L’Iran deve scusarsi mentre gli Usa no

L’errore della contraerea iraniana che ha abbattuto il Boeing ucraino oltre che tragico, con il suo bilancio di 176 vittime, in maggioranza iraniane e canadesi, è anche imperdonabile perché dà fiato alla propaganda contro il Paese persiano. E i responsabili militari hanno un bel dire che avevano i nervi tesi perché dopo settimane di attacchi e contrattacchi, dall’assassinio del generale Qassem Soleimani alla volutamente debole risposta del governo di Teheran che, preavvertendo gli avversari, con la sua raffica di razzi a titolo dimostrativo non aveva fatto alcuna vittima, si attendevano un nuovo colpo da parte degli americani. Proprio per questo quell’aeroporto andava chiuso all’aviazione civile.

Un duplice o triplice errore quindi.

Però le autorità di Teheran lo hanno ammesso in un arco di tempo relativamente breve, quattro giorni, mentre gli stessi giornali iraniani hanno titolato “vergogna”, “imperdonabile”, “scusatevi e dimettetevi” a dimostrazione che, a onta di ciò che sempre si dice, una certa libertà di stampa esiste in quel Paese. Questa stessa libertà non c’è però nella televisione di Stato come hanno dichiarato Zahra Khatami, Saba Rad e Gelare Jabbari che in quella Tv hanno lavorato o ci stavano lavorando e che si sono dimesse. Però, sia pur per fatti molto meno gravi, anche la Tv di Stato italiana, cioè la Tv in mano ai partiti che sono i veri padroni del nostro Paese, ci ha riempito per anni di menzogne, e continua a farlo, senza che nessuno senta il bisogno e la dignità di dimettersi.

Soprattutto in Afghanistan gli americani hanno ucciso migliaia di innocenti, per esempio durante la celebrazione di un matrimonio scambiata per un raduno di guerriglieri, senza che le autorità Usa abbiano sentito il bisogno di ammettere l’errore o nei rari casi in cui lo hanno fatto questa ammissione è arrivata dopo mesi o anni.

Dopo il 1985 durante la guerra Iraq-Iran (e non Iran-Iraq come si dice abitualmente, perché il primo ad aggredire fu Saddam Hussein che dopo l’avvento di Khomeini contava su un indebolimento del regime – quelli degli avversari dell’Occidente sono sempre ‘regimi’, solo i nostri sono governi) gli americani si intromisero in modo subdolo in questo conflitto a favore di Saddam Hussein. Dico subdolo perché per trovare un pretesto per intervenire direttamente nella guerra Iraq-Iran cominciarono a mandare nel Golfo Persico una infinità di navi cercando l’inevitabile incidente perché, come disse l’allora ambasciatore iraniano all’Onu Khorassani, pretendere l’incolumità di quelle navi era come “sedere in mezzo a un’autostrada e dire alle auto: per piacere non investitemi”. E infatti l’incidente avvenne. Una fregata americana fu affondata da un missile, e poco importa che fosse iracheno e di fabbricazione francese, la responsabilità fu comunque attribuita all’Iran, il che permise agli americani di darsi a una serie di sanguinose rappresaglie coinvolgendo i loro alleati, fra cui noi italiani, perché l’ombrello americano si estendeva anche alle navi di Paesi ‘neutrali’ che transitavano nel Golfo Persico. Scrisse allora Sandro Viola su Repubblica: “Il problema dei comportamenti internazionali dell’Iran, dei ricatti e delle azioni violente cui quel regime ricorre ovunque e di continuo, impone ormai un atteggiamento meno evasivo di quello assunto finora dai governanti italiani… È difficile guardare alla presenza americana nelle prossimità di Hormuz come a un’operazione vecchio stile, di marca dullesiana, da ‘gendarme del mondo’. No, gli americani sono andati nel mare di Oman per ragioni tutto sommato giuste. A tutelare interessi che non sono soltanto degli Stati Uniti, ma anche degli alleati europei”. Dall’avvento di Khomeini e della rivoluzione iraniana, che spazzò via lo Scià di Persia che altro non era che un patinato servo degli Usa, sparare a zero sull’Iran, sulle sue responsabilità, vere ma molto più sovente presunte (l’assassinio di Soleimani docet), è diventato uno sport nazionale e internazionale.

Nel luglio del 1988 un missile americano abbatté un Airbus civile iraniano scambiandolo per un F14, una vera impresa date le diverse e incommensurabili dimensioni dei due velivoli, uccidendo 289 civili, fra cui 66 bambini, un numero di vittime più di quante ne avesse fatte fino ad allora il terrorismo internazionale. Ma gli americani non si scusarono dell’incidente né dopo quattro giorni né mai, mentre i media Usa e tutti i media internazionali (Al Jazeera e Al Arabiya non esistevano ancora) sorvolavano disinvoltamente su quel massacro. E allora siamo proprio sicuri che solo l’Iran vada messo in croce per un incidente, ammesso e riammesso, sfuggito al loro controllo mentre noi occidentali, americani in testa ma non solo loro, non abbiamo mai emesso un solo vagito per i nostri massacri del tutto ingiustificati? Libia e Afghanistan insegnano.

Napoli verso il voto, torna la marcia degli abusivi

Mille come i garibaldini. Ma con un simbolo ‘borbonico’. Il presidente degli abusivisti campani rappresentati dal simbolo ‘Io abito – Regnum Siciliae’ che hanno marciato in mille verso il consiglio regionale si chiama Raffaele Cardamuro. È un leader storico dei movimenti per la difesa degli abusi di necessità: nel 2012 gli abbatterono l’abitazione a Bacoli, nel Napoletano. “Perché il nostro simbolo richiama la cultura neoborbonica? Forse perché le demolizioni le fanno solo al Sud. E forse con tanta frequenza solo in Campania”.

I mille, dato confermato dalla Questura, hanno dato vita a un corteo tranquillo e colorito. Duecento e più di loro hanno preso un aliscafo da Capri per essere lì ieri. Un altro centinaio è arrivato da Ischia. Sulle isole le ruspe vanno forte quasi quanto il mattone selvaggio. Tre pullman di abusivi sono arrivati da Afragola. Tra le quali la signora Rossella, che vive in una casa abusiva e acquisita al patrimonio pubblico “perché la costruimmo su un terreno agricolo di proprietà di mia madre. Ora mia madre non c’è più, la casa ci è stata tolta, eppure i tecnici del comune sono venuti a fare le misurazioni: ci stiamo pagando la tassa per la spazzatura”. Gli altri manifestanti erano provenienti per lo più da Quarto, Lettere, le zone dei Monti Lattari. Lì dove il problema, quantitativamente e qualitativamente, è più avvertito.

In testa Cardamuro, che dopo aver visto la casa sbriciolarsi davanti agli occhi, accettò la nomina di responsabile napoletano delle politiche abitative di Forza Italia. “Poi mi sono dimesso perché non mi è piaciuto il modo in cui il partito ha affrontato la problematica”. Ma ora siamo sotto elezioni, in Campania si vota in primavera, ed ecco il tema degli abusivi – e dei loro voti – rispuntare sull’agenda della politica degli azzurri. E non soltanto la loro.

I mille senza camicia rossa ma con cartelli inneggianti al “diritto alla casa” sono arrivati sino all’ingresso del consiglio regionale e una loro delegazione è stata accolta da un drappello di consiglieri spalmati trasversalmente: Pd (il capogruppo Mario Casillo), Forza Italia (Maria Grazia Di Scala e Flora Beneduce), lista Caldoro Presidente (Massimo Grimaldi) e Fratelli d’Italia (Luciano Passariello). Avrebbero rifiutato l’incontro i gruppi del M5s e dei Verdi.

Sintetizza Di Scala, che è di Ischia, dove il tema è ‘centrale’, a il Fatto Quotidiano: “Si è discusso di due punti. Il primo è come ripristinare il protocollo della procura generale di Napoli, secondo il quale gli abbattimenti dovrebbero iniziare dalle seconde e terze case e dalle abitazioni fatiscenti o su zone a rischio, e non dalle case di chi ci abita e non sa dove andare, come purtroppo ci dicono che sta accadendo. Il secondo è come riportare in parlamento il ddl Falanga”. Si tratta del controverso disegno di legge dell’ex parlamentare verdiniano arenato nella scorsa legislatura. Avrebbe fissato il principio di mettere gli abusi di necessità in fondo alla lista delle demolizioni.

Naufragò in commissione giustizia per l’ostracismo dei commissari Pd. Lo stesso partito che ieri, attraverso le rassicurazioni di Casillo, avrebbe promesso di provare a rispolverarlo. Siamo in campagna elettorale.

Scontro sulla discarica a Roma: c’è un altro re della “monnezza”

Ci sono l’imprenditore Valter Lozza e la sua Mad Srl dietro la New Green Roma, la società proprietaria della cava di via Monte Carnevale, alla periferia Ovest della città, individuata dal Campidoglio per ospitare quella che è stata definita la nuova discarica di Roma, la “Malagrotta 2”. L’imprenditore, già patron del mega-impianto di Roccasecca, ben 2,5 milioni di metri cubi in provincia di Frosinone, e di un’altra cava più piccola a Civitavecchia, prima di Natale ha rilevato il 55% dell’azienda “inattiva” amministrata da Daniele Piacentini. Il sito è stato scelto dalla sindaca Virginia Raggi, fra 11 ritenuti “idonei” da una cabina tecnica, con delibera di giunta del 31 dicembre, in virtù di un’ordinanza del governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che ha imposto alla Raggi di trovare un’alternativa alla discarica di Colleferro, chiusa in anticipo dalla Regione.

Entro questa settimana la New Green dovrebbe inviare formale richiesta di autorizzazione, con la conseguente apertura di una conferenza dei servizi. Senza “fatti nuovi”, partiranno anche i lavori di realizzazione del nuovo impianto. E nel giro di un massimo di 4-5 mesi la nuova discarica potrebbe essere pronta: l’intervento sulla cava durerebbe un mese, essendo già adibita da marzo 2019 a ricevere inerti e amianto. Il sito si trova ad appena 500 metri dall’ex mega discarica di Malagrotta, dal 1974 al 2013 la più grande d’Europa, chiusa dall’ex sindaco Ignazio Marino dopo 6 anni di sanzioni milionarie comminate dall’Ue.

Su “Malagrotta 2”, tuttavia, pendono ben quattro pareri negativi: due provenienti dagli uffici capitolini di Urbanistica e Ambiente e due giunti dall’Esercito e dall’Enac, data la vicinanza all’aeroporto di Fiumicino. Non solo. Questa mattina si svolgerà la protesta dei comitati della Valle Galeria, mentre durante l’Assemblea capitolina si discuteranno due mozioni di Fdi e Pd contrarie alla nuova discarica, con almeno 4 consiglieri M5S che hanno annunciato la loro adesione. Per questo la Raggi potrebbe essere in Aula per garantire la tenuta della maggioranza.

Lozza, in passato molto vicino a Zingaretti, è considerato il “re della monnezza ciociara” e con questa operazione si candida a conquistare anche lo scettro dei rifiuti romani, prendendo il titolo che fino a poco tempo fa apparteneva a Manlio Cerroni, proprietario con il suo consorzio Colari dell’ex discarica di Malagrotta. Il 94enne avvocato recentemente è uscito indenne (fra assoluzioni e prescrizioni) da un processo per associazione a delinquere e traffico illecito di rifiuti, ma i suoi impianti di trattamento tmb, che ricevono oltre metà dell’indifferenziata raccolta in città, sono ancora sotto interdittiva antimafia.

La discarica di Roccasecca, invece, è al centro dell’inchiesta “Maschera” della procura di Frosinone che vede coinvolto lo stesso Lozza insieme ad altre 30 persone. I carabinieri forestali avrebbero “accertato lo smaltimento in discarica di rifiuti pericolosi”, portando “maggiori introiti” con “la complicità dei laboratori di analisi compiacenti”. I legali della Mad srl, tuttavia, si sono opposti a tutte le accuse di irregolarità. Ad oggi, in Regione è aperta una conferenza dei servizi per decidere se autorizzare la società a costruire un quinto invaso a Roccasecca da oltre 800mila metri cubi.

Fonti informali spiegano che Lozza, pur non apparendo, è da mesi “socio” della New Green. Il patron della Mad e Luigi Palumbo (commissario straordinario dei tmb di Cerroni) sono stati visti a colloquio, subito dopo Natale, con il presidente Ama Stefano Zaghis in qualità di “fornitori” della società capitolina. In quel momento, il sito prescelto era Tragliatella, vicino al Lago di Bracciano. In virtù dell’inchiesta in corso, Lozza avrebbe assicurato a Zaghis la presenza nel sito di Monte Carnevale di un “presidio sui rifiuti speciali” per garantire la “completa sostenibilità ambientale”.

Ilva, altri 250 in Cassa integrazione. Mittal fa infuriare ancora i sindacati

Mancano le materie prime e le commesse e ArcelorMittal ferma l’Acciaieria 1 dello stabilimento ex Ilva di Taranto collocando in Cassa integrazione ordinaria altri 250 lavoratori. È quanto hanno annunciato i sindacati metalmeccanici a poche ore dall’incontro con la direzione dello stabilimento che ha annunciato i nuovi assetti di produzione del reparto dell’Area a caldo. Fim, Fiom e Uilm hanno evidenziato che la fermata dell’Acciaieria 1 è determinata “da uno scarso approvvigionamento delle materie prime” e dalla “attuale capacità produttiva legata alle commesse”: la scelta di trasferire parte della produzione sull’Acciaieria 2 avrebbe “possibili ripercussioni dal punto di vista della sicurezza e dell’ambiente”. Per questo hanno chiesto all’azienda di tornare fermare l’iniziativa “unilaterale” ritenendo “inaccettabile” l’assenza di “un piano industriale condiviso con governo e organizzazioni sindacali”.

Per l’Usb, invece, la Cassa integrazione per altri 250 lavoratori rappresenta “una ulteriore azione violenta” da parte della multinazionale e che “il nuovo assetto produttivo spingerà al massimo il regime degli impianti dell’acciaieria 2 che dovrà produrre da sola ciò che prima veniva prodotto con due acciaierie” mettendo seriamente a rischio ambiente e lavoro dato che “gli impianti dell’acciaieria 2 non godono di una manutenzione ordinaria”.

La scelta è destinata a complicare ulteriormente la trattativa in corso tra Governo e Mittal: i negoziati si sono inabissati, ma non sembrano al momento destinati a raggiungere risultati pienamente condivisi da entrambe le parti. Una decisione, tuttavia, dovrà essere presa prima del 7 febbraio giorno in cui il giudice milanese Claudio Marangoni dovrà decidere se accogliere o meno la richiesta di Mittal di chiudere il contratto di affitto e acquisto della fabbrica. Ieri, la procura meneghina, ha depositato una nuova memoria nella quale oltre a ribadire la piena necessità di costituirsi in giudizio per tutelare gli interessi occupazionali, ambientali ed economici dell’Italia, ha ribadito come il pericolo che la multinazionale abbandoni gli impegni non sia ancora fugata. Sempre ieri, in serata, anche i commissari straordinari dell’Ilva hanno inviato una nuova memoria nella quale, secondo indiscrezioni, avrebbero sottolineato come non ci siano più scuse per i gestori dello stabilimento, soprattutto dopo che il “problema Altoforno 2” che Mittal aveva indicato come principale motivo della scelta di abbandonare la fabbrica tarantina, sia stato risolto con la proroga alla facoltà d’uso concessa dal Riesame.

Ecco la norma dei renziani che “salva” Autostrade & C.

Per ora è solo una dimostrazione pubblica, una bandierina piazzata là dove si può vedere ma senza effetti di pregio sulla realtà: s’intende l’emendamento, anticipato dall’Ansa, che Italia Viva ha presentato al decreto Milleproroghe per abrogare l’articolo 35, quello che rivede alcune parti del rapporto tra Stato e concessionari autostradali, in particolare in caso di revoca per inadempimento (nuove regole che riguarderebbero, è bene tenerlo presente, non solo Autostrade per l’Italia dei Benetton, ma anche il gruppo Gavio e il gruppo Toto, secondo e terzo gestore italiano, entrambi in passato finanziatori della fondazione di Matteo Renzi).

Al netto della mancanza di senso dell’opportunità del partitino renziano, il merito è questo. All’articolo 35, il decreto Milleproroghe tenta di riequilibrare a favore dello Stato contratti che assegnano ai gestori privati un trattamento di favore inaudito come, a titolo di esempio, risarcimenti monstre in caso di interruzione del contratto anche per “inadempimento” e “colpa grave”: vere e proprie clausole capestro che la stessa Corte dei Conti – a non voler citare il codice civile – ritiene sostanzialmente nulle.

Nei fatti il nuovo sistema si affida per i risarcimenti in caso di revoca “per inadempimento” al codice dei contratti pubblici approvato nel 2016 grazie al lavoro di Raffaele Cantone e ai voti – ironia della sorte – del Pd di Matteo Renzi: alla fine dell’iter andrà, insomma, eventualmente risarcito solo “A) il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti”; “B) le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza della risoluzione”, ivi compresi quelli finanziari; “C) il 10% del valore attuale dei ricavi risultanti dal piano economico finanziario per gli anni residui di gestione”.

La ratio, ovviamente, è abbassare i maxi-risarcimenti regalati ai privati nel 2007-2008 per togliergli un potere di ricatto, ma non è detto che questo riguardi Autostrade per l’Italia per il crollo del ponte Morandi: in quel caso, è possibile – codice civile alla mano – puntare alla nullità del contratto rafforzata da una mega-richiesta di danni alla società. Paradossalmente la revoca per inadempimento potrebbe attagliarsi meglio alla situazione di Gavio (crollo del viadotto della Torino-Savona) e Toto (lo stato dei viadotti abruzzesi): se non altro come minaccia per rivedere le concessioni in modo che – dalla manutenzione ai pedaggi – facciano gli interessi dei cittadini più che da bancomat ai gestori.

Gavio e Toto, come detto, sono i gruppi che negli anni scorsi hanno finanziato la galassia renziana, incassando peraltro provvedimenti come il decreto sblocca-Italia (proroga delle concessioni in essere) e, nel caso di Toto, come la norma del governo Gentiloni che ha risolto un grosso contenzioso con Anas. Finanziamenti legali, sia chiaro, anche se sui rapporti tra gruppo Toto, l’avvocato renziano Alessandro Bianchi e la Fondazione Open è in corso un’inchiesta a Firenze.

Insomma, l’emendamento di Italia Viva – del tutto legittimo, ovviamente – si inserisce in una consolidata attenzione alle ragioni dei “signori del casello” da parte del gruppo di potere raccolto attorno all’ex premier fiorentino. Per ora, però, si tratta solo di tattica: i renziani, anche ammesso che l’opposizione di destra voti compatta con loro, non hanno i numeri per “mandare sotto” la maggioranza alla Camera né nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio (a cui è assegnato il Milleproroghe), né in aula. Discorso diverso, invece, in Senato: i 17 eletti di Italia Viva sono determinanti per tenere in piedi il Conte 2. Se Renzi presenterà anche lì il suo emendamento pro-concessionari saranno guai seri: ma se ne parlerà il mese prossimo e non è detto che il decreto arrivi a Palazzo Madama già blindato per problemi di tempo. D’altra parte ieri Giuseppe Conte a Sono le Venti (sul Nove) ha detto che la decisione su Aspi è vicina.

La famiglia di C. pretende un’udienza da Mattarella

Il tormentone del ventennale della morte di Bettino Craxi non è ancora finito. Adesso la famiglia del leader socialista pretende un’udienza al Quirinale dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Lo stesso Mattarella che trent’anni fa, nel luglio del 1990, si dimise dal governo Andreotti, insieme ad altri quattro ministri della sinistra demitiana della Dc, per lo scandalo della legge Mammì sulle tv, dichiaratamente a favore di Silvio Berlusconi, amico e sponsor di Craxi.

La notizia di un “gesto del Quirinale” è stata data dalla figlia di Craxi, Stefania, oggi senatrice della destra, e trova conferme negli ambienti del Colle. Si tratta di una richiesta di udienza avanzata dalla fondazione Craxi, cui due anni fa il presidente della Repubblica indirizzò un messaggio di saluto per un convegno su Mediterraneo e Tunisia. Ieri Mattarella ha cominciato una visita in Qatar e al suo ritorno valuterà l’opportunità di questo “gesto”, che in parte salverebbe il tentativo della figlia di riabilitare il padre. Nonostante libri e film, infatti, nessun leader politico di prima fila è andato domenica scorsa ad Hammamet, dove Craxi è morto il 19 gennaio 2000 da latitante (aveva due condanne definitive, un paio in secondo grado e vari processi aperti). Né Salvini, né Berlusconi. Figuriamoci il Pd di Nicola Zingaretti, appena “liberatosi” del neocraxiano Matteo Renzi.

Per la cronaca, o per la storia: in occasione del decennale della morte, nel 2010, l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano mandò una lettera alla vedova Anna in cui riabilitò Craxi “per l’impronta non cancellabile che ha lasciato, in un complesso intreccio di luci e ombre, nella vita del nostro Stato democratico”. Una figura che “non può venir sacrificata al solo discorso sulle responsabilità sanzionate per via giudiziaria. Il nostro Stato democratico non può consentirsi distorsioni e rimozioni del genere”. Ora vediamo Mattarella che farà.

Nuova Sars, l’Oms pensa a un “cordone sanitario”

Trasmissibile: il misterioso virus che ha messo in allarme l’Asia sarebbe trasmissibile tra esseri umani. Nelle ultime ore oltre a nuovi casi è certa la diffusione della malattia. Le organizzazioni mondiali stanno pensando a un cordone sanitario. Il nuovo coronavirus cinese, un virus simile a quello della Sars, si trasmette quindi tra gli esseri umani. La conferma arriva da un gruppo di esperti del governo di Pechino. L’epidemia sarebbe iniziata da persone che hanno contratto il virus in un mercato di alimenti freschi nella città di Wuhan, nella Cina centrale. Le autorità sanitarie cinesi hanno riferito che sono stati confermati altri 136 casi in città, portando il totale delle persone colpite a 198. Tre sono morte. “Il recente scoppio della nuova polmonite da coronavirus a Wuhan e in altri luoghi deve essere preso sul serio”, ha dichiarato il presidente Xi Jinping. L’allarme ora è più forte: la conferma della trasmissione tra esseri umani fa salire il timore di una veloce e ampia diffusione del virus. L’emergenza per la polmonite virale arriva nel momento in cui la Cina entra nel suo periodo di viaggi più intenso, quando milioni di persone prendono treni e aerei per le vacanze del Capodanno lunare. Le autorità in Thailandia e in Giappone hanno già identificato almeno tre casi, tutti legati a viaggi recenti dalla Cina. Intanto, in Italia, il ministero della Salute ha reso noto che sono in atto controlli per gli aerei provenienti da Wuhan. Il ministero precisa peraltro che la probabilità di introduzione del virus nell’Unione europea è considerata bassa, anche se non può essere esclusa.

L’Organizzazione mondiale della Sanità terrà domani a Ginevra una riunione di emergenza per valutare se è il caso di proclamare l’emergenza internazionale e stabilire perciò misure di “contenimento” per ridurre un’eventuale pandemia.

In Italia è attiva una rete di sorveglianza delle gravi infezioni respiratorie acute (Sari) e delle sindromi da distress respiratorio acuto (Ards). Dall’aeroporto di Roma Fiumicino ci sono tre voli diretti con Wuhan, e numerosi non diretti.

Ragazzo pestato dalla polizia, a processo intanto va lui

“Se c’è una responsabilità, sarà sanzionata”, ha detto ieri Christophe Castaner, ministro francese dell’Interno. Ma sul caso di Clément F., 20 anni, il giovane manifestante picchiato e bloccato a terra, col volto insanguinato da un poliziotto, durante un sabato di Gilet gialli, restano ancora molti interrogativi. Il video girato nel quartiere della gare de l’Est, a Parigi, in un momento di tensioni a margine del corteo ufficiale, è diventato virale. La Procura di Parigi ha aperto un’indagine domenica stessa. E anche l’Ispezione generale della polizia ha avviato un’indagine interna. Ma cosa è successo davvero? Le versioni sono discordanti. Secondo i sindacati della polizia, il giovane, col volto avvolto in una sciarpa nera, avrebbe prima gettato una bottiglia di vetro contro un agente e poi lo avrebbe aggredito colpendolo con calci e pugni. È a quel punto che altri poliziotti sarebbero intervenuti per fermarlo. Frédéric Lagache del sindacato Alliance assicura che il giovane “aveva già del sangue sul viso”. Un poliziotto gli avrebbe proposto di disinfettare il volto ma lui “gli ha detto di avere l’Aids e gli ha sputato in faccia”. I fatti sono andati in modo diverso secondo gli avvocati di Clément. Il loro cliente sarebbe “stato colpito violentemente alla testa mentre non rappresentava alcuna minaccia”. Il giovane presenta ematomi sul viso e sul corpo e diversi punti di sutura sono stati necessari per chiudere la ferita alla testa. Ieri, hanno detto, era ancora “in stato di choc”. Il ragazzo era stato lo stesso convocato in tribunale: giudicato per direttissima per “violenze contro pubblico ufficiale” e “ribellione”. Il processo poi è stato rinviato. I legali denunciano il trattamento: “Nessun poliziotto è stato mai giudicato per direttissima”. Tre agenti, tra cui quello del video, hanno sporto denuncia contro lui.

Altro che elezioni, a Baghdad si spara

I dissidenti avevano avanzato tre proposte principali: elezioni anticipate, la formazione di un governo di transizione, una inchiesta sulla morte dei manifestanti durante i cortei di protesta che si susseguono ormai dallo scorso ottobre.

Nessuna di queste è stata messa in atto dal governo iracheno e a Baghdad e Nassiryah si sono riviste le scene di violenza; da un lato i dimostranti, dall’altra le forze di sicurezza.

Al governo si imputa una sottomissione alle direttive iraniane; è Teheran – dicono i giovani che affollano i cortei – e non Baghdad che vuole decidere del nostro futuro. Il bilancio degli ultimi scontri è di cinque morti e 60 feriti, tre vittime sono state uccise nella capitale ieri, gli altri sono caduti durante il fine settimana appena trascorso. Le forze di sicurezza hanno usato la mano pesante vicino al Sinak Bridge e a Tayaran Square. Il Comando delle operazioni di Baghdad dal canto suo ha fatto sapere che 14 militari sono stati feriti dai lanci di sassi dei manifestanti.

A Nassiryah i feriti fra i civili sono stati sei. A Kerbala, nel sud del Paese, le forze di sicurezza hanno usato pallottole e lacrimogeni provocando la morte di un manifestante, 25 sono rimasti feriti. Uno degli episodi – per alcuni la scintilla – che ha scatenato le rivolte di piazza, lo scorso anno, è stata la rimozione, da parte del governo di Abdul-Mahdi, di Abdul-Wahab al-Saadi; per gli iracheni una decisione incomprensibile perchè l’ufficiale che guidava le Forze antiterrorismo irachene era stato il veterano che aveva liberato il paese dall’Isis. Saadi è stato mandato al ministero della Difesa e gli osservatori più attenti ritengono che la scelta sia avvenuta dopo che l’Iran aveva fatto pressione sui politici iracheni più vicini per intralciare l’ascesa del generale e la sua popolarità sempre crescente.

La repressione ha suscitato la reazione del rappresentante delle Nazioni Unite in Iraq, Jeanine Hennis-Plasschaert, che ha definito “inaccettabile” l’uso della forza contro i manifestanti pacifici: “Negli ultimi mesi, centinaia di migliaia di iracheni di ogni estrazione sociale sono scesi in piazza per esprimere le loro speranze di tempi migliori, liberi da corruzione, interessi di parte e interferenze straniere. L’uccisione di manifestanti pacifici, combinati con lunghi anni di promesse non mantenute, hanno provocato una grave crisi di fiducia”.

Secondo l’Alta commissione irachena per i diritti umani, dall’inizio delle proteste ci sono stati 380 morti, per lo più tra i manifestanti. I feriti sono stati 17.700. Le dimissioni del primo ministro Mahdi alla fine di novembre sembravano la svolta tanto attesa ma hanno portato solo qualche giorno di pausa nelle proteste; il paese resta senza servizi essenziali e corre il rischio di una nuova guerra civile dopo quella combattuta per liberarsi dallo Stato Islamico.

Risuonano ancora le parole di qualche giorno fa del leader sciita Moqtada al-Sadr, vincitore delle ultime elezioni: “L’Iraq può trasformarsi in una nuova Siria”.

Sequestro Silvia Romano: ora c’è un altro ricercato

Sfilata di testimoni ieri al processo contro i presunti rapitori di Silvia Romano, la giovane italiana sequestrata il 20 novembre 2019 a Chakama, villaggio a un’ottantina di chilometri nell’entroterra di Malindi. Nessun europeo tra il pubblico: i diplomatici non ci sono visti e neppure i giornalisti.

Le domande del giudice Julie Oseko, e della procuratrice Alice Mathangani, hanno riguardato due aspetti: dov’è finito l’accusato numero uno, Ibrahim Adhan Omar, che dopo aver pagato la cauzione non si è fatto più vedere, sparendo nel nulla? E poi: come ha fatto il poverissimo sarto Juma Suleiman residente a Kwale, un villaggio vicino Mombasa, a pagare, depositando in tribunale titoli di proprietà per 26 mila dollari, quella cauzione?

Nessuno ha saputo rispondere alla prima domanda, ma è stato individuato un cognato di Ibrahim, Mohammed Omar Ali, che dovrebbe sapere dove si trova il congiunto ricercato. È stato dato incarico alla polizia di trovare Mohamed per interrogarlo. Se il latitante non si dovesse presentare entro il 9 marzo, la Corte procederà senza indugio. Per l’11 e il 12 marzo sono previste altre due udienze a Chakama: la giudice vuole interrogare altri 17 testimoni che non possono permettersi di raggiungere il tribunale di Malindi. Dovrebbe così finire il processo e si dovrebbe andare a sentenza. Poiché Ibrahim è sparito dal 20 novembre scorso, qualcuno degli avvocati ha avanzato l’ipotesi che sia stato ammazzato per tappargli la bocca. Alla seconda domanda il sarto Juma Suleiman, che dichiara di guadagnare l’equivalente di 100 dollari al mese, ha risposto sicuro che ha pagato quei 26 mila dollari per tirar fuori Ibrahim giacché il latitante è un suo amico – lo conosce da 26 anni – e senza esitazione ha versato la cauzione.

Quella di ieri è stata l’ultima udienza cui ha partecipato la procuratrice Alice Mathangani. Dal 3 febbraio è stata trasferita a Nairobi e quindi lascerà il posto a un suo collega che non è stato ancora nominato. Mathangani nelle udienze dei mesi scorsi era apparsa piuttosto combattiva e si era opposta, assieme all’ispettore di polizia che coordina le indagini, Peter Murithi, alla richiesta della difesa di concedere la cauzione agli imputati. Li aveva giudicati troppo pericolosi e con il rischio di una fuga che poi si è puntualmente verificata. La giudice Oseko aveva invece deciso diversamente.

Ibrahim è l’unico somalo dei tre accusati: gli altri due, Moses Luari Chende e Abdulla Gababa Wario, sono kenioti, anche se di etnia somala. Al momento dell’arresto, nei pressi di Garissa, città colpita da attacchi islamisti, Ibrahim è stato trovato in possesso di armi e le indagini hanno dimostrato che ha ottenuto la carta di identità keniota corrompendo i membri della commissione governativa incaricata di pronunciarsi sulle richieste di documenti.

Subito dopo l’udienza gli inquirenti hanno approfondito alcuni punti. La procuratrice Alice Mathagani ritiene che Silvia sia ancora viva altrimenti, se fosse stata uccisa, la notizia si sarebbe diffusa. Tenerla segreta – sostiene – sarebbe stato impossibile. Non sa o non vuole spiegare cosa sia successo qualche giorno dopo il rapimento della volontaria, quando i ranger guardia parco, avevano individuato il bivacco dove si erano accampati rapitori e rapita. Avevano però ricevuto l’ordine di non muoversi e di aspettare i rinforzi. Ma all’arrivo degli aiuti i malviventi erano già scappati. Gli investigatori della polizia invece rivelano che c’è un altro ricercato, quello che sarebbe stato l’organizzatore del ratto: Saidi Adhen. “È lui che sa ogni cosa, soprattutto i reali motivi del rapimento che restano ancora sconosciuti”.