Donald Trump e i repubblicani suoi guardaspalle vogliono un processo lampo, i democratici dicono un processo farsa: dovrebbe concludersi prima del discorso sullo stato dell’Unione, il 4 febbraio; due settimane giuste giuste dall’inizio del dibattimento sull’impeachment, ieri nell’aula del Senato. “Il presidente – spiega Lindsey Graham, senatore della South Carolina – vuole arrivare allo stato dell’Unione col processo alle spalle e parlare di ciò che intende fare quest’anno e nei prossimi quattro anni successivi”.
Assolto e con la vittoria in tasca nell’Election Day il 3 novembre: così, Trump s’immagina la sera del 4 febbraio, per il suo discorso a Camere riunite e a Nazione incollata davanti ai televisori. E Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana al Senato, è deciso a trasformare il sogno in realtà. L’America, più polarizzata che mai dopo tre anni di “divisore in capo” alla Casa Bianca, è spaccata: il 51% pensa che il Senato dovrebbe condannare e destituire Trump, il 45% pensa che non dovrebbe farlo. Un sondaggio della Cnn indica, però, che il 69% è favorevole alla convocazione di testi non auditi alla Camera: qui, almeno, la scelta di campo è netta.
L’obiettivo dei Repubblicani è fare in fretta: evitare nuove testimonianze, o limitarle al massimo; screditare le accuse e, soprattutto, gli accusatori; prosciogliere il presidente; e lasciare i democratici nelle peste, senza un candidato forte per Usa 2020 e avendo dato l’impressione d’accanirsi senza motivo contro Trump. Una risoluzione repubblicana prevede di dare ai manager – rappresentanti dell’accusa e della difesa, ndr – 24 ore per parte, suddivise in due giorni, per presentare le loro tesi in apertura del processo; seguiranno 16 ore di domande da parte dei senatori, che sono i giurati di questo giudizio. La risoluzione rimanda a una volta esaurita questa fase la discussione sulla possibilità d’introdurre nuovi testi e nuovi documenti, rispetto a quelli sentiti o vagliati dalla Camera che, prima di Natale, decise il rinviò a giudizio di Trump per abuso di potere e ostruzione alla giustizia.
Lo spauracchio, da tenere lontano a ogni costo, è l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton. Rispetto al processo del 1998 sull’impeachment a Bill Clinton, la risoluzione repubblicana comprime i tempi per accusa e difesa. Non si fa però menzione di una mozione per respingere gli articoli d’impeachment, come ipotizzava la difesa del presidente, rinforzata per l’occasione da Ken Starr, l’ex procuratore speciale “anti-Clinton”, e da Alan Dershowitz, l’avvocato che, instillando il dubbio d’un pregiudizio razziale, riuscì a fare assolvere l’arci-colpevole O.J. Simpson dall’accusa di duplice omicidio. Ma un’istanza del genere potrà essere presentata a dibattimento avviato. I sette manager repubblicani, che collaboreranno con gli avvocati del presidente “per combattere questo impeachment iperfazioso e senza fondamento”, sono stati indicati ieri dalla Casa Bianca: Doug Collins, Mike Johnson, Jim Jordan, Debbie Lesko, Mark Meadows, John Ratcliffe, Elise Stefanik, Lee Zeldin.
Alla condanna di Trump, i Democratici non credono: la Camera ha votato lungo un crinale politico; il Senato, dove i repubblicani sono 53 e i democratici e gli indipendenti 47, farà lo stesso (e per pronunciare l’impeachment ci vogliono i due terzi dei 100 senatori, 67).
Ma la speaker della Camera Nancy Pelosi vorrebbe che sul presidente resti almeno l’alone d’una presunta colpevolezza e d’una assoluzione politica. Per riuscirci a pieno, bisognerebbe, però, che una maggioranza dei senatori lo condanni, cioè che una manciata di repubblicani lo abbandonino. Non è facile che avvenga. Il leader dei Democratici al Senato Chuck Schumer definisce “una vergogna nazionale” le regole del processo scritte da McConnell: “Vuole solo affrettare il giudizio”. E i sette manager dem parlano di “processo truccato”.