d’un rubagalline significa falsarne la figura e ridurre il danno da lui arrecato all’Italia a una semplice sottrazione di moneta. Fece credere agli italiani di potere quello che non potevano, provocando guasti ben maggiori di qualche ammanco di cassa. La sua analisi, che consiste in un elenco di ruberie, non dà ragione d’un uomo più pernicioso d’un semplice ladro. Dicono che egli fosse un gigante in confronto ai nani odierni. Forse auspicano l’avvento di qualcun altro della sua taglia. Quod deus avertat!

Giampiero Bonazzi

 

Naturalmente lei è libero di esporre i suoi giudizi. Siccome però in questi giorni tutti si affannano a ripetere che non esistono prove dell’arricchimento personale di Craxi, era giusto ricordare le sentenze definitive che lo dimostrano in abbondanza.

M. Trav.

 

Bettino distrusse dall’interno il socialismo e i suoi valori

Caro direttore, vorrei portare una mia testimonianza contro il revival del craxismo (niente a che vedere col socialismo) a 20 anni dalla morte a Hammamet del latitante e dopo il film di Amelio inevitabilmente “agiografico” al di là delle intenzioni del regista… Il film lo fa diventare un personaggio simpatico (anche grazie a un buon attore) con la complicità di tv, giornaloni, giornalini e sodali. Il mio rifiuto totale del personaggio Craxi, sedicente socialista, ma profondamente anti-comunista e anti-berlingueriano, è una condanna netta ben prima di Mani Pulite, dato che ho avuto a che fare coi craxiani da militante e poi da segretario di una sezione Pci di Milano e Sesto S Giovanni. Dal Compromesso storico i rapporti coi craxiani divennero sempre più conflittuali e ambigui, specialmente quando Craxi s’impadronì del Psi, rottamando (!) i vecchi leader, sostituendoli con una fedele “nouvelle vague” a sua immagine (Signorile, Martelli, De Michelis…) e così compiendo la degradazione del socialismo e dei suoi valori, parole oggi diventate quasi impronunciabili, quando una possibilità di futuro passa ancora da lì.

Marzio Campanini

 

Amianto, le scuole vanno bonificate tutte e subito

Egregio direttore, sono un ex esposto all’amianto della Eternit sarda, sorvegliato sanitario dal 1990: le scrivo per chiederle di aprire un’inchiesta sulla presenza della fibra killer negli oltre 3 mila edifici scolastici della Regione. Credo che il governo nazionale, con il ministro Costa, non possa solo dare finanziamenti: è necessaria una legge che renda obbligatoria la bonifica di tutti gli immobili pubblici e privati con incentivi economici che coprano il 100 per cento delle spese. Solo in questo modo si può garantire il diritto alla salute e la tutela dell’ambiente: una battaglia di civiltà anche in difesa dei nostri figli e delle nuove generazioni.

Giampaolo Lilliu

 

Io, cronista negli anni 90: il mio scoop per un cavallo

All’inizio della seconda metà degli anni 90 ero ufficio stampa dell’Unire. Mi giunse la notizia della morte del cavallo Craxi. Preso da un raptus, scrissi: “L’Unire comunica: ieri pomeriggio, durante la sesta corsa all’ippodromo di Tor di Valle, è morto il cavallo Craxi, vittima di un grave aneurisma a metà della retta d’arrivo. L’Unire ha accertato che al cavallo non è stato inflitto nessun maltrattamento e che la sua scomparsa è dovuta a una tragica fatalità”. Il giorno dopo al lavoro mi vedo un enorme plico sul tavolo dell’ufficio: era la più grande rassegna stampa mai realizzata dall’ente fin dalla sua istituzione, superava abbondantemente i cento ritagli. Da quel giorno nei corridoi iniziarono a guardarmi come se non fossi un giornalista normale…

Gimos

 

Grandi opere, tempi biblici: per il Tav si stimano 300 anni

Vorrei comunicarvi una “chicca” a conferma della inutile follia del Tav. A Patti, mio paese di origine in Sicilia, per il consolidamento della galleria “Montagna reale” sulla tratta ferroviaria Messina-Palermo, ancora in prevalenza a binario unico, per soli 437 metri di percorso sono previsti lavori dal maggio 2018 al dicembre 2019, benché – a rilento – i treni già vi transitino dal settembre 2019. Facendo le debite proporzioni, per terminare i lavori dei soli due tunnel del Tav – quasi 120 chilometri –, sarebbero necessari più di 300 anni, dai i tempi biblici delle grandi opere pubbliche italiane. “Ai posteri l’ardua sentenza”.

Luigi Crifò

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, a corredo del pezzo “Lega di Serie A, il megastipendio e il superbonus dell’ad De Siervo”, abbiamo pubblicato la foto di Giancarlo Abete anziché quella di Paolo Dal Pino. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Fascismo. Trasmettere “Giovinezza” in radio è apologia o storia della musica?

Gentile redazione, sono “stupitissimo”. Qualche mattina fa Radio Sorriso ha trasmesso l’inno fascista Giovinezza su tre strofe. A dire il vero non ho sentito la presentazione della messa in onda, ma mi chiedo: non potrebbe essere un reato?
Edoardo Bassani

 

Gentile Edoardo, per quanto riguarda l’ipotesi di reato è davvero difficile pensare che si configuri uno dei reati previsti dalla legge Mancino (1993), il principale strumento legislativo per la repressione dei crimini d’odio razziale. La legge Scelba (1952) punisce chiunque promuova la “riorganizzazione” del partito fascista in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Va detto che la Cassazione ha sancito che (in riferimento a cortei e commemorazioni) sono rilevanti “solo quei comportamenti che siano in grado di suggestionare concretamente le folle inducendo negli astanti sentimenti nostalgici in cui ravvisare un serio pericolo di organizzazione del partito fascista”. Apologia e ricostituzione del partito fascista devono insomma essere un serio pericolo. La questione torna ciclicamente alla ribalta a proposito di tutta la produzione di epoca fascista (letteraria, cinematografica o architettonica). Qualcuno vorrebbe radere al suolo tutto ciò che arriva da quegli anni, altri (come chi scrive) pensano che la Storia, perché sia davvero “magistra”, non debba essere cancellata. Certo “Giovinezza” è stato l’inno del Pnf (e c’è una bella differenza con “Bella ciao”!) e per questo abbiamo cercato di capire in quale contesto sia stata trasmessa. Roberto Gennaro, che di Radio Sorriso è il direttore, ci ha risposto così: “Per noi ‘Giovinezza’ è una canzone di Beniamino Gigli. Nella nostra playlist abbiamo anche ‘L’inno dei lavoratori’, ‘Bella Ciao’ e altre canzoni di epoche lontane che inseriamo su richiesta degli ascoltatori. Il tutto fa parte di un archivio storico musicale che credo solo Radio Sorriso possa vantare. C’è una ragione per cui un brano che, con tutto il rispetto per la Storia, ha segnato un periodo della nostra vita nazionale non può essere mandato in onda? E allora ‘Papaveri e Papere’? La mia non vuole essere una posizione politica. Ma artistica sì”. Resta che “Giovinezza” potrebbe essere vista come apologia del fascismo. “Magari su questo potrei essere anche d’accordo”, conclude il direttore. “Ma comunque rimane sempre una canzone. Mi dispiace aver urtato la sensibilità di qualcuno, me ne assumo la responsabilità, ma non era assolutamente nostra intenzione inneggiare a tristi ricordi di un passato che non vorrei mai ritornasse. È musica e basta”.
Silvia Truzzi

“È morto per le botte prese nel centro di detenzione”

Il 18 gennaio era ancora vivo. Quel giorno “lo hanno picchiato nel cortile recintato, davanti alla stanza 1 dell’Area Verde e lo hanno trascinato fuori per i piedi, nel grande corridoio su cui si affacciano le camerate. Per due giorni non se n’è saputo niente, quindi lo hanno riportato in stanza”. Vakhtang Enukidze, 38 anni, georgiano, ospite del Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), “è morto dopo 48 ore di agonia”, racconta al Fatto Riccardo Magi, che ha visitato la struttura poche ore dopo. E avverte: “Si rischia un nuovo caso Cucchi”.

Il centro è stato riaperto poco più di un mese fa in provincia di Gorizia, sul territorio in cui arrivano ogni anno migliaia di migranti dalla rotta balcanica. Enukidze era lì dalla metà di dicembre. Viene coinvolto in due risse. Secondo testimoni il 12 gennaio aggredisce un agente di polizia, il 14 si prende a botte con un nordafricano e viene arrestato. Il 16 rientra nel Cpr e si sente male; il 18 viene portato in ospedale e lì muore.

Domenica 19 alle 22.30 Magi citofona al centro per visitarlo in qualità di parlamentare. Il giorno dopo entra di nuovo e raccoglie le voci dei compagni di detenzione che sostengono di aver assistito al pestaggio e degli ospiti della stanza in cui è stato riportato prima della morte. “C’erano anche un operatore e un poliziotto”, spiega. Dicono che la colluttazione con il nordafricano non ha causato lesioni gravi al georgiano. Ma per separarli sono intervenuti circa dieci agenti che l’hanno picchiato ripetutamente anche con un colpo d’avambraccio dietro la nuca e una ginocchiata alla schiena, trascinato per i piedi come un cane”. A quel punto Enukidze viene portato in carcere a Gorizia e il 16 pomeriggio torna nel centro.

I testimoni “sapevano di dover essere rimpatriati la notte stessa e per alcune ore abbiamo temuto che le loro testimonianze non fossero state raccolte”, prosegue Magi. Ma la Procura ha fatto sapere di averli ascoltati prima della loro partenza. “L’uomo si è spento in stanza dopo due giorni in cui nessuno sapeva dove fosse – prosegue il parlamentare – è stata un’agonia. Chi lo ha visto ha raccontato che l’uomo era visibilmente tumefatto sul volto, sulla schiena, sui fianchi. Non riusciva a stare in piedi. Ma non è intervenuto nessuno, nonostante per legge in centri come questi sia previsto un presidio paramedico 24 ore su 24 e la presenza di medici per alcune ore ogni giorno”. Poi, “nella notte, mi ha riferito il compagno di stanza, aveva la bava alla bocca ed è caduto dal letto. La mattina era in stato di incoscienza e di lì poche ore sarebbe morto”.

Il centro, nel quale operano polizia, guardia di finanza, carabinieri ed esercito, è stato inaugurato il 16 dicembre. Neanche un mese, ma il prefetto di Gorizia Massimo Marchesiello parla già di “criticità strutturali”. E Magi aggiunge dettagli che ha raccolto come testimone: “Ho visto una situazione insostenibile – racconta – molti ospiti si erano inferti dei tagli, molti di loro erano in stato confusionale, sembravano essere stati sedati con calmanti e psicofarmaci”. “Le stanze possono ospitare 6 persone, davanti a ogni stanza c’è un cortile recintato da una gabbia. Le norme prevedono che i pasti siano serviti in uno spazio comune, invece il cibo è distribuito nelle gabbie”, continua il deputato. Cronaca e testimonianze raccontano di situazioni difficili che non riguarda solo Gorizia: il 12 gennaio un cittadino tunisino di 34 anni è morto nel centro di Caltanissetta.

Rilanciati dal decreto Minniti-Orlando, i Cpr hanno visto portare dal decreto Salvini da tre a sei mesi il tempo di permanenza massimo. La spiegazione che venne addotta all’epoca: il numero ingente degli irregolari non permetteva di identificare tutti in soli 90 giorni. “È un falso problema – commenta Magi – è completamente sballata l’idea che i rimpatri si facciano grazie all’esistenza di questi centri. Per espellere chi ha commesso reati si deve intervenire durante il periodo di detenzione in carcere. Ora chiederò che la Commissione Affari costituzionali di cui sono membro faccia una visita ispettiva in tutti i Cpr perché ci si renda conto di quale sia la realtà di questi posti. L’obiettivo deve essere uno solo: chiuderli”.

“I Parlamenti non dovrebbero esprimersi sulla Storia, mai”

Proviamo a capire questo tempo con Alessandro Barbero, storico, docente di Storia Medievale all’Università del Piemonte Orientale, autore di biografie e autentici gioielli di prosa (tra cui il delizioso Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, Premio Strega 1996).

Professore, ha un seguito di fan appassionati ai limiti della devozione. Le sue lezioni furoreggiano su YouTube. Non essendo lei esattamente un influencer, le chiedo: la Storia, che la scuola spesso fa odiare, è diventata una fonte di conforto?

Ho dubbi sul fatto che la Storia piaccia perché la gente ha voglia di scappare dall’attualità. Semplicemente, il passato è un posto divertente in cui passare un po’ di tempo. Poi noi ci illudiamo che serva anche a imparare qualcosa, ad aprire un po’ le teste.

Ai primi del Novecento Gaetano Salvemini scriveva che della scuola pubblica non importa niente a nessuno. È così anche oggi?

È drammatico, ma è così. Salvemini dice che il lavoro dell’insegnante è durissimo e pagato malissimo. Uno arriva col sacro fuoco, e a forza di faticare e dare lezioni private per andare avanti, il sacro fuoco sparisce e rimane il mestierante.

Lei ha avuto parole dure per l’alternanza scuola-lavoro renziana; non sa che nel mondo attuale sono più utili le soft skills, come passare i prodotti su un codice a barre dell’autogrill, che non la mole inutile di nozioni che si apprendono a scuola?

La scuola non insegna un sacco di cose fondamentali. Non insegna a fare l’amore, che è importantissimo. Ho sentito dire “così imparano come funziona il lavoro”. Il punto è che non è la scuola che deve insegnare come funziona il lavoro.

Ha consigliato di togliere il saluto a chi parla di meritocrazia: perché?

La meritocrazia è un enorme equivoco che si basa sul fatto che si possa stabilire cosa sia il merito e che sia giusto premiarlo, senza preoccuparsi dei costi. I meccanismi di meritocrazia possono essere facilmente distorti: tendono a premiare i furbi e quelli che si adattano alle regole del sistema e penalizzano chi potrebbe davvero innovare.

Cosa pensa della recente risoluzione del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo?

Stiamo facendo il catalogo degli orrori! Uno esita a dire: siamo governati da una manica di analfabeti. Però… Intanto, i Parlamenti di ogni tipo non dovrebbero mai esprimersi sulla storia, sulla memoria, anche con le migliori intenzioni. In questo caso le intenzioni non erano nemmeno le migliori. Il Parlamento è stato intrappolato in una risoluzione che veniva da Paesi la cui storia è totalmente diversa dalla nostra, che si ostinano a pensare che i nazisti erano meglio dei comunisti, come la Polonia, dove si cerca di non far ricordare l’entusiasmo con cui molti polacchi hanno partecipato allo sterminio degli ebrei. Nella loro concezione distorta può nascere l’idea che la falce e martello faccia orrore quanto la svastica. In Europa occidentale non sta né in cielo né in terra. I parlamentari tra virgolette di sinistra hanno votato qualcosa che non capivano neanche cosa fosse.

Quindi “via Stalingrado” non è pari a “via Hermann Göring”?

No. Il nazismo è un’ideologia inventata in Germania da Hitler e i suoi soci, è durata 20 anni; essere nazista vuol dire essere d’accordo con quella cosa. Il comunismo è esistito per 150 anni, in tutto il mondo, ha avuto milioni di fedeli e militanti. In alcuni casi questi sono andati al potere e hanno commesso delitti. Ma il comunismo non ha mai voluto dire prendere il potere per mandare la gente nei lager. Erano quelli che lottavano per i diritti della povera gente, e finivano loro nei lager.

Comunista è un insulto.

In qualche cassetto ho una tessera del Pci firmata da Enrico Berlinguer, con la falce e il martello; voglio vedere chi venga a dirmi che me ne devo vergognare.

Ha fondatezza la teoria della sostituzione etnica?

Gli italiani sono frutto di diversità e anche di scomparse: i longobardi non ci sono più. Beninteso, non bisogna sottovalutare il senso di sicurezza che dà sapere che nello stesso pianerottolo c’è un vicino che va alla stessa messa, né dire a chi è scioccato “sei un cretino”. Bisogna capire le sue ragioni e spiegare. Sennò chi è preoccupato cade preda dei ciarlatani del complotto.

Salvini intercetta una paura o è un ciarlatano?

Chi ha messo in giro il complotto della sostituzione etnica è un cretino, i politici cavalcano quel che gli interessa cavalcare.

Ritiene ci sia una riemersione dell’antisemitismo?

No, se non nella misura in cui in questa società estremamente frammentata ci sono singoli o gruppi che nutrono un odio ingiustificato per qualcuno, e vanno a sparare. Ma non è un antisemitismo paragonabile a quel che è stato in passato. La polizia e le classi dirigenti erano antisemite. Oggi l’antisemitismo è condannato da tutti, non ha appoggio nel potere. Alcuni volutamente confondono antisemitismo e opposizione alla politica israeliana. L’antisemitismo è una cosa grave, penso a quando la senatrice Segre riceve insulti online, ma quelli sono dei cretini isolati. C’è chi ha interesse a impedire che si critichi lo Stato di Israele. Questo è un antisemitismo inventato.

Quale sarà lo sbocco del capitalismo predatorio? Perché non può esserci una rivoluzione dei lavoratori sfruttati e poveri?

Chi l’ha detto che non può esserci? Sono cose lente. Possono passare secoli in cui un sistema iniquo riesce a farsi accettare, magari anche a creare consenso, e poi esplode. Non c’è motivo di pensare che questo capitalismo disgraziato stia per finire, ma non c’è nemmeno certezza che un giorno la Rivoluzione non arrivi.

Lei ha scritto Carlo Magno, un padre dell’Europa. L’Europa coincide con l’Unione Europea?

Quando ci hanno venduto l’Unione europea come grande speranza, Europa voleva dire Europa occidentale, Paesi molto simili che sono precipitati nei due disastri delle guerre e volevano inventarsi un modo diverso di stare insieme. L’ideologia oggi dominante che vede solo il vantaggio economico ha portato dentro Paesi di per sé gloriosi – Romania, Bulgaria, Polonia, Lettonia – che però non condividono storia e cultura dell’Europa occidentale.

Ma anche nel nostro giro siamo diversi. Carlo I d’Inghilterra decapitato, Luigi XVI ghigliottinato. L’Italia, diceva Umberto Saba, è fratricida, non parricida.

Noi italiani siamo poco rivoluzionari, per l’impatto della Chiesa e per l’Inquisizione. Ma l’Illuminismo, la separazione tra Chiesa e Stato, l’aver creato imperi coloniali, l’aver ragionato sulla tolleranza e la libertà, l’aver avuto esperienze di governo parlamentare: questo fa una civiltà comune.

Sta scrivendo un libro su Dante.

È la vita di un uomo del Medioevo: mi interessa quest’uomo riconosciuto come un genio in vita, immerso nel suo tempo, che parlava molto di sé e racconta quando a 18 anni incontra la ragazza di cui è innamorato, torna a casa, si chiude in camera e la sogna nuda.

Cosa sta leggendo?

Saint-Simon, le straordinarie memorie della corte di Luigi XVI in otto volumi. Sono arrivato al quinto, mi sto divertendo moltissimo.

Peste suina, sequestrate 10 tonnellate di carne cinese

L’importazione in Italia di ben 10 tonnellate di carne suina, probabilmente affette dalla peste, è stata sventata dalla Guardia di finanza di Padova con una maxi operazione. Due le persone denunciate, di nazionalità cinese, per i reati di commercio di sostanze nocive, diffusione di malattie di animali, contrabbando, violazione della disciplina igienica della produzione e della vendita di sostanze alimentari. La carne era destinata a ristoranti cinesi di cui i due denunciati, titolari di una ditta di import specializzata, erano fornitori. Il blitz della Gdf è scattato in un magazzino all’ingrosso di generi alimentari dove si stavano scaricando da un camion proveniente dall’Olanda 9.420 kg di carne suina di origine cinese, importati nell’Ue in violazione delle norme doganali e sanitarie e che era conservata in mezzo ad altri prodotti di origine vegetale. La carne è stata subito distrutta: a imporlo una direttiva europea che ne vieta l’importazione dalla Cina e la vendita, a causa dell’enorme diffusione nel Paese della febbre suina africana, malattia estremamente contagiosa tra suini e cinghiali, anche se non trasmissibile all’uomo.

Il controllo è scattato anche perché la ditta era già finita nei guai per commercio di materiale scadente in passato e per violazione dei sigilli, e sulla stessa pesano altre quattro precedenti denunce. La Finanza, su coordinamento della Procura di Padova, ha provveduto a controllare anche la filiera dei ristoranti che abitualmente si riforniscono dalla ditta sequestrata ma i riscontri sono stati negativi: nessuna carne di maiale cinese, ma sono state trovate altre irregolarità ora al vaglio dell’autorità giudiziaria.

“Ci sono antibiotici nel latte”. Il veleno degli allevamenti

È l’alimento dell’infanzia, amato o avversato da chi si preoccupa della salute oltreché del gusto. Fra le motivazioni contrarie al consumo di latte ci sono l’accusa di essere nocivo e di rappresentare un problema per i costi ambientali legati all’allevamento intensivo. Rischi avvalorati da un’inquietante segnalazione: nel latte italiano si possono trovare tracce di farmaci cortisonici, antinfiammatori e antibiotici. Si tratta, va detto, di concentrazioni sotto i limiti fissati dal regolamento Ue, ma non proprio trascurabili quando si tratta di un alimento consumato dall’80% degli italiani, che bevono in media 52 litri di latte all’anno.

A scoprire la presenza di sostanze farmacologiche nel latte fresco o a lunga conservazione, è il Salvagente che, nel nuovo numero in edicola domani, pubblica i risultati dello studio effettuato dalle Università Federico II di Napoli e di Valencia su 56 campioni di latte, integrate dal test condotto dallo stesso mensile su 21 latti comunemente venduti in Italia da Parmalat a Granarolo, da Mila a quelli a marca dei supermercati o dei discount. “È grazie a un nuovo metodo di analisi in grado di quantificare contenuti che ai test ufficiali sarebbero passati inosservati, che – spiega il direttore del Salvagente Riccardo Quintili – abbiamo rilevato la presenza di tre farmaci in 12 campioni su 21: un antibiotico, l’amoxicillina, un cortisonico, il dexamethasone e un antinfiammatorio, il meloxicam. Solo nel latte fresco Lidl – aggiunge – è stata evidenziata contemporaneamente la presenza di tutti e tre i farmaci”. Poi, in quattro latti (Ricca fonte, Esselunga fresco, Carrefour fresco e Parmalat Zymil fresco), sono state rilevate tracce di due farmaci e negli altri cinque campioni c’è solo un farmaco. “Anche se i livelli degli antibiotici riscontrati nel latte sono molto bassi, questo non significa che si possa escludere un rischio per il macrobiota, l’insieme dei microrganismi che popolano il nostro apparato digerente e che svolgono funzioni benefiche”, spiega Ivan Gentile, professore di malattie infettive presso la Federico II.

I farmaci riscontrati sono, infatti, quelli utilizzati in massa negli allevamenti intensivi per guarire la mastite, vale a dire l’infezione alla mammella che colpisce le mucche da latte. Sottoposte a un forte stress produttivo, diventano più sensibili alle infezioni. E spesso si finisce per somministrare un antibiotico anche quando la mastite non ha ancora dato segni evidenti. Questo, però, espone sia gli animali sia chi beve il loro latte a un rischio che si sottovaluta: la resistenza antibiotica. In poche parole, il corpo non reagisce più ai farmaci, dal momento che i ceppi dei batteri si sono trasformati in organismi resistenti. Il decorso risulta così più lungo, aumenta il rischio di complicanze fino ad arrivare a esiti invalidanti e morte.

Tanto che per l’Agenzia europea del farmaco, l’uso di antibiotici negli allevamenti in Italia è 2,5 volte più alto delle media europea. Venti volte maggiore della Svezia. E per l’Istituto Superiore di Sanità (2019), nel nostro Paese la resistenza nei loro confronti rispetto a specie batteriche sotto sorveglianza risulta superiore alla media Ue. Non ci si deve stupire, quindi, se l’Italia – come emerge da uno studio condotto dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, pubblicato sulla rivista medica The Lancet – abbia il più alto numero di morti causate da infezioni resistenti agli antibiotici in Europa: oltre 10.700 decessi sul totale di 33.000. L’Organizzazione mondiale della Sanità e l’Ue continuano a guardare alla resistenza agli antibiotici come a uno dei fenomeni più preoccupanti per la salute pubblica, con le morti da super-batteri che nel 2050 potrebbero superare quelle da cancro e portare così le spese sanitarie al 2-3% del Pil mondiale ogni anno.

Dal 2017 l’Italia ha avviato un piano d’azione quadriennale contro la resistenza antimicrobica, mentre lo scorso anno è stata introdotta la ricetta elettronica veterinaria per ridurre l’uso di antibiotici senza compromettere la produttività e la salute degli animali. Una sfida comunque complicata. Come spiega il veterinario Enrico Moriconi, “se si volessero allevare le mucche secondo i loro bisogni, un litro di latte costerebbe 4 euro al litro”. Intanto Esselunga, Granarolo e Conad, informate della ricerca, si sono dette disposte a lavorare per limitare il più possibile i residui dei farmaci veterinari negli allevamenti e di conseguenza nel latte.

Così il Pd aiuta. Singapore a prendersi il porto ligure

Quel che non fece la Lega, lo farà il Pd. Fra gli emendamenti al Milleproroghe appena depositati, è stata inserita la cancellazione del divieto vigente di detenere due concessioni in un porto per gestire la stessa tipologia di traffici. Previsione della legge portuale del 1994 per evitare la concentrazione di più terminal nelle stesse mani. Ebbene, la Lega inserì l’abrogazione in un emendamento alla Manovra, salvo poi ritirarla perché, parole dell’allora sottosegretario ai Trasporti, Edoardo Rixi, “inopportuna” nei tempi. La modifica, infatti, sbloccherebbe la più grossa operazione di concentrazione portuale italiana degli ultimi anni (raccontata dal Fatto il 9 ottobre): la fusione fra Psa e Sech.

La prima, che avrebbe il controllo, è una multinazionale del fondo sovrano di Singapore Temasek, concessionaria attualmente del terminal container di Genova-Prà, il più importante d’Italia. Sech, facente capo alla Gip dei fondi anglofrancesi Infravia-Infracapital, gestisce l’altro terminal container dello scalo, nel porto storico. Giorni fa il deputato dem Andrea Romano (di Livorno, porto italiano di cui Gip gestisce il maggior terminal container), membro della Commissione Trasporti, preannunciò alle agenzie l’emendamento abrogativo. Salvo, un paio d’ore dopo, ripensarci: le valutazioni sulla valenza generale sono in corso, non vogliamo norme ad aziendam. L’emendamento potrebbe quindi non esser presentato”. Pochi giorni e nuovo dietrofront.

“Cancellare quel divieto è fondamentale per lo sviluppo dei porti. Occorre una formulazione equilibrata che non leda le regole della concorrenza e, al contempo, non ingessi i porti in situazioni obsolete che ne pregiudicano la competitività” ha spiegato, a proposito delle versioni da lui invece depositate, Franco Vazio, deputato Pd, savonese come Luca Becce, presidente di Assiterminal (associazione dei terminalisti portuali) che rivendica l’abrogazione come un obiettivo di “interesse generale, condiviso e perseguito da almeno 10 anni”, concorde con Vazio nella scelta di annacquare il divieto (invece di cancellarlo come voleva la Lega), formalizzando la scontata responsabilità dell’Antitrust (o delle Autorità Portuali) nella valutazione caso per caso del mercato rilevante ai fini dell’eventuale restrizione concorrenziale. La condivisione però non è unanimità: “Becce mischia interessi associativi e personali dato che lavora ancora per Gip (nel cda di Tdt, la controllata livornese, ndr)” tuona Pasquale Legora, vicepresidente Assiterminal e manager di un terminal di Msc, la multinazionale svizzera di Gianluigi Aponte infastidita dal rafforzamento di Psa.

“Falso – ribatte Becce –. Abrogare il divieto, fantasiosamente aggirato negli anni è nella mia agenda da sempre e sposa un’istanza manifestata da tempo dal mercato”. Nel 2016, quando riformò la legge portuale, Graziano Delrio ministro, il Pd però non la colse. Ora, invece, nella guerra delle banchine italiane ha scelto di schierarsi (come Forza Italia che ha presentato proposte analoghe).

Ilva, le esplosioni frenano Arcelor

Ci sono volute tre esplosioni per convincere ArcelorMittal a fare marcia indietro e annullare il trasferimento della produzione dall’acciaieria 1 all’acciaieria 2 dell’ex Ilva di Taranto. Gli avvertimenti lanciati dai sindacati sul cattivo stato in cui si trova quest’ultimo impianto non erano bastati alla multinazionale che, però, ha dovuto fare dietrofront dopo le tre deflagrazioni che si sono verificate ieri notte (fortunatamente senza feriti) nelle vicinanze dell’area in cui transita personale per le normali attività di affinazione. In particolare, è stato colpito l’impianto Idf (che serve a trattare il gas) a servizio del Convertitore 1: per il suo ripristino occorreranno almeno due settimane.

A distanza di 24 ore dalla decisione di Arcelor di fermare l’acciaieria 1 mandando in cassaintegrazione altri 250 lavoratori e trasferendo la produzione sulla seconda acciaieria dello stabilimento tarantino, è arrivato il contrordine: l’impianto non sarà fermato e i lavoratori hanno già ricevuto la comunicazione di revoca della cig. La multinazionale, però, sembra aver solo spostato l’idea di modificare i nuovi assetti di marcia legati a “uno scarso approvvigionamento di materie prime e all’attuale capacità produttiva legata alle commesse”: il fermo dell’acciaieria 1 comporterà una riduzione di personale da 477 a 227 unità e con la produzione trasferita sull’acciaieria 2 la produzione di quest’ultima passerebbe dall’attuale regime di due convertitori a tre in marcia.

Grandi le preoccupazioni dei sindacati che hanno chiesto all’azienda di “tornare sui suoi passi e sospendere immediatamente la scelta unilaterale di fermare l’Acciaieria 1 in quanto i continui rinvii e ritardi su manutenzione ordinaria e straordinaria determinano, in caso di aumento produttivo, situazioni di pericolosità sia dal punto di vista della sicurezza che dell’ambiente”. Sulla vicenda è intervenuto Maurizio Landi della Cgil che ha chiesto un nuovo tavolo di confronto tra azienda e sindacati: “C’è un confronto aperto tra governo e ArcelorMittal – ha detto il segretario generale della Cgil – legato anche ai tempi sanciti dal Tribunale di Milano che ha rinviato l’udienza al 7 febbraio. Noi partiamo dal fatto che c’è un accordo firmato, che va rispettato e applicato. E chiediamo che al più presto sia possibile conoscere il piano industriale che stanno discutendo e come intendano affrontare questa situazione”. Per il governatore Michele Emiliano, che chiesto un incontro all’ad di ArcelorMittal, Lucia Morselli, “lo stabilimento è in una condizione generale di manutenzione molto grave, e quindi bisogna intervenire il più rapidamente possibile nello schema della sentenza del Tribunale d’appello che ha sì detto che Afo2 può e deve continuare a funzionare, ma questo deve avvenire con tutte le cautele necessarie a evitare di mettere in pericolo la vita degli operai e la salute non solo degli operai ma anche dei cittadini”.

La “craxata” a favore di Ligresti: Eni danneggiata e soldi in tasca

Con il suo consueto stile squisito, nella scrittura come nella vita, il giudice Renato Caccamo, melomane e grande musicofilo, scrive di suo pugno le motivazioni della sentenza d’appello Eni-Sai che condanna Bettino Craxi a 5 anni e 6 mesi per corruzione. Della sentenza di primo grado, “monumentale” tanto da incutere “rispetto e soggezione”, Caccamo dice che “il lettore, colto da sindrome stendhaliana, sgomento si perde nei rigogliosi rivoli”. Riportati, in appello, alla loro “struttura essenziale”.

La vicenda, scoperta dal pm Fabio De Pasquale, riguarda un accordo per far gestire dalla Sai, compagnia allora di Salvatore Ligresti, tutti gli assetti assicurativi dei 140 mila dipendenti dell’Eni, attraverso una joint-venture tra Sai, Eni e Salomon Brothers. A guadagnarci era solo Ligresti, grande amico personale di Craxi e del Psi. A perderci l’Eni, che però aveva al suo vertice Gabriele Cagliari, un manager scelto dal vicesegretario del Psi Claudio Martelli. Dunque l’affare si fa. Ma naturalmente scorrono fiumi di tangenti, che servono a oliare i meccanismi. Le intascano i partiti, i mediatori, i manager Eni. Promessi 3 miliardi di lire da dividere tra Psi e Dc, ma la cifra totale era molto più alta, se si pensa che Ligresti “sborsò a Molino, senza nulla ricevere in cambio, ben 17 miliardi” e altri 7 “si era impegnato a versare sotto certe condizioni…”.

Il regista dell’operazione, scrive il giudice Caccamo, era “Craxi Benedetto, all’epoca segretario politico del Psi”. Come? “Approvando le intese ed esercitando la propria influenza sul presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari”. Questi e i suoi collaboratori approvano l’intesa (non vantaggiosa per la compagnia) “nella piena conoscenza di consentire in tal modo il versamento di illeciti ‘contributi’ al Psi e e alla Dc”.

La sentenza dedica lunghe pagine a spiegare come “Craxi non avesse mai smesso di occuparsi in prima persona di tutto ciò che riguardasse le necessità economiche del Psi nonostante gli impegni derivantigli dalle alte cariche nazionali e internazionali rivestite nel decennio 1983-93”. Lo confermano “persone di fiducia sue e del partito quali Larini e Ferranti”. Silvano Larini è un amico di Craxi “da lui incaricato nel 1987 di occuparsi della consegna delle tangenti Mm, che porta in via ordinaria le somme nell’ufficio di Piazza Duomo 19 dove solo in parte venivano ritirate dal segretario amministrativo Vincenzo Balzamo”. Enrico Ferranti è il direttore finanziario di Eni. Ai vertici della compagnia fino al 1989 c’era il socialista Franco Reviglio. Ma Craxi – racconta Larini – “si era spesso lamentato con lui della esiguità dei finanziamenti illeciti sotto la gestione Reviglio”. Ecco che Martelli, nel 1989 vicepresidente del Consiglio, caccia Reviglio e impone come presidente dell’Eni Cagliari, la cui nomina era “da riferire a una maggiore ‘disponibilità’”. Cagliari si mostra infatti subito disponibile anche al grande accordo con Ligresti. In verità, “nel settore assicurativo il referente diretto di Craxi” era Gianfranco Troielli, agente dell’Ina Assitalia e titolare della agenzia di Milano, la più grande d’Europa, che era anche “amico personale di Bettino Craxi da quando Craxi aveva i pantaloni alla zuava”, racconta Larini. A chi concedere allora il ricco boccone? A Sai o a Ina? A Ligresti o a Troielli? Cagliari racconta (poco prima di togliersi la vita il 20 luglio 1993) che “Craxi era stato investito – come autorevole arbitro – del compito di risolvere la questione e aveva dato un’indicazione di favore a un’intesa tra tutti e tre i partner”. Ma “finì che non si misero d’accordo”. Allora Craxi dà “il suo assenso all’accordo corruttivo” tra Cagliari e Ligresti. Per chiuderlo, però, bisogna coinvolgere anche la Dc: il segretario amministrativo Severino Citaristi indica come mediatore Aldo Molino. Ligresti lo descrive “come un maneggione”, ma deve accettarlo e pagarlo. Intanto Ferranti versa sul conto svizzero Trend Set di Cagliari 600 milioni giratigli da Molino. Entra in partita anche Sergio Cusani, altro cassiere informale di Craxi. Racconta Molino: “Fui riconvocato da Cusani il quale con determinazione e crudezza mi chiese cosa c’era per lui e per il partito… Mi chiese 3 miliardi di lire”. Il giudice Caccamo conclude che “può ritenersi pienamente provato che Craxi, nonostante gli impegni politici e di governo, si occupava in prima persona delle ‘operazioni’ concernenti il finanziamento del partito, quanto meno quelle di grande rilievo, quali la joint-venture Eni-Sai. E che nell’ottica di questi ‘approvvigionamenti’, debbano trovare collocazione i suoi stretti rapporti, talora anche di amicizia, con disinvolti imprenditori, faccendieri e uomini di partito sistemati ai vertici di enti pubblici economici, quali Ligresti, Troielli, Cagliari”. Pene confermate in appello, dunque. Anche a Craxi, senza attenuanti generiche: “L’appellante non appare meritevole, in considerazione della gravità della condotta criminosa e in particolare del discredito che, data la sua eminente e vistosa posizione nella classe politica dirigente, dalla condotta è derivata alla classe politica stessa, alla pubblica amministrazione e alla classe imprenditoriale”.

“Un sindaco democratico lo avrebbe dovuto già fare”

“Una proposta doverosa, che il sindaco di Milano avrebbe dovuto anticipare”: così Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega, giudica l’idea del lettore del Fatto Quotidiano che propone di dedicare una via di Milano a Francesco Saverio Borrelli.

Una via dedicata al procuratore di Mani Pulite?

Un sindaco democratico avrebbe dovuto anticipare la proposta del vostro lettore. Borrelli, il procuratore che a Milano istituisce il pool anticorruzione, rappresenta, insieme ai contemporanei pool antimafia, l’Italia migliore, l’Italia che dovrebbe essere la normalità e che invece, purtroppo, è l’eccezione. Borrelli rappresenta pienamente l’articolo della Costituzione che dice che il magistrato è soggetto solo alla legge e prende sul serio quello che è scritto in tutti i Tribunali (e che non è normalmente applicato), e cioè che la legge è uguale per tutti.

Che cosa vorrebbe dire una via intitolata a Borrelli nella città dov’è nata Mani Pulite?

Un Paese che prendesse davvero sul serio la sua Costituzione – il patto solenne che ci lega tutti insieme in quanto con-cittadini e che dovrebbe quindi essere nel cuore di tutti noi e non solo nella retorica delle feste comandate – dovrebbe considerare Borrelli e le persone come lui i riferimenti simbolici dell’Italia futura. A questo servono le intitolazioni delle strade: esprimere quella che vorremmo fosse l’Italia futura.

Il clima oggi è piuttosto segnato da altre richieste: dedicare una via, o almeno una targa, a Bettino Craxi.

Una via a Bettino Craxi sarebbe una via alla delinquenza politica. Lo abbiamo scritto nel terzo numero di MicroMega, nel 1986, quando Craxi era presidente del Consiglio. Scrivevamo che c’erano due Craxi. Il primo è quello che arriva alla segreteria del Psi in maggioranza con Lombardi e con Giolitti, nella stagione di Mondoperaio e della critica simultanea alla Dc e al Pci che non riusciva a liberarsi dal legame con l’Urss. Il secondo Craxi è quello che rompe con Lombardi e con Giolitti e che stringe una alleanza organica con la Dc. Diverta partito dell’establishment. Poi c’è il terzo Craxi, quello di Tangentopoli, che ha avuto condanne definitive, con una mole imponente di prove, che riguardano non solo il finanziamento illecito del partito, ma anche illeciti arricchimenti personali. Tutto stra-documentato. E con condanne in base a leggi che egli stesso aveva varato o mantenuto. E dunque la pretesa del Craxi latitante è stata quella di essere al di sopra delle leggi che aveva egli stesso formulato o mantenuto. Una pretesa pre-moderna: che le leggi possano valere per i cittadini, ma non per i politici, che le leggi le fanno ma sono legibus soluti. Una pretesa che ci fa tornare indietro di qualche secolo.

Si aspetta che il sindaco di Milano Giuseppe Sala accolga la proposta di dedicare una via a Borrelli?

Il coraggio etico-politico di Sala mi sembra un pochino al di sotto di quello di Don Abbondio. Per cui sarei stupito – felicemente stupito – se dedicasse una via a Francesco Saverio Borrelli e nessuna via e nessuna targa a Bettino Craxi. Riconoscere Craxi significherebbe disconoscere la Costituzione italiana, che è il fondamento delle leggi che Craxi ha infranto commettendo crimini che ne fanno – se le parole hanno ancora un senso – un criminale. Del resto, il sindaco Beppe Sala ha già compiuto un gesto ai limiti dell’osceno: ha consegnato l’Ambrogino d’oro alla memoria, contemporaneamente, a Francesco Saverio Borrelli e a Filippo Penati, le cui gesta lo hanno portato a una non-assoluzione per prescrizione. Il clima, purtroppo, è quello della cosiddetta “riconciliazione”: ma in un Paese civile non viene neppure l’idea di mettere sullo stesso piano, per riconciliarli, i politici che commettevano reati e i magistrati che li scoprivano, obbedendo solo alla legge. Come non viene in mente di mettere sullo stesso piano chi ci ha restituito la libertà combattendo il fascismo e i fascisti che per 20 anni ce l’hanno tolta: anche a Giorgio Almirante vogliono dedicare una via.