Impeachment indolore: il sogno dei Repubblicani

Donald Trump e i repubblicani suoi guardaspalle vogliono un processo lampo, i democratici dicono un processo farsa: dovrebbe concludersi prima del discorso sullo stato dell’Unione, il 4 febbraio; due settimane giuste giuste dall’inizio del dibattimento sull’impeachment, ieri nell’aula del Senato. “Il presidente – spiega Lindsey Graham, senatore della South Carolina – vuole arrivare allo stato dell’Unione col processo alle spalle e parlare di ciò che intende fare quest’anno e nei prossimi quattro anni successivi”.

Assolto e con la vittoria in tasca nell’Election Day il 3 novembre: così, Trump s’immagina la sera del 4 febbraio, per il suo discorso a Camere riunite e a Nazione incollata davanti ai televisori. E Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana al Senato, è deciso a trasformare il sogno in realtà. L’America, più polarizzata che mai dopo tre anni di “divisore in capo” alla Casa Bianca, è spaccata: il 51% pensa che il Senato dovrebbe condannare e destituire Trump, il 45% pensa che non dovrebbe farlo. Un sondaggio della Cnn indica, però, che il 69% è favorevole alla convocazione di testi non auditi alla Camera: qui, almeno, la scelta di campo è netta.

L’obiettivo dei Repubblicani è fare in fretta: evitare nuove testimonianze, o limitarle al massimo; screditare le accuse e, soprattutto, gli accusatori; prosciogliere il presidente; e lasciare i democratici nelle peste, senza un candidato forte per Usa 2020 e avendo dato l’impressione d’accanirsi senza motivo contro Trump. Una risoluzione repubblicana prevede di dare ai manager – rappresentanti dell’accusa e della difesa, ndr – 24 ore per parte, suddivise in due giorni, per presentare le loro tesi in apertura del processo; seguiranno 16 ore di domande da parte dei senatori, che sono i giurati di questo giudizio. La risoluzione rimanda a una volta esaurita questa fase la discussione sulla possibilità d’introdurre nuovi testi e nuovi documenti, rispetto a quelli sentiti o vagliati dalla Camera che, prima di Natale, decise il rinviò a giudizio di Trump per abuso di potere e ostruzione alla giustizia.

Lo spauracchio, da tenere lontano a ogni costo, è l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton. Rispetto al processo del 1998 sull’impeachment a Bill Clinton, la risoluzione repubblicana comprime i tempi per accusa e difesa. Non si fa però menzione di una mozione per respingere gli articoli d’impeachment, come ipotizzava la difesa del presidente, rinforzata per l’occasione da Ken Starr, l’ex procuratore speciale “anti-Clinton”, e da Alan Dershowitz, l’avvocato che, instillando il dubbio d’un pregiudizio razziale, riuscì a fare assolvere l’arci-colpevole O.J. Simpson dall’accusa di duplice omicidio. Ma un’istanza del genere potrà essere presentata a dibattimento avviato. I sette manager repubblicani, che collaboreranno con gli avvocati del presidente “per combattere questo impeachment iperfazioso e senza fondamento”, sono stati indicati ieri dalla Casa Bianca: Doug Collins, Mike Johnson, Jim Jordan, Debbie Lesko, Mark Meadows, John Ratcliffe, Elise Stefanik, Lee Zeldin.

Alla condanna di Trump, i Democratici non credono: la Camera ha votato lungo un crinale politico; il Senato, dove i repubblicani sono 53 e i democratici e gli indipendenti 47, farà lo stesso (e per pronunciare l’impeachment ci vogliono i due terzi dei 100 senatori, 67).

Ma la speaker della Camera Nancy Pelosi vorrebbe che sul presidente resti almeno l’alone d’una presunta colpevolezza e d’una assoluzione politica. Per riuscirci a pieno, bisognerebbe, però, che una maggioranza dei senatori lo condanni, cioè che una manciata di repubblicani lo abbandonino. Non è facile che avvenga. Il leader dei Democratici al Senato Chuck Schumer definisce “una vergogna nazionale” le regole del processo scritte da McConnell: “Vuole solo affrettare il giudizio”. E i sette manager dem parlano di “processo truccato”.

Una via per Borrelli

“Caro direttore, vi scrivo per avanzare una proposta, molto semplice ma credo significativa. In questi giorni si sta di nuovo, scandalosamente, parlando di intitolare una via di Milano a Craxi. Mi piacerebbe che il Fatto, il mio giornale, si facesse promotore dell’intitolazione di una strada di Milano a Francesco Saverio Borrelli, servitore dello Stato che coordinò le indagini che misero alle strette i predoni dello Stato come Craxi. Sarebbe importante se il Fatto avviasse una campagna, eventualmente con una raccolta di firme, di forte impatto simbolico, che riaffermi i principi fondativi della vita civile. Valerio Coppola”.

Caro Valerio, è bello avere lettori come lei e scoprire che in Italia esistono ancora persone perbene e raziocinanti che non hanno portato il cervello all’ammasso del pensiero unico. Mentre leggo la sua lettera sono le 15.30 e Rai1, l’ammiraglia del “servizio pubblico”, trasmette un penoso programma con unica ospite indovini chi? L’ubiqua Stefania Craxi, che santifica il padre perseguitato con la conduttrice Caterina Balivo a farle da spalla, anzi da palo. Il programma si chiama Vieni da me ed è prodotto da Magnolia, fondata da Giorgio Gori e ora di proprietà di Marco Bassetti, che non è omonimo del marito di Stefania Craxi: è proprio lui. Una marchetta in famiglia, casa e bottega: il marito fa invitare la moglie per beatificare il suocero a spese nostre, con tanti saluti al conflitto d’interessi e alla decenza. Figli, famigli, nostalgici e complici del noto ladrone spadroneggiano a reti ed edicole unificate e si atteggiano pure a esiliati perseguitati. Domenica, nelle rassegne stampa di Sky, il solito manichino travestito da giornalista ironizzava non sul 99% della stampa italiota in pellegrinaggio ad Hammamet, ma sull’unico giornale – il nostro – che si permetteva di ricordare il bottino di Bettino. Il clima è questo: a doversi giustificare non sono i mille spacciatori di balle, né le decine di cronisti che hanno seguito le indagini e raccontato le sentenze di Mani Pulite e ora tacciono per non disturbare i ladri vivi che saltellano sulla tomba di quello morto; ma i pochi giornalisti che non hanno perso l’uso della memoria, della parola e della penna. Gli squadristi dell’impunità non risparmiano nessuno, nemmeno il nostro Natangelo, messo alla gogna (per fortuna clandestina) da Piero Sansonetti sul Riformatorio dell’imputato Alfredo Romeo per una vignetta su Craxi all’inferno nel girone dei ladroni: roba che 25 anni fa sarebbe apparsa persino banale.

Ma ora diventa eversiva nel Paese di Sottosopra, dove i ladri danno la caccia alle guardie e i tangentari fanno la morale agli onesti. Ubriaco dei propri insuccessi, il direttore del Riformatorio – sotto il titolo autobiografico Giornalismo, talvolta, è imbecillità pura – parla di “vignetta oscena” e deduce che Nat “ha letto poco la storia e si è imbevuto delle idee e dei sentimenti che animano la sua redazione… Uno solo: odio”. Già, perché “il direttore e altri giornalisti del Fatto sanno poco o niente di Craxi”. Però lo sventurato non dispera e auspica una rivolta dei nostri cronisti perché dicano “basta” al giornale che osa raccontare i fatti anziché le panzane sansonettiane. Nel caso, gli faremo sapere.

Intanto, per l’angolo del buonumore, giunge da Torino un esilarante comunicato della “Camera Penale del Piemonte occidentale e Valle d’Aosta” che esprime “sconcerto” per l’articolo di Gianni Barbacetto sulla denuncia dell’insigne consesso al Pg della Cassazione affinché punisca Piercamillo Davigo per le idee esposte in un’intervista al Fatto. L’articolo sarebbe “un gravissimo episodio”, anzi “un’ulteriore e profonda offesa ai principi fondamentale (sic, ndr) in tema di diritto di difesa”, anzi “una violentissima aggressione alle garanzie di libertà del difensore e quindi allo Stato di Diritto”, anzi “una visione contra legem del processo penale, dei diritti e dei principi fondamentali (stavolta al plurale, ndr)”, anzi un “giornalismo di chiara matrice giustizialista”. Praticamente un attentato terroristico, contro cui “l’Avvocatura torinese è pronta a promuovere ogni azione”. Ora, noi siamo molto affezionati agli avvocati (almeno ai nostri) e, da imputati seriali (per le continue denunce per diffamazione), non sapremmo farne a meno. Ma suggeriamo a questi esagitati del Piemonte occidentale (e della Valle d’Aosta) di darsi una calmata. Cala, Trinchetto. Partecipiamo al vostro lutto per la prematura dipartita della prescrizione. E comprendiamo il vostro nervosismo per le proposte di Davigo che, se ne venisse realizzata una su dieci, impedirebbe di farla franca a nove vostri clienti colpevoli su dieci. Ma imparate a rispettare le idee altrui: soprattutto se minoritarie, nel Paese che beatifica i ladri e criminalizza le guardie. Un conto è il diritto di difesa, sacro e inviolabile, un altro è la vostra pretesa di sedere al livello dei magistrati. Se un pm chiede la condanna di un imputato che sa innocente, commette il reato di calunnia. Se un avvocato, colto da crisi di coscienza, chiede la condanna di un cliente che sa colpevole, commette i reati di infedele patrocinio e rivelazione di segreto. Cioè: il magistrato delinque se mente, l’avvocato delinque se dice la verità. Come si possano mettere sullo stesso piano due figure così opposte, lo sa solo il sinedrio del Piemonte occidentale (e Valle d’Aosta).

Quindi sì, caro Valerio. Oggi, sul nostro sito, lanciamo una petizione per dedicare una strada a Borrelli. Non perché pensiamo che la giunta Sala ci darà retta (il sindaco è condannato in primo grado per falso). Ma perché ci piacciono le battaglie giuste, anche quando sembrano perse in partenza.

Lega di Serie A, il megastipendio e il superbonus dell’ad De Siervo

Nel 1967, Gianni Morandi cantava Una domenica così non la potrò dimenticare: a distanza di 53 anni, lo stesso motivetto corretto e aggiornato – “uno stipendio così non lo potrò dimenticare” – va in onda dal teatro della Lega calcio di Serie A. Questa volta canta Luigi De Siervo, amministratore delegato; testo e arrangiamento di Gaetano Miccichè, ex presidente della Lega, numero uno della banca Imi-San Paolo e Consigliere di amministrazione del Gruppo RCS di Umberto Cairo (Gazzetta dello Sport, Corriere della Sera, La 7); dirige l’orchestra Giovannino Malagò, vertice del Coni; alle tastiere, Luca Lotti, ministro dello Sport nel fu Governo Renzi; in regia, la premiata agenzia di collocamento “Giglio magico fiorentino” che nei giorni scorsi ha tentato anche di piazzare uno dei suoi pupilli alla presidenza di Sport e Salute, la società che gestisce la cassa dello sport italiano, ma il periodo della vendemmia è finito.

Per il periodo 31 gennaio 2019-28 febbraio 2021, Luigi De Siervo incasserà annualmente un emolumento complessivo di 960 mila euro, in forza di un doppio contratto di lavoro: con la Lega di A (500+160 variabili) e con una struttura interna, la Lega Service (300 mila), portando a casa uno stipendio senza precedenti per i posti di comando della Lega. Tra i benefit aggiuntivi, un’abitazione a Milano uso foresteria, l’auto anche per uso personale, computer e cellulare.

Ma non è finito: la ciliegina sulla torta arriva quando in uno dei due contratti si parla dei diritti televisivi da vendere per il triennio 2021/2024. A De Siervo basterà far crescere di un punto percentuale, cioè di 100 mila euro, l’attuale incasso della Lega (1 miliardo, 420 milioni di euro tra Italia ed estero), per intascare un bonus straordinario di 3 milioni che pagheranno i 20 club di A, anche se alla scadenza del mandato (28/2/2021), i presidenti dovessero decidere di non rinnovargli il contratto per cambiare uomini e assetti interni.

Il tutto, firmato Gaetano Miccichè, proposto e sponsorizzato da Malagò come n.1 della Lega di A e dimessosi in seguito all’inchiesta della Procura Figc su presunte irregolarità nel voto dell’Assemblea gestita proprio da Malagò, all’epoca Commissario della Lega stessa.

Negli ambienti politici e sportivi, alla luce delle difficoltà economiche che vive notoriamente il sistema calcio, lo scalpore di queste cifre non viene attutito dalla considerazione che non si tratta di soldi pubblici. Come le altre Leghe professionistiche, la Lega di Serie A è “un’associazione privata non riconosciuta” e dei loro soldi le società possono disporre come vogliono. Salvo poi lamentarsi e battere i piedi quando si tratta – per esempio – di contribuire alle spese per l’ordine pubblico, chiedere agevolazioni fiscali o ammodernare stadi imbarazzanti in un continuo rimpallo di competenze con le Amministrazioni comunali, proprietarie di impianti dati in concessione ai club.

Quella del doppio contratto e di certe cifre per il ruolo di De Siervo è una delle prime grane sul tavolo del neo presidente della Lega Paolo Dal Pino che di “stipendio” prende circa 100 mila euro all’anno, un terzo del suo predecessore Miccichè che aveva destinato parte dell’appannaggio allo staff personale.

Ma al di là dei soldi, tutto ruota attorno al ruolo e alle deleghe di De Siervo, fiorentino doc, ex Rai, ex Infront, una larga esperienza nella commercializzazione dei diritti sportivi, a suo tempo – come raccontano le biografie pubbliche – tra gli ideatori e gli animatori della Leopolda di Matteo Renzi.

Nel piano della cordata che ha eletto al vertice Dal Pino (in testa Claudio Lotito che ha drenato 12 voti contro 7, più una scheda bianca), sarebbe proprio il neo presidente il grimaldello per cambiare governance e provare a scalzare De Siervo, favorendo una nuova unità interna. Lotito e soci vogliono convincere chi ha tentato di riproporre Miccichè, cioè Agnelli, Cairo, Marotta e altri 4 club: forte della sua fede juventina, non è un caso che il primo passo per presentare le “credenziali”, Dal Pino l’abbia fatto proprio andando a trovare Andrea Agnelli a Torino.

È sulla grande torta dei diritti tv che si gioca tutta la partita: Lotito e soci vogliono cambiare lo Statuto della Lega, ultimo parto sciagurato di Carlo Tavecchio quando era presidente Figc e pretese dal Consiglio federale il doppio incarico di Commissario straordinario della Serie A.

Nella nascita di quel documento firmato da Tavecchio (e approvato il 16 ottobre 2017), c’è un “complice” nella persona dell’allora sub commissario Paolo Nicoletti, il legale milanese che coordinò il gruppo di lavoro con i rappresentanti dei club: tutti i poteri e le deleghe operative sono attribuiti all’Amministratore delegato (De Siervo) che viene addirittura eletto dall’Assemblea, mentre il presidente (Dal Pino) ha mere funzioni di rappresentanza e di coordinamento, oltre che un posto di diritto nel Consiglio Figc.

Ma De Siervo non ha alcuna intenzione di mollare, convinto anche di uscire indenne da un’inchiesta della Procura della Repubblica di Milano, anticipata dal Fatto il 14 dicembre scorso: si tratta di un audio “rubato” a De Siervo, e poco gradito al Viminale, dove si sente l’ad della Lega incaricarsi di far spegnere a Sky e Dazn i microfoni sotto le curve per evitare che si sentano i cori razzisti.” Era solo per tutelare il prodotto”, si è difeso De Siervo che ora dovrà risponderne al procuratore Alberto Nobili, titolare del fascicolo.

La battaglia per il controllo della Serie A è appena cominciata.

*L’autore è un profondo conoscitore dell’ambiente e delle dinamiche del governo del calcio italiano

Adesso è chi lavora che non fa l’amore Parola di Ken Loach

Leggiamo sempre più spesso che i giovani dei Fridays for future provano a cambiare il modello di sviluppo verso un “capitalismo più pulito”. Non so a voi, ma a chi scrive l’espressione non fa venire in mente solo le emissioni inquinanti (che pure sono un gigantesco problema), ma anche la miseria in cui – grazie a un capitalismo che definire selvaggio è un eufemismo – milioni di persone sono costrette a vivere. Basta dare un’occhiata al dossier Oxfam che ogni anno mette nero su bianco, alla vigilia del Forum di Davos dove i ricchi del mondo si trovano in conclave, i numeri spaventosi delle disuguaglianze. Nel rapporto 2020 leggiamo che una élite di 2.153 miliardari nel mondo (molti sono a Davos ad applaudire Greta) detiene una ricchezza superiore al patrimonio di 4,6 miliardi di persone, mentre alla metà più povera della popolazione resta meno dell’1%. A giugno scorso, la ricchezza italiana netta ammontava a 9.297 miliardi di euro (in calo dell’1% rispetto all’anno precedente) ed era così distribuita: il 20% più ricco degli italiani deteneva quasi il 70% della ricchezza nazionale, il successivo 20% era titolare del 16,9%, mentre il 60% più povero possedeva appena il 13,3% della ricchezza. Il patrimonio dei primi tre contribuenti italiani era superiore alla ricchezza netta detenuta (37,8 miliardi di euro a fine giugno 2019) dal 10% più povero della popolazione italiana, circa 6 milioni di persone. Tre persone contro sei milioni. L’ascensore sociale non è bloccato, è precipitato: i ricchi sono soprattutto figli dei ricchi e i poveri figli dei poveri. Aumentano i working poors, cioè coloro che sono poveri pur avendo un lavoro: oltre il 30% degli occupati giovani guadagna meno di 800 euro lordi al mese.

Questi dati non vi dicono niente perché sono aridi e in quest’epoca di giornalismo di pancia, che vive di gente che racconta le proprie sfighe a tutto il mondo, funzionano le narrazioni emotive? Bene, andate a vedere Sorry, we missed you di Kean Loach, che traduce in immagini come si campa ai tempi della gig economy se fai parte di quella larga parte di popolazione che l’ascensore non l’ha trovato al piano. Ricky, Abby, Seb e Liza sono una famiglia di Newcastle che dopo la crisi finanziaria del 2008 finisce nelle sabbie mobili insieme al sogno sfumato di una casa di proprietà. Abby assiste anziani non autosufficienti e, per dare un’ultima possibilità a suo marito, vende la macchina. Così possono comprare un furgone che permette a Ricky di andare a fare il corriere per una di quelle ditte che non ti assumono (“lavori con noi, non per noi”) ma di cui diventi schiavo perché c’è una penalità per tutto, se non consegni in orario, se ti ammali, se ti si rompe il mezzo o peggio se ti si rompe lo scanner. Si parte con la speranza di farcela, si finisce pisciando in una bottiglietta per fare più in fretta.

Il film di Loach è un pugno nello stomaco lungo due ore. Non capita nessuno dei drammi che vanno di moda oggi (epidemie, malattie, insulti discriminatori), eppure si aspetta la disgrazia per tutto il tempo della storia: un incidente, una morte, una catastrofe. All’uscita si capisce che la tragedia è la vita dei nuovi schiavi che possono solo faticare perché il loro tempo è tutto in affitto. Non ne hanno per crescere i figli, per dormire, per mangiare. Figuriamoci per amarsi: è chi lavora ormai che non fa l’amore. Vi domanderete se la morale è che non bisogna ordinare le merci online. No, non è quella. Il problema è che il legislatore non dovrebbe consentire di chiamare lavoro la nuova schiavitù (e i consumatori ricordarsi di essere prima di tutto cittadini).

#digiunopersalvini: boom di adesioni (però dopo colazione)

Allacciate le cinture di sicurezza e indossata una scomoda ma efficace tuta anti-cazzate, ho intrapreso il tempestoso viaggio nel delirio salviniano del rush finale della battaglia per l’Emilia Romagna. Mi trovo in difficoltà, devo ammetterlo: passare così senza paracadute da Silvio Pellico a Gandhi, a Mandela, e tornare a Salvini, fa un certo effetto. Spararsi in un piede per provare la pistola non è da tutti, così come votare per farsi processare e poi autoincoronarsi patriota perseguitato perché (forse) ti processano su tua richiesta.

La modalità, insomma, è il testacoda un po’ condito di melodramma, con il solito tocco di vittimismo aggressivo e conseguente chiamata alle armi del “popolo”. Gli avvocati del Regno si metteranno a migliaia a difenderlo, dicono i suoi, e lui tuona di preparare tribunali molto grandi perché insieme a lui si processano “gli italiani”. Insomma c’è tutto e il contrario di tutto: il capopopolo arrogante e volitivo, accanto al lamento della vittima (a Milano si dice “fare il piangina”).

Però confesso: sono rimasto incantato davanti alla pagina web del #digiunopersalvini su cui centinaia di adepti della Setta accolgono l’invito a non mangiare per un giorno intero per sostenere il Nelson Mandela degli ultras del Milan, già ministro dell’Interno, premier in pectore, eccetera eccetera. Sono tanti, i misteri dell’Universo, e uno di questi è cosa spinga Anna C. da Giugliano in Campania, o Jessica B. da Milano, o Gabriele V. da Rapallo, ad aderire a un simile appello: “Matteo Salvini rischia la galera per aver difeso la Patria! Io sto con lui e digiunerò per un giorno in segno di solidarietà”. C’è una piccola vertigine, e per vari motivi. Il primo è che Salvini non rischia la galera e non ha salvato la Patria; il secondo è vedere gli adoratori del baciatore di caciotte e capocolli costringersi al digiuno (boom di adesioni, va detto, dopo colazione). Un sacrificio, tra l’altro, particolarmente doloroso per chi si riconosce nei veri valori che Salvini usa declamare dal palco dei suoi comizi: “La mamma, il papà, il Natale e il Parmigiano”. Lui, intanto, si fotografa in mezzo ai salami e scrive: “Stasera cena sostanziosa, domani io digiuno”. Non è da tutti mobilitare “il popolo” prendendolo per il culo così.

Va bene, la propaganda disintermediata di questi tempi non deve stupirci, però resta il fatto che così tanta propaganda, così scoperta, e di segni così opposti (la vittima e il condottiero, Silvio Pellico ma anche il digiunatore, il voto leghista a favore processo e le piazze leghiste contrarie al processo esibite nei tweet) è sorprendente. Si aggiunga la narrazione piuttosto esilarante di un’Emilia-Romagna messa peggio del Burkina Faso, che bisogna “liberare”. Insomma, io non ho niente contro Anna C. da Giugliano in Campania, o Jessica B. da Milano, o Gabriele V. da Rapallo che digiunano per solidarietà con Salvini, sono un po’, scusate il francesismo, cazzi loro. Però mi chiedo se dimostrino la stessa garrula boccalonaggine, lo stesso convinto e tignoso “cascarci come un pollo” al momento dell’acquisto, che so, di un frullatore, o della macchina nuova, o di un qualsiasi bene di consumo.

Nel qual caso, temo, il Paese è messo addirittura un po’ peggio di come ce lo immaginiamo. Il tutto mentre si lanciano allarmi e anatemi (inascoltati, inutili) contro l’assoluta preminenza del salvinismo in tivù, su tutte le reti, in tutti i programmi, spesso blandito e riverito, trattato come se fosse davvero un eroe del Risorgimento appena tornato dallo Spielberg (che per Salvini è il regista di E.T.) dove era stato ingiustamente carcerato (?) per aver “difeso l’Italia” (?). Una commedia dell’assurdo che contiene ogni vizio, ogni trucco maldestro e ogni falsità, nemmeno mascherati, ma esibiti senza veli, anzi dichiarati e rivendicati, in un paese in cui essere senza vergogna sembra un vantaggio decisivo.

Telefonini, la nostra salute è in pericolo

Molti gli esperti che si sono pronunciati sulla “storica” sentenza del caso Romeo, il cui neurinoma del nervo acustico è stato provocato dal prolungato uso del telefonino. Diciamo subito che, personalmente, la condivido al cento per cento. Con quali motivazioni? Su questo giornale ho scritto sui tumori occupazionali, ad esempio lo scorso 26 settembre. Al di là dei numeri (sette-ottomila decessi all’anno stimati), in quel pezzo si accennava alle importantissime ricerche scientifiche che stanno alla base dell’analisi delle cause dei tumori e, quindi, anche dei tumori occupazionali.

Quando si parla di tumori occupazionali si parla di morti (massimo danno) causati, o concausati, da esposizioni nocive occupazionali. Ma si parla anche di tanti lavoratori che, anche sopravvivendo alla lesione tumorale (come il signor Romeo), si ritrovano con l’esistenza stravolta dalla malattia (danno esistenziale). La stima di questi ultimi è di circa diciottomila lavoratori all’anno. Perché, dunque, la “sentenza Romeo” è importante? Per il fatto che crea un importantissimo precedente medico, legale, occupazionale.

Primo: in senso strettamente procedurale e di qualità della Consulenza tecnica d’ufficio (Ctu), concretizza il principio, inserito nel Codice etico e deontologico dei medici, della necessità che la Ctu sia effettuata collegialmente dal medico legale (la dottoressa Carolina Marino), affiancato dallo specialista nella materia specifica (il dottor Angelo D’Errico, medico del lavoro ed epidemiologo occupazionale).

Precedente importante: il magistrato (che era e rimane peritus peritorum) fa un ragionamento di giustizia basato sul parere tecnico multidisciplinare di esperti che ragionano in collegio tecnico, indicando – il medico legale – l’entità del danno ed effettuando – il medico del lavoro – una completa e corretta analisi della letteratura specialistica e della esposizione a rischio occupazionale. Inoltre gli esperti devono essere inattaccabili sul versante del conflitto d’interessi, particolare non trascurabile quando si toccano determinati interessi economici.

Secondo: mette a nudo, sul versante della metodologia scientifica, la notevole capacità di alcuni “esperti” di manipolare gli studi epidemiologici, facendo passare come “fondamentali” agli occhi del profano (tale è il magistrato, pur essendo, per ordinamento, peritus peritorum) determinati studi (vedi Interphone, finanziato, non a caso, dalle compagnie telefoniche), che, se letti con la giusta lente, si rivelano patacche.

Benedetto Terracini, maestro epidemiologo torinese di fama mondiale, ci ha insegnato che il mestiere dell’epidemiologo sta, anche, nello scoprire i “fattori di distorsione” presenti negli studi epidemiologici dei colleghi, in particolare quando ci sono “conflitti d’interessi”.

Terzo: sancisce che, parlando di nesso tra causa ed effetto in salute occupazionale, conta sostanzialmente la corretta e documentata analisi delle effettive condizioni lavorative, dell’intensità ragionevolmente plausibile e della durata effettiva dell’esposizione alla noxa patogena occupazionale. Un concetto, questo, che non è “riduzionista e organicista” – cioè non si riduce alla comprensione “scientifica” delle cause microscopiche e genetiche della lesione e a un solo particolare organo –, ma “olistico ed epigenetico”, cioè riguarda la persona intera calata nel suo particolare ambiente lavorativo, e non può prescindere dal fatto che il genoma, cioè il dna di ognuno reagisce all’ambiente di lavoro (cioè a uno “stress”), slatentizzando determinate porzioni per adattarsi a quel particolare ambiente. Non a caso i topolini degli studi indipendenti, esposti a emissioni da cellulare su tutto il corpo, sviluppano diversi tipi di tumori in varie parti del corpo. Provate a pensare alle decine migliaia di fonti di inquinamento elettromagnetico (le antenne e i satelliti) in cui saremo immersi con il 5G prossimo venturo. E immaginate di essere topolini. Carino, no?

* Medico del lavoro, Torino

Mail box

 

Le tante proposte irreali della Borgonzoni sulla Sanità

Ma quando Lucia Borgonzoni dice di voler tenere “aperti” gli ospedali pubblici anche il sabato e la domenica, per “aperti” intende forse “vivi” e “vitali”? Se davvero la Borgonzoni intende aggiungere ai 5 giorni attivi feriali il weekend settimanale, sarebbe una rivoluzione copernicana. Si pensi che la durata media di ogni ricovero ospedaliero si ridurrebbe del 30 per cento, stessa percentuale di posti letto in più che ogni reparto avrebbe a disposizione; inevitabilmente anche le file di pazienti in attesa nei Pronto soccorso diminuirebbero sensibilmente. Ovvio che tale rivoluzionaria ipotesi prevede l’aumento del personale medico, infermieristico e ausiliario.

Paolo Randi

 

Gori e Sala non si vergognano a santificare Bettino?

Egregio direttore Travaglio, ma i signori Gori, Sala e confraternita non si vergognano a fare certe dichiarazioni sul signor (buonanima?) Craxi Bettino, nonostante sappiano quello che è stato specificato sul Fatto del “curriculum” dello “statista”?

Federico Vana

 

Anche sul menu scolastico Trump si rivela uno scellerato

La decisione del presidente americano Trump di cancellare la dieta scolastica introdotta da Obama ha dell’incredibile: meno frutta, più patatine, reintroduzione di hamburger e merendine… In questo modo si rischia di incentivare una “epidemia” di obesità.

Gabriele Salini

 

Contro l’ingiustizia globale bisogna tassare i più ricchi

Cresce l’ingiustizia globale: i più ricchi della terra hanno un patrimonio pari a quasi 5 miliardi di persone. Lo dice il Rapporto Oxfam in concomitanza con lo svolgimento del forum di Davos, che riunisce i maggiori economisti del mondo. C’è un’ecologia dei diritti che sta subendo danni enormi, a causa dell’inquinamento dei miliardari. Che sfruttano i paradisi fiscali per creare inferni sociali. C’è un rimedio a questo innalzamento della temperatura della disuguaglianza? Sì, le tasse. Ad esempio, la tassa sulle transazione finanziarie – spesso chiamata “Robin Tax” – raffredderebbe gli accumuli di ricchezza, colpendo gli speculatori senza danneggiare i risparmiatori. E potrebbe essere introdotta in Europa con una relativa facilità. Se ne parla da anni, ma si rinvia sempre qualsiasi decisione. Intanto, il livello dell’ingiustizia sale.

Massimo Marnetto

 

La “dieta del Capitano” farà solo bene al leader leghista

Caro Fatto, Salvini ha minacciato di voler iniziare un digiuno pannelliano per protestare contro la sua incriminazione e relativa autorizzazione da parte della giunta del Senato a procedere contro di lui per l’affaire Gregoretti. Sarebbe veramente una cosa buona e giusta perché, nella sua frenetica campagna elettorale nella gaudente e bell’Emilia-Romagna, egli deve avere ecceduto in pizze, tortellini, hamburger e Nutella… Quindi l’auspicio è che continui pure in questa sua giusta e salutare iniziativa.

Vincenzo Covelli

 

DIRITTO DI REPLICA

Caro Direttore, abbiamo letto l’articolo, pubblicato domenica 19 sul Fatto Quotidiano, dal titolo “L’investimento nel turismo non fa bene ai conti di CDP”. Al suo interno erano riportati i dati di bilancio di CDP Equity e di una sua partecipata, TH Resorts, che opera nel settore del turismo. I dati sono corretti, ma alcuni di questi, a nostro parere, vengono utilizzati per dimostrare che TH Resorts ha un bilancio negativo.

TH Resorts in questi ultimi due anni ha investito nello sviluppo 16 milioni che hanno portato alla crescita del fatturato passato da 55,9 milioni nel 2017 a un previsionale di circa 95 milioni per il 2019, questo grazie all’aumento delle strutture ricettive (da 18 a 28), delle camere gestite (da 2.600 a 5.000) e dei dipendenti (da 1.700 a circa 3.300 nel 2019).

Questa forte crescita si è riflessa sul risultato ultimo di bilancio 2018, in negativo di 2,3 milioni principalmente per gli ammortamenti degli investimenti, mentre l’ebitda, cioè il dato che rappresenta la gestione ordinaria, è positivo per 1,8 milioni nel 2018.

Anche per il 2019 i risultati rispecchieranno l’andamento positivo degli ultimi due anni: fatturato in crescita a circa 95 milioni, ebitda positivo per circa 2 milioni e posizione finanziaria netta positiva per circa 4 milioni, con l’obbiettivo per il 2020 di superare i 100 milioni di euro di fatturato.

L’impegno di TH non si ferma al solo business, ma la società è attiva anche nella formazione, visto il grandissimo bisogno di competenze per innovare il settore. Insieme a CDP a dicembre abbiamo dato vita alla Fondazione della prima Scuola Italiana di Ospitalità, sull’esempio di ciò che già accade da molti anni in altre nazioni d’Europa a minor vocazioni turistica del nostro Paese.

Spero che queste nostre informazioni completino più puntualmente il quadro in merito alla società.

Graziano Debellini, Presidente TH Resorts

Ma siamo sicuri che le battaglie si combattono sul palco?

Gentile redazione, come ogni anno speravo di potermi schivare Sanremo e invece, come ogni anno, ecco che a due settimane dall’inizio del Festival della Canzone italiana giornali e telegiornali sono infarciti di polemiche “politiche”. Dopo le parole improprie di Amadeus, è la volta di tale Junior Cally, che nei suoi testi (precedenti) quasi inneggia alla violenza sulle donne. Apriti cielo: persino il giornale dei vescovi, Avvenire, tuona adesso contro i “sessisti a Sanremo”. Come se quel palcoscenico non fosse, da sempre, lo specchio del Paese. Ma limitarsi alle canzonette, no?

Andrea Bencivenga

 

Gentile Andrea, lei ha ragione: Sanremo è lo specchio del Paese. In questo caso, di un Paese culturalmente retrogrado sul tema della parità di genere e della violenza (continua, per mano soprattutto di italiani) sulle donne. Basta leggere quanto Amadeus ha dichiarato a mo’ di scuse, dopo la frase sulla fidanzata “bellissima” capace di “stare un passo indietro” rispetto al suo uomo: “Ho sempre rispettato le donne, a casa mia non conto nulla”, ha “spiegato” il conduttore-direttore artistico. Già questo fa capire quanto la questione femminile sia non sono non affrontata, ma soprattutto non compresa. Come se il “non contare nulla in casa” lasci alle donne chissà quale scettro. Ancora più gravi, ovviamente, sono i testi del rapper mascherato Junior Cally, il cui nome fino a tre giorni fa era praticamente sconosciuto ai più (e quindi lui cantava lo stesso quei brani, ma non se lo filava nessuno). Adesso invece, proprio grazie alla vetrina sanremese, lo si è scoperto e apriti cielo: sono insorte le parlamentari, si è ingigantito il proposito di boicottare il Festival e ieri è arrivata la “scomunica” del quotidiano dei vescovi. Tutto lecito, anzi sacrosanto. Nessuno deve permettersi di veicolare una cultura violenta o anche solo sessista. Ma vogliamo chiederci per una volta “da quale pulpito”? La Chiesa cattolica non brilla certo per le pari opportunità, tanto che è stata salutata come un evento la nomina per mano di Bergoglio di una Sottosegretaria (Francesca Di Giovanni) per i rapporti con gli Stati. Dicono sia un primo passo, speriamo di vederne presto molti altri. E sicuramente le istituzioni della Repubblica italiana non possono considerarsi molto sensibili al tema: non abbiamo mai avuto un presidente della Repubblica donna, né una premier e facciamo fatica addirittura a finanziare i centri antiviolenza che salvano – davvero – le donne. Infine, mi lasci dire, mi stupisco del suo stupore: le polemiche servono a Sanremo per alzare lo share. Se le eliminassimo, su quel palco rimarrebbero solo canzonette. Che per un Festival della canzone è troppo poco.

Silvia D’Onghia

Ma ora diventa eversiva nel Paese di Sottosopra, dove i ladri danno la caccia alle guardie e i tangentari fanno la morale agli onesti. Ubriaco dei propri insuccessi, il direttore del Riformatorio – sotto il titolo autobiografico Giornalismo, talvolta, è imbecillità pura – parla di “vignetta oscena” e deduce che Nat “ha letto poco la storia e si è imbevuto delle idee e dei sentimenti che animano la sua redazione… Uno solo: odio”. Già, perché “il direttore e altri giornalisti del Fatto sanno poco o niente di Craxi”. Però lo sventurato non dispera e auspica una rivolta dei nostri cronisti perché dicano “basta” al giornale che osa raccontare i fatti anziché le panzane sansonettiane. Nel caso, gli faremo sapere.

Intanto, per l’angolo del buonumore, giunge da Torino un esilarante comunicato della “Camera Penale del Piemonte occidentale e Valle d’Aosta” che esprime “sconcerto” per l’articolo di Gianni Barbacetto sulla denuncia dell’insigne consesso al Pg della Cassazione affinché punisca Piercamillo Davigo per le idee esposte in un’intervista al Fatto. L’articolo sarebbe “un gravissimo episodio”, anzi “un’ulteriore e profonda offesa ai principi fondamentale (sic, ndr) in tema di diritto di difesa”, anzi “una violentissima aggressione alle garanzie di libertà del difensore e quindi allo Stato di Diritto”, anzi “una visione contra legem del processo penale, dei diritti e dei principi fondamentali (stavolta al plurale, ndr)”, anzi un “giornalismo di chiara matrice giustizialista”. Praticamente un attentato terroristico, contro cui “l’Avvocatura torinese è pronta a promuovere ogni azione”. Ora, noi siamo molto affezionati agli avvocati (almeno ai nostri) e, da imputati seriali (per le continue denunce per diffamazione), non sapremmo farne a meno. Ma suggeriamo a questi esagitati del Piemonte occidentale (e della Valle d’Aosta) di darsi una calmata. Cala, Trinchetto. Partecipiamo al vostro lutto per la prematura dipartita della prescrizione. E comprendiamo il vostro nervosismo per le proposte di Davigo che, se ne venisse realizzata una su dieci, impedirebbe di farla franca a nove vostri clienti colpevoli su dieci. Ma imparate a rispettare le idee altrui: soprattutto se minoritarie, nel Paese che beatifica i ladri e criminalizza le guardie. Un conto è il diritto di difesa, sacro e inviolabile, un altro è la vostra pretesa di sedere al livello dei magistrati. Se un pm chiede la condanna di un imputato che sa innocente, commette il reato di calunnia. Se un avvocato, colto da crisi di coscienza, chiede la condanna di un cliente che sa colpevole, commette i reati di infedele patrocinio e rivelazione di segreto. Cioè: il magistrato delinque se mente, l’avvocato delinque se dice la verità. Come si possano mettere sullo stesso piano due figure così opposte, lo sa solo il sinedrio del Piemonte occidentale (e Valle d’Aosta).

Quindi sì, caro Valerio. Oggi, sul nostro sito, lanciamo una petizione per dedicare una strada a Borrelli. Non perché pensiamo che la giunta Sala ci darà retta (il sindaco è condannato in primo grado per falso). Ma perché ci piacciono le battaglie giuste, anche quando sembrano perse in partenza.

“È stato una pietra d’inciampo per il pensiero”

Professor Vattimo, che cosa ci lascia oggi Emanuele Severino?

Lascia in eredità un pensiero che provoca, su cui tra l’altro io non ero assolutamente d’accordo. Era un personaggio che si collegava molto profondamente, anche con ambizione, alla tradizione metafisica occidentale, che molti considerano obsoleta. È una figura che scomoda, che disturba la nostra tranquillità postmoderna: è un masso erratico, rimasto lì dalla tradizione, che continua a provocarci. Io ero suo amico, ma questo quasi mi disturba.

Il mondo scientifico l’ha spesso criticato…

Certo, perché rappresentava una tradizione italiana, da Croce in poi, che, pur avendo studiato filosofia della scienza, non ha mai preso sul serio come fatto filosofico i risultati delle scienze positive. Su questo sono d’accordo con lui: lamentare la mancanza di scientificità della filosofia è un modo positivistico di liquidarla, sostenendo che c’è solo sapere scientifico, sperimentale, calcolabile; così però il mondo sarà solo quello della tecnologia dominante, il nemico di Severino.

E le critiche dei cattolici?

Benché provenisse da quel mondo, non è mai stato amato perché non si considerava più religioso: il suo classicismo lo conduceva a una forma di razionalismo estremo, metafisico, non scientifico. L’idea dell’essere come immutabile escludeva ogni idea di miracolo, così come l’intervento di Dio nella storia.

Cosa resta della sua riflessione sul dominio della tecnica e la fine dell’umano?

È la stessa di Heidegger: attenzione che la razionalizzazione scientifica del mondo è una trappola, toglie libertà.

Sembrava una profezia, ora è realtà.

È un bene? Secondo Severino no, e anche secondo me.

E la sua eredità culturale, per noi comuni mortali?

Io mi sento un comune mortale: il suo richiamo alle radici profonde della nostra tradizione metafisica è in contrasto con la superficialità dei tempi, con la chiacchiera quotidiana. Questo insegna.

Ha lasciato allievi o scuole?

Cacciari è un suo discepolo ideale, anche se non so fino a che punto sia d’accordo con lui, e poi c’è chi lo prende molto sul serio. Diciamo così: ha lasciato una scuola, ma non ha avuto quell’eco mondiale che si aspettava, perché il suo era un pensiero molto poco commestibile, inattuale, che deve ancora essere studiato, consumato, applicato.

Dalle colonne del Corriere Severino è stato anche una voce per la società civile.

Sì, godeva di un prestigio molto alto, ma dal punto di vista dei risultati politico-culturali mi sembra debole, se non nella polemica contro il nichilismo della tecnica: non c’è un progetto di società severiniano, per esempio. È stato un intellettuale impegnato, e molto, nel senso che seguiva gli eventi, ma non l’ho mai sentito come un maestro per quanto riguarda l’attualità delle questioni politico-culturali.

Forse per colpa dei lettori: era ostico nella scrittura…

È vero, ma è andata così.

Che senso e ruolo ha oggi il filosofo nella società?

Io faccio questo mestiere, ma non lo so. Il filosofo dovrebbe essere più ascoltato, ma vedo con terrore che la filosofia diventa sempre meno importante nell’insegnamento ed è una perdita oggettiva della nostra tradizione culturale. Severino su questo sarebbe stato d’accordo.

Quindi di cosa dobbiamo essere grati a Severino?

Della sua testardaggine: è stato così costante nella sua provocazione filosofica da diventare un’importante pietra d’inciampo per il pensiero, con cui bisogna continuare a fare i conti.