L’annuncio è stato dato ieri, a funerali avvenuti. Anche nell’andarsene Emanuele Severino, l’ultimo dei grandi filosofi, è stato straordinario. Per raccontare la grandezza, la vastissima cultura (i suoi studenti erano stupefatti dalle lunghe citazioni della Repubblica di Platone in greco), la sua opera ci vorrebbero dieci giornali (ha scritto oltre sessanta libri, da La struttura originaria a Essenza del nichilismo a Il destino della necessità). Potremmo cominciare a dire della sua magnifica intuizione sul dominio e sulla non neutralità della tecnica, in tempi lontani dai nostri iperconnessi. O dalla critica al capitalismo (che alle spalle ha una visione assolutistica del mondo, in cui individuo e proprietà sono i valori assoluti: “Gli si fa torto quando lo si tratta come un semplice mezzo per aumentare il profitto”).
Dovremmo dar conto dei dissidi con la Chiesa, di quando – lui professore alla Cattolica di Milano – negli Acta apostolica del 1970 venne dichiarata l’insanabile opposizione tra il suo pensiero e il cristianesimo. Sulla morte che lo ha colto venerdì, aveva riflettuto moltissimo. L’evento che più segnò la sua vita fu la scomparsa sul fronte francese dell’adorato fratello ventunenne, nel 1942. Aveva otto anni più di lui. Studente della Normale, Giuseppe gli raccontava delle lezioni di Gentile, Carlini, Russo e Calogero. Da questo lutto, dall’inaccettabile separazione, forse germogliò l’idea che nulla finisce davvero perché ogni ente è eterno: il filo rosso (che tanto ha fatto discutere) del suo pensiero. A sedici anni e mezzo scrisse quello che considerava un peccato di gioventù, Pensieri per un’Antifilosofia, pubblicato poi negli anni dell’università e per il quale ancora arrossiva a causa di certe ingenuità. Allievo di Gustavo Bontadini, si laureò con una tesi su Martin Heidegger (lo aveva tradotto da ragazzino) e la metafisica.
Lavoro che il padre di Essere e tempo ha letto e su cui ha scritto. Sono state recentemente ritrovate le note di Heidegger su Severino, a cui è stato dedicato un grande convegno in giugno a Brescia, a cui per fortuna il professore ha fatto in tempo a presenziare. Anche di Brescia, amatissima città, bisogna parlare. Quando gli chiedevi l’indirizzo di casa aveva un modo tutto suo per spiegare dove si trovava precisamente: “La via è lunga, io abito in quel tratto di strada dove amava passeggiare Foscolo”.
Poi dovremmo dire di Leopardi, su cui aveva pubblicato due saggi scritti in una stanza tutta dedicata al poeta di Recanati nella casa dove il soggiorno era dominato da un pianoforte a coda e da una scultura del figlio Federico, un Orfeo che ha perduto Euridice: “È così, testa a terra e piedi in aria – ci spiegò il professore – e getta in faccia lo sconvolgimento del cuore”.
Restano pochissime righe e dobbiamo ancora dire di Esterina, “la ragazza più bella di Brescia”, scomparsa nel 2009, di cui a novant’anni il professore parlava ancora con l’incanto e l’incredulità di un giovanotto innamorato. Fu lei, ancora fidanzata, nell’inverno del 1950, a segnalargli sul Corriere una noticina in cui si diceva che poteva partecipare al concorso di libera docenza anche chi era laureato da meno di cinque anni. Salutandoci sulla porta, dopo l’ultima intervista in giugno, disse: “È stato un bel pomeriggio, abbiamo riso. Ma niente è come quando Esterina era ancora viva”. Ora, come avrebbe detto il professore che con la dolcezza contraddiceva il cognome, si ritroveranno nella Gioia. E a noi mancherà infinitamente.