“Armi da guerra contro Gratteri”. Rafforzata la scorta

La ’ndrangheta vuole ancora uccidere il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Nei confronti del magistrato calabrese sarebbe pronto un attentato in grande stile. È quanto emerge da alcune indagini che rivelano come alcuni boss abbiano messo a punto un piano per assoldare un killer contro il magistrato. E così di conseguenza la scorta nei suoi confronti è stato rafforzata.

Le nuove minacce spiegano anche perché in occasione della manifestazione del 18 gennaio, quando circa duemila persone si sono riunite davanti alla Procura per esprimere solidarietà a Gratteri, sul terrazzo del palazzo di giustizia di Catanzaro fossero schierati i cecchini dei Carabinieri e della polizia di Stato. Quella mattina la tensione era altissima. Era stata intensificata la videosorveglianza su piazza Matteotti dove il dispositivo di sicurezza ha compreso anche i cani anti-esplosivo. Il rischio era che quello fosse proprio il giorno stabilito per l’agguato.

La giornata è filata liscia, ma non è cessato l’allarme di cui si è discusso durante il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduto dal prefetto Francesca Ferrandino. All’incontro tenuto il 14 gennaio, c’erano i vertici delle forze del- l’ordine e della magistratura che, proprio in quelle ore, stavano valutando gli elementi investigativi emersi in alcune recenti attività di indagine.

In sostanza, secondo quanto risulta al Fatto, stando alle indagini alcuni boss di una cosca operante nel distretto di Catanzaro hanno chiesto agli esponenti di una famiglia mafiosa alleata di occuparsi dell’organizzazione di un attentato contro Gratteri e la sua scorta.

Si tratterebbe di uno scambio di favori tra boss che avrebbero deciso di utilizzare armi da guerra. Negli ambienti investigativi si parla di un fucile ad alto potenziale che, stando alle indiscrezioni, dovrebbe finire in mano a un killer, già assoldato ed esperto nell’utilizzo di questo tipo di armi.

Come è ovvio c’è il massimo riserbo sui nomi dei mandanti e degli esecutori. Non è escluso, però, che gli inquirenti si siano già fatti un’idea più precisa sul contesto in cui è maturato il progetto di attentato. Saranno le indagini a fornire ai magistrati un quadro più chiaro della situazione. Proprio in queste ore, infatti, gli investigatori stanno cercando elementi per definire i contorni di un rischio che i bene informati giudicano reale anche se nessuno è in grado di sapere quanto imminente.

Nel dubbio, il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica intanto ha deciso di rafforzare la scorta del procuratore Gratteri a cui il ministero della Giustizia ha subito sostituito le macchine blindate. In Calabria, infatti, sono arrivate due Jeep corazzate a prova di bomba e la Prefettura ha disposto pure la blindatura delle finestre del suo ufficio che si affaccia sulla piazza “Falcone e Borsellino”. Gratteri non intende commentare la situazione.

La notizia del progetto di attentato arriva a poche settimane dagli oltre 300 arresti che la Dda di Catanzaro ha eseguito nell’ambito dell’operazione “Rinascita- Scott” contro la cosca Mancuso e i suoi referenti politici. Anche a causa di quell’inchiesta, è un periodo in cui Nicola Gratteri subisce attacchi da più fronti. Il magistrato sembra sempre più isolato sia dalla politica che da alcuni colleghi. In queste settimane, infatti, è stato maggiormente esposto e bersaglio di polemiche che gli sono state mosse sia da politici, come la deputata Enza Bruno Bossio (alla quale ha indagato il marito Nicola Adamo), che dagli stessi ambienti giudiziari.

Già provato dall’inchiesta sul procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e dall’arresto del giudice della Corte d’appello Marco Petrini, entrambi indagati per corruzione, il palazzo di giustizia di Catanzaro è ancora scosso dalle parole del procuratore generale Otello Lupacchini che, all’indomani dell’inchiesta “Rinascita”, in diretta con il TgCom ha bollato come “evanescenti” le indagini di Gratteri. Dichiarazioni pesantissime e per le quali il ministro Alfonso Bonafede e il Pg della Cassazione Giovanni Salvi hanno chiesto alla sezione disciplinare del Csm di trasferire d’ufficio Lupacchini.

Veleni di palazzo a parte, non è la prima volta che il procuratore Gratteri si trova a fare i conti con la reazione dei clan. Antonio Ribecco è finito in carcere con l’accusa di essere il referente della cosche crotonesi a Perugia. Il 27 maggio 2017 è stato intercettato con il fratello. La conversazione cade subito su Gratteri: “Questo se non lo fermano, li piglia tutti”.

C’è poi un’altra intercettazione che risale all’anno scorso in cui il magistrato è stato paragonato a Falcone e definito “un morto che cammina”: “Guaglio’ uno di questi… na botta… uno di questi è ad alto rischio ogni secondo… Eh… Falcone come è stato. Quando ha superato il limite… se lo sono cacciato”.

Sindaco accusa Bonaccini: “Ha minacciato il mio Comune”

Atmosfera rovente negli ultimi giorni di campagna elettorale in Emilia-Romagna: il primo cittadino di un Comune ferrarese di 3mila abitanti, Jolanda di Savoia, ha presentato un esposto alla Procura di Bologna in cui accusa di “ritorsione” Stefano Bonaccini, attuale governatore in corsa per il bis. In sei pagine Paolo Pezzolato spiega che la sua vice Elisa Trombin, già sindaca prima di lui, sarebbe stata avvicinata da Bonaccini con l’offerta di candidarsi alle Regionali nella lista civica del Presidente. Un’offerta poi rifiutata in favore dell’avversaria leghista Lucia Borgonzoni. Il dem avrebbe a quel punto reagito con nervosismo, secondo quanto denunciato nell’esposto anticipato da Il Resto del Carlino: “Se vinco io, tu e il tuo Comune siete finiti”. Un’accusa grave che, secondo i due amministratori locali assistiti dall’avvocato Gabriele Bordoni, sarebbe supportata da un audio.

La registrazione, essendo una conversazione privata, dovrebbe avere l’ok per la divulgazione da Bonaccini stesso: “Ne discuteremo davanti all’autorità giudiziaria, se verremo chiamati. Io sono la persona più tranquilla del mondo”. Il governatore emiliano-romagnolo avrebbe inoltre fatto pressioni perché tre Comuni limitrofi a Jolanda rifiutassero di continuare a condividere alcuni dipendenti. Un’accusa rimbalzata dagli stessi sindaci dei paesi coinvolti, come Marco Fabbri di Comacchio: “La convenzione per il comando del vigile aveva natura temporanea ed è scaduta, nessuna revoca e il sindaco Pezzolato lo sa bene, perché c’è evidenza e prova scritta di quanto affermo”. Sulla stessa linea Andrea Zamboni che parla di “macchina del fango” da sindaco di Riva del Po e presidente dell’Unione Terra e Fiumi (che comprende anche Trevignana), da cui provengono i tre dipendenti, tra i quali la sorella del sindaco Pezzolato stesso.

Il “fattore sud” per Salvini può rompere il sonno di Bologna

La grassa? La dotta? La rossa? Vattelapesca. Bologna negli ultimi anni è scomparsa dai radar. Si è come assopita: silente, estranea. In televisione sono quadruplicati i talk show, ricordate di aver mai visto il volto del sindaco di quella città? Si chiama Virginio Merola e porta avanti onestamente la baracca. Bologna ha pagato dazio prima a Firenze, nell’età recente del renzismo, e poi a Milano, avanguardia capitalistica d’Italia. È rimasta indietro persino a Napoli, e così oggi stupisce che la città sia messa meglio di tutte e tre le altre.

“Con l’Alta velocità abbiamo conquistato 30 milioni di visitatori. Con l’aeroporto altri nove, ma arriveremo a dodici. A Bologna non manca il lavoro, ma le case. Non ne abbiamo a sufficienza per sistemare i nostri studenti, le migliaia di fuori sede che affollano la città. Il 7 marzo inaugureremo il People mover: in sette minuti ti porta dal centro all’aeroporto. Corse ogni cinque minuti. Un milanese troverà più conveniente venire da noi per prendere l’aereo che andare a Malpensa. Bologna è la città che si è presa cura dei rider, che attua politiche inclusive del lavoro, che non caccia né bastona gli immigrati. Bologna è una città civile e in salute. E infatti qui il Pd vince, non c’è partita con Salvini”. Marco Lombardo è uno dei candidati alla poltrona di sindaco (si vota l’anno prossimo). 39 anni, assessore al lavoro, ottimi studi, ottime relazioni, grande determinazione e grande visibilità.

Il golden boy della politica bolognese è reggino, figlio dell’ex procuratore Lombardo e come tanti calabresi sbarcò in città per studiare. Giurisprudenza e poi l’affermazione sociale, il riconoscimento delle sue abilità. Lui più degli altri, dei tanti. “Anche io sono calabrese, e da Reggio me ne sono andato per la solita storia. Sono tecnico al comune, mi trovo bene e non posso che votare Pd. Il problema sono i miei corregionali, anzi, se vogliamo dirla tutta, sono i meridionali”, spiega Giuseppe passeggiando nel parco della Montagnola, ex centro dello spaccio, del crimine quotidiano, delle polemiche a non finire e oggi quasi risanato, comunque più controllato, meglio pattugliato, in una condizione di salute migliore rispetto agli anni scorsi.

La festa a Bonaccini rischiano di fargliela proprio i meridionali a cui l’Emilia, inclusiva e solidale, ha aperto le porte. Gli immigrati del Sud – distribuiti tra le periferie metropolitane e le campagne – sono la forza sospetta, il battaglione imprevisto, la trincea inaspettata dei leghisti duri e puri.

Il paradosso supremo è che Matteo Salvini il padano trae forza e linfa vitale nella sua Padania dall’appoggio decisivo di quelli che qualche anno fa odiava. Salvini vince le Regionali in Calabria, dove sicuramente confermerà il primato, grazie ai calabresi, e in Emilia Romagna, sempre grazie ai calabresi. Che insieme ai napoletani (quelli che nell’età giovanile Matteo si augurava venissero “puliti” dalla lava del Vesuvio) ai pugliesi, ai siciliani formano il pacchetto di mischia, il domicilio sicuro, l’approdo eletto del leader leghista. È il Pilastro, la periferia triste dove due sere fa Salvini, travestendosi da sceriffo, ha citofonato a casa di un tunisino accusato da un improvvisato tribunale del popolo di essere spacciatore, il serbatoio metropolitano del centro destra. Un voto che si somma a quello delle campagne, alla provincia appenninica e si allarga fin verso la Lombardia, sopra Parma e Piacenza.

Eppure l’odore di Salvini a Bologna si avverte meno che altrove. È la città che ha messo al bando i ribassi d’asta, fonte di corruzione e di acquisizione degli appalti da ditte sospette, nei bandi di gara, è la città che tutela meglio i ceti più marginali attivando e finanziando una fitta rete di solidarietà, è la città dove la Curia di mons. Matteo Zuppi svolge un ruolo di coordinamento dei bisogni. Una città che funziona, che è piuttosto ricca, piuttosto sicura e ora, visti i risultati del turismo, è divenuta anche troppo piccola.

Bonaccini deve dunque temere gli emiliani di seconda generazione, “sono quelli che si sentono più fragili, oggetto della competizione con i nuovi immigrati. I nostri genitori votavano il Pci perché li tranquillizzava, con le coop li faceva guadagnare bene e gli garantiva un futuro. Mio padre, muratore molisano, è riuscito a farsi una casa per sé e ad aiutare noi figli ad averne una. Insomma, la vita diceva bene”, racconta Fabiola, 33 anni, maestra d’asilo.

Oggi il futuro si è accorciato e l’ansia è salita. E quindi, se il sindaco di Castenaso, alle porte della città, viene da Siderno, Calabria profonda, i suoi concittadini, parecchi delle sue parti, chi voteranno?

Bonaccini deve temere anche la scelta, piuttosto suicida, dei Cinquestelle che hanno invocato la lista autonoma chiedendo al povero Simone Benini, il candidato a presidente, di portare la croce fino a domenica. Perderanno comunque. Se vincerà Bonaccini, sarà dimostrata la loro superfluità. Se perderà, saranno imputati di aver spianato la strada al nemico numero uno. Benini macina chilometri, ma chi trova?

Una lettera aperta per la signora Anna Biagini

Se non fosse che “Il portalettere”, geniale programma tv di Chiambretti del ’91-92, è un format registrato (qui i messaggi erano, però, per ben altri personaggi, tipo Cossiga e Andreotti), Salvini potrebbe pensare di darsi alla tv. Una versione mediana tra “Il giustiziere della notte” e un postino di Maria De Filippi. Tutto in favore di telecamera, in via Grazia Deledda, è in corso un dialogo tra Salvini e la signora Anna Rita Biagini, supporter leghista che vive al Pilatro e da anni denuncia il degrado di zona. L’ex ministro: “È occupante abusivo?” Biagini: “No”. E lui: “Ah, è regolare? C’è il nome sul citofono? Qual è?” Biagini: “Famiglia RXXX”. Salvini: “QUESTO è SPACCIATORE?”. Coro di cronisti: “Ci faccia la telecronaca…”. L’ex ministro: “Se i residenti dicono che qui c’è uno spacciatore al primo piano… Io faccio… Buongiorno. Buonasera. È il signor Yxxx? È al primo piano? Ci può far entrare cortesemente?”. L’inquilino del primo piano: “A casa mia?” L’ex ministro: “Ci hanno detto che DA LEI PARTE UNA PARTE DELLO SPACCIO DELLA DROGA QUA IN QUARTIERE. Hanno detto il giusto o è sbagliato?”.

Spetta ad altri pronunciarsi su violazioni che l’ex ministro può aver commesso. Spetta a tutti noi però chiedere rispetto. Rispetto per la signora Biagini. Esasperata perché non si sente al sicuro nel suo quartiere, lì dove è morto il figlio 19enne, ammalato di Sla, che aveva trovato rifugio, e sollievo, nella droga. Merita rispetto l’inquilino del primo piano. Così come gli abitanti del Pilastro e di tutte le “periferie”, che conoscono sulla loro pelle la convivenza spesso difficile. Ed esigono rispetto i poliziotti che scortano l’ex ministro dell’Interno, accanto a lui nel video del citofono: gli stessi che, per strada, contrastano davvero gli spacciatori. P.S. La signora Biagini aveva invitato Salvini al Pilastro su Fb: “Ti puoi fare una cultura sullo spaccio, sui topolini che girano, o sulle siringhe nel parco dei bambini. Sono 60 anni che aspettiamo la famosa caserma…”. Il post è del 7 gennaio 2019. Allora al Viminale c’era lo stesso Salvini che ha deciso di andare a trovare la signora solo a tre giorni dal voto in Emilia.

Il dopo Matteo: il capo dei vescovi in Senato parla di migranti col ministro dell’Interno

“Qualche vescovone e qualche giornale cattolico non rappresentano l’animo dei cristiani”, disse un anno fa Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno, in un momento di irrefrenabile esaltazione nella perenne campagna elettorale sui migranti. Ieri il cardinale Gualtiero Bassetti, il capo dei “vescovoni” italiani, era l’ospite d’onore in sala Koch del Senato assieme al prefetto Luciana Lamorgese, ministro dell’Interno che centellina le apparizioni pubbliche, a parlare di accoglienza e integrazione dei migranti, in un convegno organizzato dall’ente nazionale del microcredito e ispirato al messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale dei rifugiati. Per la prima volta il presidente della Conferenza episcopale italiano ha varcato l’ingresso di palazzo Madama e visitato l’emiciclo, è successo col cardinale Bassetti accompagnato dal ministro Lamorgese. E poi dicono che in Italia le cose politiche e religiose siano immutabili.

Al contrario, in questa fase di governo dopo Salvini e per alcuni prima di Salvini, la Chiesa tenta di rientrare nel dibattito politico e lo fa con un costante dialogo con l’esecutivo in carica. Questo accade nei giorni in cui Salvini, non più ministro dell’Interno e però sempre in campagna elettorale, citofona a un tunisino per chiedergli se spaccia droga e proprio i senatori (tanti i presenti ad ascoltare Bassetti) sono chiamati a decidere se mandare a processo il leghista per il caso Gregoretti, la nave militare con migranti a bordi che restò ferma nel porto di Augusta per il divieto di sbarco imposto dal medesimo Salvini.

Nel mondo italiano che s’è presto rovesciato da un lato e non è detto che non si rovesci di nuovo dall’altro, il cardinale Bassetti è andato sul terreno di Salvini: “La contrapposizione ‘porti chiusi’ o ‘porti aperti’ è un falso dilemma. Si tratta piuttosto di capire – ha aggiunto – cosa succede a queste persone una volta arrivate nel nostro Paese. Non riusciamo neanche a dare compimento ai primi due verbi indicati dal Papa: accogliere e proteggere. Occorre, a mio avviso, non avere timore di ribadire che ogni vita è sacra e, se in pericolo, va salvata sempre. E basta ghetti, bisogna agevolare i percorsi per la cittadinanza”. Per non essere tacciato di facile buonismo, Bassetti ha precisato che il fenomeno migratorio tocca l’Europa intera: “È doveroso realizzare una condivisione delle responsabilità tra tutti i Paesi europei, che faccia sì che i compiti non ricadano solo sui Paesi di primo arrivo: questo obiettivo va perseguito in sede politica, e mai può portare al rifiuto del soccorso e della prima accoglienza di chi è in pericolo”. Il ministro Lamorgese, con un linguaggio più pragmatico, ha affrontato la complessità dell’argomento dal punto di vista di chi deve garantire la sicurezza pubblica e perciò ha ricordato che l’integrazione dei migranti può compiersi soltanto con un “patto di convivenza”: garantire esistenza dignitosa agli stranieri che devono aderire ai valori fondamentali della società italiana. In senso più ampio: “L’accoglienza non ammette semplificazioni e scorciatoie, la gestione della migrazione rappresenta una sfida epocale e non si può pensare di limitarsi ai numeri degli arrivi. Nessuna integrazione è possibile prescindendo dal principio costituzionale di eguaglianza. Bisogna porre molta attenzione alle seconde generazioni: devono sentirsi integrate. I giovani ritengono di essere già parte di una comunità”.

Lamorgese ha concluso il suo intervento con un appello contro i predicatori dell’odio: “Siamo quasi al 27 gennaio, Giorno della memoria. Vorrei che ci sia una presa di distanza da linguaggi di intolleranza che oggi troppe volte sentiamo. E per evitare quello che il nostro Paese ha consentito dal ’38 in poi (le leggi razziali, ndr), vorrei che venisse riconosciuto come inaccettabile questo linguaggio che genera contrapposizione. Rappresenta un attacco ai principi di quella che è la nostra democrazia”.

Ora Tunisi protesta: “Vergogna razzista”. “Una provocazione”

La “citofonata” bolognese dell’ex ministro dell’Interno apre una crisi fra Italia e Tunisia. Il primo a protestare per lo show a favore di telecamere di Salvini, che nel quartiere Pilastro di Bologna si è attaccato al citofono di una famiglia di residenti tunisini, accusandoli di essere degli spacciatori, è stato l’ambasciatore del Paese nordafricano. Per Moez Sinaoui, quella di Salvini è solo una “deplorevole provocazione”. Il diplomatico ha espresso la sua “costernazione” in una lettera alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Forte il contenuto. Una “famiglia tunisina è stata illegittimamente diffamata”, con una “provocazione priva di rispetto per il domicilio privato della famiglia”, che “stigmatizza l’intera comunità tunisina”. L’ambasciatore ha quindi insistito sugli “ottimi rapporti” di cooperazione tra Tunisia e Italia a tutti i livelli e in tutti i settori.

La notizia della provocazione del leader della Lega è ovviamente arrivata anche a Tunisi, suscitando le reazioni sdegnate del mondo politico. “Quello di Salvini è un atteggiamento razzista e vergognoso che mina i rapporti tra Italia e Tunisia”, ha detto il vicepresidente del Parlamento di Tunisi, Osama Sghaier, in un’intervista a Radio Capital. “Salvini è un irresponsabile perché non è la prima volta che prende atteggiamenti vergognosi nei confronti della popolazione tunisina. Lui continua a essere razzista e mina le relazioni che ci sono tra la popolazione italiana e la nostra. I nostri Paesi hanno ottimi rapporti. I tunisini in Italia pagano le tasse e quelle tasse servono anche a pagare lo stipendio di Salvini. Dunque, si tratta di un gesto puramente razzista”.

Il deputato Yassine Ayaré ha denunciato il comportamento razzista di Salvini e ha chiesto alle autorità di governo di classificarlo come “persona non gradita in Tunisia”. Protesta anche la comunità tunisina in Italia. Il coordinamento di Attayar Democratico in Italia “denuncia questo atto razzista e che si ripete per la seconda volta da parte della stessa persona nei confronti dei tunisini in Italia”, si legge in un comunicato. Il Coordinamento “esorta le organizzazioni della società civile e le istituzioni italiane ad agire per rompere con tali azioni razziste, per preservare i legami di amicizia tra tunisini e italiani”.

Non è la prima volta che le farneticazioni del capo leghista mettono in crisi i rapporti diplomatici tra i due Paesi. Nel giugno del 2018, dopo aver visitato l’hot spot di Pozzallo, l’allora ministro dell’Interno aveva affermato che “la Tunisia è un Paese libero e democratico dove non ci sono guerre, epidemie e pestilenze, che non sta esportando dei gentiluomini, ma spesso e volentieri dei galeotti”. Dichiarazione che costrinse il ministero degli Esteri tunisino a convocare l’ambasciatore italiano, Lorenzo Fanara, per trasmettergli il “profondo stupore” del suo governo per le parole di Salvini che, si sottolineava, “denotano una mancanza di conoscenza dei vari meccanismi di coordinamento stabiliti tra i servizi tunisini e italiani responsabili della lotta contro la migrazione irregolare”. Era particolarmente sorprendente perché Salvini doveva sapere che la Tunisia è il Paese che maggiormente collabora con l’Italia sui rimpatri dei migranti irregolari, che il leghista aveva promesso (invano) di incrementare. La crisi era poi rientrata nelle settimane successive e Salvini, dopo pochi mesi, nel settembre del 2018, era stato accolto a Tunisi in visita ufficiale.

In ogni caso, e a dispetto delle farneticazioni razziste di Salvini, una buona notizia in arrivo da Tunisi, dove è stato firmato un accordo per l’apertura di una “Maison de Tunisie” a Mazara del Vallo. La struttura sarà un centro culturale e sociale per i 4mila tunisini residenti nella città siciliana.

Al Pilastro Salvini citofona per un’aggressione inventata

Un reality show in diretta davanti al pubblico. Si potrebbe sintetizzare così l’ultima performance elettorale di Matteo Salvini. Dopo avere portato sul palco di Pontida una bambina definendola “la Greta di Bibbiano” pur sapendo che era in realtà lombarda, martedì sera ha suonato al citofono di una famiglia italo-tunisina al Pilastro, nella periferia di Bologna. “Qui abita un pusher, il figlio spaccia, il padre forse pure”, diceva la sua accompagnatrice. “Peccato che il ragazzo, nato in Italia, non abbia precedenti.

Su consiglio di un’anziana fan residente in zona, e in diretta Facebook, Salvini ha rivelato più volte i dati sensibili della famiglia e del diciassettenne: “Se mi dicono che qui abita uno spacciatore tunisino io verifico, mi hanno segnalato una cosa sgradevole, mi fa salire?”. Salvini, circondato da polizia e carabinieri, suona più volte: “Lei spaccia?”. Ma il padre del presunto pusher non apre. Il senatore leghista è comunque soddisfatto, lo spettacolo a onor di telecamere è stato all’altezza delle sue aspettative: “Quando ero giornalista mi divertivo a fare queste cose”. Missione compiuta, ancora una volta si parla solo di lui.

In questa vicenda sono molte le mezze verità. Il ragazzo accusato dall’ex ministro dell’Interno è nato in Italia, è uno studente con ottimi voti, gioca bene a calcio e non risulta essere uno spacciatore. Il padre lavora per una ditta di consegne e trasporti come autista. Solo il fratello maggiorenne, che non abita in quella casa, ha un passato turbolento come ha raccontato a Fanpage.it: “Sono pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più, adesso sto facendo il bravo, ho fatto anche della galera ma adesso no”.

Il fratello minorenne si è affidato all’avvocata Cathy La Torre, ideatrice della campagna #odiareticosta contro il cyberbullismo: “Non sono uno spacciatore, solo questo voglio far capire, il senatore Salvini deve togliere quel video, ha violato la mia privacy”, ha detto il ragazzo. “Ormai mi conoscono tutti”.

Il video è ancora lì ed è stato visualizzato da più di 244 mila persone. Per La Torre “questa volta non basteranno le scuse come nel caso della sardina dislessica che aveva preso in giro in un video. Salvini voleva dare in pasto ai suoi fan l’immigrato delinquente ma gli è andata male, Iaia non è un tunisino, è italiano, figlio di un matrimonio misto, è stato convocato tre volte dalla Nazionale giovanile a Coverciano e non ha precedenti penali, di nessun tipo. Vuole solo studiare per ottenere la stessa patente del padre e fare il suo stesso lavoro”. Il ragazzo intende sporgere denuncia, l’avvocato sta valutando. Il primo passo è ottenere la rimozione del video.

Altro punto su cui Salvini e la sua candidata Lucia Borgonzoni sorvolano è perché il leader leghista martedì sera fosse nel quartiere Pilastro a Bologna e proprio in via Grazia Deledda. Il giorno prima era stata denunciata un’aggressione da parte di una quindicenne: la ragazza aveva detto che, prima che potesse reagire, era stata colpita con un pugno al viso. Il bandito le aveva poi strappato lo zaino, la giacca e il telefono. Una notizia subito cavalcata da Borgonzoni con una nota ad hoc: “Da sempre segnaliamo problemi in quella zona, ma il Pd le periferie le ha abbandonate, trasformandole in ghetti e mettendo a rischio la sicurezza dei cittadini. Sono vicina a questa ragazza. E questi lunghi silenzi del Partito democratico di Bonaccini su episodi così gravi?”. Ieri però la polizia di Bologna ha denunciato la quindicenne per procurato allarme e simulazione di reato: era tutto inventato. Si era messa d’accordo con l’aggressore, un amico 19enne, per inscenare il furto. A riprova, gli agenti hanno scoperto nel cellulare “rubato” un video in cui la coppia provava le mosse della futura rapina. Su questa operazione di polizia non sono pervenute dichiarazioni dalla Lega.

Salvini a Mattino 5 ha ribadito le sue intenzioni: “Abbiamo segnalato a chi di dovere che là c’è chi spaccia droga. C’è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato una proposta di Droga zero, perché droga è morte. Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa. Quando una mamma mi chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante protesta”. La mamma in questione è quella che nel video lo accompagna: una signora, colpita da un lutto tremendo, che da tempo cercava di entrare in contatto con Salvini, anche quando era al Viminale. L’ultima volta, nel gennaio scorso, ma è venuto solo l’altroieri.

Il post-Di Maio. Cosa faranno ora i grillini?

 

Antonio Padellaro
È un arrivederci, non un addio al Movimento diventato partito

Col suo discorso, Di Maio ha confermato di essere nel M5S, in questo momento, l’unico leader possibile. Che infatti non ha intenzione di “mollare” (ripetuto due volte), anche se “si è chiusa una fase”. Nessun addio quindi, semmai un arrivederci agli Stati Generali di marzo quando (con o senza cravatta) lo rivedremo quasi sicuramente al centro dell’arena. Che il suo sia stato tutt’altro che un congedo è dimostrato dalla rivendicazione dei risultati ottenuti dal M5S sotto la sua guida e dall’esposizione di una linea per il futuro centrata più che mai su Nato, Europa ed euro. Più un forte profilo governativo e istituzionale sottolineato dall’“ammirazione” per Conte e dalla “graditudine” per Mattarella. Un Di Maio riformista, dunque, che intende presidiare il centro di un movimento sempre più partito. Alla sua destra avrà i fautori dell’asse organico col Pd (Patuanelli) e alla sua sinistra i nostalgici della protesta (Di Battista). A qualche vecchio cronista potrà ricordare le geometrie della vecchia Dc (ma senza paragonarlo a Forlani).

 

Alessandra Ghisleri
Il messaggio non arriva più: è questo il vero tema per i 5Stelle

Dimettersi adesso è da una parte una scelta di de-responsabilizzazione in vista delle Regionali, ma forse è anche un modo per dire: “Adesso vediamo cosa sanno fare gli altri”. Per il futuro però non escluderei che Di Maio possa tornare sul “luogo del delitto”, vuoi perché l’effetto nostalgia a volte funziona, vuoi perché bisognerà vedere come si comporteranno i suoi competitor all’interno del Movimento. Di certo Di Maio paga un dimezzamento dei consensi dei 5Stelle che è imputabile a lui in parte, ma non del tutto. L’errore del Movimento è stato quello di non darsi immediatamente una struttura da partito di governo, perché era necessario fin da subito raccontare nei territori cosa veniva fatto, perché veniva fatto, eccetera. E poi sul suo consenso personale ha pesato anche il cumulo di responsabilità, tra compiti di governo e incarichi nel Movimento. Il tema vero per il M5S adesso sarà recuperare la fiducia della gente: di certo il messaggio non arrivava più, era necessario organizzarsi in maniera diversa.

 

Gianfranco Pasquino
Bene le dimissioni, il M5S riparta da Grillo e dall’alleanza a sinistra

La scelta di Luigi Di Maio deve essere per il Movimento un’occasione per ripartire, per riprendere quello stile originario che il leader ogni tanto aveva dimenticato, tra i suoi alti e bassi. Deve essere l’inizio di una nuova fase in cui si dice che l’esperienza di questi anni ha insegnato molto e che un conto sono i programmi della campagna elettorale e un’altra la realtà di governo. Tutto questo può essere fatto nell’ambito del riformismo di centrosinistra, per quanto al loro interno i 5 Stelle possano mantenere aspetti diversi.
La cosa importante però è che a curare questo processo sia Beppe Grillo in prima persona, perché il Movimento è diventato forte per Grillo, non certo per Di Maio o per chiunque altro. È un comunicatore fondamentale intorno a cui poi ci possono essere direttori e strutture locali per spiegare cosa viene detto a Roma e per tradurre le parole in fatti, ma bisogna che il fondatore torni in campo.

 

Antonio Noto
Il problema ora è l’incertezza: rischia di spaventare gli elettori

Le dimissioni da capo politico di Luigi Di Maio sono anomale perché arrivano in ritardo, nel senso che probabilmente in altri partiti il leader avrebbe lasciato dopo la sconfitta alle Europee o dopo qualche crollo alle Regionali. Il suo consenso personale non è mai stato altissimo, neanche quando il Movimento era sopra il 30 per cento. Ora però si apre un buco nero per i simpatizzanti dei 5 Stelle, non tanto perché le dimissioni di Di Maio rappresentino un problema enorme, ma perché l’incertezza per quel che accadrà adesso può spaventare gli elettori. Non c’è un leader alternativo: Alessandro Di Battista, che pure sarebbe conosciuto, sarebbe ancor più inconciliabile col nuovo corso di governo del Movimento. E non c’è una struttura pronta a subentrare. Quando nel Pd si dimise Matteo Renzi ci fu una lunga fase intermedia prima delle primarie in cui Maurizio Martina fece da segretario reggente. Era una situazione provvisoria, ma con un percorso chiaro verso il congresso e le primarie che qui i simpatizzanti dei 5 Stelle non vedono.

 

Nadia Urbinati
Possono sparire o essere alleati del Pd: quello è il loro spazio oggi

Luigi Di Maio è sempre stato un leader nominato più che eletto, nel senso che a volerlo sono stati Beppe Grillo e Davide Casaleggio e poi la Rete lo ha confermato. Ma l’addio di un leader nominato è molto diverso dall’addio di un leader carismatico, non credo che per il Movimento la sua uscita sarà così drammatica. Certo è che pone i 5Stelle davanti a una scelta: o si strutturano come un partito o scelgono la liquefazione a fine legislatura.
Un partito digitale non può resistere, lo abbiamo visto, a meno di non avere un Grillo come fino al 2013. Ma dato che non mi sembrano queste le intenzioni del fondatore, per sopravvivere bisogna farsi partito. E la trasformazione dello scacchiere politico in atto vede una distinzione chiara, perché Salvini e la Meloni inducono tutti gli altri, 5Stelle compresi, ad assestarsi in una ricostituzione del centrosinistra. Sarà impossibile, com’era una volta, definirsi né di destra né di sinistra e rimanere terzi a questo processo.

 

Andrea Scanzi
Pochi nomi buoni per il futuro, ma se stanno fermi sono morti

Non so perché, ma ultimamente ogni volta che penso ai 5Stelle (e non mi capita spesso) mi viene in mente l’immagine del dead man walking: il morto che cammina. Neanche se lo meritano, perché al loro interno ci sono figure meritorie e le battaglie sono spesso condivisibili, ma dall’unione scellerata (per quanto lecita) con Salvini in poi è stata una slavina continua. E pure col Pd se la stanno giocando malino (anche per colpa del Pd). Di Maio ha sbagliato tanto, dal giugno 2018 in poi, ma è un problema: non il problema. Fa bene a uscire di scena (non so per quanto) come leader, ma chi mettono al suo posto? Mario Michele Giarrusso? La Castelli? Uno dei tanti Scilipoti mosci che giocano ai martiri? Mi vengono in mente tre nomi buoni: Appendino, Di Battista, Morra. Il secondo ha più forza, sì, ma ha senso solo all’opposizione. In ogni caso, che scelgano Hulk o Vercingetorige, o ritrovano in fretta una visione (un sogno, uno slancio, un’utopia) o hanno meno futuro dei tre capelli in croce rimasti a Marattin.

Salvini ci rimane male: “È tutta colpa di Grillo”

Il rapporto tra i due si era logorato da tempo. Ma Matteo Salvini, alla notizia delle dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico del M5S, ha voluto rendere l’onore delle armi al suo ex alleato. “Non do colpe a Di Maio, ma a Grillo che, per conservare le poltrone, ha spinto i 5 Stelle a mettersi col Pd. Vedrete ora quanti elettori pentastellati in Emilia e Calabria li abbandoneranno”, ha detto il leader leghista, in una diretta Facebook. Insomma, Salvini non se la prende con Di Maio, colpevole ai suoi occhi di aver subìto la linea politica di Grillo e Casaleggio. Vittima anch’esso della volontà di portare i 5 Stelle tra le braccia dei dem.

Fonti leghiste parlano addirittura di un Salvini “dispiaciuto” per l’uscita di scena dell’ex alleato, anche perché “ora i 5 Stelle rischiano di scivolare ancora di più verso sinistra”. Insomma, “non c’è più nessuno che tenga la barra a destra”. E quel qualcuno, agli occhi del leader leghista, poteva essere solo Di Maio. Che, se non condivideva quella linea, “ha fatto bene a dimettersi”. E adesso molti nella Lega dicono: “Ora lì dentro non abbiamo più interlocutori, non c’è più nemmeno Paragone, con chi parliamo?”.

Il rapporto tra i due ha vissuto di alti e bassi, ma sono stati loro, dopo il voto del 4 marzo 2018, a sedersi attorno a un tavolo e a far nascere un governo, piazzando l’allora sconosciuto Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Durante l’anno gialloverde il feeling tra Salvini e Di Maio era evidente. Più volte i problemi dell’esecutivo sono stati risolti da una semplice telefonata tra i due leader. Poi è successo il patatrac, ma – persino con la nascita del Conte 2 – quella percezione di rispetto e stima reciproca tra “Matteo” e “Luigi” non è venuta meno. Certo, Di Maio definì Salvini “traditore”, ma sono sembrate espressioni dovute più alla delusione che a un vero ragionamento politico. Mentre Salvini, da par suo, di rado ha polemizzato direttamente col lui, preferendo l’attacco a Conte e Zingaretti.

Si può dire che il rapporto tra Di Maio e Salvini si sia veramente rotto sul caso Gregoretti, dopo l’annuncio del ministro degli Esteri del voto contro Salvini. È in quel momento che sulla loro storia politica cala il sipario. Ma le parole di ieri del leader leghista, condivise da molti nel suo partito, fanno ben intendere come nella Lega il “nemico” non sia mai stato considerato Di Maio: “Non lo sento e non lo vedo da settembre, da quando ha scelto di abbracciare il Pd…”, ha risposto ieri il leader leghista ai cronisti. “Quando uno tradisce la mia fiducia non diventa un mio nemico, ma preferisco tenerlo lontano…”, ha aggiunto Salvini, che invece ha ringraziato Sinisa Mihajlovic per il suo endorsement a Lucia Borgonzoni. Anche in questo caso, le parole di Salvini su Di Maio lasciano trasparire più rammarico, per quello che poteva essere e non è stato, che risentimento.

I nomi che ora si fanno per la reggenza pentastellata non piacciono al leader leghista. L’unico che verrebbe visto come “non ostile” è Alessandro Di Battista.

Riecco Crimi e Lombardi, i “traghettatori”

Aonor del vero, nessuno li aveva dimenticati. Vito Crimi e Roberta Lombardi sono di diritto la pietra fondante dell’immaginario collettivo, quando si parla di Cinque Stelle. Il loro streaming con Pier Luigi Bersani – concluso con la definitiva sentenza: “Non siamo a Ballarò” – spiegò meglio di qualsiasi comizio che erano arrivati e niente sarebbe stato più come prima. Barbari o visionari, dipende da chi li guarda. Ma certo, a quei due, fu caricata una responsabilità che andava ben oltre la larghezza delle spalle individuali. Crimi, siciliano trapiantato a Brescia, è sempre stato il filo diretto con i Casaleggio, padre prima e figlio ora. Lombardi, romana, è una delle poche che ha ancora la possibilità di alzare il telefono ed essere sicura che Beppe Grillo e il capo di Rousseau le risponderanno.

Non è un caso dunque che, usciti dai radar degli esordi, siano finiti nel Comitato di garanzia previsto dallo statuto M5S. E che adesso siano loro, insieme a Giancarlo Cancelleri in rappresentanza della “lobby siciliana”, a dover gestire la fase di traghettamento che porterà al nuovo capo politico, o come si chiamerà.

Spariti di scena, a dirla tutta, non lo sono stati mai. Uno è viceministro, posto di compensazione dopo che il nuovo corso governista, quello col Pd, imponeva un cambio di guardia sul fronte del rapporto tra Stato ed editoria. Rapporto che Crimi, da sottosegretario del governo gialloverde, interpretò con una certa tempra, tanto da guadagnarsi il titolo di “gerarca minore”, per volere del compianto Massimo Bordin, la voce di Radio Radicale che fu il bersaglio più grosso della stagione di tagli di Crimi. Lei, invece, ha perso la prima fila a Roma: non è rientrata in Parlamento perché nel 2018 ha tentato, invano, di sfidare Nicola Zingaretti alla guida della regione Lazio. Eppure, da capogruppo alla Pisana, ha menato ogni volta che ha potuto. Contro Di Maio e la gestione verticistica del Movimento. E contro chi, di nuovo Di Maio, si opponeva alla nascita del governo con i dem. Lei ci ha creduto al punto da tentare, di nuovo invano, di legare le sorti dell’esecutivo al soccorso del fragile equilibrio numerico che il segretario Pd aveva in Regione.

Oggi si ritrovano sulla stessa barca, di nuovo in tempesta. E come allora si presero la briga di condizionare le trattative del governo mai nato di Bersani, oggi tocca a loro orientare la transizione del M5S cresciuto in fretta di Luigi Di Maio. Sono passati sette anni. Di solito, è quello della crisi di coppia. Vito e Roberta, invece, tornano insieme.