Se n’è andato Severino, l’ultimo grande filosofo

L’annuncio è stato dato ieri, a funerali avvenuti. Anche nell’andarsene Emanuele Severino, l’ultimo dei grandi filosofi, è stato straordinario. Per raccontare la grandezza, la vastissima cultura (i suoi studenti erano stupefatti dalle lunghe citazioni della Repubblica di Platone in greco), la sua opera ci vorrebbero dieci giornali (ha scritto oltre sessanta libri, da La struttura originaria a Essenza del nichilismo a Il destino della necessità). Potremmo cominciare a dire della sua magnifica intuizione sul dominio e sulla non neutralità della tecnica, in tempi lontani dai nostri iperconnessi. O dalla critica al capitalismo (che alle spalle ha una visione assolutistica del mondo, in cui individuo e proprietà sono i valori assoluti: “Gli si fa torto quando lo si tratta come un semplice mezzo per aumentare il profitto”).

Dovremmo dar conto dei dissidi con la Chiesa, di quando – lui professore alla Cattolica di Milano – negli Acta apostolica del 1970 venne dichiarata l’insanabile opposizione tra il suo pensiero e il cristianesimo. Sulla morte che lo ha colto venerdì, aveva riflettuto moltissimo. L’evento che più segnò la sua vita fu la scomparsa sul fronte francese dell’adorato fratello ventunenne, nel 1942. Aveva otto anni più di lui. Studente della Normale, Giuseppe gli raccontava delle lezioni di Gentile, Carlini, Russo e Calogero. Da questo lutto, dall’inaccettabile separazione, forse germogliò l’idea che nulla finisce davvero perché ogni ente è eterno: il filo rosso (che tanto ha fatto discutere) del suo pensiero. A sedici anni e mezzo scrisse quello che considerava un peccato di gioventù, Pensieri per un’Antifilosofia, pubblicato poi negli anni dell’università e per il quale ancora arrossiva a causa di certe ingenuità. Allievo di Gustavo Bontadini, si laureò con una tesi su Martin Heidegger (lo aveva tradotto da ragazzino) e la metafisica.

Lavoro che il padre di Essere e tempo ha letto e su cui ha scritto. Sono state recentemente ritrovate le note di Heidegger su Severino, a cui è stato dedicato un grande convegno in giugno a Brescia, a cui per fortuna il professore ha fatto in tempo a presenziare. Anche di Brescia, amatissima città, bisogna parlare. Quando gli chiedevi l’indirizzo di casa aveva un modo tutto suo per spiegare dove si trovava precisamente: “La via è lunga, io abito in quel tratto di strada dove amava passeggiare Foscolo”.

Poi dovremmo dire di Leopardi, su cui aveva pubblicato due saggi scritti in una stanza tutta dedicata al poeta di Recanati nella casa dove il soggiorno era dominato da un pianoforte a coda e da una scultura del figlio Federico, un Orfeo che ha perduto Euridice: “È così, testa a terra e piedi in aria – ci spiegò il professore – e getta in faccia lo sconvolgimento del cuore”.

Restano pochissime righe e dobbiamo ancora dire di Esterina, “la ragazza più bella di Brescia”, scomparsa nel 2009, di cui a novant’anni il professore parlava ancora con l’incanto e l’incredulità di un giovanotto innamorato. Fu lei, ancora fidanzata, nell’inverno del 1950, a segnalargli sul Corriere una noticina in cui si diceva che poteva partecipare al concorso di libera docenza anche chi era laureato da meno di cinque anni. Salutandoci sulla porta, dopo l’ultima intervista in giugno, disse: “È stato un bel pomeriggio, abbiamo riso. Ma niente è come quando Esterina era ancora viva”. Ora, come avrebbe detto il professore che con la dolcezza contraddiceva il cognome, si ritroveranno nella Gioia. E a noi mancherà infinitamente.

Lila e Lenù ormai sono cresciute (e pure il budget per la serie)

C’è vento ribelle fra i capelli di Lila e Lenù, e non è solo quello che soffia su Ischia, luogo (meta)fisico dei grandi sconvolgimenti per le due eroine dell’epopea letteraria di Elena Ferrante. Da quell’estate del 1962, cuore di Storia del nuovo cognome, il volume II de L’amica geniale, nulla sarà come prima. Se chi ha letto il bestseller conosce le premesse e gli effetti dei “fatti”, chi si accinge a scoprirli su Rai1 o Rai Play dal 10 febbraio, ne verrà inesorabilmente sedotto, se non addirittura sorpreso. D’altra parte “il nostro modo di pensare è figlio di quegli anni”, asseriscono in coro i registi Saverio Costanzo e la new entry Alice Rohrwacher, chiamata a dirigere il 4° e 5° episodio.

Attesa come evento di caratura mondiale, e non a caso posizionato a sipario sanremese appena abbassato, la seconda stagione dell’omonima serie di Rai Fiction / HBO profuma di kolossal, a partire dal budget (ancora work in progress) che si aggira, superandoli, i 40 milioni di euro. D’altra parte i consensi della prima stagione non potevano che attirare ulteriori investimenti, corroborati dalla soddisfazione dei produttori, “è la quadratura del cerchio, dove raggiungi autorialità e popolarità” dichiara in estasi Domenico Procacci di Fandango che ha firmato la produzione insieme a The Apartment e Wildside (entrambe appartenenti a Fremantle), in collaborazione con Rai Fiction e Hbo e in coproduzione con Mowe e Umedia. Per l’eccezionalità delle aspettative, i primi due degli otto episodi saranno addirittura anticipati al cinema dal 27 al 29 gennaio in ben 300 schermi di tutt’Italia.

Insomma, sarà difficile non incrociare anche per caso queste due adolescenti amiche/nemiche napoletane la cui genialità scomoda e condivisa (o sommata, a seconda delle prospettive) tutta al femminile è già riuscita a consolidare un immaginario collettivo letterario: vedremo se sarà capace di crearne uno altrettanto forte sul prime time dell’ammiraglia in cui – a dirla tutta – hanno sempre trionfato protagoniste rassicuranti (leggi: stereotipate) di una certa italica tradizione. La provocazione è raccolta istantaneamente dalla direttrice di Rai Fiction, Eleonora Andreatta, certa che “la scelta Rai di far propria L’amica geniale appartiene a una linea editoriale orientata a mettere al centro il discorso di emancipazione femminile”.

Se le promesse fanno ben sperare, anche le prime due puntate (mostrate in anteprima per la stampa) non sono da meno: la cifra di Costanzo è immediatamente più evidente che non nella prima stagione, i cui Anni ’50 e l’età infantile delle protagoniste esigevano uno stile più “ingenuo, pacato, timido e didascalico”. “In questa nuova stagione – spiega il cineasta – l’evoluzione è tradotta anche nel segno linguistico, chiamato a mostrare nuovi desideri, passioni e scoperte”.

L’orizzonte di conoscenza di Lila e Lenù, originariamente corrispondente al loro Rione, si apre ed amplifica in ogni senso, gli Anni ’60 esplodono di anarchie, di fantasmi, di ribellioni. E l’apice della “rottura” – quella ischitana sopra citata espressa nei due episodi centrali – è stata affidata proprio a una regista donna che, pur accordandosi alle melodie del collega e della fonte letteraria, ha marcato per stile e presenza propria il segnale del cambiamento, informandolo di un’armonia diversa. Con un punto fermo: che sia donna o uomo, è rimasta Elena Ferrante a dettare il passo sia degli sceneggiatori (Ferrante e Costanzo stessi con Francesco Piccolo e Laura Paolucci) che dei registi, è stata la sua rivoluzione intrinseca alla parola a nutrire di epica questo splendido romanzo di formazione.

Luì e Sofì, ora anche il cinema fa i “conti” con le star del web

Quasi 5 milioni di fan certificati: 4,6 per essere precisi, il contatore di Youtube non mente. Cinque milioni e quattrocentomila euro l’incasso al botteghino nel weekend d’esordio del loro primo film, Me contro te – La vendetta del Signor S, con un primo posto in classifica, e un Tolo Tolo costretto a scivolare al secondo con 2,1 milioni di euro registrati nella sua terza settimana di programmazione.

La sfida sul grande schermo per Checco Zalone arriva direttamente dal web, dove Luì e Sofì, al secolo Luigi Calagna e Sofia Scalia, dell’universo under 10 sono le stelle incontrastate: le loro storie, video dopo video, anzi vlog dopo vlog, hanno superato i 3 miliardi e 600 milioni di visualizzazioni.

Non sono più teenager – 25 anni lui, 21 lei – ma i bambini sono pazzi di loro. Li hanno conquistati con giochi, sfide, esperimenti, raccontando – o mettendo in scena – avventure e disavventure quotidiane, con un linguaggio adatto al “Team Trote” (così si chiamano i loro follower).

Insomma, un po’ animatori, un po’ influencer, un po’ Art Attack, un po’ Ferragnez, un po’ bravissimi manager di se stessi (con un sorriso e una gag invitano i piccoli a tornare più e più volte al cinema). Tra una challenge e un’altra alla ricerca degli indizi lasciati dal fantomatico Signor S, il cattivone della situazione, Luì e Sofì – coppia sul web e nella vita – hanno attraversato sei anni, in un crescendo di successi che li ha portati dalla stanzetta con le pareti colorate in Sicilia fino al luminosissimo appartamento di Milano, anche questo – come tutte le altre case in cui sono passati da un trasloco all’altro alla ricerca di spazio per sé e i set delle loro gag – “aperto” ai loro piccoli fan con tanto di tour a favore di webcam.

Siciliani di Partinico, in provincia di Palermo, complice la chimica e le ripetizioni dello studente di Farmacia, Luigi, alla liceale Sofia, i “Me contro te” – etichetta che risolve la disputa su quale dei due nomi dovesse venire per primo – hanno iniziato quasi per gioco nel settembre del 2014, mettendo su un canale di “challenge”.

Dalle 10 visualizzazioni concesse da genitori, parenti e qualche amico, i due youtuber sono passati in poco più di un anno a contare mille iscritti. Era il gennaio 2015 e lì l’accordo: se si arriva a 10 mila si va avanti, altrimenti si chiude. Non si sono più fermati. Il canale è apertissimo e seguitissimo.

Dal web il salto alla tv nel 2017 con un programma tutto loro, Like me su Disney Channel, su cui sono tornati lo scorso anno con il game per bambini Disney Challenge Show. Le file in libreria per un autografo, con genitori disposti a mettersi in viaggio perché i loro figli possano vedere da vicino le webstar e scambiare con lo il saluto tormentone “ye ye ninininì”. Il Fantalibro, l’activity book Divertiti con Luì e Sofì, nel 2018 ha venduto 40 mila copie in due settimane, Le Fantafiabe, pubblicato a fine novembre scorso, ha conquistato subito i primi posti in classifica.

Insomma, un fenomeno social e un business con tanti zeri, almeno quanti quelli degli iscritti al loro canale: continui nuovi gadget, giochi, un album di figurine, magliette e felpe con la loro immagine o quella dei lori cani Kyra e Ray, o ancora di quella gelatina colorata, lo slime, che fa impazzire i bambini.

Ora anche una linea di scarpe in partnership con un famoso marchio (Lui-Jo). E una canzone, Insieme, colonna sonora del film, cantata in coro da bimbi e genitori in sala alla fine della proiezione, e che anche alcune mamme confessano di aver scaricato e canticchiare. Sì, perché a differenza di tanti fenomeni del web, Luì e Sofì piacciono anche ai genitori: sono carini, educati, stimolano la creatività e trasmettano messaggi positivi, dicono di loro. Con il benestare del Moige che li ha inseriti nella lista dei suoi premiati per la stagione 2017-2018.

Sul divano con Alberto, Lemmon e i cardinali

“Santo subito è esagerato, meglio compagnuccio della parrocchietta, comunque sempre Sordi sia lodato”. Vincenzo Mollica l’Albertone nazionale l’ha conosciuto bene, e oggi non dissimula il giubilo: per il centenario della nascita, Fondazione Museo Alberto Sordi, Roma Capitale e Regione Lazio hanno apparecchiato una grande mostra nella residenza dell’attore, per la prima volta aperta al pubblico.

Dal 7 marzo al 29 giugno prossimi, la mitologica villa di via Druso al Celio, progettata negli anni Trenta da Clemente Busiri Vici e affacciata nel verde su piazzale Numa Pompilio, si svelerà ai tanti estimatori di Sordi: già diecimila le prenotazioni raccolte in otto giorni, a testimonianza di una domanda solida, di un affetto perdurante, a diciassette anni dalla scomparsa (24 febbraio 2003).

La sindaca Virginia Raggi, che bambina cercava di scrutarlo dalla prospiciente scuola Giardinieri, ne ricorda la “galleria di personaggi romani dalla precisione affilata, sondati nelle potenzialità e negli aspetti negativi, anche i più beceri, ma sempre con delicatezza”, osserva come “abbia rappresentato il romano medio: tutti noi ci siamo riconosciuti” e si ripromette di “alimentare questo legame nel centenario, per sentirlo ancora parte della nostra famiglia”.

Curata da Alessandro Nicosia, la mostra avrà un’appendice importante al Teatro dei Dioscuri, dove verranno rendicontati l’antologica Storia di un italiano, il programma televisivo in onda dal 1979 al 1986; i viaggi nel mondo, da Israele ’61 a Brasile ’70; il mito americano, “raccontato tra ironia e ammirazione – osserva la co-curatrice Gloria Satta – da Un giorno in pretura a Un tassinaro a New York”, giacché “l’America per Alberto era un mito da dissacrare”.

Ma il fulcro è la casa, di cui un anno dopo averla acquistata nella primavera del 1954 sintomaticamente Albertone celebrava la forza centripeta in Accadde al penitenziario: “Ce l’hai una casa? E vattene a casa!”. Un locus amoenus, un buen retiro dove l’istrione, il personaggio pubblico uso ai bagni di folla trovava la ricercata tranquillità e la necessaria intimità: “Come ha sottolineato Carlo Verdone nell’autobiografia La casa sotto i portici – rammenta il soprintendente Daniela Porro (Mibact) – Sordi vi custodiva un’altra anima, riservata, controllata e legata al passato: una casa fortezza, di rigore e disciplina”.

Verdone, che l’ebbe come regista e partner In viaggio con papà (1982) e lo volle Troppo forte (1986), ne rammentava “il bisogno di staccare la spina, riparato dietro le serrande abbassate sempre per tre quarti allo scopo, diceva, di proteggere i quadri…”. I tre De Chirico hanno già traslocato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, i visitatori della villa dovranno accontentarsi di pezzi seicenteschi e settecenteschi, che Sordi imparò ad apprezzare sotto la guida dell’antiquario Apolloni, ma saranno gli ambienti a solleticare curiosità e vellicare suggestioni: dalla barberia allo studio, passando per il teatro interno, una vera chicca che Albertone chiuse nel 1972 dopo la morte della sorella Savina. Prima quelle comode poltroncine avevano accolto persino Walter Matthau e Jack Lemmon, con Fellini e la Masina, Amidei e Sonego, Piccioni e svariati cardinali per habitué.

Dalla storia della dimora agli oggetti (250 censiti, tra cui 120 premi), dall’infanzia alla famiglia, passando per gli esordi, le esperienze radiofoniche, teatrali e di doppiaggio, ci sarà spazio per bearsi di costumi e manifesti, assistere alle proiezioni curate da Istituto Luce e, sopra tutto, scoprire il “Sordi segreto”, nel rapporto con le donne e gli anziani, nonché – lui bollato “avaro” – nella beneficenza.

In programma anche dibattiti estivi e una grande festa di compleanno il 15 giugno, il rischio di un’esibizione agiografica senza se e senza ma è sensibile, però l’entusiasmo del co-curatore Mollica fuga ogni dubbio: “Sordi era tutti i quattro punti cardinali insieme, come diceva Fellini i comici sono benefattori dell’umanità, e Alberto era oltre, era l’ultima stella in cielo”. E una cometa di aneddoti: “Volle visitare una fabbrica in Umbria, e si rivolse agli operai come nei Vitelloni: “Lavoratori! Lavoratori della malta!”, facendo il gesto dell’ombrello. Fu un trionfo, mi prese da parte: “Diglielo a Federico, che ancora funziona”.

 

Da Calcutta ai “trollamenti” di Bello Figo, Max Collini traduce l’indie in italiano

Cosa resterà di questi anni Dieci? Musicalmente parlando, il decennio che ci siamo appena lasciati alle spalle è quello che ha visto elevarsi il genere Indie al livello mainstream. Già, perché, se fino a qualche tempo fa, il termine Indie definiva una realtà di nicchia, oggi è un genere sdoganato, che confluisce nel flusso radiofonico generalista, il cosiddetto mainstream, con una certa nonchalance, e i suoi esponenti animano le principali manifestazioni canore, come ad esempio il Festival di Sanremo. Una cosa impensabile in era pre-internettiana. Ne sa qualcosa Max Collini, voce narrante degli Offlaga Disco Pax prima, e degli Spartiti poi, che dell’Indie è considerato di buon grado il padrino. Da sempre appassionato del genere, Collini è in tour con uno spettacolo esilarante in stile stand up comedy: senza alcuna base musicale, con indosso una t-shirt con su scritto “Sono stato indie prima di te” per mettere subito le cose in chiaro, in Max Collini legge l’Indie con la sua voce declama, stilizza, illumina finanche i testi delle canzoni indie-pop di maggior successo degli anni Dieci e col suo stile inconfondibile scandisce le storie in esse contenute: parliamo dei brani di Brunori Sas, Stato Sociale, Calcutta, del “genio del trollamento” Bello Figo, del neodadaista Young Signorino e tanti altri. Il motivo è nobile: la musica pop, al suo massimo, attraversa le generazioni, tocca la società in modo diffuso e profondo e le canzoni diventano conversazioni cui tutti possono prender parte. Attraverso la musica le generazioni comunicano, ma spesso non si capiscono: forse basterebbe solo fare un po’ più d’attenzione.

Prossime date: 7.2 Torino al Cap10100; 22.2 Firenze al Buh!; 25.3 Milano al Teatro Filodrammatici

Violenza e femminicidi: la storia della musica è piena di scorrettezze

“Te la ricordi Lella, quella ricca/ La moje de Proietti er cravattaro”… Forse non tutti ricordano Lella, la canzone composta da Edoardo De Angelis dopo essere passato in autobus davanti a un negozio di cravatte in piazza del Tritone. Dalla cravatta allo strangolamento il passo è breve e del resto in romanesco cravattaro è anche lo strozzino. Uscita come singolo nel ’70, Lella è la confessione di quello che oggi chiameremmo femminicidio e nemmeno un trapper della suburra si permetterebbe di cantare. A Lella “piaceva anna’ ar mare quann’è inverno”. Ma il freddo si poteva sopportare. Quello che non si poteva sopportare era un rifiuto a San Silvestro: “Me dice co’ la faccia indifferente:/ Me so stufata nun ne famo gnente”.

Lella è stata interpretata da vari artisti, da Fiorini a Venditti passando per l’angelica Schola Cantorum. Il commissario Montalbano la canticchia sperando che pure Il ladro di merendine confessi. Ne esiste una versione successiva censurata dove spariscono i versi della terza strofa: “Me ne so’ annato senza guarda’ ’ndietro/ Nun ciò rimorsi e mo’ ce torno pure/ Ma nun ce penso a chi ce sta la’ sotto/ Io ce ritorno solo a guarda’ er mare…” Femminicidio sì, purché ci sia il pentimento.

In musica questo delitto ha natali nobili e maledetti. La ballata del carcere di Reading trae origine da un’impiccagione. Charles Wooldridge, compagno di galera di Oscar Wilde, finisce sul patibolo per avere sgozzato la moglie con un rasoio: “Yet each man kills the thing he loves”. Composta da Wilde dopo la scarcerazione, la ballata viene messa in musica e resa famosa dall’interpretazione straordinaria di Jeanne Moreau nel film di Fassbinder Querelle de Brest . La denuncia della pena di morte sparisce, ma torna in Ballate per uomini e bestie di Vinicio Capossela: “Ognuno uccide quel che ama/ Ma non ognuno per questo muore/ Non muore di morte infame”.

Per le strade di Mosca mi è capitato varie volte di sentire Murka, una classica canzone della mala sovietica, ambientata a Odessa, da eseguire con voce molto roca. Murka, letteralmente “gattina”, è una poliziotta sotto copertura e si infiltra in una banda. Il boss, innamorato di lei, la scopre e le spara al ristorante. La canzone finisce con un colpo di pistola debitamente riprodotto: “Perdonami amore”. Buscaglione avrà preso da lì? La tivù russa ha dedicato un serial a Murka ma non ha potuto girarlo.

Cambiando un po’ solfa Vasco Rossi nel 1980 se la prende con Alfredo (“Ma io una volta o l’altra lo uccido”) e non con “la troia” andata a casa “con il negro”, ma l’epiteto la fa passare per una canzone razzista, sessista e così via. La musica riflette la vita e non si poneva problemi di politicamente corretto. Ben radicato culturalmente nella storia della musica, il tema del femminicidio – a parte qualche verso di Lella – non risulta abbia subito particolari censure che toccavano preferibilmente temi sessuali o religiosi. Uno dei casi più noti è La città vecchia di De André: “quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie/ quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie”. Nella versione non censurata: “Quella che di giorno chiami con disprezzo specie di troia/ quella che di notte stabilisce il prezzo alla tua gioia”. Pure quando il cantante è donna la dinamica femminicida non cambia. Maracaibo, cantata da Lu Colombo, con testo suo e di David Riondino, viene rifiutata per qualche anno ed esce nell’81, all’inizio del decennio del disimpegno. La vittima è innamorata di Miguel, ma Pedro l’abbraccia sulle casse di nitroglicerina: “Tornò Miguel, tornò/ La vide e impallidì/ Il cuor suo tremò/ Quattro colpi di pistola le sparò”. E poi “Fuggire sì ma dove? Za za”. Non sparate sul pianista, ma sulla donna sì.

“Chiama Napoli” e poi scopri la forza (e poesia) degli A67

Se volete davvero capire l’anima della musica di Daniele Sanzone e degli A67 dovete andare a Scampia, a casa di Daniele. Arrampicarvi agli ultimi piani di uno degli immensi palazzoni del quartiere ed entrare nello studio del padre. Michele era un artista, pittore e scultore dall’anima in pena, un tormento che le sue opere (tutte regolarmente ospitate in quella casa che è anche un po’ galleria) riescono a trasmetterti. Lo stesso che segna Naples Calling, l’ultimo lavoro del gruppo napoletano. I colori è una delle canzoni dell’album e nel testo si fa esplicito riferimento “alle mani e ai colori di mio padre”.

L’arte, quella vera, vissuta con la rabbia nell’anima, come voglia di riscatto. “Partendo dal nostro quartiere, Scampia – dicono gli A67 – abbiamo raccontato la voglia di riscatto dell’intero Sud. Coscienti che esiste un filo rosso che abbraccia le battaglie di chi lotta per i propri diritti, per la propria terra, sino ad arrivare a chi sbarca sulle nostre coste alla ricerca di un futuro. Siamo consapevoli che senza radici e da soli non si va da nessuna parte”. Album “politicamente ballabile e melodicamente scorretto”. Il “ballabile” della politica nel brano I colori sono le Quattro giornate, che videro i napoletani protagonisti della loro resistenza contro i nazisti, e il sogno di Eleonora. Nel senso di De Fonseca Pimentel, giornalista e anima della Repubblica napoletana del 1799, un sogno finito con l’impiccagione della donna all’età di 47 anni e lo scherno dei sanfedisti messo in musica. “A signora onna Lionora mo abballa mmiezz’ o mercato…”. Sul “melodicamente scorretto”, però, non siamo molto d’accordo con Sanzone e la band. Basta ascoltare il brano Tuyo, la canzone del brasiliano Rodrigo Amarante fortunatissima sigla della serie Narcos. Qui l’anima del neapolitan power di Daniele e dei suoi musicisti viene fuori tutta nella capacità di contaminarsi con suggestioni provenienti da altre latitudine geografiche e musicali. Il video di Tuyo è stato girato in una delle Vele di Scampia. “Volevamo portare – dicono gli A67 – un po’ di poesia in un luogo da sempre narrato come un inferno. Abbiamo voluto raccontare la normalità che c’è, esiste e tenta di imporsi nel nostro quartiere”.

Naples calling uscirà il prossimo 24 gennaio e si avvale di collaborazioni importanti, Caparezza, Frank Hi-Nrg, Franco Ricciardi e Dario Sansone dei Foja. L’album è un omaggio ai Clash e alla loro London calling. “Il nostro – sottolineano i musicisti – è un invito a ribellarsi. Immaginiamo una Napoli che chiama se stessa attraverso la propria maschera, Pulcinella, che nel brano, pur di svegliare il proprio popolo dalla rassegnazione, arriva a un atto estremo: incendiarsi in mezzo a piazza Mercato”. La canzone Ni è il ritratto delle generazioni senza presente che vive nell’incertezza del futuro. Quelli che a trent’anni sono costretti a vivere a casa dei genitori, i senza diritti. “Nì, perché se non sei figlio di, se non sei amico di, allora No Party”. Il Male Minore, feat Caparezza, racconta Daniele Sanzone, “è una istantanea ironica dei nostri tempi. Ci piaceva paragonare la continua scelta del cosiddetto Male Minore, che spesso ci ha portato a sopportare le peggiori ingiustizie, a una sorta di ipertensione, di malanno, che alla fine cronicizzandosi è finito per diventare il vero male di questo paese. Un male che ci fa abituare a tutto, anche a quello che non dovremmo mai accettare, perché come scriveva la filosofa Hannah Arendt ‘chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male’”.

Tutto nasce, forse anche la copertina dell’album (sfondo rosso e immagine di una mano impostata a fare le corna), da un palazzone di periferia. E dallo studio di un pittore visionario. Dal suo balcone Michele poteva vedere il Vesuvio e posare lo sguardo su Napoli, che poi vuol dire vedere il mondo, un mondo fatto di dolori ma anche di speranza. Lo stesso che Daniele e gli A67 raccontano in Naples calling.

Junior Cally, “galeotto” fu il brano e chi lo scrisse

Tanto vale processare tutti. Con effetto retroattivo. Perché il crucifige nei confronti di Junior Cally, il trapper reo di aver inneggiato a una sorta di femminicidio narrativo, dovrebbe innescare una reazione a catena in cui in troppi finirebbero condannati in via definitiva, pure i semidei di rock, metal e soul.

Jimi Hendrix che spara alla sua donna in Hey Joe, i misogini Stones e Led Zeppelin, il sultano Prince, l’intera scena rap Usa (che negli Ottanta Tipper Gore, moglie di Al, tentò di censurare con la sponda dell’establishment dem), il Vasco sessista e razzista di Colpa d’Alfredo o Piero Ciampi, che spaccava il naso alla partner e lo cantava. E come dichiarare prescritti i reati autorali di almeno tre dei partecipanti al prossimo Sanremo, il Masini di Bella stronza (1995), Achille Lauro o quegli innocui pazzerelli dei Pinguini Tattici Nucleari, che tre anni fa in Irene dedicavano a una ragazza versi come “questa sera la faccia te la strapperei via, così faresti paura al mondo ma resteresti sempre mia”, e “le mie mani Brigate Rosse accarezzano te che sei Aldo Moro”?

Si dirà: ma non sono brani scelti da Amadeus. Neppure quello di Junior Cally: gli incriminati Strega e Giada sono noti da tempo, mentre alla kermesse è approdato No, grazie. Qui l’artista rappa: “Spero si capisca che odio il razzista/ che pensa al Paese ma è meglio il mojito/ e pure il liberista di centro sinistra/ che perde partite e rifonda il partito”. E viene il sospetto che l’occhio dell’uragano innescato da un blogger cattolico sia in queste barre, con Bongiorno e Salvini (a sua volta infilzato da un boomerang, “lo fai a casa tua”, nel tweet anti-rapper) a raccogliere l’indignazione trasversale per spingere il presidente Rai Foa a chiedere la cacciata di Cally da un Festival che vive di polemiche incendiarie e summit convulsi. Il regolamento vieta l’espulsione in corsa di un artista, la priorità è afferrare il timone, mentre il cast perde un pezzo al giorno, vedi Salmo e Monica Bellucci.

Cally si è già scusato: “Non sono un gangster”. A questo punto, sarà comunque beatificato come un martire della libertà artistica, con enorme giovamento per download e tour. Lui, il 29enne pronto a togliersi all’Ariston la maschera da supereroe per mostrare il suo vero volto, “la mia faccia da cazzo”, precisava nel video di Tutti con me, dove il rito era stato già compiuto. La “faccia da cazzo” è di Antonio Signore, 29enne di Focene, litorale a nord di Roma, il paesino (“dove ero l’unico a non drogarsi”, giura) che soccombe nel clash sociale con la riccanza di Fregene. La storia del suo alter-ego, Antonio la racconta nell’autobiografia Il principe (Rizzoli). In cui si scopre che prima del successo (due album dirompenti come Ci entro dentro e Ricercato, roba da vetta delle classifiche) era stato un bambino con gli occhi pieni di terrore per gli anni trascorsi in un reparto di oncologia dove altri piccoli gli morivano intorno. Sentiva parlare di una diagnosi di sospetta leucemia causata da un vaccino e si chiedeva: “A che serve andare a scuola se devo morire?”. Riconobbe in sé i segni del disturbo ossessivo compulsivo. Una notte, davanti al letto, vide materializzarsi una figura che voleva dialogare con lui: l’altra parte di se stesso, quella sicura e immune da dolori e sentimenti, che lo esortava ad accettarlo in “una stanza solitaria al centro del suo petto”, come in una labirintica gestalt psicoanalitica dove le due identità si fondevano e si confrontavano incessantemente. Antonio che perseguiva il fallimento tra rabbia e rinuncia agli studi, succube di una ragazza, Livia, di quelle che da adolescente diresti irraggiungibili: lei lo avrebbe voluto “perbene” e disposto a rinunciare allo sfogo del rap. Antonio che quantificava la povertà della famiglia – il padre lavavetri, la madre donna delle pulizie – ma che sciupava i giorni tra risse, sale giochi, sesso rapido, alcol e tentazioni fuorilegge.

Il fratello di un amico finisce dentro per omicidio, lui si becca sei mesi con la condizionale per furto d’auto: i genitori lo scoprono ascoltando Dedica. Antonio che si tatua sul braccio una bara con il numero 2727 per annullare la maledizione di chi gli aveva predetto la morte a 27 anni. Antonio che incontra un altro amore totalizzante, Viola, capelli rossi come la Strega che un personaggio da fumetto come Junior Cally fa a pezzi simbolicamente in quel brano scandaloso. Eccolo il bad boy, il pregiudicato a vita del rap che fa paura per il suo linguaggio inopportuno e scorretto. Politicamente scorretto.

“Scarantino lo gestivano Boccassini e Tinebra”

Indagato a Messina per calunnia e ascoltato come testimone a Caltanissetta. Anche Carmelo Petralia, oggi procuratore aggiunto a Catania, dopo la collega Anna Maria Palma, ha deciso di non avvalersi della facoltà di non rispondere ed è stato ascoltato come teste a Caltanissetta nel processo per il depistaggio di via D’Amelio.

In una telefonata con il falso pentito Scarantino trascritta dalla polizia giudiziaria, il pm che condusse le prime indagini sulla strage parla di “preparazione” del collaboratore farlocco in vista di una deposizione in un’aula.

Ieri ha sostenuto che “il termine ‘preparazione’ è stato equivocato facilmente dai media. Semplicemente era riferito a una serie di indicazioni su come comportarsi in dibattimento che volevo dare a Scarantino. Cioè volevo indicargli una sorta di codice comportamentale che ogni buon collaboratore di giustizia deve osservare per essere efficace e per deporre in modo dignitoso”.

Petralia ha inoltre confermato di avere partecipato a un pranzo, all’hotel San Michele, nel dicembre del 1992, con il procuratore Tinebra e alcuni funzionari del Sisde, tra cui Bruno Contrada, che pochi giorni dopo sarebbe stato arrestato dalla Procura di Palermo per concorso in associazione mafiosa.

“Com’è possibile che i servizi segreti facessero indagini sulle stragi del 1992 posto che non erano ufficiali di polizia giudiziaria?”, gli ha chiesto il pm Stefano Luciani e Petralia ha risposto: “Il rapporto col Sisde lo teneva il procuratore Tinebra’’, e il suo apporto non fu il solo: “Data l’enormità di quanto successo – ha detto il teste – ci fu un concorso di contributi incredibile. Nella stanza del procuratore vidi anche esponenti dell’Fbi e del Bka tedesco. Quando vidi Bruno Contrada mi colpì invece la sua faccia, che mi evocava qualcosa di sinistro; ricordai i racconti di alcuni testimoni che avevo sentito nel corso delle indagini sulla strage di Capaci: Falcone non si fidava di lui. Poco tempo dopo seppi che era stato arrestato a Palermo”.

E alla domanda del pm Luciani: “Riferì a Tinebra la diffidenza nutrita da Falcone nei confronti di Contrada?”, Petralia ha risposto: “Non dissi nulla, ma se avessi saputo di indagini dei servizi segreti sulle stragi anche io avrei esposto delle riserve”.

Il testimone Petralia ha infine detto di essere rimasto “sorpreso” dall’apprendere, con la sentenza del Borsellino quater, che erano stati autorizzati diversi colloqui investigativi con Scarantino e Andriotta: “I due già collaboravano con la Procura – ha aggiunto – questa prima fase delle indagini fu curata da Ilda Boccassini, che godeva dell’assoluta fiducia del procuratore capo Tinebra e aveva un rapporto personale privilegiato con il dottore Arnaldo La Barbera”.

Nel processo in corso a Caltanissetta sono imputati per calunnia l’ex capo del gruppo d’indagine “Falcone Borsellino”, il dottore Mario Bò (ancora in servizio, a Trieste, ndr) e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.

La faida degli ultrà dilettanti: “È stata violenza tribale”

Ci sono poco più di dieci chilometri tra Melfi e Rionero, i due comuni della provincia di Potenza al centro dello scontro tra le due tifoserie che da domenica ha fatto registrare un morto, due feriti e ben 26 arresti. Quasi un bollettino di guerra per i due centri urbani collegati da una strada provinciale che taglia campi di una parte della Basilicata a nord del capoluogo potentino. Omicidio volontario, violenza privata, tentate lesioni aggravate, danneggiamento e detenzione aggravata di oggetti atti ad offendere. Sono le ipotesi di reato contestate dalla Procura di Potenza nel fascicolo di indagine aperto dopo la morte di Fabio Tucciariello, 39enne tifoso della “Vultur Rionero” ucciso durante l’agguato che, secondo la ricostruzione degli investigatori, la sua stessa tifoseria aveva organizzato per i rivali melfitani.

Le due squadre non erano dirette avversarie nella giornata di campionato del girone A dell’eccellenza lucana. Vultur Rionero e Melfi, però, giocavano entrambe in trasferta: la prima a Brienza, la seconda a Tolve. Tra i due campi c’è Vaglio Scalo ed è in una stazione di servizio di questo piccolo centro a pochi chilometri da Potenza che i tifosi di Rionero avrebbero organizzato l’imboscata. Mazze, tirapugni e persino un cric per sorprendere e aggredire i tifosi con i quali, in alcuni casi condividono anche il lavoro. Melfi, è infatti, uno dei centri industriali più grandi della regione. Lo stabilimento Fiat e l’indotto accolgono lavoratori che provengono dai paesi vicini. Anche da Rionero. Erano cinque le auto dei tifosi del Melfi entrate nel mirino. Una di queste era guidata da Salvatore Spagnoletta, 30 anni. Non è ancora ben chiara la dinamica dell’accaduto. Una delle versioni pubblicate nelle scorse ore raccontano che la prima auto, con un bambino a bordo, sarebbe stata risparmiata dagli ultrà di Rionero, ma fonti investigative spiegano che in realtà la furia violenta potrebbe essersi riversata all’improvviso contro la prima auto che guidava il corteo e le altre abbiano avuto tempo e modo di invertire la rotta e allontanarsi.

Quel che è certo è che l’auto guidata da La Spagnoletta, sulla quale viaggiavano altre due persone (che non sono state arrestate), ha investito e ucciso Tucciariello. Per l’autista la procura ha disposto la detenzione cautelare in carcere. Poco dopo in cella sono finiti altri 25 tifosi della Vultur Rionero: hanno tra i 20 e i 30 anni, ma gli investigatori sono ora sulle tracce degli altri tifosi scampati al fermo. Tra questi, secondo la Squadra mobile di Potenza diretta da Donato Marano, potrebbero esserci anche alcuni minorenni.

La Spagnoletta, dopo l’arresto, non è stato in grado di fornire una versione chiara della dinamica dell’incidente: secondo fonti investigative non si sarebbe neppure accorto di aver investito tre persone: oltre all’uomo deceduto, infatti, altri due tifosi di Rionero sono stati condotti in ospedale per una serie di ferite, ma fortunatamente non sono in pericolo di vita.

“Doveva essere una giornata di festa, un pomeriggio divertente tra amici – ha raccontato l’uomo dopo l’arresto secondo quanto riportato da La Gazzetta del Mezzogiorno – ma tutto è cambiato quando la mia auto è stata circondata e assalita con mazze da una cinquantina di facinorosi mascherati. Ero terrorizzato e ho cercato di scappare”. Le indagini della Squadra mobile, ora dovranno ricostruire nel dettaglio i fatti e chiudere il cerchio su quanti ancora mancano all’appello.

Ieri mattina, il prefetto Annunziato Vardè ha convocato il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza durante il quale è stato ipotizzato il ritiro delle squadre dal campionato. “Le società sono parte lesa, in questi casi: sono azioni che danneggiano il nostro lavoro” ha replicato Mario Grande presidente della Vultur Rionero escludendo l’ipotesi. Ma il futuro del campionato genera paura in Basilicata. Si temono reazioni. Sugli spalti e non solo. Le forze dell’ordine e le istituzioni stanno lavorando per evitare soprattutto le reazioni della tifoseria di Melfi trasformando un campionato di eccellenza in una faida.