Conte rassicura, ma per il Pd si apre “una fase tutta nuova”

“Domenica notte. Aspettiamo domenica notte per capire”. Ai vari piani del Nazareno, la reazione al discorso di Luigi Di Maio è questa. Perché il risultato dell’Emilia-Romagna è fondamentale per le sorti del governo, più del “passo di lato” del ministro degli Esteri. Penso che “le eventuali dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico non avranno effetti sul governo”, si precipita a dire il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, prima ancora del discorso.

La speranza, sia tra i dem, sia tra i contiani del Movimento, è che il passo di lato del capo politico sia un elemento di stabilizzazione, che faciliti anche un’alleanza sempre più organica Pd-M5s. “La scelta di Luigi Di Maio di lasciare la guida del M5s mi rammarica, ma è una decisione di cui prendo atto con doveroso rispetto”, dice Giuseppe Conte in una lunga nota. Il premier si ostina a ripetere che ripercussioni sull’esecutivo e sugli equilibri della sua squadra non ce ne saranno, né per la scelta di Di Maio, né per il risultato delle Regionali. Anzi, ricorda pure che tale scelta è stata con lui condivisa. “Bisogna riconoscere a Di Maio il merito di tanti risultati ottenuti”, dice poi. E prevede: “Lavoreremo insieme fino al 2023”. Ma le rivalità tra i due non sono un mistero. E le variabili sono tante. “Reggerà il Movimento oppure alla fine si arriverà a una scissione?”, è la domanda che si fa un po’ tutto il suo Pd.

In teoria, secondo tutte le analisi preliminari, con una sconfitta di Stefano Bonaccini in Emilia, nessuno (né il Pd, né M5s, né Italia viva) avrà la convenienza di andare a votare. Troppa debolezza, troppi rischi. D’altra parte, Zingaretti ha già detto che penserà al Pd, annunciando pure un cambio di nome, Di Maio lavorerà presumibilmente per essere riacclamato a capo di M5S (e consolidare il suo ruolo di ministro degli Esteri), Matteo Renzi cercherà di capire dove lo porta un patto con Matteo Salvini.

In questo senso, il governo di Giuseppe Conte paradossalmente dovrebbe reggere. Anche perché appare difficile che il Quirinale sia d’accordo a dare vita un nuovo governo con la stessa maggioranza. Questo, ovviamente, a bocce ferme: perché con Salvini pronto a chiedere compatto le elezioni con tutto il centrodestra e la compagine di governo sempre più indebolita, comunque il percorso è a ostacoli. Con la vittoria di Stefano Bonaccini, il quadro si fa più complesso. Perché il segretario del Pd potrebbe avere la tentazione di puntare alle urne per capitalizzare. Solo una tentazione, visto che tutto il resto del partito è contrario. Ma a quel punto, potrebbe scattare la “tentazione” Dario Franceschini. L’idea di sostituire Conte con un premier del Pd. Vale sempre la perplessità di Mattarella. Però, questo scenario potrebbe puntellarsi su alcuni rapporti personali. Renzi non sopporta Conte e in questo momento ha comunque un rapporto migliore con il capo delegazione dem. Anche se l’ultimo passo verso la scissione arrivò dopo una lite furibonda tra i due, per i nomi dei ministri e dei sottosegretari. Anche Di Maio ha meno motivi di rivalità con il ministro della Cultura che con il premier. Lo scenario esiste, ma non prende quota: i dem si preparano a chiedere un rimpasto, per ottenere più ministri.

Insomma, il voto emiliano potrebbe non portare a delle conseguenze immediate. Però, la situazione di logoramento proseguirà. Primo osservato speciale, Renzi. Martedì si vota sulla prescrizione e Italia viva ha già detto che voterà con Forza Italia contro la riforma Bonafede. Un modo per ricominciare a posizionarsi, per alzare il prezzo. Perché poi la tentazione del leader di Iv di saldare un patto con Matteo Salvini e di andare alle urne con una legge elettorale che obbliga alle coalizioni rimane. Dunque, non con il super proporzionale a cui si sta lavorando.

Poi, c’è lo stesso Di Maio. Che cosa accadrà dopo gli Stati generali di marzo? Quanta parte del Movimento andrà con lui? Abbastanza per spaccarlo, magari accettare l’ennesima pro-offerta di Salvini di marciare uniti e far cadere Conte? Sempre per restare in ambito M5s, bisognerà capire se riuscirà a nascere un gruppo parlamentare di appoggio al premier. E di quale peso. Non indifferente neanche il percorso del Pd. Perché, comunque vada l’Emilia, in primavera c’è una tornata di Regionali piuttosto importante. Se dovessero andare male, quanto reggerà il partito? E il processo di “scioglimento” preannunciato dal segretario dove porterà? Come andrà a finire, è difficile dirlo adesso. “Ma che si è aperta una fase nuova”, è certo.

Il silenzio di Grillo: il Garante sapeva dell’addio, ma non ha fermato Luigi

Fino a sabato scorso, raccontano, non si sono neppure sentiti. Neppure un messaggio tra Luigi Di Maio e Beppe Grillo, tra l’ex giovane leader e il Garante che delle sue dimissioni sapeva, e da parecchio. Ma che non ha detto o fatto nulla per dissuaderlo, niente di concreto. “Qualcosa nelle ultime ore Beppe gli ha detto” sussurra un dimaiano, senza crederci.

Perché la verità è che Grillo ha lasciato che Di Maio facesse la sua scelta. Consapevole che la distanza sulla rotta politica tra lui e il ministro si era fatta oceano. E che i gruppi parlamentari erano (e sono) un arcipelago di gruppetti, uniti dal non rispondere più al vertice. Così in questi due giorni ha sentito il capo dimissionario, più volte. Ma non lo ha implorato di ripensarci. Piuttosto ha tranquillizzato qualche veterano. A cui ha fornito la sua lettura: “Andremo avanti con più forza di prima”. Perché l’addio di Di Maio è uno schiaffo che serviva secondo il fondatore. Però Grillo è ormai un enorme punto interrogativo, per molti. “Beppe non l’ho chiamato e non voglio chiamarlo” morde un big in tarda serata. Sospettoso, come altri maggiorenti. Perché il tacere pubblico di Grillo è il segno di una lontananza con l’ormai ex capo politico, ma nel contempo agita i tanti lieti del passo indietro. Già timorosi del dopo. Tanto da temere che quello del Garante sia un silenzio-assenso, alle mosse degli altri, quelle di Di Maio e di Casaleggio, un asse che il discorso di ieri del ministro sembra descrivere come più forte che mai. Lo conferma lo stesso erede di Gianroberto, con un post quasi emotivo: “La maggior parte delle persone sa che quando era ora di metterci la faccia o rimetterci le ore di sonno Luigi è sempre stato in prima linea anche su scelte che non condivideva, sa che per ogni parola di attacco a lui ce ne sarebbero volute altre dieci di elogio”.

La certezza è che Grillo non vuole tornare a gestire in prima persona, non ha la voglia di rimettersi dentro la trincea a separare i buoni dai cattivi. E che punta, forte, su Conte e su un futuro del M5S nel centrosinistra. Lì sta il cuore della frattura politica con Di Maio, con cui non si sono mai adorati. E l’insistere del ministro sulla cravatta che piaceva “a Gianroberto Casaleggio” è un altro indizio della distanza. Perché a Grillo piace il Roberto Fico che la cravatta se l’è imposta solo da presidente della Camera, e dietro a certi dettagli c’è un mondo.

Ma il Garante non potrà stare a guardare, con la battaglia congressuale che già bussa alla porta. C’è da decidere tutto sugli Stati generali, dalla sede alle regole, e l’accusa a Crimi e ai facilitatori è già quella, di voler anestetizzare l’evento. Difficile, impossibile per Grillo non occuparsi della questione. Quella capo politico e assetto sarà un’altra partita. Ma una spina alla volta, per il fondatore che se ne sta zitto.

 

Cravatte e ipocrisie: il “funerale” finisce e inizia il congresso

Prima che la luce rossa del Tempio di Adriano si accenda, lo humour è nero. “La salma di Luigi Di Maio verrà esposta alle ore 17”, azzarda un deputato a cui è rimasta un po’ di voglia di scherzare. È l’unico, va detto, in mezzo ai capannelli tetri, alle bocche cucite, alle frasi di circostanza. Il capo politico si è appena dimesso e intorno è già tutto un “dovremmo fargli un monumento”, “solo lui avrebbe potuto reggere quel livello di stress”, “aveva solo 32 anni quand’è andato al governo”. Manca solo qualcuno che dica che “salutava sempre” perché le esequie abbiano inizio.

Peròsi fa aspettare, Di Maio. Tanto che Emilio Carelli, conduttore della kermesse che ieri doveva ufficialmente presentare la squadra dei “facilitatori” regionali, è costretto ad ammettere che deve “allungare il brodo” perché “Luigi non è ancora pronto”. Ci sono gli sguardi compassionevoli di chi un minuto prima lo voleva fare fuori. Ci sono, dietro le quinte, gli abbracci tra gli staff: quello, assai nutrito, dell’ex capo politico che è anche ministro degli Esteri; quello di Giuseppe Conte che è accorso ad assistere i vecchi amici del Movimento, lasciati per seguire Palazzo Chigi; perfino quello del viceministro Vito Crimi, ora reggente dei Cinque Stelle. C’è la fidanzata Virginia Saba, anche lei in tailleur come impone la solennità dell’addio. Ci sono quelli rimasti fedeli fino all’ultimo, che difendono “la scelta di dignità” del ragazzo di Pomigliano, che dopo due anni di attacchi finalmente “ha buttato l’osso in mezzo” e ha detto “ammazzatevi tra di voi”.

Ma bastano pochi minuti del suo discorso, a Luigi Di Maio, per chiarire a tutti che qualche cartuccia ha intenzione di spararla ancora anche lui, e pure ad altezza uomo. E che quei minuti di ritardo con cui è salito sul palco non vanno certo attribuiti a un ripensamento. Perché ha deciso che se ne va, certo. Ma pure che ritornerà. Lo annuncia di fatto, illustrando un lunghissimo elenco di cose fatte e di cose ancora da fare, roba che un tempo si sarebbe chiamata mozione congressuale. Sono le “proposte innovative” che ha intenzione di portare agli Stati generali di marzo, tra cui non è esclusa nemmeno la leadership condivisa che Di Maio ha già proposto a Chiara Appendino, la sindaca di Torino a cui ieri ha riservato uno speciale tributo.

Così, intorno, quella che era tenerezza si fa quasi gelo. “Sta dando la linea”, dicono preoccupati quelli che già lavoravano al dopo. “Alla fine si è tirato fuori dal massacro di lunedì, dopo le Regionali”. Ed è subito evidente che la guerra è appena cominciata, perché – qui è ancora Di Maio a parlare: “ Uno vale uno, ma uno non vale l’altro”. La sintesi la fanno i suoi: “Il Movimento era una monarchia e adesso è diventato scalabile, senza dubbio una fase si è chiusa. Ma se Luigi torna, merita di farlo: qui dentro non c’è nessun altro in grado di fare un discorso come quello che ha fatto lui oggi”.

Gli altri, per dirla con Di Maio, la cravatta se la sono messa adesso: “Prima ce l’avevo solo io”, ha chiosato prima di sfilarsela in segno di liberazione. Un gesto studiato, ma pure molto sentito: “In questi anni ha dovuto mediare, sacrificando anche le sue idee. Adesso – dice il suo staff – ha voglia di essere se stesso”. Di Maio torna a quando Gianroberto Casaleggio gli spiegava che uno sempre azzimato come lui doveva controllare ogni dettaglio, perfino la forma del nodo, perchè “tutto è comunicazione”. Anche quella degli “approfittatori” che lo hanno portato a prendersi una pausa. “Volevo finire il mio mandato con la stessa fiducia negli altri che avevo quando ho cominciato”, ammette, come a dire che la misura era colma e il suo livello di guardia ormai troppo alto. La platea applaude, mai così forte come questa sera. C’è chi ha registrato quel clap clap incessante: “Lo uso per il campionatore, lo memorizzo così: ‘il suono dell’ipocrisia’”.

L’arrivederci bellico di Di Maio: “I peggiori traditori tra di noi”

Non è un addio contrito, è un arrivederci con sillabe di guerra. Non è un lasciare il campo, è una ritirata per vedere quali e quante sono per davvero le truppe degli altri, ma presto, di certo dopo gli Stati generali di metà marzo, se la dovranno rivedere con lui. “Sono qui per rassegnare le mie dimissioni da capo politico” scandisce Luigi Di Maio dopo quasi tre quarti d’ora di discorso dentro il Tempio di Adriano, a due passi dalla Camera. Non ha voglia di dirla quella parola, ma alla fine deve formalizzare il passo indietro, con Vito Crimi che da Statuto gli subentra come reggente, in qualità di membro anziano del comitato di garanzia, e subito dice che “Di Maio non sarà più il capo delegazione dei 5Stelle”. Ma non è così, almeno non ancora, perché nella riunione mattutina con i ministri, quella in cui conferma le dimissioni, il 33enne di Pomigliano d’Arco è laconico: “Ne parleremo”.

Cioè sarà tutta da discutere, con i non dimaiani che invocano il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli per quel ruolo. Ma prima c’è la fine di un’esperienza “Oggi si chiude un’era, il Movimento deve rifondarsi” apre Di Maio. E il suo lungo addio è una cascata di accuse ai traditori, ai nemici interni, “quelli che distruggono sempre i partiti”. Il vero motivo dell’addio, fa capire. Ma c’è anche una promessa di rivincita, che ripete più volte: “Io non mollo, il Movimento è la mia famiglia”. In testa ha quello, Di Maio: lasciare qualche settimana il M5S con un reggente. Evitare che gli Stati generali siano un vero congresso, senza una conta di cui non può prevedere gli esiti. E poi riprendersi tutto, contando sull’incapacità di tutti gli altri di costruire un capo o una proposta alternativa. Ma ora lascia, e ci pensava da tempo. “Questo discorso ho cominciato a scriverlo un mese fa”, rivela. Poco dopo aver visto a Roma Beppe Grillo, che cita con due mezze frasi, per assolvere il compito. Neanche un’ombra di autocritica, ma tanta rabbia. “La prima stesura del discorso era ancora più dura” sussurrano mentre dal palco Di Maio comincia a disseminare quel verbo, “fidarsi”, ed è come inveire contro i traditori. “Io mi fido di noi, di voi e di chi verrà dopo di me” giura. Attorno a lui anche i facilitatori di vario ordine e grado, i volti della nuova struttura. “Ci ho lavorato un anno, adesso ho esaurito il mio compito” scandisce. Ora sarà la transizione verso la tre giorni di marzo, dove però non si voterà un nuovo capo politico o un nuovo assetto. “Agli Stati generali discuteremo sul cosa, subito dopo passeremo al chi”. Cioè a un nuovo capo, o a un organo collegiale. Nell’attesa, vuole regolare i conti. “Alcuni di noi si sono prestati al gioco del tutti contro tutti, il rumore di pochi ha coperto il lavoro di moltissimi” è la prima di tante accuse, celebrate con grandi applausi dalla sua platea.

E fa l’elenco dei nemici. “C’è chi è stato nelle retrovie e, senza prendersi responsabilità è uscito allo scoperto solo per pugnalare alle spalle” ringhia, e in diversi in sala soffiano il nome di Alessandro Di Battista. Poi ne ha per l’ex ministro Lorenzo Fioramonti e altri esuli grillini: “Te ne vai dal Movimento e poi continui a votare la fiducia dal Misto? Non è politica: è psichiatria”. Ma ci sono fendenti anche per l’espulso Gianluigi Paragone: “Ho trovato assurdo l’attacco ai probiviri, noi chiediamo il rispetto delle regole”. E ce l’ha sempre con il senatore ma anche con molti altri, quando difende la piattaforma web: “Sei stato eletto in Parlamento con Rousseau e poi la metti in discussione?”. Il ministro ha parole di miele per i Casaleggio, per Gianroberto e il figlio Davide, “un fratello maggiore”. Ed è ufficialmente gentile con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.“Su alcune cose non siamo stati sempre d’accordo – ammette – ma devo riconoscergli una capacità politica e un’onestà intellettuale rara. Sono orgoglioso della scelta che abbiamo fatto”.

E pare un modo per ricordare che a Palazzo Chigi ce l’hanno portato loro, i 5Stelle. D’altronde la rotta politica di Di Maio è diversa da quella di Grillo e Conte. E il ministro lo sottolinea, parla dell’esigenza di un approccio “post ideologico” su molti temi, a partire dall’immigrazione. Insomma, niente confluenza nel centro – sinistra. E il suo futuro? “Vedremo, non è detto che arriverà un nuovo capo politico” temporeggiano i suoi. Ma non è affatto escluso. E in qualunque forma, lui vorrà esserci. Pronto a tornare quello che sente di essere, il capo.

Giustizia citofonica

Non commento la decisione di Luigi Di Maio di lasciare la guida del Movimento 5 Stelle perché l’avevo già commentata con un bilancio di pregi e difetti, meriti ed errori l’11 gennaio (“L’onore delle armi”), quando il Fatto diede la notizia in anteprima grazie a uno scoop di Luca De Carolis e tutti gli altri si sforzarono di smentirla. Non solo lo staff del M5S, a cui avevamo rovinato l’effetto sorpresa. Ma i soliti giornaloni (memorabile il titolo di Repubblica “Di Maio non lascia, ma raddoppia: insieme a lui una donna leader”: infatti arriva Vito Crimi). Semmai ci sarebbe da commentare questa informazione all’italiana, ormai così mal messa che, quando si imbatte in una notizia vera, non la riconosce e rimane sgomenta, smarrita, senza parole. Il che aumenta vieppiù la comicità delle cronache politiche, già peraltro irresistibili di per sé. Noi, lo dico sinceramente, non abbiamo più parole per descrivere quel che fanno i due Matteo. Ci vorrebbero Fruttero e Lucentini, come scrive Settis a pag. 13.

Il minore, Renzi, voleva abolire la prescrizione finché la legge Bonafede non l’ha abolita. A quel punto, ha deciso che rivuole la prescrizione. Il 18 febbraio 2015 il capogruppo in commissione Giustizia del suo Pd in Senato metteva a verbale testuali parole: “La posizione ufficiale del Pd è che la prescrizione deve cessare di decorrere dopo l’emanazione del decreto di rinvio a giudizio”. E il neoresponsabile giustizia di Iv, all’epoca Pd, Giuseppe Cucca firmava col collega Casson un emendamento semplice semplice: “La prescrizione cessa comunque di operare dopo la sentenza di primo grado. Il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la notizia di reato viene acquisita o perviene al pubblico ministero”. Ora che la legge Bonafede la blocca solo dopo il primo grado, Renzi strilla come una vergine violata. E vincerebbe l’Oscar della comicità, se non gli fosse insidiato dall’altro Matteo. L’idea di citofonare a un tizio per chiedergli se spaccia droga, oltre a fargli sospettare che cercasse roba buona e a istigarlo a sparargli in base alla riforma della legittima difesa, apre squarci inesplorati nella vita politica. Intanto perché, oltre a ritrovarcelo fra le palle appena accendiamo la tv o ci connettiamo ai social, rischiamo da un momento all’altro di vedercelo sotto casa appeso al campanello, in concorrenza coi testimoni di Geova e i rappresentanti Folletto: solo le finestre e l’oblò della lavatrice è ancora immune, forse per poco, poi spunterà pure lì, con la felpa da lavavetri o da Omino Bianco. E poi perchè ora saremo autorizzati a diffondere gli indirizzi di Salvini e altri cazzari verdi.

Così, come ha fatto ieri un consigliere 5Stelle nella sede della Lega, chiunque vorrà potrà citofonare e domandare se per caso abbiano notizie dei 49 milioni. Ma il sistema di giustizia citofonica inventato dal noto garantista padano può contribuire non poco a sveltire i tempi delle indagini e dei processi. Si va in un quartiere a caso di una città scelta, si chiede nei bar sport se ci sia in giro qualche delinquente, si segna il nome e l’indirizzo, poi si citofona: “Scusi, lei è un delinquente?”. “Lei è un pusher?”. “Lei fa il pappone?”. “Lei rapina le banche?”. A quel punto, i casi sono due. 1) L’eventualità più probabile, vista la predisposizione del delinquente medio a confessare al citofono: il tizio risponde “Sì, sono un delinquente, ho appena rapinato una banca”. “Io invece scippo vecchiette un giorno sì e l’altro pure”. “Io, appena entro in un supermercato, frego di tutto”. Nel qual caso è inutile perder tempo in indagini o processi: si porta il reo confesso al cospetto di Salvini, che pronuncia una sentenza irrevocabile e immediatamente esecutiva, a seconda della nazionalità e del reato. Se il tizio è africano o asiatico (israeliani a parte) e/o dedito a reati comuni, lo ficca in galera e butta via la chiave. Se è di pura razza italiana e specializzato in reati finanziari, contro la Pubblica amministrazione o di istigazione al razzismo, lo candida nella Lega. 2) L’eventualità più improbabile: il tizio nega di essere un delinquente, o perché non lo è, o perché lo è ma per misteriosi motivi non tiene a farlo sapere. Nel qual caso, decide Salvini, che non sbaglia mai e ha sempre ragione. Dunque condanna sicura; o, in subordine, candidatura in Parlamento, nei casi specifici di cui al punto 1.

La nuova giustizia citofonica porterà a un balsamico sveltimento dei tempi e a un benefico snellimento delle procedure, perché a quel punto si processeranno soltanto quelli che non sono in casa o non rispondono al citofono. Altro che blocco della prescrizione, altro che legge Bonafede: questo ci vuole per far funzionare la giustizia. Anche il caso Gregoretti, invece di far perder tempo al Senato e al Tribunale dei ministri, si risolverà così, senza costringere il Cazzaro a cambiare idea a ore alterne perché non ha ancora capito perché vogliono processarlo e su cosa devono decidere il Senato e il Tribunale (tant’è che, dopo aver detto che non vuol essere processato e aver fatto votare la Lega in giunta per essere processato, ora pare che stia meditando di farla votare in aula per non essere processato: tanto i suoi cazzari si butterebbero pure in Po, a gentile richiesta). Meglio semplificare. Salvini si citofonerà da solo, in diretta Facebook, e si domanderà: “Scusa, Matteo, tu per caso hai sequestrato 131 migranti su una nave della Guardia Costiera nel porto di Augusta?”. E, dopo rapido autointerrogatorio allo specchio o su Instagram, si risponderà: “Io? Ma se non ero neppure al Viminale! Stavo al Papeete, io!”. Poi si giudicherà da solo, in qualità di Pm, Gip, Gup, Tribunale, Corte d’appello e Corte di Cassazione. E dovrebbe proprio uscirne assolto, semprechè l’avvocato non sia la Bongiorno.

Da soli o col centrosinistra? Il ballottaggio che divide i 5S

Le elezioni regionali sono lontane e i sondaggi, almeno per il momento, somigliano a una faticosa salita di montagna. Eppure i ballottaggi per la scelta dei candidati governatori dei 5 Stelle in Puglia, Toscana e Liguria si rivelano specchio perfetto delle spaccature che agitano il Movimento nei territori tanto quanto nei vertici nazionali.

Il primo turno è andato a vuoto perché nessun candidato ha raggiunto il 50%+1 dei voti su Rousseau e così domani gli iscritti potranno scegliere tra i due più cliccati in ciascuna Regione: Giacomo Giannarelli e Irene Galletti in Toscana, Alice Salvatore e Silvia Malivindi in Liguria, Antonella Laricchia e Mario Conca in Puglia.

Ma la contesa, appunto, si intreccia con la burrasca attorno alla leadership del Movimento. In Toscana il capogruppo Giannarelli è l’uomo forte di Luigi Di Maio, sua perfetta emanazione in Regione. Si è costruito ottimi rapporti personali a Roma ma meno in Toscana, dove gli attivisti gli rimproverano una gestione oligarchica del Movimento. Settimana scorsa, a ridosso del voto su Rousseau, ha organizzato un tour per i ministeri “per portare le istanze dei cittadini toscani”: legittimo – e pure lodevole – per un capogruppo regionale, ma di certo non una carineria elettorale nei confronti degli altri tre colleghi consiglieri, anche loro candidati alla presidenza. Irene Galletti, la sua sfidante, potrebbe ora far convergere su di sé i voti degli scontenti puntando sul recupero del rapporto con gli attivisti. In ogni caso, chiunque vinca difficilmente potrà cambiare lo schema sulla scheda elettorale, dove è quasi certo che il Movimento non sarà in coalizione con il Pd: Eugenio Giani è già piuttosto divisivo a sinistra, figurarsi in una alleanza allargata.

Diverso invece il discorso in Liguria, perché Giovanni Toti potrebbe rischiare la sconfitta soltanto in caso di accordo giallorosa e la partita delle alleanze qui non è chiusa. Anche qui, però, il Movimento sta intanto scegliendo la propria candidata. Alice Salvatore è capogruppo in Regione ed è considerata molto vicina a Di Maio – “il miglior ministro del Lavoro di sempre”, l’ha definito una volta in Consiglio comunale – tanto da ricalcarne umori e dichiarazioni. A fine agosto, in tempo di luna di miele giallorosa, aprì all’accordo col Pd anche per le Regionali; appena due mesi dopo, complice la batosta in Umbria e la stroncatura dimaiana dell’alleanza, si rimangiò tutto. A questo proposito è rimasta molto più possibilista Silvia Malivindi, consigliera comunale a Ventimiglia fino allo scorso anno e ora candidata in Regione con parole d’ordine che fanno fischiare le orecchie ai vertici M5S: “Ho assaporato lo stato d’abbandono dei consiglieri comunali. Dobbiamo riavvicinare le persone, le riunioni non si convocano 48 ore prima senza neanche il tempo di organizzarsi”.

E anche in Puglia, terza Regione al ballottaggio, il copione è simile. Antonella Laricchia è la candidata dimaiana in pectore, Mario Conca il consigliere che prova a farsi portavoce di un malessere. Proprio mentre si sceglievano i candidati, la Laricchia era anche nominata referente per le elezioni regionali insieme all’ex ministra Barbara Lezzi. Ora che la consultazione si avvicina, gli iscritti potranno forse ripensare a un episodio dello scorso ottobre, in piena discussione sul rapporto tra 5 Stelle e Pd: sette degli otto consiglieri regionali M5S scrissero una lettera a Di Maio per esprimere contrarietà all’alleanza coi dem in Regione. Tra loro, Antonella Laricchia. L’ottavo consigliere, quello che non aveva firmato, era Mario Conca.

Di Maio dà l’addio Oggi l’annuncio del passo indietro

Il giorno del passo indietro, o meglio della mossa del cavallo. Di certo, la chiusura di una fase politica. Il mercoledì “dell’annuncio importante, del grande annuncio politico” dicono dallo staff di Luigi Di Maio. Questo pomeriggio, durante la presentazione dei neo-eletti facilitatori regionali a Roma, il capo politico dei Cinque Stelle dirà ufficialmente cosa intende fare, di sé e del suo futuro da leader. E sarà il passo di lato, saranno le dimissioni da capo politico, che lo stesso Di Maio annuncerà questa mattina ai ministri dei 5Stelle, riuniti a Palazzo Chigi. Anche se ieri sera qualcuno soffiava di dimissioni non così dritte, di una formula più complicata e attutita. Ma sembravano indiscrezioni figlie della confusione, forse della paura. Il dato certo è che il 10 gennaio scorso il Fatto aveva scritto che Di Maio meditava seriamente di dimettersi, e di farlo prima delle Regionali del 26 gennaio, appena conclusa la votazione dei facilitatori regionali.

Ieri mattina i nomi dei facilitatori sono arrivati, e oggi arriverà anche la verità di Di Maio, prima del voto in Emilia Romagna e in Calabria. Il 33enne ministro degli Esteri si farà da parte. E al suo posto da Statuto subentrerà come reggente il viceministro all’Interno Vito Crimi, il membro più anziano del comitato di garanzia, l’organo di appello del Movimento composto anche dalla capogruppo in Regione Lazio Roberta Lombardi e dal viceministro ai Trasporti Giancarlo Cancelleri. E sarà la transizione.

Anche se sul come, la sua ristretta cerchia fa muro fino all’ultimo. Non possono pronunciarla quella parola, “dimissioni”, nella notte più lunga del 33enne ministro di Pomigliano d’Arco. E allora nel M5S che sembra un alveare impazzito si immaginano ipotesi diverse, proprio nel giorno in cui altri due deputati, Michele Nitti e Nadia Aprile, dicono addio e traslocano nel Gruppo misto: e dall’inizio della legislatura sono 31 i grillini cacciati o usciti, un’emorragia che non ha precedenti parlamentari. In questo clima da isteria diffusa, tra i parlamentari rimbalza la voce che Di Maio voglia arrivare da dimissionario agli Stati generali del 13 marzo, cioè tenere comunque il timone. E gestire la delicatissima fase di avvicinamento al Congresso. Ma le norme dicono chiaramente altro, impongono la reggenza. E comunque una terza via sarebbe una provocazione, agli occhi di certi big che già si preparano per il dopo Di Maio. E affilano le armi. “Ora Luigi deve lasciare anche la carica di capo-delegazione” è il mantra. Cioè lasciare il ruolo di rappresentante del M5S al tavolo di governo a Stefano Patuanelli, il ministro allo Sviluppo economico che giorni fa ha aperto di fatto il dibattito congressuale con un’intervista a Repubblica, in cui ha scandito che il M5S deve restare “nel campo riformista”. E che da giorni invoca “una leadership più diffusa”.

Sarà quella la vera battaglia negli Stati generali, il cozzare tra visioni opposte del presente e del futuro del Movimento. Perché tanti ministri vogliono rafforzare l’accordo con il Pd, o con ciò che ne prenderà il posto. E seguono la rotta tracciata senza sfumature dal Garante che continua a tacere, Beppe Grillo, e dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma Di Maio no, il capo che da oggi non sarà più tale vuole tenere il M5S equidistante, “ago della bilancia”. E si prepara allo scontro frontale, sapendo di avere con sé tanta della base storica e maggiorenti di peso, dimaiani di ferro come Laura Castelli e Stefano Buffagni. Ma anche una carta per nulla segreta, Alessandro Di Battista, contrario come lui al governo con il Pd: ma contro il volere di Grillo la scorsa estate non poterono fare nulla, neppure loro. Però adesso è difficile fare i conti, capire quale anima e idea prevale in un Movimento che è un assieme di gruppetti e fazioni, e chiamarle correnti sarebbe tecnicamente errato.

Di certo Di Maio non vuole andare alla conta a marzo. “Agli Stati generali non vogliamo scimmiottare vecchi congressi di partito” aveva detto a La Stampa alcuni giorni fa, evocando “il confronto invece dello scontro”. E ieri sera fonti qualificate confermavano al Fatto che no, prima del Congresso di marzo non potrà arrivare un nuovo capo politico, che andrebbe comunque votato sulla piattaforma web Rousseau dagli iscritti. “Siamo indietrissimo con i lavori sugli Stati generali, non c’è neppure la sede, quindi non c’è il tempo tecnico per arrivare alla nomina di un sostituto prima del 13 marzo. E a questo punto neanche durante”.

Insomma, la conta sulla leadership che Di Maio vuole schivare non dovrebbe esserci. Ma cosa sarà il futuro prossimo è tutto da scrivere, anzi da combattere. La fase di Di Maio capo solitario si è chiusa. Ma il ministro non ha voglia di lasciare il campo, di restare a guardare da fuori per sempre. Sente di poter essere ancora l’unico a stare lassù, a reggere l’alta quota di un Movimento che nel 2019 ha perso ovunque e malissimo, ma che è ancora il primo partito italiano per numero di parlamentari, comunque capace di condizionare la partita di governo anche in futuro, anche con il 16 per cento di cui lo accreditano i sondaggi.

I tempi del 33 per cento del trionfo delle Politiche del 2018, quelle in cui il simbolo elettorale “Di Maio presidente” era legge per tutti i grillini, sembrano lontani mille anni.

Ma un capo politico alternativo all’orizzonte non si vede. Lo sanno tutti, da Grillo all’ultimo dei parlamentari. E infatti gli anti-dimaiani vogliono qualcosa di diverso, un organo collegiale stabile. Anche se sempre lui, il Garante Grillo, di ritorno a un direttorio non vuole sentire parlare. E poi servirebbe una modifica profonda dello Statuto. Ipotesi che ad occhio preoccupa l’altro capo, a Davide Casaleggio, quello che ha le chiavi della piattaforma Rousseau, cioè della macchina operativa, a cui i parlamentari versano (quasi tutti contro voglia) 300 euro al mese.

Nonostante le ultime, difficili settimane, Casaleggio e Di Maio sembrano ancora vicini, più per forza che per passione. E forse è anche da qui che proverà a ripartire il capo dimissionario, dall’asse con Milano. Ma non sarà affatto facile riprendersi tutto. Mentre c’è già un primo nodo pratico, le dimissioni del capo politico da Statuto fanno decadere anche tutti i facilitatori. Ma il reggente, cioè Crimi, potrà confermarli. E mantenere in piedi una struttura, per il Movimento che ora dovrà navigare in alto mare. Senza il timoniere di prima, senza Luigi Di Maio.

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Mr Papeete ora vuole fare il governatore

Mr Papeete non si contiene più. Massimo Casanova, il proprietario dello stabilimento balneare più amato da Matteo Salvini e suo amico fraterno, non si accontenta della poltrona da eurodeputato gentilmente concessagli dal “Capitano”. Casanova alza la posta: è convinto che sarà lui il candidato delle destre alle Regionali in Puglia. “Con un uomo della Lega è fatta anche lì, vinciamo facile – ha detto a Repubblica –. Il nome lo sceglie Matteo. Io o un altro leghista battiamo Emiliano”.

Cosa c’entra con la Puglia il re dell’aperitivo in Riviera romagnola? Mr Papeete è titolare anche di una grande tenuta nel Gargano (finita sotto indagine della guardia di finanza), dove peraltro è stata cementata la sua amicizia con Salvini, ospite abituale. Casanova prima si sdoppiava tra la vita in Romagna e la residenza in Puglia, poi è arrivata la carica a Strasburgo, ora punta pure alla Regione. Già ha sbaragliato i fragili equilibri della Lega locale, entrando in conflitto con l’ex responsabile del Carroccio pugliese Andrea Caroppo (pure lui eletto all’Europarlamento). Non pago, Casanova è entrato a gamba tesa sulla tenuta dell’intero centrodestra: in Puglia il candidato è già stato individuato nell’ex governatore Raffaele Fitto. Nel quadro dell’accordo trovato da Salvini con Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi, infatti, la scelta del candidato pugliese spetta a Fratelli d’Italia. Il nome è stato definito, ma Casanova (e Salvini) hanno altri piani. Mr Papeete l’ha detto senza veli, facendosi una bella risata: “Con Fitto non si vince, con me o un altro leghista sì”. Dal partito di Giorgia Meloni si percepisce un certo, inevitabile fastidio: “Non crediamo che Salvini voglia venir meno alla parola data”, è il commento di una fonte di Fratelli d’Italia. “Anche se è la solita storia, sempre la stessa strategia, alzano continuamente la posta”. Si annunciano happy hour infuocati sull’asse Bari-Milano Marittima.

Lotti-2, la vendetta: tutti gli ex renziani sono contro Matteo

“È Luca il regista di tutto e il suo obiettivo è fare la guerra a Matteo”. Nella sentenza lapidaria di un esponente del Pd toscano, i protagonisti sono noti: il Luca in questione è Lotti, ex ministro dello Sport e punta di diamante del (fu) Giglio magico, mentre Matteo è, ça va sans dire, Renzi, che del “lampadina” è stato il padrino politico dai tempi della sua elezione a presidente della Provincia di Firenze. Da sfondo ci sarebbe l’esito delle elezioni regionali toscane di maggio, ma al momento conta poco o nulla: il voto è solo un mezzo, la campagna elettorale il campo di battaglia. Lotti da una parte e Renzi dall’altra. L’ingrato Richelieu rimasto nel Pd a guidare la corrente “Base riformista” e l’ex premier che a maggio esordirà proprio in Toscana con il suo partitino “Italia Viva”.

Che i rapporti siano freddi (eufemismo) tra i due, è noto da tempo: dall’inchiesta Consip in cui Lotti è imputato per favoreggiamento fino all’uscita di Renzi dal Pd, che il suo braccio destro non ha per niente condiviso (“scelta senza senso”). I due un tempo amici fraterni, dicono tra i dem toscani, non si sentono più e il primo terreno di scontro saranno proprio le elezioni toscane di maggio: anche se Pd e Italia Viva corrono alleati sostenendo il presidente del consiglio regionale Eugenio Giani, le due liste sono di fatto in competizione. Lotti così ha deciso di riempirle di ex renziani rimasti nel Pd da contrapporre ai fedelissimi dell’ex premier passati a “Italia Viva”.

L’ex ministro di Montelupo Fiorentino aveva aspirazioni da candidato governatore, ma dopo l’imposizione di Giani da parte di Renzi, pretende almeno l’ultima parola sulla formazione delle liste dem con l’aiuto del senatore lucchese Andrea Marcucci: “Di fatto in Toscana tutti i renziani rimasti fanno riferimento a Lotti – dice una fonte Pd al Fatto Quotidiano – e quindi, soprattutto nella zona di Firenze, Prato, Pistoia e Empoli, le liste le fa lui”. I nomi sono già sul piatto e sono tutti ex renziani: la vicesindaca Cristina Giachi a Firenze, l’ex assessore alla Mobilità con Renzi sindaco Massimo Mattei, il segretario dem fiorentino Andrea Ceccarelli e i consiglieri regionali uscenti Antonio Mazzeo (Pisa), Marco Niccolai (Pistoia), Nicola Ciolini (Prato), Ilaria Giovannetti e Stefano Bacelli (Lucca). Contro si troveranno ex compagni di partito passati con Italia Viva: l’assessore alla Sanità regionale Stefania Saccardi, i consiglieri uscenti Titta Meucci e Massimo Baldi ma anche l’ex capogruppo in consiglio comunale a Firenze, Angelo Bassi. Una guerra fratricida a colpi di preferenze.

L’obiettivo di Lotti è duplice: fare argine per evitare nuove fuoriuscite dal Pd ma anche provare a “svuotare” il nuovo partitino di Renzi, proprio nella Toscana dove l’ex premier si attende un grande risultato (“Arriveremo al 10%” ha detto pochi giorni fa Maria Elena Boschi). “A Luca non gliene importa nulla delle elezioni di maggio – continua stizzito l’esponente dem – vuole solo fare la guerra a Renzi sperando nella morte in culla di Italia Viva. Il problema è che ci sono delle elezioni da vincere e la Lega qui potrebbe toglierci la regione dopo cinquant’anni”. Dall’altra parte, sponda Renzi, fanno sapere che la guerra di Lotti “è solo un modo per contarsi all’interno del Pd”. E qualcosa di vero c’è anche in questa versione, visto che l’area zingarettiana che fa riferimento al vicesegretario toscano Valerio Fabiani non se ne starà con le mani in mano e pretenderà per sé tutte le altre candidature, soprattutto sulla costa e nella zona sud della Toscana. Da “Base Riformista”, invece, negano tutto e ostentano tranquillità: “Stiamo lavorando con tutto il partito perché tutte le aree culturali siano rappresentate – dice Andrea Romano – Lotti è un nostro parlamentare importante che ha sempre messo bocca sulle liste”. A maggior ragione contro Renzi.

Tra gettonopoli e trasformisti la destra punta alla Cittadella

Devi vivere l’emozione forte di attraversare il viadotto Bisantis, sospeso nel vuoto a 112 metri d’altezza, arrivare a Catanzaro e renderti conto che qui la campagna elettorale, fatta di scontri su idee e programmi, non c’è. Nella città “vertiginosa” (la definì così lo storico Francois Lenormant nell’800) è stata sostituita da una feroce lotta per il potere. I voti si prendono uomo per uomo, clientela per clientela, lobby per lobby. Anche loggia per loggia. Obiettivo la conquista del palazzo. E allora devi spostarti in località Germaneto, periferia ovest, per osservarlo da vicino l’oggetto di tanto feroce desiderio, “il palazzo”, la Cittadella, il centro del potere calabrese. La sede della Giunta regionale. La vastità della struttura intimidisce, toglie le parole, tanto vale affidarsi alla descrizione dello storico Piero Bevilacqua che qui ebbe i natali nel 1944. “Un edificio gigantesco, che fa impallidire per solennità il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Ad osservarlo, pensando alle prove che hanno dato i governi regionali negli ultimi quarant’anni, si rimane senza parole. Per quali meriti una così imponente autocelebrazione? Non saprei come interpretarla, visto il bilancio politico che oggi si può trarre, se non come monumento alla capacità dei gruppi dominanti calabresi di distruggere il proprio territorio”. Ma del bilancio politico, fatto di deprimenti statistiche, di lavoro che non c’è, nuova emigrazione di massa, corruzioni e incestuosi rapporti con la ‘ndrangheta, la classe politica del posto se ne strafotte. “La sensazione è che della Calabria non importa a nessuno così come di queste elezioni regionali. Purtroppo penso che il 26 gennaio vincerà il centrodestra. La città sta rischiando di consegnarsi a una forza antimeridionalista”. Nicola Fiorita, 49 anni, docente universitario, è consigliere comunale all’opposizione del sindaco Sergio Abramo, ex Forza Italia, ora vicinissimo a Salvini. È uno dei 29 consiglieri (su 32) coinvolti nello scandalo di “Rimborsopoli”. Insieme ad un altro consigliere, l’avvocato Gianmichele Bosco, compagno della leader delle Sardine, Jasmine Cristallo, nei giorni scorsi si è dimesso con una lettera ai catanzaresi. In sintesi: la nostra posizione è marginale, lasciamo operare con tranquillità la magistratura, il consiglio comunale è delegittimato, si dimetta in blocco insieme al sindaco. Atteggiamento netto e trasparente, “delle inchieste si parla nei luoghi dove si esercita la giustizia, diremo la nostra dopo il 7 e il 14 febbraio, quando verremo sentiti dal pm”, molto diverso da quello assunto da chi i consiglieri coinvolti li ha addirittura candidati alla Regione, come la Lega di Salvini e il Pd. La vicenda gettonopoli scuote la città, ormai protagonista fissa di Non è l’Arena, il talk scannatoio di Massimo Giletti. Due puntate, con il presidente del Consiglio Marco Polimeni (non toccato dall’indagine), che si è visto più volte intimare da Luca Telese l’ordine di “mostrare le palle”. E allora ti spieghi il capannello di persone che c’è attorno a uno smartphone nel bar “Il Comunale”, al corso principale della città. Non è una partita dei Mondiali. Tutti vedono la diretta Facebook del papà del consigliere, Lino, focoso conduttore televisivo di programmi sulle tv locali. “Vergognati sindaco Abramo, codardo, avete mandato al macello un ragazzo. Dimettiti… Maledetti lupi della politica…”.

Il resto è un crescendo. Un teatrino. “Giletti ha messo a nudo le anomalie del sistema. Ma non tutti i calabresi sono come i politici che li rappresentano, ascolti anche i giovani che sono il futuro di questa città”. Riccardo Montanari frequenta il quarto anno del Liceo Fermi, è uno di quegli studenti che ha sfidato Pippo Callipo, il candidato civico scelto dal Pd, a fare qualcosa per la Calabria. “Nella città c’è paura di andare alle urne e addirittura di dire la propria. Questa cosa mi fa arrabbiare, siamo stati presi in giro tante volte, siamo gli ultimi in tutto”. Il ragazzo, che non ha ancora l’età per varcare il seggio, conserva intatta la sua fiducia nella politica. Nonostante tutto. Nonostante i trasformisti alla Alessia Bausone, che oggi corre col M5S,ma fino a poco tempo fa era iscritta al Pd, alla Tonino Scalzo, candidato con l’Udc ma cinque anni fa eletto con una lista a sostegno del Pd Oliverio. E nonostante Domenico Tallini, consigliere regionale uscente candidato con Forza Italia, imputato nel processo “Catanzaropoli-Multopoli”. Devono turarsi il naso con la calce i catanzaresi per le liste che vedono candidata Carolina Caruso (Jole Santelli è il mio presidente, è lo slogan), detta Titina, sotto processo per bancarotta fraudolenta assieme al marito Giuseppe Cristaudo che un pentito indica essere vicino al boss Giuseppe Giampà. Elvira Iaccino, di Libera, allarga le braccia. “Con le liste fatte in fretta e una campagna elettorale breve, queste elezioni rischiano di essere inutili. Nonostante tutto, continueremo a batterci per una Calabria normale”.

Nei “palazzi” di Catanzaro tutto si muove. Sergio Abramo, sindaco e già candidato a governatore nel 2005 (fu sconfitto dal centrosinistra di Agazio Loiero), si sta avvicinando a grandi passi alla Lega. Il partito di Salvini è spaccato, quindi scalabile, e Abramo punta a diventare il vicepresidente esterno della Giunta. Se vince il centrodestra, il presidente sarà Jole Santelli e i cosentini dovranno stare bravi, l’uomo forte tocca a Catanzaro, il “capoluogo”. La Cittadella attende immobile i nuovi padroni.