La leghista “bossiana” ritrovata nel lago d’Iseo

A luglio scrisse a Matteo Salvini all’epoca ancora, per poco, ministro prima della crisi del Papeete. “Questa gente ti toglie il sonno, la voglia di andare in vacanza“ disse Rosanna Sapori parlando dei ladri che continuavano a prendere di mira la sua tabaccheria a Zanica, nella Bergamasca. Era arrivata anche a dormire per sei notti consecutive sul pavimento del negozio per evitare nuovi furti. Lei Salvini lo conosceva bene avendo condiviso con il leader del Carroccio l’esperienza a Radio Padania in cui era giornalista e speaker.

Non è chiaro se quel malessere che aveva voluto rendere pubblico l’abbia spinta anche a togliersi la vita, come ritengono gli inquirenti. Perché la donna trovata cadavere sabato sera a Montisola, isolotto sulla sponda bresciana del lago di Iseo, è proprio Rosanna Sapori, leghista della prima ora che aveva attaccato il partito e dal partito era stata messa fuori.

Epurata all’inizio degli anni Duemila per aver denunciato quello che riteneva un sistema di gestione segnato dal malaffare. “Fu l’allora responsabile dei media padani a darmi il benservito. Lo stesso che si occupava, tra gli altri, della banca della Lega e del villaggio in Croazia della Lega”, raccontò tempo dopo. Probabilmente aveva capito in anticipo quello che poi sarebbe scoppiato anni dopo all’interno del Carroccio, fino ad arrivare ai 49 milioni di euro di contributi elettorali evaporati. Era arrivata anche a parlare di un presunto patto tra Bossi e Berlusconi firmato nel 2000 che prevedeva “la cessione della titolarità sul simbolo della Lega in cambio di denaro in un momento in cui il Carroccio era fortemente indebitato”.

Rosanna Sapori era nata a Milano 60 anni fa e da trenta si era trasferita ad Azzano San Paolo, in provincia di Bergamo dove per due volte ha tentato, senza riuscirci, di diventare sindaco. Sempre per la (prima) Lega che ha difeso riconoscendo come unico leader Umberto Bossi. “Dopo l’ictus che ha avuto la Lega è sparita” ripeteva. Da prima di Natale era scomparsa nel nulla – anche se la denuncia è del 27 dicembre – e fin dalle ore successive al ritrovamento del cadavere nelle acque del Lago Iseo sabato sera gli inquirenti avevano pensato a lei. Impossibile riconoscerla in viso perché il corpo era segnato dalla permanenza per quasi un mese in acqua. A Marone, a poca distanza da Montisola, è stata però trovata la sua auto. Dentro alcune scatole di farmaci e poco distante la borsetta. Effetti personali riconosciuti dal compagno, che con lei gestiva la tabaccheria, e dai parenti più stretti che, ancora prima dell’esame del Dna che sarà effettuato nelle prossime ore, hanno confermato il pensiero degli inquirenti.

Per chi indaga Rosanna Sapori si è tolta la vita, anche se il pm di Brescia Claudia Passalacqua non chiude ancora del tutto le altre ipotesi. Sull’anca la donna aveva una ferita vistosa e un’altra sulla testa, che l’autopsia potrà chiarire. Il compagno, che con lei gestiva la tabaccheria, non ha dubbi. “Si è uccisa. Non ha più retto ai problemi economici che aveva ultimamente. Non pensavo arrivasse a tanto, ma si è sentita abbandonata da tutti. Anche dalla giustizia”.

L’hashish ancorato al fondale e il mistero dei tre narco-sub

Tre uomini senza nome. Morti per annegamento e restituiti dal mare nell’arco di quindici giorni lungo i 47 chilometri della costa settentrionale siciliana che separano Castel di Tusa, in provincia di Messina, Cefalù e Termini Imerese, non distante da Palermo. Tutti e tre con dei tatuaggi sul corpo e con una muta addosso, addirittura due di loro con un modello identico. Un mistero che si infittisce ancora di più se a questi ritrovamenti, il primo è avvenuto il 31 dicembre 2019 mentre l’ultimo il 15 gennaio, viene affiancato quello di quasi 140 chili di hashish. Suddivisi in pacchi da 30 chili e panetti di pochi grammi ciascuno. Pure questi riemersi dal mare ma tra il 26 dicembre 2019 e il 9 gennaio, e trasportati dalle correnti fino alle spiagge di Marina di Ragusa (Ragusa), Belìce di Mare (Trapani), Capo d’Orlano (Messina) e San Leone (Agrigento).

Uno scenario praticamente identico lungo tutta la Sicilia su cui indagano ormai da diverse settimane cinque procure.

L’ipotesi più accreditata dei magistrati è che quei corpi possano essere quelli di tre narco sub improvvisati, finiti in acqua per recuperare un grosso carico di droga poi disperso e che le onde hanno sparpagliato da nord a sud.

Il nuovo, e fino a questo momento inedito punto di partenza in questa storia, come una fonte rivela al Fatto, potrebbe essere nei fondali del molo di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento. Luogo in cui, forse grazie a una gola profonda, l’8 novembre dello scorso anno gli investigatori della Squadra mobile di Agrigento hanno recuperato 11 chilogrammi di hashish. La droga, pure questa suddivisa in panetti, era però ancorata al fondale con delle confezioni ermetiche e per recuperarla sono entrati in azione i sommozzatori delle forze dell’ordine.

Le indagini su questo caso, nonostante alcune denunce, non sono ancora concluse e a breve potrebbero esserci nuovi clamorosi sviluppi. La vicenda di Porto Empedocle si potrebbe quindi intersecare con il mistero dei sub trovati morti e con i panetti di droga sparsi per le coste siciliane.

Una regia criminale unica che in questo momento è fatta da tanti tasselli, alcuni davvero complessi, da collegare tra loro. Il carico di droga recuperato in ordine sparso potrebbe fare parte di una singola spedizione partita via mare, forse dalle coste di Marocco o Tunisia, e destinata chissà dove con una barca di piccole dimensioni inabissatasi a causa del mare in burrasca per il forte vento di maestrale. Nelle confezioni gli investigatori hanno notato anche la presenza di alcuni loghi, solitamente utilizzati dai trafficanti per indicare la qualità dello stupefacente.

La rotta del natante resta un mistero, mentre è chiaro il fatto che i clan, da diverso tempo, hanno trasformato il Mediterraneo in uno dei bacini maggiormente interessati dai traffici illeciti di stupefacenti. Di certo c’è che nessun sub professionista o dilettante risulta disperso nel territorio italiano. “Questo ci porta a collegare i cadaveri con un qualcosa che doveva essere occultato”, spiega al Fatto il procuratore di Patti Angelo Cavallo. Lo stesso magistrato conferma che uno degli obiettivi delle procure è quello di ritrovare il relitto. “Stiamo continuando nelle ricerche con la collaborazione delle capitanerie di porto – spiega – Ci sono stati dei passaggi aerei e le annuncio che sono in programma delle immersioni nelle zone in cui sono stati ritrovati i cadaveri. Ma non è una cosa semplice perché è come trovare un ago nel pagliaio”.

I magistrati proveranno a capire qualcosa in più in questo rompicapo anche attraverso i risultati definitivi delle autopsie. I volti delle vittime sono irriconoscibili e gli unici particolari sono alcuni tatuaggi.

“Non è escluso che diffonderemo alla stampa le foto, così magari qualcuno si farà avanti per identificarli – conclude il procuratore di Patti – I tatuaggi però non sono simili tra loro”.

Timbrò in mutande: assolto “Umiliato per quattro anni”

È rimasto in mutande. Ha perso il lavoro e la casa. Eppure ieri è stato assolto. Alberto Muraglia, 57 anni, era diventato il simbolo dell’inchiesta sui “furbetti del cartellino” del Comune di Sanremo. Tutta colpa di quel video che nel 2015 ha fatto il giro d’Italia: il vigile urbano che timbra in slip. “Più colpevole di così”, si erano detti in tanti. Erano intervenuti anche premier e ministri: “Quando a Sanremo vedi quello che timbra in mutande non è un optional il licenziamento. Questa è gente da licenziare entro 48 ore”. In quel giorno di ottobre, 42 persone erano finite ai domiciliari o con l’obbligo di firma (tanti sono stati poi licenziati). Finora 16 imputati hanno patteggiato pene fino a un anno e sette mesi. Proprio ieri altri 16 imputati sono stati rinviati a giudizio. Insomma, l’inchiesta tiene.

Per dieci, però, le accuse sono crollate: il “fatto non sussiste”, nessuna truffa ai danni dello Stato. Tra loro c’è proprio Muraglia. Il giudice ha creduto alla ricostruzione dell’avvocato Alessandro Moroni: “Il vigile svolgeva gratuitamente anche il lavoro di custode del mercato, per questo gli era stato dato in cambio l’alloggio. La timbratrice era proprio accanto all’abitazione. Per quattro volte in un anno è capitato che Muraglia abbia timbrato mentre si vestiva o abbia chiesto alla moglie di farlo perché non poteva. Esattamente come fanno tutti i vigili di questo mondo che prima timbrano e poi indossano la divisa. Ma, come abbiamo dimostrato, pochi istanti dopo era già in servizio e faceva multe. Non ha rubato un euro all’amministrazione”, racconta Moroni. Ma se ti aspetti toni trionfalistici da Muraglia, sbagli. C’è un’ombra di amarezza nelle sue parole: “Sono sollevato, non sorpreso: ho subìto quattro anni e mezzo di tortura mediatica per colpe che non avevo. L’avevo sempre detto”. Tra quella foto in mutande e l’uomo che ieri aspettava la sentenza c’è passata una vita: “Mi hanno licenziato e ho perso la casa”, racconta Muraglia, “Sono stato costretto a cambiare vita, a sopportare e far sopportare ingiustamente alla mia famiglia derisioni e mancanze di rispetto. Nessuno potrà restituirmi questi anni. Timbrare in mutande mi ha trasformato in un simbolo… ho peccato di malcostume, forse di scorrettezza amministrativa, ma non ho truffato lo Stato. È stata riconosciuta la verità”.

Adesso Muraglia non lo trovi più per strada o a palazzo Bellevue, l’edificio Liberty che ricorda i fasti passati di Sanremo e oggi è sede del Comune. È al piano terra di un palazzo di via Martiri. Intorno a lui chiavi inglesi, trapani, martelli. Alberto oggi fa ‘l’aggiustatutto’, così si presenta sui bigliettini che ti porge: “Perché buttarlo invece che ripararlo?”. Aggiusta arnesi ed elettrodomestici. Non si piange addosso. Ha in piedi una causa di lavoro, ma non ne parla. Non vuole polemiche. “Voglio solo voltare pagina”, dice. Addio divisa. Ma soprattutto, spera Alberto, addio a quella foto in mutande.

“Tecniche diffusissime: c’è il pericolo di più bibbiano ”

Giuliana Mazzoni studia la memoria umana da tutta una vita. Professore ordinario di Psicologia a La Sapienza di Roma, 170 pubblicazioni all’attivo, si occupa principalmente di memoria autobiografica intenzionale e meccanismi legati alla creazione di ricordi falsi.

Esiste secondo lei, nell’approccio degli psicologi ai bambini di Bibbiano, un “metodo Foti”?

Non lo chiamerei tanto “metodo Foti”, quanto l’utilizzazione da parte di Foti, e della scuola che ha fondato, di tecniche frutto di un grande fraintendimento: ovvero la convinzione che, dietro a un disturbo psicologico, un disagio, una difficoltà di un bambino, ci sia sempre un trauma. Quello di Foti e dei suoi discepoli è un approccio “pan-traumatico”. In maniera preconcetta, si esclude che il disagio psicologico possa, per esempio, derivare da un disturbo dello spettro autistico… E si cerca il trauma anche dove non c’è.

Foti la definirebbe, stando ai dialoghi intercettati, “negazionista adultocentrica” perché non presta ascolto alla sofferenza dei bambini.

Non nego certo l’esistenza di casi di abusi sui minori. Mi interrogo però – da cittadina, prima ancora che da scienziata – su come alcune accuse possano prendere vita. Nelle realtà in cui sono coinvolti certi “professionisti”, è avvenuto quasi sistematicamente che le accuse di abusi si siano rivelate infondate. Perché? Nell’indagare le cause della sofferenza di alcuni minori, Foti e i suoi collaboratori sono partiti da una precisa posizione ideologica: l’abuso c’era stato, il minore doveva solo rivelarlo. Ai bambini non è mai stato permesso dire “No” o “Non so”. Le modalità stupefacenti dei colloqui investigativi erano finalizzate a far sì che il minore – reso soggiogato, e impaurito – si trovasse costretto ad aderire alla tesi del suo interlocutore. A Bibbiano, quello che è stato fatto ai bambini, è maltrattamento psicologico.

A cosa si riferisce in particolare?

Le domande inducenti, ripetute e fuorvianti, le tecniche coercitive (come l’Emdr, erroneamente definita “elettrochoc”, usata in psicologia del trauma solo per casi estremi). E poi i feedback dati nei colloqui (“Non ti credo, dici bugie” oppure “Ora sì che sei bravo”), le ricompense e i regali… Così affioravano i “falsi ricordi”.

Foti sostiene sia “impossibile introdurre un ricordo che non sia in qualche modo plausibile, già presente negli script interni del bambino”.

Non è vero. Le memorie si cambiano, e cambiano velocemente. L’atto del ricordare non è ripescare, ma ricostruire sul momento cose che si hanno in memoria. E la memoria si crea per immagini. Per cui se voglio convincere un bambino di essere stato picchiato, attivo l’immagine del padre, attivo l’immagine dell’essere picchiato e la relativa sensazione fisica, amplifico il tutto: poi le persone costruiscono, tanto più i bambini che hanno una “memoria povera”.

Ecco la teoria del “bambino-carta assorbente”, suggestionabile, direbbe Foti. E allora i disegni?

Basta che un bambino disegni un serpente o una figura allungata per vederci un simbolo fallico: nemmeno Freud arrivava a questo! C’è molta grossolaneria. E sull’interpretazione dei disegni c’è un ampio dibattito. Non c’è niente nella mente di un bambino che sia impermeabile alla contaminazione di ripetute suggestioni di un adulto. Non lo dico solo io. Ma centinaia di studi. Non a caso, per le interviste investigative sui minori presunti abusati, ci sono precise linee guida. La Carta di Noto ne è un esempio. Foti e i suoi psicologi a Bibbiano hanno fatto pericolosamente il contrario. Tutti psicologi clinici, peraltro, e non forensi: non avrebbero potuto nemmeno interrogare i minori.

Dopo Bibbiano, il ministro della Giustizia Bonafede ha istituito una “squadra speciale” di ispettori. Cosa occorre fare, secondo lei?

È fondamentale re-impostare la formazione degli assistenti sociali e degli insegnanti, tra le prime sentinelle di abusi su minori. L’approccio di Foti si è diffuso in tutta Italia, con operatori che hanno creato centri satellite associati spesso al Cismai. Bibbiano viene fatto passare come un caso giudiziario: è soprattutto un caso sociale e culturale. Servirebbe una riflessione di tutta la società pensante. Capire i motivi per cui certe cose succedono, per evitare che si ripetano. Perché la creazione di realtà “alternative”, con tutte le conseguenze, quello sì che è un trauma vero. Non solo per il minore. Per la comunità intera. Se solo la politica lo capisse…

il “metodo Foti”: come si fabbrica dai falsi ricordi una megapsicosi

Tutto ebbe inizio con Michelle. E con quel libro, Michelle Remembers, che l’allora giovane Michelle Smith scrisse, a partire dalla sua storia, con Lawrence Pazder, suo psichiatra (e futuro marito). Novembre 1980. Victoria, Canada. “È come si materializzasse con del vapore… lui mi gira intorno vorticosamente: tutto diventa buio, e io ho paura! Sono terrorizzata!. ‘Tu non appartieni più a me’, mi dice mia madre. ‘You belong to the Devil’”. Nelle oltre 600 ore di sedute tra Michelle e Pazder raccontate nel libro, la donna ricordò, sotto ipnosi, di essere stata molestata dall’età di 5 anni. Strani rituali, orge, coprofagia, omicidi (almeno 6 neonati vittime sacrificali). Il tutto per anni, tra la cantina di casa e il cimitero, per mano di una setta satanica di cui avrebbe fatto parte la madre della giovane. Michelle raccontò anche di essere stata prigioniera, in una sorta di maratona degli orrori, per 81 giorni. Le prove dei racconti di Michelle non esistevano (a casa sua una cantina non c’era; non c’erano denunce di persone scomparse corrispondenti alle sue descrizioni…), ma ci vollero dieci anni, e un’inchiesta del Mail on Sunday, per scoprire che nulla era vero. I rituali descritti? Ispirati al film cult dell’orrore Rosemary’s Baby. Gli 81 giorni di abusi ininterrotti? Michelle risultava presente a scuola.

Questo non bastò a fermare il “contagio”. Spuntarono, dalla metà degli anni 80 in poi, decine e decine di Michelle. Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Nuova Zelanda, Italia. Abusi satanici rituali, abusi sessuali collettivi. Scuole materne. Asili. Intere città. Ma solo in pochissimi casi le accuse si rivelarono fondate.

La tesi del guru

Una delle massime che il fondatore dell’ormai famoso centro Hansel & Gretel, Claudio Foti, ama ripetere è un “prestito”. “Dobbiamo concentrarci sull’ambiente culturale, emotivo, istituzionale che consente la violenza, non sui singoli casi”. I “singoli casi” sono quelli relativi ai singoli preti, e la citazione è di Marty Baron, direttore del Boston Globe che col suo Spotlight scoperchiò lo scandalo della pedofilia nelle Chiesa americana. L’idea di partenza, nel pensiero di Foti, è che “c’è un silenzio opprimente – si legge in una sua prefazione – che impedisce a chi è debole e a chi soffre di parlare e di chiedere aiuto”. Da qui, a tutela dei bambini, il nome della sua associazione “Rompere il silenzio”: con finalità, “il contrasto dell’adulto-centrismo, del negazionismo, della cultura patriarcale”. Per molti, come si è visto, una posizione considerata “progressista”, e in linea con la psicopedagogia contemporanea.

L’idea che si era diffusa molto – come racconta Pablo Trincia nel suo Veleno – era che “quando una persona, specie se minore, viveva un’esperienza traumatica come un abuso sessuale, il suo inconscio espelleva i ricordi, congelandoli in una cassaforte nel cervello”. Solo in seguito, quando la vittima manifestava del malessere all’apparenza inspiegabile, era possibile, tramite un professionista, aprire quella cassaforte per “estrarne il contenuto autentico”. Ma quanto autentico?

Quando gli studiosi di tutto il mondo fecero a gara, a partire dalla fine degli anni 80, per studiare i tanti casi di “falsi abusi sessuali collettivi” (il più celebre rimane quello dell’asilo McMartin, per molti il “caso zero”, il più lungo e costoso processo della storia degli Stati Uniti: 7 anni e 15 milioni di dollari), si trovarono di fronte allo stesso copione. Domande suggestive e inducenti ai minori presunti abusati, “falsi ricordi”, ripetuti interrogatori, “contagio dichiarativo”: tutte tecniche che alteravano, contaminandole, le testimonianze delle presunte vittime, e di conseguenza le investigazioni. Un “metodo” che abbiamo visto ripetersi, a distanza di anni, a Biella, Rignano Flaminio, Milano, Brescia, Vallo della Lucania, Mirandola, Reggio Emilia, Salerno… fino a Bibbiano. E, in tutti questi casi, dietro le perizie, i resoconti delle presunte vittime, gli interrogatori, c’erano Claudio Foti e i suoi associati.

La Carta di Noto

In Italia, la necessità di regolare e arginare queste modalità pericolose con cui spesso sono state – e ancora vengono – condotti i colloqui investigativi su minori si è incarnata nel Protocollo di Venezia (2007) e nella Carta di Noto (2017). Per Claudio Foti e la sua associazione, “un vangelo apocrifo”, “una roba scritta da quattro pedofili”. Inizialmente stilata da avvocati quali Guglielmo Gulotta, e quindi a difesa prima di tutto del presunto abusante, la Carta stabilisce che la tutela del minore passa necessariamente dalla conduzione corretta dei colloqui investigativi.

Lo spiega bene Giuliana Mazzoni nel suo Psicologia delle testimonianza. Le interviste investigative devono essere videoregistrate e con la struttura a imbuto, iniziando con domande aperte e, soltanto quando si è esaurita la possibilità, passando a quelle chiuse; no a domande inducenti e suggestive; chiarire ai bambini che “No” e “Non so” sono ammesse come risposte; non interrompere il minore; non ripetere le domande; non dare feedback.

La teoria del “falso ricordo”

“Un’informazione nuova è in grado di penetrare dentro di noi esattamente come un cavallo di Troia, proprio perché non siamo in grado di capire in che modo ci condiziona”, sostiene Elizabeth Loftus, la prima a parlare dei falsi ricordi. Ma in cosa consiste un falso ricordo? “Un’esperienza mentale – spiega Mazzoni – che presenta dei caratteri definiti: delle emozioni associate e una vividezza immaginifica, come un sogno. Si creano immagini mentali proprie che poi vengono assembliate, ma l’avvenimento non è vero. È così che si forma”.

Michelle aveva quindi mentito o meno? Suo marito e psichiatra Pazder sostenne, a sua difesa, che “qualunque cosa fosse realmente accaduta era meno importante di quello che Michelle credeva fosse successo”. Michelle era sofferente. Possibile che non fosse realmente accaduto quanto da lei raccontato? “È l’effetto nocebo, speculare al più noto placebo. Se un organismo viene trattato come se fosse malato, finisce per comportarsi come tale. Per un essere umano se un fatto è reale, lo è anche nelle sue conseguenze”. E così che da un falso ricordo – stimolato magari involontariamente, magari no, da uno psichiatra o psicologo, da un genitore preoccupato, da un poliziotto che sta indagando – può arrivare a generarsi un fattoide. Come al tempo delle streghe e degli untori. E “le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle”, scriveva Voltaire.

Il passo a destra di Elisabetta “Luxemburg” Gregoraci

Un nuovo caso politico scuote la vera capitale d’Italia, Sanremo. Elisabetta Gregoraci ha lanciato il suo J’accuse su Instragram: “Sono stata estromessa dalla co-conduzione dell’Altro Festival da Nicola Savino per la presunta appartenenza alla destra del mio ex marito Flavio Briatore”. Tanta roba, come si vede. Si paga caro il coraggio delle proprie idee: la Gregoraci come Rosa Luxemburg, Briatore come Karl Liebknecht, sia pure di segno capovolto. Ebbene: siamo in grado di ricostruire la riunione top secret che ha portato all’esclusione di Elisabetta Luxemburg.

Amadeus: “Bella, è bella”. Savino: “Sì, ma non possiamo continuare a ignorare la par condicio”. “Ma come? Abbiamo più bionde che more”. “Parlo della politica, Ama. In quota sovranista abbiamo già Rita Pavone”. “Ah, ok. Però lei è diversa da Rita. Sta un passo indietro a Briatore”. “Non indietro, Amadeus. Un passo alla destra. L’ha detto lei”. “Ah, scusa. Non avevo capito”. Fabrizio Salini: “E se la mettessimo in panchina all’Ariston? Metti che una delle dieci co-conduttrici dà forfait, come la Bellucci…”. Lucio Presta: “Ma no, non accetterebbe mai. Stiamo parlando della co-conduttrice di Celebrity Bisturi e di Made in Sud, della vincitrice di Baila!”. “È vero, Lucio, come non detto. Ma ora quella chi la sente?”. “Non preoccupatevi. La convinco a mettere una pietra sopra Sanremo e in cambio la porto alla prossima Leopolda insieme a Briatore”. “Ottimo. Ma la prossima Leopolda non volevi farla a Sanremo?” “Appunto”.

Mail Box

 

Altro che Milano da bere: negli anni 80 la città era in tilt

Da lettore del Fatto fin dal primo giorno e da abbonato, vi ringrazio per quanto scrivete sulla Milano degli anni 80. Da cittadino dico che in quegli anni lo sviluppo della città fu bloccato. All’inizio di quegli anni iscrissi mia figlia alla scuola materna comunale. Dopo qualche giorno dall’inizio delle attività fu comunicato ai genitori che per sei mesi una parte dell’asilo sarebbe stata chiusa per lavori di ristrutturazione. I bambini, tra cui mia figlia, sarebbero stati portati giornalmente con un mezzo Atm in una struttura fuori Milano. Così fu. Sgomberate le aule si installò il cantiere. Dopo qualche settimana ci rendemmo conto che i lavori non erano iniziati. La risposta della direzione dell’asilo fu che il cantiere era fermo poiché la ditta che aveva vinto l’appalto aveva chiesto la “revisione prezzi”. I due anni successivi, sempre a cantiere fermo, furono un umiliante percorso tra assemblee, lettere ai giornali, tentativi più o meno riusciti di incontri con assessori e con la ditta; scoprimmo così che Milano era piena di cantieri fermi a causa del solito meccanismo: la “revisione prezzi”. Lascio a voi l’interpretazione. Nel nostro caso la situazione fu sbloccata per merito di due genitori che, al termine di due nottate passate in consiglio comunale in occasione del dibattito sul bilancio, riuscirono a “placcare” l’assessore ai Lavori pubblici che sbloccò la situazione.

Carlo Benedicenti

 

Caro Cacciari, non fare figli è una scelta anche per le donne

In una puntata recente di Otto e mezzo, il filosofo Cacciari ha scatenato il suo sarcasmo contro le donne italiane, che fanno a testa solo 1,2 figli, addossando il crollo della natalità in Italia alle donne “fangottose” ed esaltando implicitamente la prolificità delle immigrate. La foga del filosofo mi ha molto irritata, anche perché in un’altra puntata l’ho sentito giustificare il suo celibato con un riferimento a Nietzsche, pensatore ostile al matrimonio con annessa figliolanza: mi chiedo perché il signor Cacciari scomoda Nietzsche per giustificare la sua scelta di non aver figli tra le balle e poi vorrebbe le italiane felici e contente di sfornare marmocchi.

Margherita Simonetta

 

Ambiente: servono educazione e un’informazione seria

Gentile direttore, inutile dirle che vi leggo dal 2009 e che il motivo principale è che siete la mia scialuppa di salvataggio (con tanto di bussola) in questo oceano di disinformazione. Mi associo vivamente, ed è stata l’unica pecca che mi sento di evidenziare in questi 10 anni di letture quotidiane, all’appello del ministro Costa che avete pubblicato sul Fatto domenica. La consapevolezza ambientale che purtroppo ancora manca a tantissime persone a tutti i livelli (dai politici fino ai cittadini) è fondamentale per cambiare passo. E questa consapevolezza, la si può raggiungere nel medio-lungo termine grazie alla scuola e nel breve periodo grazie a un’informazione imparziale, competente e corretta come quella del suo giornale. Ps: complimenti per l’“acquisto” di Luca Mercalli.

Massimo Sardone

 

L’inspiegabile rimpianto dei più giovani per Bettino

Buonasera, da vostro affezionato lettore vorrei fare un commento su una delle vicende di queste settimane. Non si fa altro che parlare di Bettino Craxi in occasione del ventennale della sua morte. Giornali e tv ci hanno ricordato nostalgicamente (a eccezione de Il Fatto ) il compianto “statista” e il grande uomo politico. Abbiamo assistito a delegazioni di personalità partite per rendergli omaggio in Tunisia. Anche il cinema presente con il film Hammamet. Ora, al di là del libero pensiero di ognuno, che probabilmente ignora o dimentica le sentenze, i miliardi spariti e la fuga in Tunisia, resta da capire il perché di cotanto rimpianto. Non dico quello dei politici (alcuni dei quali c’erano ai tempi di Tangentopoli), ma quello delle persone comuni, alcune di queste giovani o mie coetanee (ho quasi 29 anni), che imperversano nei commenti della rete: dal più banale “Ti rimpiango” al “Con lui sì che si stava bene”. Che cosa può spingere a tanta idolatria di un politico come Craxi? Come si fa a osannare un politico conosciuto solo da foto e filmati?

Lorenzo De Cicco

 

È ora di regolarizzare i tanti bravi precari della scuola

Se uno Stato, da vent’anni, affida i suoi ragazzi a insegnanti precari, che pure non ha ritenuto abili all’insegnamento, che bisogno ha di verificarne ora l’idoneità tramite un concorso beffa? Se uno Stato paga ogni anno una multa salatissima dell’Ue perché tiene in forza precari di lungo corso, perché non converte tali danari in stipendio per gli stessi, dopo averli finalmente regolarizzati? E perché non ritiene che vent’anni di supplenze annuali a termine, in classi e scuole sempre diverse, non siano di per sé un percorso sufficientemente abilitante, o quanto meno un “inizio” minimamente rilevante, per garantire loro una messa in ruolo? Credo che molti ne sarebbero contenti, è gente che sa mettersi in gioco. La sottoscritta, ad esempio, in cattedra su terza fascia dal 1997, all’università ci tornerebbe pure volentieri: ogni precario ha una sua storia personale, è pronto, presente e costa assai meno che allestire l’ennesimo maxi-mega-super-concorsone.

L. Valente

Lotito contro i tifosi fascisti. Non otterrà soldi, ma la squalifica per il saluto romano

 

Ho sentito in radio che il presidente della Lazio, Claudio Lotito, ha inviato una lettera ai suoi tifosi “fascisti”, che hanno esibito il disgustoso saluto romano durante la partita contro il Rennes lo scorso ottobre: in particolare, la società chiede loro un risarcimento di 50 mila euro per aver danneggiato l’immagine del club. È solo una provocazione o Lotito vuole davvero ripulire la Curva Nord dagli estremisti di destra?

Eugenio Brini

 

L’iniziativa in sé è nuova, non lo è la linea dura di Claudio Lotito nei confronti delle frange più estreme del tifo laziale che spesso si identificano, come e più di altre, con l’estrema destra, con significativo danno di immagine per la società e anche per la stragrande maggioranza dei suoi tifosi. La Lazio aveva subito una penalizzazione dalla Uefa per quei saluti romani, molto meno tollerati in Europa che da noi, e ora ha chiesto a tre tifosi ritenuti responsabili di “prendere contatto con la società per concordare una modalità di risarcimento”, cioè versare una parte dei 50 mila euro che sarebbero il mancato incasso per la Curva Nord chiusa d’autorità per la successiva partita. Probabilmente nessuno pagherà. Mentre i tre tifosi salteranno tre partite, non potranno andare a vedere la Lazio anche se sono abbonati: una sorta di “squalifica”, anche questa è una novità.

Lotito non piace a tutti, per le ragioni più diverse. Non piace nemmeno a tutti i tifosi laziali, ad alcuni proprio perché – a differenza di molti altri presidenti – è entrato in conflitto con il gruppo ultras più forte della Curva Nord. Per questioni di immagine ma anche di soldi, biglietti e merchandising. Tant’è che per anni, nonostante avesse salvato la Lazio dal fallimento e perfino ottenuto discreti risultati, la Curva l’ha contestato aspramente. Alcuni capi ultras sono stati condannati in primo grado per aver tentato di estorcergli la società. Lotito è sotto scorta da tempo. Ha messo un prefetto ed ex questore di Roma, Nicolò D’Angelo, a capo della sicurezza della Lazio. Ora ha deciso di affrontare in modo deciso anche le intemperanze “fascistoidi”, che pure non sempre hanno rilievo penale. Le squalifiche e le richieste di pagare i danni sono possibili grazie alle nuove tecnologie che hanno riempito gli stadi di telecamere. Sono di più facile applicazione rispetto ai provvedimenti di polizia e giudiziari che pure sono previsti. Rispondono all’idea che la sicurezza degli stadi dipenda anche dalle società che fanno soldi con il calcio. Possono funzionare.

Alessandro Mantovani

Da Craxi a Marattin: le ultime e geniali strategie di Renzi

Uno dei momenti televisivi più divertenti si verifica su Rai3 ogni martedì sera, più o meno attorno alle 23. L’ottimo Roberto Weber, presidente di Ixè, mostra a #Cartabianca i sondaggi politici. A far morire dal ridere è la percentuale di Italia Viva. Renzi credeva di partorire una montagna, che del resto parrebbe nascondere tra le generose pieghe della pappagorgia garrula, ma ha espettorato giusto un topolino stitico.

Secondo Weber, il partito ossimoro Iv non raggiunge mai il 4%. Un disastro vero, per chi sei anni fa (con tutti o quasi i media oscenamente a favore) vantava un inspiegabile 40%. Ora Renzi finge di accettare il proporzionale alla tedesca con sbarramento al 5%, ma non si è mai visto un tacchino festeggiare il giorno del Ringraziamento. O finge e si prepara ad andare al voto con la schifezza attuale del Rosatellum (partorita ovviamente dai suoi), oppure sta cercando di federarsi con i noti agitatori di masse Calenda e Bonino. In quest’ultimo caso saremmo di fronte a un ulteriore parossismo comico, perché non si è mai visto un microbo che per sembrar più grosso si pappa due boli ancor più microscopici. Breve bignami delle ultime geniali mosse di Renzi.

– Avere reagito all’inchiesta Open con la stessa serenità con cui Pasquale Bruno martirizzava le tibie degli avversari.

– Avere raccattato chiunque pur di fare numero in Parlamento, tipo Librandi, che (quando era ancora nel Pd) accolse così la Guardia di Finanza: “Io sono intoccabile e voi siete delle merde”.

– Cannoneggiare ogni giorno il governo che ha fatto nascere e di cui fa parte, salvo poi tornare a cuccia perché ha il peso che ha Duarte nello spogliatoio del Milan.

– Ridursi a votare con Forza Italia (cioè con se stesso) sulla prescrizione, perdendo ovviamente un’altra volta.

– Ipotizzare di correre (si fa per dire: ciabattare come vecchietti sciatici) alle Regionali contro il Pd. Così, per ripicca.

– Mandare in tivù tal Marattin Luigi, uno che su Instagram posta le foto con la fronte mozzata per non far vedere che è pelato e, soprattutto, uno che verbalmente non è mai omofobo o violento. Esempi. “Nichi (Vendola, nda), per usare il tuo linguaggio, ma va’ prosaicamente ad elargire il tuo orifizio anale in maniera totale e indiscriminata” (novembre 2012, Facebook). “Preghiere per le vittime e i feriti. Con quello che rimane delle preghiere, la speranza che – la prossima volta ci sarà occasione – gli italiani con il proprio voto rimandino nella fogna quelle miserabili teste di cazzo che hanno il coraggio di sparare fesserie su spread e austerità” (14 agosto 2018, rivolto a Bagnai e più in generale al governo Salvimaio). Non male anche quando, a Piazzapulita, nel marzo 2019 definì i destinatari del Rei “uno stock di poveri del 2017”. Secondo Renzi, questo Pelattin qua è uno dei pezzi migliori che ha. Figuratevi gli altri.

– Renzi ha riabilitato Craxi, e questo – lungi dallo stupire – dà ulteriore contezza dell’idea di politica coltivata da Renzi.

– Non solo: asserendo che “De Gasperi, Moro e Craxi sono giganti rispetto ai politici di oggi”, la Diversamente Lince di Rignano si è chiamata implicitamente fuori dalla pochezza della politica odierna. Un po’ come se Sfera Ebbasta dicesse che “De André e Gaber erano proprio un’altra cosa”. E certo che lo erano, fenomeno, e oggi lo si capisce ancor di più dall’obbrobrio inaudito di “musica” che ci propini tu!

Forse siamo alle comiche e forse al capolinea. Di sicuro, se qualcuno vuol bene sul serio a Renzi, lo aiuti. Ne ha tanto ma tanto bisogno.

Dilemma: salvare il pianeta o l’economia?

Ben venga la svolta green impressa dalla risoluzione approvata dal Parlamento europeo, in accordo con la Commissione. Ma prestiamo attenzione alle parole per evitarci nuove cocenti delusioni alle prossime conferenze. Formule come “Neutralità climatica” ed “Emissioni nette zero nel 2050” non dicono nulla sul come raggiungere questo obiettivo, lasciano aperte strategie opposte e contengono un messaggio subdolo: non serve diminuire la produzione di gas climalteranti poiché troveremo un modo di neutralizzarli e bilanciarli. Quella parolina – “nette” – sottintende una scommessa al buio: riuscire a compensare le emissioni attraverso sistemi di “assorbimento”. Ma quali? Il modo più semplice ed efficiente (l’approccio Nature Based, aumentando di molto la fotosintesi) sarebbe senz’altro una gestione agroforestale mirata a massimizzare l’assorbimento del carbonio al suolo. Ma – oltre a impedire tutti gli incendi e la deforestazione in atto – sarebbe necessario fermare l’espansione dell’industria della carne, delle monocolture Ogm, dei biocarburanti. Non mi pare però che gli Stati stiano dimostrando la volontà di contenere le attività delle compagnie multinazionali del calibro di Cargill (fornitore di McDonald’s), JBS (Walmart), Bunge (Nestlè). Oltre a ciò, per riuscire ad assorbire i 2/3 (forse) del gas serra servirebbe riforestare una superficie grande come gli Stati Uniti (vedi www.climalteranti.it/2020/01/03/le-foreste-ci-salveranno/). S’avanzano allora strane chimere uscite dai laboratori di geo-ingegneria. Si chiamano Carbon Capture and Storage. Tubi aerostatici, ventole, compressori, pozzi profondi capaci non solo di distillare e stoccare il biossido di carbonio, ma persino di riutilizzarlo. Nuove tecnologie che vengono presentate come “la frontiera dell’innovazione scientifica e della creatività imprenditoriale (…) Anidride carbonica catturata dall’atmosfera che può diventare combustibile pulito, fibre sintetiche per prodotti di consumo, materiali da costruzione futuristici (…) una grande opportunità per promuovere un’economia circolare” (Il grande affare della CO2, CorriereInnovazione, 29.3.2019). Racconta nel suo ultimo libro Naomi Klein (Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il pianeta, Feltrinelli, 2019) che una società finanziata da Bill Gate, la Stratoshield, vorrebbe sperimentare l’immissione nella stratosfera di aerosol di anidride solforosa in modo da creare una barriera che diminuisca l’insolazione sulla superficie della Terra. Un altro signore ha sparpagliato in mare limatura di ferro per aumentare la fioritura algale. Più prudentemente le strategie di decarbonizzazione dell’Europa si affidano a progetti faraonici di impianti solari a concentrazione da piazzare nel deserto del Sahara (in Tunisia e in Egitto, in attesa che la Libia si stabilizzi) e a imponenti elettrodotti sottomarini. Dopo aver estratto dall’Africa petrolio, minerali e schiavi, il colonialismo si ripresenta vestito di verde. E non va meglio con le “terre rare”, quella dozzina di elementi strategici per le loro proprietà magnetiche, catalitiche e ottiche indispensabili a far funzionare computer, pale eoliche, radar, droni, satelliti (solo gli Stati Uniti ne hanno autorizzati 12 mila per il 5G). Le usiamo noi, ma le andiamo a estrarre e raffinare in Oriente, in Africa, in Sudamerica. Per saperne di più leggi l’inchiesta di Guillaume Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss, 2019. Non si sa di chi avere più paura, se dei rozzi negazionisti della Coalizione fossile guidata da Trump e dagli emiri arabi, o dei raffinati cervelloni delle imprese biotech che vedono nella emergenza climatica una occasione per “giocare a fare Dio” e, molto più prosaicamente, una opportunità per far fare nuovi profitti alle loro compagnie. Al dilemma non si scappa: salvare l’economia o il pianeta.