Britannia, la vera storia

Pubblichiamo il discorso di Mario Draghi, dg del Tesoro alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia, del 2 giugno 1992.

Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico.
Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.
Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.
Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi.
Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi.
Primo: privatizzazioni e bilancio. La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.
Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento).

Le conseguenze politiche di questa visione sono due. Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni. Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.
Secondo: privatizzazioni e mercati finanziari. La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati.
L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.
Tre: privatizzazioni e crescita. (In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.
Le implicazioni di policy sono che: a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti; b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie; c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali.

Quarto: privatizzazioni e depoliticizzazione. Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.

A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare?
Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze.
Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility).
Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.
In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico. Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.

Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.
Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni.

Rifiuti, i 5 Stelle si spaccano Raggi va ko sulla discarica

Virginia Raggi finisce in minoranza sulla nuova discarica di Roma. L’impianto dovrebbe sorgere in Valle Galeria, periferia ovest della città. Anche se, per ora, la prima cittadina sembra non avere intenzione di tornare indietro. Una sfida alla sua stessa maggioranza che ieri pomeriggio in Assemblea capitolina le ha votato contro, facendo approvare le due mozioni-trappola presentate da Fratelli d’Italia e Pd che bocciano il progetto.

E così, dopo settimane di tira e molla con la Regione Lazio sulla scelta dei siti idonei, “Malagrotta 2” diventa un problema politico, facendo andare sotto – per la prima volta – la sindaca su un suo provvedimento. “Non c’è alcun allarme sulla tenuta dell’amministrazione”, si affrettano a spiegare al Fatto dall’entourage della sindaca, che in serata avrebbe detto ai suoi: “Capisco la sofferenza dei cittadini della Valle Galeria e dei consiglieri. Ma dobbiamo dare risposte a 3,5 milioni di cittadini”. Anche “il Pd ha indicato Monte Carnevale tra i siti – ha aggiunto – se ha cambiato idea possono sempre farla fuori Roma”.

In particolare, è stata la mozione presentata da Fdi ad attrarre il voto favorevole di ben 12 consiglieri del M5s. Semplice l’impegno: ritirare la delibera del 31 dicembre con la quale si indicava nella cava di via Monte Carnevale, a 500 metri dall’ex mega-discarica di Malagrotta – chiusa nel 2013 Ue – il sito idoneo per la costruzione di una discarica di 1,5 milioni di metri cubi. Oltre i 12 “ribelli”, ci sono stati anche 3 astenuti e ben 11 “assenti”. Fra questi il capogruppo Giuliano Pacetti, che si giustifica: “Stavo facendo delle fotocopie”. Solo in 3 hanno votato contro, sostenendo Raggi. In serata, la riunione di maggioranza ha ribadito la “piena fiducia alla sindaca” chiedendole però di “rispettare il voto dell’Aula”. “Non ha neanche i voti dei suoi, Raggi si dimetta”, ha commentato il leader della Lega, Matteo Salvini.

Ora si naviga a vista. Raggi a dicembre è stata obbligata a indicare un sito per una discarica in città da un’ordinanza firmata dal governatore Nicola Zingaretti. La cava, che ha collezionato fin qui ben 4 pareri contrari, è stata scelta in una lista fra 11 aree redatta da una cabina di regia formata da tecnici di Regione, Città metropolitana e Comune. Fra questi, l’unica “idonea” alle necessità romane pare essere proprio quella nella Valle Galeria, territorio in cui però il M5s in campagna elettorale si era impegnato a non proporre “mai più impianti inquinanti”. Le mozioni hanno un valore politico ma non sono determinanti dal punto di vista sostanziale. In teoria, dunque, Raggi potrebbe ignorare l’Aula e andare avanti. Cosa che però creerebbe un problema, in una maggioranza già sfilacciata. “Ultimamente qui ognuno fa come gli pare”, si è sfogato Paolo Ferrara, ex capogruppo fra i “ribelli” di ieri, che ha parlato ai giornalisti in buvette. “Forse manca il manico – ha detto – Gente che presenta mozioni contro gli assessori, consiglieri che litigano sui social, altri che votano contro”.

Come svelato dal Fatto, la discarica di Monte Carnevale appartiene alla società New Green Roma, partecipata al 55% dalla Mad srl di Valter Lozza, già proprietario della mega-discarica di Frosinone e di un’altra a Civitavecchia. “Ma noi non ne sapevamo nulla”, dicono in coro dal Campidoglio e da Ama. L’aspirante nuovo “re della monnezza” romana, ex vicepresidente della Banca del Sud, ha alcuni guai giudiziari. Oltre all’inchiesta “Maschera”, su presunti rifiuti pericolosi stoccati nella discarica di Roccasecca, il 30 maggio 2017 è stato sanzionato dalla Vigilanza della Banca d’Italia, multa di 34.500 euro per la mancata comunicazione della cessione di quote aziendali. “È stato sanzionato in qualità di socio, e non come amministratore bancario – precisa l’avvocato Marco Pizzutelli – perché aveva dismesso la sua quota, ceduta a una cordata. Avrebbe dovuto comunicarla preventivamente a Bankitalia, ma lo fece solo dopo”.

L’imprenditore è stato condannato nel dicembre 2018, in primo grado dal Tribunale di Cassino, a un anno e 8 mesi per intralcio alla giustizia, con interdizione temporanea dai pubblici uffici (pena in entrambi i casi sospesa): secondo l’accusa, avrebbe tentato di offrire del denaro a un perito chimico, nominato dal gip del Tribunale di Gela, in cambio di una perizia favorevole nell’ambito di un’indagine che riguardava un impianto dell’Eni. Il fatto si sarebbe consumato a San Giovanni Incarico, in provincia di Frosinone. “Una vicenda paradossale, è già stato presentato appello, e Lozza non ha alcun rapporto con nessuna società dell’Eni, a nessun livello”, spiega Pizzutelli.

Ilva, i commissari accusano: “Poca sicurezza e un morto”

L’incidente mortale in cui ha perso la vita il 10 luglio il gruista dell’ex Ilva, Cosimo Massaro, è “ascrivibile a gravi carenze organizzative di sicurezza” di ArcelorMittal. È forse la più grave accusa dei Commissari straordinari Ilva ai vertici della multinazionale che al giudice milanese Claudio Marangoni ha presentato nei mesi scorsi istanza di recesso del contratto di gestione dello stabilimento siderurgico di Taranto. È l’ultima di una lunga lista contenuta nelle 86 pagine depositate martedì al tribunale civile Milano. Per i commissari, la caduta in mare della gru per il tornado che si scatenò su Taranto “oltre alla gravissima perdita umana” ha anche “seriamente danneggiato la produzione dello stabilimento” per colpa del gruppo franco indiano. Tanto che nel procedimento penale sono contestate “ipotesi di reato fondate – scrivono i commissari – su omissioni nelle attività di manutenzione dei macchinari” sotto il loro “diretto ed esclusivo controllo”.

Emerge la difficoltà di dialogo tra la struttura commissariale e i vertici di Arcelor, che mentre si lanciano accuse cercano un nuovo accordo per la permanenza della multinazionale a Taranto. Una trattativa su cui c’è il più stretto riserbo ma che, leggendo i documenti presentati da entrambe le parti, non sembra vicina a un accordo. Nel documento, poi, ArcelorMittal è accusata di propalare “falsità” sull’immunità penale, utilizzata come grimaldello per giustificare la fuga da Taranto dove hanno eseguito azioni frutto di un “capitalismo d’assalto”. L’azienda non avrebbe rispettato gli obblighi imposti dal contratto e quelli dettati dal piano ambientale: “ArcelorMittal non ha portato avanti la realizzazione del Piano nei tempi e con gli investimenti programmati” e non avrebbe “eseguito il programma di manutenzione concordato nell’ambito del Contratto in modo coerente alle migliori pratiche di esercizio”. Non solo. ArcelorMittal “risulta poi gravemente inadempiente a obblighi economici” non avendo pagato 85 milioni per l’acquisto, quasi un anno fa, dei cosiddetti “beni esclusi”, cioè che non facevano parte del contratto di gestione, e perché “alla scadenza prevista per novembre 2019 non ha proceduto a versare il canone trimestrale contrattualmente dovuto nella misura di Euro 45 milioni trimestrali”. Difficile quindi ipotizzare che entro il 7 febbraio, giorno in cui il giudice dovrà decidere sull’istanza, si trovi una soluzione con i negoziati. Per i commissari il gruppo vuole ripetere quanto già fatto, ci sarebbero “inquietanti e sinistre analogie con l’operazione di acquisizione dell’azienda siderurgica di Hunedoara compiuta in Romania una quindicina di anni fa, e che si era risolta in una devastante deindustrializzazione dell’area” e con l’esperienza di Liegi dove alle “trionfalistiche dichiarazioni di ammodernamento e riconversione” è seguito “un processo di progressiva dismissione che ha cancellato lo stabilimento”.

Aoas doias odhuaisgud aigsdi gua sdiuags gda igusd

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt.

Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, asudhaiosugdiausdgags idgua gsd iagsd iuga sdgiu aigusd igaus dgiua sgidu asud aiugsquod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una, pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine

Aoas doias odhuaisgud aigsdi gua sdiuags gda igusd

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt.

Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una, pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine

Il gioco dell’oca riparte dal via, così ritorna la voglia di Iri

SEGUE DA PAGINA 15

In quel tornante, alcune personalità della classe dirigente italiana promuovono la riduzione dell’intervento pubblico. Soprattutto Andreatta, Carli, Ciampi, che non sono approfonditi in “1992” e meriterebbero una serie televisiva a parte. Ciampi vuole contenere la disgregazione italiana attraverso l’ancoraggio europeo. Carli, forse il personaggio chiave dell’epoca, è dominato dal pessimismo verso un’Italia che considera irriformabile dall’interno. Un pessimismo condiviso da Andreatta, il quale diffida dell’interferenza politica del suo stesso partito, la Dc, conosciuta sulla propria pelle, e che da ministro degli Esteri nel ’93 firma l’accordo col commissario europeo Karel Van Miert sulle imprese pubbliche che porta alla successiva liquidazione dell’Iri. In questo gruppo, Draghi si muove come tecnico puro, ma ben consapevole del ruolo della politica. Come negli anni successivi, non abbocca alle illusioni di una “competenza” calata dall’alto senza negoziare coi poteri eletti dai cittadini. Per esempio, all’inizio dell’esperienza al Tesoro aggiorna sulle questioni economiche non solo Carli, ma anche l’allora presidente del consiglio Andreotti, il quale pesa nella trattativa su Maastricht per il suo rapporto personale con Kohl. Con la coscienza di quella stagione possiamo rileggere oggi il discorso del Britannia e fare alcune considerazioni.

Anzitutto, il rapporto tra le politiche e la società. Draghi crede che “una politica fiscale credibile” sarebbe stata parte di ogni programma di governo, come “l’aderenza al Trattato di Maastricht”. L’ideologia del vincolo esterno, propugnata da Carli, si basa sull’inevitabilità: siccome le politiche saranno sempre le stesse, l’unica decisione politica è applicarle autonomamente o farle applicare dagli altri. Del resto è inutile discutere. Oggi, è chiaro come questa visione del mondo generi un cortocircuito democratico, oltre a non riflettere più i reali rapporti tra economia, politica e società nel contesto europeo.

Sorprenderà i suoi detrattori quanto Draghi, in numerosi passaggi, si mostri consapevole dei limiti delle privatizzazioni. Per esempio, segnala in tutto il discorso l’importanza degli “obiettivi non di mercato”. All’occupazione e alle disparità territoriali, da lui stesso citati, si affiancheranno, nel corso degli anni, anche esigenze di sviluppo tecnologico, oltre che di competenza industriale. Così, la “grande trasformazione” dell’economia italiana avviene senza una risposta a queste domande: come perseguire in modo diverso alcuni obiettivi presidiati (con ampi costi) dal sistema delle partecipazioni pubbliche.

Inoltre, Draghi nel ragionare sulla “depoliticizzazione”, ricorda che si può ridurre l’influenza politica, ma i problemi dell’interferenza e della confusione tra proprietà e management possono proporsi anche nel privato. Il discorso del Britannia, in questo senso, rinvia allo sforzo successivo del Tesoro sulle regole per i mercati finanziari, che non impedisce– soprattutto in Telecom – la stagione dei “nocciolini” che avvia una stagione di impoverimento tecnologico dell’Italia, il caso scuola della privatizzazione fallita. Al tempo, Draghi non può prevedere una storia più vicina a noi, figlia delle scelte di questo secolo: il sistematico disinvestimento dello Stato dalle proprie competenze tecniche, che ha reso nei fatti impossibile una relazione sana tra pubblico e privato in alcuni settori regolati, soprattutto le infrastrutture.

Per queste ragioni rileggere il discorso del Britannia è essenziale per ragionare sui limiti dello Stato e del mercato in un’epoca molto diversa. Quando, dopo quasi trent’anni, il gioco dell’oca ci riporta un po’ per disperazione alla casella dell’Iri.

“Stare in Europa ci impone di fare le privatizzazioni: sono inevitabili” – Draghi

L

SEGUE DA PAGINA 15

e conseguenze politiche di questa visione sono due. Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni. Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.

Secondo: privatizzazioni e mercati finanziari. La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati.

L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.

Tre: privatizzazioni e crescita. (In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.

Le implicazioni di policy sono che: a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti; b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie; c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali.

Quarto: privatizzazioni e depoliticizzazione. Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.

A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare?

Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze.

Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility).

Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.

In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico. Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.

Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.

Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni.

(Traduzione
di Alessandro Aresu)

Più mercato contro corruzione e sprechi: il pensiero di Draghi

Meglio il capitalismo con la proprietà pubblica delle aziende o quello con lo Stato arbitro tra privati? Ora che il pendolo della storia oscilla di nuovo verso lo Stato azionista – Alitalia, Ilva, Montepaschi, Telecom – bisogna tornare al 1992 per capire se la scelta di smantellare il sistema di banche, finanziarie e imprese pubbliche è stato un errore, una necessità o una opportunità in gran parte sprecata.

“Si fa un’opera convincente di privatizzazione, improntata alla massima trasparenza (ribadisco che il concetto di trasparenza è estremamente importante) ed essa trasmette ai mercati finanziari un segnale di credibilità per l’Italia, che si traduce in tassi di interesse più bassi”, così l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi spiegava nel 1993 il senso di quella stagione che si apriva all’insegna delle polemiche per la sua partecipazione a una riunione di banchieri inglesi e finanzieri italiani sullo yacht Britannia, il 2 giugno del 1992, a Civitavecchia. Una delle infinite teorie del complotto straniero ai danni dell’Italia ha oscurato l’analisi di una scelta non soltanto finanziaria. Il discorso di Draghi sul Britannia, che il Fatto ha recuperato e pubblica per la prima volta, è uno spunto di riflessione di grande attualità.

Una associazione di banchieri inglesi, interessata alle privatizzazioni annunciate dal governo Andreotti, organizza una crociera di un giorno sul Britannia, rilevato dalla regina Elisabetta: Draghi definisce l’invito “esotico”, ma sia il ministro del Tesoro Guido Carli sia il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi pensano che partecipare sia utile: la reputazione dell’Italia sui mercati è disastrosa, il governo Andreotti firma il 7 febbraio il trattato di Maastricht, ma nessuno crede che l’Italia possa rispettare gli impegni sui conti pubblici. Dieci giorni dopo, la Procura di Milano arresta un manager socialista, Mario Chiesa: l’inchiesta di Mani Pulite scoperchia la Tangentopoli dei partiti corrotti. Alla fine del 1992 il deficit supera l’11 per cento del Pil, il debito pubblico per la si assesta sopra il 100 per cento del Pil. La lira barcolla, sotto attacco sui mercati, il tasso di interesse sui titoli di Stato supera il 12 per cento (oggi è all’1,36).

“Pensando che la nave si sarebbe staccata dal molo e che per una intera giornata di navigazione mi sarei trovato in contatto con quelli che potenzialmente sarebbero stati i miei clienti per i mandati da dare per le privatizzazioni (…) dopo aver svolto l’introduzione me ne andai e la nave partì senza di me”, racconta Draghi in Parlamento. Sul Britannia restano gli inglesi con politici, banchieri e avvocati italiani, da Giovanni Bazoli a Beniamino Andreatta a Giulio Tremonti.

Il governo Andreotti aveva avviato il processo di privatizzazioni con il più cinico degli obiettivi: fare cassa, per preservare un potere alimentato da mazzette, clientele e alti tassi di interesse pagati ai risparmiatori italiani che, grazie agli investimenti in titoli di Stato, si illudevano di arricchirsi a spese del Paese prossimo alla bancarotta. La visione di Carli, Ciampi e Draghi è diversa: le privatizzazioni sono una scelta capace di “scuotere l’ordine socio economico” dell’Italia, dice Draghi sul Britannia, purché vengano rispettate alcune condizioni, tipo vincolare i proventi alla riduzione del debito invece che usarli per spesa corrente (nasce un apposito fondo nel 1993).

La lettura del declino italiano che Draghi condensa nella sua relazione non è frutto di un pregiudizio ideologico sul ruolo dello Stato: fino agli anni Sessanta il capitalismo di Stato imperniato sull’Iri funziona, le barriere di cui il suo creatore Alberto Beneduce aveva dotato l’istituto che controllava pezzi cruciali dell’industria italiana reggono. E l’Iri è una specie di Banca d’Italia, dove tecnocrati con una visione di lungo periodo progettano la politica industriale. Poi le barriere cedono, i partiti prendono il controllo, le partecipate di Stato diventano – nella sintesi di Carli – una fonte di corruzione in senso giuridico ma anche morale, oltre che di perdite miliardarie. Le imprese pubbliche non hanno capitale, ma possono indebitarsi, con una garanzia implicita dello Stato. Poi nel luglio 1992, meno di un mese dopo il discorso del Britannia, il governo Amato mette in liquidazione l’Efim, finanziaria pubblica con oltre 10 mila miliardi di lire di debiti, e i creditori capiscono che i loro soldi sono a rischio, che l’Italia non può più pagare le perdite di carrozzoni pubblici che stanno trascinando a fondo lo Stato stesso.

Privatizzare serve dunque a fermare l’emorragia di denaro pubblico e a mettere ordine in un sistema di potere che risponde solo ai partiti. Ma l’obiettivo, spiega Draghi sul Britannia, è anche far sviluppare un mercato azionario che è sempre rimasto piccolo “perché gli investitori italiani lo hanno voluto piccolo”.

La legge bancaria del 1936, infatti, ha impedito alle banche di detenere quote azionarie nelle imprese. Ma ha anche creato un sistema in cui l’unica fonte di finanziamento per le aziende è il credito bancario: non c’è un vero mercato dei capitali, neppure un mercato obbligazionario in cui emettere bond, il trattamento fiscale dirotta il risparmio degli italiani verso i titoli dello Stato che controlla le banche. Il risultato è un intreccio perverso che soffoca Piazza Affari, ma offre opportunità a speculatori e criminali che prosperano in mercati poco liquidi e poco trasparenti, impedisce alle aziende di crescere e spinge i risparmiatori a inseguire i rendimenti illusori di Bot e Btp, erosi dall’inflazione e minacciati dal conto che, prima o poi, il debito pubblico presenta sempre.

Draghi spiega ai banchieri del Britannia che l’Italia non è l’Inghilterra, un processo così complesso sarà graduale, “non c’è alcuna Thatcher in Italia”, qualunque governo valuterà le conseguenze occupazionali. Draghi avverte anche che le privatizzazioni possono funzionare solo se accompagnate da riforme che garantiscano la concorrenza tra i nuovi protagonisti privati ed evitino “discriminazione dei prezzi” (spremere clienti senza alternative), servono anche misure che proteggano gli azionisti di minoranza e separino controllo e gestione nelle società quotate.

La lista di quello che bisognava fare e non è stato fatto è lunga. Draghi probabilmente riscriverebbe oggi quel discorso, parola per parola. Inclusa la parte che analizza perché gestire le aziende con logiche politiche e di consenso a breve termine è la premessa di disastri scaricati presto o tardi sui conti pubblici.

Il prof. Conte: “Torno presto, ma non troppo”

Firenze

Il diverbio è tutto lessicale. Un vigile urbano di Palazzo Vecchio lo saluta così: “Buongiorno Professor Conte”. Sorriso e foto d’ordinanza. Clic. Appena passa la fiumana, però il pizzardone rimprovera il collega: “Adesso è Presidente, bischero”. La giornata fiorentina di Giuseppe Conte per inaugurare l’anno accademico sta tutta in questo dilemma: lui è un po’ premier, un po’ professore universitario che torna nella città dove ha insegnato fino all’anno scorso. Una carica che, per quanto gli piaccia, non tornerà a ricoprire tanto presto, anche se domenica il centrosinistra dovesse perdere l’Emilia Romagna: “Il professore universitario è un mestiere così bello, così piacevole, che non mi dispiacerebbe affatto in futuro: ma che sia da lunedì lo ritengo assolutamente improbabile”. Che il premier Conte sia visibilmente emozionato lo si capisce quando prende la parola nel Salone dei Cinquecento: “Non posso celare l’emozione che in me suscita il ricordo della mia professione di docente universitario”. Applausi. Prima di lui, parlano il sindaco Dario Nardella e soprattutto il rettore Luigi Dei che, dopo le dimissioni natalizie del ministro Lorenzo Fioramonti, mette il dito nella piaga: “È indispensabile un piano pluriennale d’investimenti senza il quale l’Università italiana si avvierà verso un rapido collasso” dice rivolgendosi al capo del governo. E Conte, dopo aver ricordato lo studente disabile Niccolò Bizzarri morto pochi giorni fa dopo una caduta in una buca, gli risponde subito annunciando un emendamento al decreto Milleproroghe per reclutare “1600 nuovi ricercatori”: “Abbiamo preferito rendere autonomo il ministero dell’Università e della ricerca perché era troppo sacrificato – continua il premier – stiamo pensando a un piano strutturale di interventi per trattenere i giovani in Italia”. Mentre il premier parla, però, alcuni studenti delle liste di sinistra si alzano e non partecipano per protesta (“Vogliamo fatti, non parole”). Altri invece rimangono: “Che emozione vederlo tornare qui da Presidente del Consiglio” dice Marco, studente di Giurisprudenza che tre anni fa ha sostenuto l’esame di Diritto Privato. A pieni voti.

Niente accordo, solito Renzi: gela tutti sulla prescrizione

La bestia nera della prescrizione blocca ancora una volta la riforma del processo penale. Nulla di fatto al vertice sulla Giustizia, il secondo in 12 giorni. “Malgrado numerose convergenze sulle misure per abbreviare i tempi – ha dichiarato il Guardasigilli Alfonso Bonafede dopo la riunione – rimangono alcune distanze sulla prescrizione. Per me e il M5S resta prioritario garantire la certezza della pena”.

Protagonista del vento contrario è sempre Matteo Renzi, che a vertice in corso faceva campagna elettorale dai microfoni di Zapping, su Radio1: “Un processo senza fine è la fine della giustizia”. E bolla come “incostituzionale” il lodo Conte, avanzato dal premier il 9 gennaio: blocco per tutti i condannati in primo grado – come prevede già la legge Bonafede – e per gli assolti vale ciò che avrebbe voluto per tutti il Pd: blocco della prescrizione solo se l’appello si celebra entro due anni, altrimenti ricomincia a decorrere (in termini tecnici, si chiama “prescrizione processuale”).

Con la testa alle elezioni di domenica in Emilia Romagna e Calabria e soprattutto con il timore per la tenuta del governo, Zingaretti attacca Renzi: “C’è una maggioranza da tutelare. I partiti di maggioranza che votano con l’opposizione la indeboliscono”. Il riferimento è al voto dello scorso 15 gennaio in commissione Giustizia di Italia Viva a favore del ddl Costa (Forza Italia), che avrebbe abolito la legge Bonafede sulla prescrizione: la maggioranza non è andata sotto per un solo voto. E lunedì, quando lo scenario politico sarà determinato dall’esito del voto in Emilia Romagna, lo stesso ddl Costa approda in Aula. Italia Viva finora ha minacciato gli alleati di govenro di votare definitivamente con Fi, Lega e FdI. E se il Pd dovesse perdere le regionali, ragionano i dem, Renzi potrebbe passare ai fatti, per regolare i conti con il suo ex partito, gettando il governo sul precipizio dele elezioni anticipate.

Al vertice di ieri, però, Maria Elena Boschi e Lucia Annibali hanno lasciato intendere che difficilmente lo faranno. Iv potrebbe cedere in cambio del “lodo Conte 2”: quando i condannati in primo grado vengono assolti in appello, anche per loro si applica la prescrizione processuale. Annibali con i cronisti è possibilista: “Vedremo, ci sarà un aggiornamento”, un altro vertice prima del voto di martedì.

A Renzi ha risposto a muso duro pure Bonafede: “La distinzione fra assolti e condannati non è la mia proposta di partenza ma ricordo che questa distinzione è stata già introdotta nella scorsa legislatura da qualcuno che adesso solleva profili di incostituzionalità (legge Orlando del governo Renzi, ndr). Secondo Walter Verini, responsabile Giustizia dle Pd, “è una proposta con dignità e ragionevolezza”. Piero Grasso, leader di Leu ed ex magistrato, aveva rilevato da subito “qualche perplessità, ma c’è un pragmatismo di governo che spinge a trovare una soluzione”.

Venendo al merito della riforma, la proposta Bonafede è che il processo duri complessivamente 4 anni: 12 mesi in primo grado, due anni in appello e un anno per la Cassazione. Nessun limite, però, per mafia e terrorismo e più tempo per altri reati gravi. Cade l’obbligo di ripartire da zero per i processi in cui cambia anche solo un giudice del collegio. Per l’appello, ci potranno essere processi con giudici monocratici, l’avvocato potrà presentare appello solo se ha un mandato ufficiale del suo assistito. Se non c’è sentenza entro due anni, le parti possono pretenderla, con possibili conseguenze disciplinari per i giudici che non rispettano i tempi. Cambierebbe anche il Csm: i togati passerebbero da 16 a 20 e i laici da 8 a 10. I togati sarebbero eletti in 19 collegi, 3 le preferenze possibili. Se non c’è un vincitore al primo turno si va al ballottaggio tra i due candidati che hanno preso più voti.