C’è grossa crisi, fuga dalla BBC

“È stata una decisione difficile. Se dovessi seguire solo il mio cuore davvero non me ne andrei mai”. In una nota ai dipendenti, Tony Hall annuncia così, con parole molto irrituali, le sue dimissioni da direttore generale della British Broadcasting Corporation a partire dall’estate. Era arrivato nel 2013 in un momento di grande emergenza, con il predecessore George Entwhistle costretto alle dimissioni dopo solo 54 giorni di direzione, travolto da uno scoop di Newsnight, poi rivelatosi falso, che implicava un Lord conservatore in un giro di pedofili. Ufficialmente, Hall se ne va ora perché pensa sia cruciale che la BBC possa contare sulla stessa leadership sia per la revisione, nel 2022, che per il rinnovo della Royal Charter, il contratto con il governo, fissato per il 2027.

Un ricambio necessario, dopo sette lunghi anni dal bilancio in chiaroscuro: grandi successi e scelte innovative che hanno mantenuto la BBC ai vertici globali dei media ma anche i segni di una grande crisi. Le ragioni sono strutturali e di mercato: non sono però mancati, soprattutto negli ultimi anni, errori di gestione, valutazioni editoriali sbagliate, scontri con la politica, perdita di pubblico e di credibilità. Il dossier più scottante è quello sulla discriminazione salariale del personale femminile. Bubbone esploso nel 2017, quando la BBC è stata costretta a pubblicare tutti i compensi superiori alle 150 mila sterline all’anno. Operazione trasparenza che si è rivelata un boomerang, perché ha dimostrato una disparità salariale a sfavore delle donne, pagate regolarmente molto meno delle controparti maschili. Disparità così reiterate, evidenti e ingiustificate da provocare l’apertura di una inchiesta della Commissione per l’eguaglianza e i diritti umani. E la rivolta della professioniste danneggiate. Il 10 gennaio una di loro, Samira Ahmed, ha vinto la causa che aveva intanto alla BBC, che la pagava 440 pound per ogni puntata di conduzione di NewsWatch, mentre il collega Jeremy Vine ne prendeva 3000 per un programma analogo. Ieri, Sara Montague, conduttrice per 18 anni di Today, seguitissimo programma del mattino di BBC Radio 4, ha rivelato di aver ottenuto un risarcimento di 400 mila sterline e, soprattutto, una vittoria di principio con le scuse ufficiali dei vertici : il suo stipendio era di 113 mila sterline, quello del co-conduttore John Humpry di quasi 650 mila. I casi sarebbero decine, troppi per non pensare a una radicata cultura misogina, malgrado le policy ufficiali di inclusione. C’è poi la grande battaglia sul finanziamento pubblico all’emittente, messo in discussione dai Conservatori.

È un modello di business basato sul canone obbligatorio annuale di 154.50 sterline, per un totale di 3.7 miliardi annui, sui cui la BBC può contare almeno per altri otto anni, fino alla nuova Royal Charter. Ma la politica ha altri modi per indebolire il flusso di finanziamento. Nel 2015, David Cameron ha deciso che il governo non si sarebbe più fatto carico del pagamento del canone per gli ultra75enni, introdotto dal laburista Gordon Brown. Dal 2020-21 la spesa ricadrebbe sulla BBC. Un aggravio di 750 milioni, insostenibile a meno di sacrificare programmi e canali. La battaglia è ancora aperta, ed è una battaglia per il consenso del pubblico anziano, quello degli utenti più fedeli, prima che finanziaria. Quanto a Boris Johnson, sembra deciso a de-criminalizzare il mancato pagamento del canone, che nel Regno Unito è un reato serio, per cui si finisce in tribunale se non in carcere. Per i vertici BBC, la de-criminalizzazione sarebbe un invito all’evasione dell’imposta.

Questo in un contesto già difficile, con il diradarsi del pubblico più giovane, orientato al consumo di contenuti sui social, e una più generale perdita di credibilità e autorevolezza del servizio pubblico. Anche per la BBC, Brexit è stata tossica, come è accaduto per tutte le altre istituzioni del paese. In più occasioni, la copertura giornalistica degli eventi degli ultimi tre anni non è apparsa all’altezza delle aspettative di completezza, imparzialità e qualità indispensabili in una fase politica tanto determinante per il futuro del paese.

Come ha immediatamente commentato il giornalista politico Robert Peston: “La decisione su chi sostituirà Lord Hall è importante quando quella sul nuovo leader del Partito Laburista. Perché vista l’entità della maggioranza di Boris Johnson, il compito di chiedere al governo conto delle sue azioni ricadrà più sui media che sull’opposizione parlamentare”.

Da una prospettiva italiana è commovente scoprire che, nemmeno tanto lontano, il servizio pubblico possa ancora essere concepito come cane da guardia del potere politico.

Dopo Berlino tutti contenti. Ma la pace ancora non c’è

Le contraddittorie dichiarazioni del premier al-Sarraj riflettono gli interrogativi lasciati aperti dalla Conferenza di Berlino sulla Libia che si è tenuta domenica: con Al Jazeera, al-Sarraj esprime un “cauto ottimismo”, ma poi inanella fondati motivi per nutrire un “ragionevole pessimismo”: c’è – dice – una controparte, il generale Khalifa Haftar, che “non rispetta gli impegni”. Sarraj è anche critico delle ingerenze degli Emirati arabi uniti, che come la Russia e l’Egitto sostengono Haftar pure a livello militare, affermando: “Non abbiamo frontiere comuni con gli Emirati, il che ci desta interrogativi sui loro obiettivi nel nostro Paese”. Il giorno dopo la Conferenza, l’Unione europea rilancia l’operazione ‘Sophia’: non più contro i trafficanti di migranti ma per vigilare sull’embargo Onu sulle armi, ed avvia il lavoro per una missione di pace anche se l’Alto rappresentante Josep Borrell ammette: “Per ora la tregua ancora non c’è”.

Similitudine con Palermo. Per molti versi, la Conferenza di Berlino evoca la conferenza di Palermo dell’autunno 2018: anche allora si parlò di un passo per la messa in moto di un processo politico; e, meno di sei mesi dopo, Haftar scatenava la sua offensiva, che quel processo politico ha messo in stand-by, anzi ha sepolto sotto centinaia di vittime e tonnellate di piombo. Nel rapporto tra al-Sarraj e Haftar, Berlino ha segnato un passo indietro rispetto a Palermo, dove il presidente del Consiglio Giuseppe Conte era almeno riuscito a farli incontrare e a forzare una stretta di mano. Tra Palermo e Berlino, la guerra fra i due è divenuta aperta e questo si riflette sui loro rapporti. Ma il premier e il generale non sono gli unici protagonisti nel caos libico; e né l’uno né l’altro hanno pieno controllo del loro campo. Signori della guerra, milizie, trafficanti, mercenari cercheranno tutti d’avere il proprio tornaconto da un eventuale accordo, quando ci sarà se ci sarà.

Note positive. Nessuno avrebbe scommesso un dinaro solo una settimana prima, eppure i partecipanti sono stati concordi su un testo in 55 punti, molti dei quali tanto ovvii in teoria quanto lontani dall’essere realizzabili in pratica: e che i due antagonisti, al-Sarraj e Haftar, avevano alla fine accettato di esserci, anche se non al tavolo della conferenza. Bene, pure, la composizione di una commissione che deve monitorare il rispetto della tregua e l’abbozzo di un calendario d’appuntamenti. Prossima verifica, il 17 febbraio

Contraddizioni e ingerenze. Se rispetto a Palermo al-Sarraj e Haftar sono più ai ferri corti, Berlino ha apparentemente visto più concordi i Paesi intorno al tavolo. Peccato che, fra quanti hanno concordato sui 55 punti, ve ne siano che sostengono in modo aperto, anche militare, l’una o l’altra fazione – la Russia e la Turchia – o che hanno accantonato per convenzione diplomatica le loro rivalità senza averle risolte; l’Italia e la Francia, solo per fare un esempio. Uno dei punti da tutti accettati è il ‘no’ alle ingerenze in Libia. E, intorno al tavolo di Berlino, c’erano praticamente tutti i Paesi che mestano nel caos libico, l’Egitto, gli Emirati, la Russia, da una parte; e la Turchia, dall’altra. E che, da un giorno all’altro, cessino le ingerenze nessuno ci crede, anche se Putin ed Erdogan mettono foglie di fico sulla loro presenza, tramite mercenari (da parte russa) e miliziani (da parte turca); Ankara adesso sostiene che il suo aiuto militare ad al-Sarraj consisterà solo d’istruttori e consiglieri, il che creerebbe delusioni a Tripoli.

Il fattore militare. La commissione costituita per monitorare la tregua è, a priori, una bufala: dieci componenti, cinque nominati da al-Sarraj e cinque da Haftar, sono una ricetta per il fallimento o, almeno, la paralisi. Nell’ipotesi che la tregua nonostante tutto tenga, ci vorrebbe poi una forza di interposizione. E qui casca l’asino di Berlino: Haftar non la vuole, finché Mosca non lo convince; al-Serraj la vuole Onu e non Ue, sentendosi ‘tradito’ dall’equidistanza europea, dopo che, a parole, molti, Italia in testa, e con l’eccezione della Francia, l’avevano convinto che era lui l’unto della comunità internazionale.

Il fattore economico ed energetico. È la componente rimasta finora estranea ai giochi di guerra, come se la Libia fosse davvero uno Stato solo nella gestione del ricavato di petrolio e gas. Adesso, la chiusura dei porti decisa da Haftar cambia i dati dell’equazione e aggiunge un’incognita pesante.

Le tre tesi della Azzolina. Cosa dice l’analisi dei testi

Su Repubblica, Massimo Arcangeli, linguista e presidente della commissione che ha valutato idonea Lucia Azzolina come dirigente scolastico, è tornato a sostenere che il ministro dell’Istruzione abbia plagiato 28 passaggi della relazione finale del tirocinio Siss (Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario) all’Università di Pisa nel 2009. Dopo il primo articolo, le cui accuse sono state analizzate dal Fatto usando i software antiplagio, Arcangeli ne ha pubblicati altri due per arrivare a sostenere che ci siano 1.542 “parole rubate”. Il linguista più volte paragona il caso Azzolina all’analisi del Fatto sulla tesi di dottorato dell’ex ministro Marianna Madia, da cui emerse l’uso di contributi originali da articoli scientifici di altri autori senza virgolettare né citare nel testo, per almeno 4mila parole. E in percentuale, secondo Arcangeli, “Azzolina avrebbe copiato più della Madia”. L’analisi di Arcangeli appare però fragile in molti punti, come l’aver detto di non usare software antiplagio o il confrontare una tesi di tirocinio per abilitare all’insegnamento con una tesi di dottorato. Riscontrare plagio in un testo richiede un lavoro che inizia con i software e prosegue con la scrematura delle fonti trovate verificando se sono contributi originali di cui ci si è appropriati o concetti di uso comune.

Molti dei passaggi che Arcangeli ritiene copiati sono ricondotti a fonti non corrette o troppo generiche. E non spiega, per dire, che si tratta di definizioni di uso comune e criteri diagnostici noti in Psichiatria (ambito del capitolo introduttivo) cui si ricorre per definire il ritardo mentale. Alcuni esempi: per Arcangeli, il primo brano (46 parole copiate su 47) sarebbe ripreso dal Dizionario di Psicologia di Umberto Galimberti edito da Utet nel 1992. Ma la stessa frase si ritrova in monografie di Psichiatria e perfino in una fonte in portoghese. “Nella revisione della nomenclatura psichiatrica compiuta nel 1988 dal DSM, l’espressione ritardo mentale ha sostituito tutte quelle denominazioni […] perinatali e postnali di diversissima natura”, scrivono gli psichiatri Mazzonetto e Dinelli nella rivista “Problemi in Psichiatria” nel settembre 2006. La frase sembra indicare che il passaggio attribuito a Galimberti sia invece anche nelle versioni più vecchie di uno dei manuali di riferimento per la Psichiatria internazionale (il DSM, che conta 10 versioni dal 1952 ad oggi). I software non rilevano le vecchie edizioni perché non sono online. Gli stessi Mazzonetto e Dinelli in bibliografia indicano solo quella del 1995.

Caso simile per il secondo brano. Arcangeli sostiene che sia stato copiato da Clemente Lanzetti et all, “Metodi quantitativi e qualitativi per la ricerca sociale in società, Milano, Franco Angeli, 2008”. La stessa frase è però nel DSM e in tante fonti autorevoli, anche successive al 2009, come in dispense universitarie di Neuropsicologia infantile (ad esempio di Marco Carotenuto all’Università della Campania) senza che siano citate le fonti. Un altro brano, che Arcangeli sostiene essere copiato dal “Trattato Italiano di Psichiatria, di Ravizza et all edizione del 1992” risulta anche in molte altre fonti come un contributo della Ausl di Padova del 2012 e un articolo scientifico sulla rivista Nuova Rassegna di Studi Psichiatrici del 2013. Sono sempre definizioni di malattie e criteri diagnostici. Anche il quinto brano (70 parole) riguarda uno dei criteri che definiscono il “ritardo mentale” in psichiatria: Arcangeli riconosce che sono prese dal DSM (IV edizione – Tr) nella ristampa del 1995. Manuale che la Azzolina nomina, insieme ad altri, ma che non cita sempre tra virgolette e non mette in bibliografia. Come fanno molti altri autori, da quello che si riscontra da altre fonti. E ancora, del sesto brano 12 parole sarebbero copiate dal manuale “Pediatria Generale e specialistica” di Franco Zappulla, (2015). Arcangeli specifica che non ha “potuto controllare un’edizione anteriore al 2010.” Quindi se Azzolina, nel 2009, avesse copiato da una edizione precedente, Arcangeli non può saperlo. Per questo bisogna verificare chi copia da chi o se la mole di fonti che anche il Fatto ritrova per molti passi citati da Arcangeli non indichi che si tratti di definizioni d’uso comune come dimostrerebbe il fatto che ci sono tantissimi siti, articoli e dispense universitarie post 2009 con passaggi identici.

L’unico passaggio che sembra copiato, scoperto dal Fatto dopo il primo articolo di Arcangeli, arriva da una tesi di laurea in Medicina del 2006 (“Il funzionamento adattivo nel ritardo mentale: confronto capacità intellettive e competenza adattiva”) di Massimo Marcelli e sembra una parafrasi di uno dei criteri associati alla definizione di “Ritardo Mentale” presenti nel DSM.

Abbiamo analizzato anche le tesi di laurea triennale e magistrale in Filosofia del 2004 e le 2008. Nella prima, (“Rousseau politico, dai due discorsi al Contratto sociale”) su 35mila parole si riscontra una nota al testo di circa 80 che appare in una fonte online ma che sembra successiva (2007) nonché un passaggio di 200 parole che si ritrova in “Roberto Gatti, L’enigma del male. Un’interpretazione di Rousseau, Roma, Studium, 1996”. Non è virgolettata né attribuita nel testo, ma citata in bibliografia. Per la tesi specialistica, “Rousseau e Voltaire: Il terremoto di Lisbona”, di 66mila parole, si riscontra un passaggio di 133 parole che appare in vari siti internet, di cui non si conosce la datazione.

“Bettino Craxi era un latitante e fu solo vittima di se stesso”

È frastornato e deluso, Antonio Di Pietro, per l’aria di santificazione che tira in questi giorni sul più famoso dei suoi indagati, Bettino Craxi. E anche per un paio di episodi che gli sono capitati. Un signore distinto, sul treno Italo Napoli-Milano, lo ha apostrofato: “Lei è quello che ha rovinato l’Italia”. A Roma, invece, su un autobus, un ragazzo gli ha chiesto: “Lei è Antonio Di Pietro, quello di Mani Pulite?”. “Sì”. Uno sputo addosso e una fuga, alla fermata di piazza Venezia.

Sono passati vent’anni dalla morte di Craxi e 28 dall’inizio di Mani Pulite e…

… e c’è un completo stravolgimento della realtà. Io quel ragazzo che mi ha sputato addosso lo avrei voluto abbracciare: perché ai tempi di Mani Pulite non era neanche nato e non è colpa sua se oggi è rimasto vittima di un’informazione pilotata e artefatta. Quanto al signore su Italo, gli ho risposto che non ho rovinato l’Italia, ma ho solo cercato di curarla, di guarire la malattia della corruzione. E per fortuna ho trovato attorno, sul treno, molte persone che erano d’accordo con me. Io negli anni di Mani Pulite ho fatto soltanto il mio dovere, che era quello di fare le inchieste. Ma oggi mi si rimprovera perché ho fatto il mio lavoro e si mette in discussione l’esercizio di un dovere.

Evidentemente Mani Pulite fa ancora male.

Tangentopoli fa ancora male, perché quella era il male, non Mani Pulite che ha cercato di curarla. Si continua a raccontare una storia diversa dalla realtà. Si continua a diffondere un’informazione falsata. Io non ho niente contro una famiglia che ricorda un padre, un marito, morto vent’anni fa. La famiglia e gli amici vanno solo rispettati. Ma ce l’ho con una informazione che trasforma in vittima una persona che in vita si era macchiata di crimini e aveva avuto delle condanne definitive. Come si fa a proporre di dedicare la via di una città a un latitante condannato per gravi reati?

In questi giorni è stato detto che Craxi, segretario del Psi, è stata la vittima di Mani Pulite, l’unico che ha pagato per un intero sistema.

Ma finiamola: Craxi è stato vittima di se stesso, avendo scelto di farsi corrompere pure lui come migliaia di altri indagati delle inchieste di Mani Pulite. C’è chi, in altri partiti, ha avuto più avvisi di garanzia di lui. Vittima? Ma ci sono le sentenze, le confessioni, i conti all’estero, i miliardi di lire spariti.

Le rimproverano di avere impedito che fosse curato in Italia.

I magistrati non hanno alcuna possibilità di garantire un salvacondotto giudiziario a un condannato definitivo fuggito all’estero e dunque dichiarato latitante. È un potere che ha, semmai, la politica, il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, non so… So che se fosse tornato in Italia nessuno gli avrebbe potuto togliere il suo diritto a essere curato in ospedale. È scritto nei codici. Lui invece chiedeva, con una sorta di ricatto allo Stato, un salvacondotto preventivo che i magistrati non potevano dare.

Claudio Martelli ha detto che Craxi non era un latitante, ma un rifugiato politico.

Sarà stato un rifugiato politico per la Tunisia. Per lo Stato italiano era un condannato definitivo dichiarato latitante. Anche i terroristi rossi in Francia si dichiarano e sono considerati rifugiati politici, ma questo non toglie che per l’Italia sono e restano latitanti.

La politica costa, dicono i suoi difensori, dunque il finanziamento illecito era comune a tutti i partiti. Ed era necessario per far vivere la democrazia.

Violavano la legge che i partiti stessi avevano fatto. Finanziavano illegalmente i partiti, ma poi ne approfittavano anche per i loro interessi personali. Ora elogiano il discorso di Craxi in Parlamento che diceva: i bilanci di tutti i partiti sono falsi. Ma non era coraggio, era una furbata dell’ultimo minuto, che ammetteva quello che avevamo già scoperto, senza parlare però degli appalti truccati, né dei conti personali all’estero. Si ammette il finanziamento illecito, ma non la corruzione e la concussione. Gli imprenditori erano costretti a pagare mazzette per ottenere i lavori. E poi facevano lavori spesso inutili e soprattutto pagati più del dovuto, o costruivano ponti con tanta sabbia e poco cemento, destinati a venir giù.

Avete abbattuto Craxi, ma salvato i comunisti.

L’amnistia per i finanziamenti dell’Unione sovietica al Pci l’hanno fatta i partiti nel 1989, prima di Mani Pulite. Quanto alle tangenti, siamo riusciti ad arrivare fino ai segretari amministrativi dei partiti, della Dc (Severino Citaristi), del Psi (Vincenzo Balzamo) e anche del Pci (Renato Pollini e Marcello Stefanini, che non sono stati condannati perché nel frattempo sono morti e da morti certamente non potevano mettere per iscritto che uso avevano fatto dei soldi ed eventualmente a chi li avevano dati).

Eravate manovrati dalla Cia.

Ma anche dal Kgb, dal Mossad e chi più ne ha più ne metta. Ma siamo seri. I soldi che abbiamo trovato nei conti svizzeri di tanti corrotti, Craxi compreso, ce li hanno messi loro o io per conto della Cia?

Meraviglia: un craxian-renziano scrive il “manifesto della sinistra”

Ci dev’essere un malinteso. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, ha scritto un manifesto politico: tre pagine fitte fitte, piene di proposte su crescita, produttività, immigrazione, investimenti, Fisco, Europa, giovani e donne. Le ha pubblicate ieri sul Foglio di Claudio Cerasa. L’ambizione è tanta: “Un sogno pragmatico di rilancio italiano”. Il titolo è suggestivo, importante: “Un’altra sinistra è possibile”.

Eccolo, l’equivoco: cosa c’entra Giorgio Gori con la sinistra? La sua stessa biografia è un’appassionata, ostinata negazione della parola “sinistra”. Giovane repubblicano, poi craxiano mai pentito, poi brillantissimo dirigente televisivo di Mediaset negli anni d’oro dell’ascesa di Berlusconi, poi stretto collaboratore di Renzi nella parentesi ruggente della rottamazione. Seguendo l’adagio di tanti riformisti italiani, quello di Gori è stato un lavoro senza sosta per andare “oltre” la sinistra. Ma oltre la sinistra – diceva Massimo D’Alema – “c’è solo la destra”. Ed è lì che dovrebbe collocarsi Giorgio Gori, senza timidezze.

Il nostro invece ha altri programmi: una parte del Pd (quella più a destra, appunto) accarezza l’idea di affidarsi a lui per provare a riprendersi il partito: Gori potrebbe diventare l’anti-Zinga, il prossimo papabile segretario moderato. Nell’affascinante galassia post-renziana – un mondo che si può osservare puntando con cautela il microscopio su Twitter – le sue parole incendiarie sul futuro della sinistra (Crescita sì! Protezione sociale no!) sono circolate avidamente e commentate con entusiasmo.

Gori ci crede, è ambizioso. In questi giorni la sua iper-attività è sospetta. Scrive piccoli trattati, rilascia interviste, accorre alla tomba di Craxi ad Hammamet: si colloca (o almeno ci prova) al centro del dibattito. Al Foglio, tanto per cambiare, ha regalato un micidiale saggio sul defunto leader socialista: “E adesso diamo a Craxi quel che è di Craxi”. L’ex dirigente di Mediaset si colloca, in abbondante compagnia, tra coloro che oggi beatificano Bettino: non fu un collettore di tangenti (come stabiliscono le sentenze) ma una vittima della “rivoluzione dei giudici”. Un innovatore: “Su tanti temi politici aveva ragione lui e Berlinguer aveva torto, non si può cancellare così un pezzo importante della storia della sinistra”. Aridaje.

Chissà quando nasce questo morboso malinteso di Gori per la sinistra. Non negli anni del Liceo Sarpi, scuola “nobile” della borghesia di Bergamo alta, quando il futuro sindaco militava “in un gruppo studentesco di ispirazione laica e riformista, Azione e Libertà, che si riuniva nella sede del Partito repubblicano”.

Non certo negli anni dell’affermazione personale, quelli della folgorante carriera nelle televisioni di Berlusconi: nel 1991 Gori diventa direttore di Canale 5 a 31 anni. Rimane nella rete ammiraglia del Biscione fino al 2001: assiste da una posizione privilegiata, eufemismo, al lancio di Forza Italia sulle tv del padrone. È in una posizione di comando mentre prende forma il ventennio di Silvio.

La passione di Gori per la sinistra non deve risalire nemmeno al periodo successivo, quando si mette in proprio e fonda Magnolia: sotto la sua guida diventa una delle più ricche società di produzione d’Italia (grazie a programmi come X Factor, Masterchef e Grande Fratello). Anni nei quali, ovviamente, continua a mantenere un legame con Mediaset.

Infine, ecco la politica attiva. Gori si piazza dietro Matteo Renzi. È l’autore materiale delle “100 proposte” alla Leopolda del 2011, l’anno in cui il rottamatore inizia la sua ascesa nazionale. In quel periodo lo segue come un’ombra: “una raffinata testa d’uovo del berlusconismo” (definizione di Miguel Gotor) che sussurra alla giovane speranza del Pd. Per i giornali è il suo spin doctor: Gori sta a Renzi come Gianni Boncompagni stava ad Ambra, lo guida parola per parola. Un’esagerazione che Matteo non gradisce: il rapporto tra i due vive di fortune alterne. Ma di certo Gori, che agli albori proponeva “una Rai libera dai partiti”, qualche anno dopo sarà il propiziatore delle nomine renziane nella tv pubblica. Ilaria Dallatana, direttrice di Rai Due nel 2016, era la socia con cui aveva fondato Magnolia. Daria Bignardi, direttrice di Rai3, era stata lanciata da Gori grazie al Grande Fratello. E soprattutto il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto era stato il suo assistente ai tempi di Canale 5. Il dominio dei “goriani” in Rai si sintetizza con una battuta di Enrico Mentana: “Giorgio è il Rutelli della televisione italiana”.

Ma il nostro, in fondo, rimane defilato, i riflettori non sono per lui. Certo, nel 2014 diventa sindaco di Bergamo, ma nel 2018 perde la sfida capitale per diventare presidente della Lombardia: il leghista Antonio Fontana gli infligge una batosta. E a ben vedere, Gori non è uno che ama stare tra gli sconfitti. È stato craxiano negli anni di Craxi, ai vertici della macchina televisiva di Berlusconi negli anni di Berlusconi, renziano negli anni di Renzi. Secondo la moglie Cristina Parodi, “Giorgio vuole sempre vincere, anche se gioca a tennis con i figli o a Trivial pursuit”.

Ora, con il declino della parabola renziana, con il Pd di Zingaretti che sembra rassegnato all’irrilevanza, ecco che forse si apre uno spiraglio. Un vuoto da colmare. Gori sgomita. Vola ad Hammamet “contro la lunga demonizzazione” di Bettino. Critica Zingaretti in un’intervista a Repubblica, il giorno dopo smentisce di averla rilasciata. Infine pubblica il suo manifesto per la rinascita della sinistra. Svelato il malinteso: è un manifesto per la rinascita di Gori.

Il miracolo del Papeete: il luogo dove Salvini ha riscritto la realtà

Le due palme sono vere, ma anche quelle finte adagiate ai bordi fanno la loro figura. La spiaggia assomiglia a una spianata, la spianata a un tavolo da biliardo, il tavolo a una terra di nessuno tra il mare e le case. Il lungomare di Milano Marittima porta al Papeete Beach, e il Papeete a Matteo Salvini, all’età evolutiva del suo potere personale, allo stile caraibico e festoso con cui in agosto lo stato di crisi nazionale veniva miscelato nelle danze con le cosce lunghe brasiliane, e il mojito diveniva bevanda ufficiale del cambiamento.

Tra Salvini e il mojito, e quella voglia matta di divertirsi esagerando anche un po’, c’è la nuova classe dirigente romagnola. Innanzitutto lui, Massimo Casanova, il padrone del Papeete, il suo navigator costiero: “Vinciamo con sei punti di distacco. Ho visto la piazza di Cervia, mai così piena, mai così affettuosa con noi”. Cervia e Cattolica e tutto l’altro ancora che deve venire in questa ultima settimana di fuoco, dove Salvini ha deciso di travestirsi da Silvio Pellico. “Andrò in prigione per difendere la libertà di tutti”.

La Romagna rivierasca è il portato geniale dell’attitudine della popolazione indigena a lavorare con la fantasia, a creare. Perciò il mio Cicerone nelle terre contadine di quel che fu il grande Papato è Maurizio Roi, fino a ottobre scorso sovrintendente del Carlo Felice di Genova, dimissionato da Bucci, il sindaco di centrodestra della città. Roi è stato sindaco di Lugo di Romagna, è nella direzione regionale del Pd, era funzionario del partito. La sua nuova vita è quella di operatore culturale, anzi di manager della creatività. “E c’è qualcosa di più creativo, di più fantastico e geniale che vendere non il mare ma l’ombra? Sostituire alla spiaggia, inerme e statica, il ristorante e il baby sitting, la festa in maschera, il dj set, il massaggio lomi lomi? È un grande atto creativo sostituire il mare, nasconderlo. È una realtà aumentata, una percezione alterata. Credi di stare in acqua e invece sei seduto a un tavolo di plastica e godi lo stesso. Anzi di più”.

Il Papeete è alle nostre spalle, e Salvini il capofila della nuova genia di politici da sbarco. Casanova, l’intrattenitore, è pronto per la Puglia. Lui immobiliarista vacanziero delle Tremiti, oggi europarlamentare, vorrebbe conquistare la poltrona di Michele Emiliano e governare in trasferta. con la solita tattica. Lui come Lucia Borgonzoni, due passi dietro Matteo, il mattatore.

“Forse vinciamo, ma già il fatto che dobbiamo aspettare domenica sera è una sconfitta”, dice Piero, pensionato, già tecnico della Face Standard, sentimentalmente legato a sinistra. Siamo in piazza Saffi, nel cuore di Forli, sotto il balcone del Municipio, il balcone di Mussolini che pure Salvini ha conosciuto, acclamato da una folla estasiata. Forlì è già stata espugnata e il centrodestra, è bene ricordarlo, sia alle Politiche del 2018 che alle Europee del 2019 è stata maggioranza, ha superato, mettendo insieme i voti, il Pd infragilito dalla vecchiaia, da questa sua terza età piena di acciacchi. “È un’amministrazione inefficiente, l’unica cosa che la giunta leghista è riuscita a fare è nominare una commissione d’indagine sui servizi sociali forlivesi. Capito? Volevano far divenire Bibbiano anche Forlì. E hanno fatto una corsa per creare il caso, gonfiarlo. Non trovando nulla hanno prorogato i termini dell’indagine. Tutto buono per i giornali”, dice Massimo Marchi, consigliere comunale di Italia Viva, oggi impegnato nel volantinaggio per Bonaccini. “Noi abbiamo un candidato coi fiocchi, il dottor Claudio Vicini, un otorinolaringoiatra che ha visitato tutta Forli e Cesena. Bravissimo. E loro?”.

E loro hanno Salvini, sempre Salvini. “Guarda – dice Roi mentre lasciamo Faenza – il Pd deve ricordarsi di Ortega y Gasset che diceva: ‘Il popolo non pensa, sente’. È l’emozione che conta, la percezione che ti fa cambiare idea, l’ansia conta e non la ragione.

Infatti se tutto funziona bene qui, se la sanità è ai massimi, la disoccupazione ai minimi, la sicurezza governata, i servizi di trasporti efficienti, perchè si vuole cambiare? “Freud insegna che esistono le angosce sorde, immotivate. E se è vero che la cornice è questa, è vero che oggi si hanno meno certezze di dieci anni fa, il futuro si è accorciato, anche gli stipendi. E non c’è nulla di più naturale che scambiare Bonaccini per il grande capitale finanziario che ha mangiato le industrie. Metta poi che il Pd starà pure un po’ sui coglioni, perché è autoreferenziale, sa tutto lui, e allora ecco che l’impossibile si fa probabile”.

Infatti Cindi, ivoriano di 23 anni, senza cittadinanza, forse anche senza permesso di soggiorno, ha la sua bici tappezzata con le facce di Salvini. Perché ti piace? “Perché è bravo”. Bravo in che senso? “Parla bene, si fa capire”. Lo voterai? “Io non posso votare”.

“Vedi il miracolo di Salvini? Questo ragazzo vorrebbe votare il partito che farà di tutto per tenerlo fuori dal seggio”.

Votano più a destra i contadini, i piccoli imprenditori agricoli, i lavoratori dell’indotto, e in Emilia Romagna sono due milioni. Votano più a sinistra i cittadini, altri due milioni e mezzo. “Le Sardine non spostano nulla. C’erano prima e stanno con noi adesso. Ma hanno dato calore, energia, un tonico per un partito floscio, imbalsamato. L’altra volta Bonaccini ha potuto vincere perché nessuno è andato a votare. Questa volta vincerà se tutti andremo a votare”. Piero, altro pensionato: “Si vince, ma l’è dura”. Massimo: “Si vince, ma per un soffio”.

La città delle partite Iva era Carpi, in Italia era la capitale dei liberi professionisti. E tutti votavano Pci, poi Pds, poi Pd. Poi il tonfo. L’economia si reggeva sulle cooperative che sono state piegate dalle multinazionali. Così un fallimento dietro l’altro. E la rete della cooperazione, la colonna vertebrale del Pci, è implosa. Il ceto medio impoverito chiede a Salvini il miracolo: far scomparire i migranti, far scomparire le tasse. E dare bastonate. Così è, se vi pare.

Bibbiano, sì al fish-mob contro la Lega

Un trenino di 600 persone a Ferrara e un’assemblea con 300 abitanti di Bibbiano: le Sardine sono ovunque. A pochi giorni dal voto i pesciolini scatenano il loro potenziale contro la Bestia leghista alla conquista dell’Emilia-Romagna.

Mentre i cittadini del Comune finito al centro dell’inchiesta sul presunto sistema corrotto degli affidi, si confrontavano con Mattia Santori e Youness Warhou sulla necessità o meno di fare un fish-mob in concomitanza con la presenza, a 200 metri, dei leghisti Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni, nel comune estense più di 600 Sardine inscenavano un gigantesco trenino umano contro Stefano Solaroli.

È il vice-capogruppo leghista in Comune finito al centro dello scandalo raccontato dalla trasmissione televisiva Piazzapulita: Solaroli, come testimoniato da un audio, propone un lavoro in Comune alla consigliera leghista dissidente Anna Ferraresi (nel frattempo passata al gruppo misto) in cambio della sua fuoriuscita dal Consiglio. Al grido di “dimissioni” le Sardine hanno attraversato il centro di Ferrara fino alla sede del Comune, dove si stava svolgendo il consiglio: è stata respinta la richiesta delle opposizioni di modificare l’ordine del giorno della seduta e di mettere al primo punto l’odg su Solaroli. Le opposizioni hanno lasciato allora la seduta per protesta.

Dopo un’assemblea pubblica, molto partecipata al teatro Metropolis, è stata confermata anche la manifestazione delle Sardine: giovedì prossimo a Bibbiano ci saranno anche loro. In una piazza adiacente al comizio di chiusura della campagna elettorale della Lega. Un lungo convinto “sì” partito dalla platea, dov’erano presenti circa 300 bibbianesi, ha risposto alla domanda di Mattia Santori, presente alla serata. Una riunione indetta dopo le polemiche degli ultimi giorni sulla piazza davanti al Municipio, contesa tra le Sardine che avevano prenotato da settimane e la Lega che l’ha ottenuta grazie al regolamento che privilegia i partiti politici. “Eravamo pronti a rinunciare, per questo abbiamo voluto chiedere ai cittadini, le persone unite di una comunità sono la migliore risposta, noi vogliamo tutelare questa comunità non metterla in difficoltà”. Anche il movimento ittico spontaneo sta pensando a una chiusura della campagna elettorale, forse al Papeete Beach a Milano Marittima. Le Sardine che tornano al mare. Proprio là dove Matteo Salvini, tra un mojito e una cubista, innescò la prima crisi di governo nata sotto l’ombrellone della storia della Repubblica e che di lì a poco portò alla rovinosa caduta dell’esecutivo giallo-verde. La data non è ufficiale, mancano ancora le autorizzazioni, ma potrebbe essere l’appuntamento cult prima del voto.

“Contattati da un ministro del M5S”: a breve l’incontro

“Stefano Bonaccini non l’abbiamo mai incontrato, è l’unico che neanche per vie traverse ci ha cercato. Esponenti, anche di spicco, dei Cinque Stelle ci hanno contattato, anche se non Luigi Di Maio”.

Dalla piazza evento di Bologna le Sardine hanno rivelato che in questi due mesi di vita sono in tanti ad averli già cercati: una chiacchierata informale in alcuni casi, qualcosa di più per altri. Tutti a parte Bonaccini, candidato al bis per la coalizione di centrosinistra come governatore dell’Emilia-Romagna. Il primo a manifestare, pubblicamente, la voglia di incontrarli è stato il premier Giuseppe Conte: “Quando e se lo vorranno, troveranno un presidente del Consiglio molto disponibile a incontrarli, a confrontarsi con loro, a parlare e a discutere, mi fanno molta simpatia”.

Proprio negli scorsi giorni, dopo un’iniziale ritrosia, Mattia Santori e gli altri pesciolini hanno confermato il reciproco interesse: “Non ci è arrivata alcuna lettera di richiesta, ma sarebbe bello poterci incontrare per raccontargli cosa ci è successo e cosa ci sta succedendo”. Dell’Avvocato tutti sanno, ma ci sarebbero altri politici che premono per interloquire con le Sardine: forse già in settimana un esponente dell’attuale Governo potrebbe incontrarli. In territorio bolognese, dove il gruppo ideatore dei quattro è cresciuto e si è conosciuto, sono in particolare due i politici che hanno stabilito un rapporto con le sardine: Matteo Lepore, assessore comunale alla Cultura e Immaginazione Civica, e Elly Schlein, candidata al consiglio regionale con la lista di sinistra “Coraggiosa” in supporto al candidato dem Bonaccini. Non sono due nomi a caso, rappresentano entrambi quella (spesso difficile e non sempre riuscita) congiuntura tra sinistra e esperienza di governo.

Schlein viene da un’esperienza al Parlamento europeo, dove si è battuta contro le assenze di Matteo Salvini e del Carroccio in commissione per discutere il cambiamento del trattato sulla riforma di Dublino: la riforma necessaria per cambiare la norma in base alla quale le persone sono costrette (salvo certi casi) a chiedere l’asilo nel primo Paese dove arrivano. La lista “Coraggiosa” nasce dalla sua volontà, dopo averci provato (invano) in Europa dove, con coraggio per l’appunto, decise alla fine di non candidarsi: “Ho provato a unire un fronte ecologista e progressista che rispondesse ai nazionalisti e si rafforzasse sulle battaglie che in tanti paesi condividiamo nelle piazze e nelle istituzioni”.

Impresa impossibile, almeno fino a queste elezioni regionali: dentro “Coraggiosa” c’è il candidato del maestro Francesco Guccini, Igor Taruffi, e altre personalità di Mdp, Articolo 1, Sinistra Italiana. Fino all’ultimo momento sono stati in forse anche alcuni consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle, che poi hanno preferito rinunciare alla competizione. Sarà un caso, ma Mattia Santori a latere del grande concerto di domenica, ha bocciato la corsa in solitaria dei grillini alla carica di presidente della Regione: “Personalmente non ci sembra sia stata colta l’opportunità politica di questo momento”.

Matteo Lepore è considerato da molti il futuro sindaco di Bologna: sarebbe il decimo uomo dal 1946 a oggi. Grande comunicatore, vicino a una parte dei centri sociali come Labàs a cui ha concesso uno spazio pubblico. Proprio nella casa nuova, in vicolo Bolognetti, Lepore partecipò a una iniziativa con il sindaco movimentista di Napoli Luigi de Magistris, in cui si lasciò scappare che dopo il Pci degli anni Settanta “in città non c’è più un partito forte”.

Anche alcune esponenti di destra in questi mesi si sono dimostrate, forse solo pubblicamente, interessate alle Sardine: Mara Carfagna e Francesca Pascale. La compagna di Silvio Berlusconi annunciò in un’intervista di essere pronta “a scendere in piazza a Roma con le Sardine”. Ma poi in piazza non si vide. Carfagna, parlamentare di Forza Italia in dissenso con in leader e fondatrice di Voce Libera, dichiarò invece: “Le Sardine? Guardano a sinistra, ma il manifesto è condivisibile in molti punti”.

Di Maio è al bivio: decide se lasciare Guerra interna sul Pd

Ci siamo quasi: per Luigi Di Maio e per tutto il M5S. Da qui a breve, pochissimi giorni o addirittura poche ore, il capo politico deciderà se lasciare o meno la carica di capo politico dei Cinque Stelle. E fuori dalla sua porta c’è un Movimento che sa e aspetta, sfinito. E nell’attesa di fatti definitivi già si ragiona sulla fase di transizione, cioè sulla reggenza di Vito Crimi e degli altri due membri del comitato di Garanzia, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri. Soprattutto, il M5S è già in pieno congresso, diviso sul tema che riempirà gli Stati generali di marzo, la rotta e collocazione politica da qui a medio termine.

La battaglia sulla rotta

Deve scegliere da che parte stare il M5S, se abbracciare definitivamente il Pd (o ciò che ne prenderà il posto) oppure se ripartire dall’autocrazia, o meglio “se tornare al 2013” come scandisce un big che a sinistra proprio non vuole andare. Quasi bellico: “Dobbiamo tornare al Movimento che stava da solo, recuperare quello spirito”. Molto più simile al M5S “ago della bilancia” di cui ha sempre parlato Di Maio. Ma Beppe Grillo, il Garante, e Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio, vogliono altro, stare in un nuovo centrosinistra. E come loro tanti ministri. Invece diversi esponenti di spicco sui territori remano in direzione opposta. “C’è una contrapposizione tra molti del Movimento di governo e quello a livello locale” sostiene un veterano. Di certo questa è la faglia attorno a cui si stanno organizzando e contando le truppe. Con alcuni dimaiani di rango che hanno già giurato di volersi sottrarre all’abbraccio sempiterno con i dem, dalla viceministra all’Economia Laura Castelli a Jacopo Berti, capogruppo in Veneto e membro del collegio dei probiviri. Ma da quella parte del fiume stanno anche il viceministro allo Sviluppo economico, il lombardo Stefano Buffagni, e il big che per ora sta a guardare dall’Iran, Alessandro Di Battista. Dall’altra, il presidente della Camera Roberto Fico, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, quello allo Sport Vincenzo Spadafora (dimaiano eterodosso, in questo). Fino al titolare del Mise, Stefano Patuanelli, che ieri ha ribadito qual è il cuore della questione: “Il Movimento deve fare un momento di analisi del perimetro politico in cui agisce, e da questo punto di vista io darò il mio contributo”. Sillabe da mozione, dal 5Stelle più citato come possibile sostituto di Di Maio. E infatti Patuanelli non tira indietro la gamba: “Sta a Luigi fare le scelte che vorrà fare, non è certamente la questione della presenza del capo politico ciò di cui dobbiamo parlare negli Stati Generali che faremo a marzo. Secondo me c’è bisogno di una leadership forse più diffusa”. Quindi basta al capo solitario.

Il leader e l’esigenza di una nuova fase

Basta alla gestione del Di Maio che deve solo decidere: se e come lasciare, oppure se e come continuare. Perché le modalità, perfino le sfumature conteranno, soprattutto ora che lo stesso leader ammette l’esigenza di cambiare, di una nuova fase. Ha riconosciuto che “un capo da solo non ce la può più fare” e quindi ragiona di organi collegiali, tanto da aver incontrato la sindaca di Torino Chiara Appendino per includerla nel progetto. Non potranno bastare le decine di facilitatori, i pilastri della nuova struttura voluta dal capo, che ieri si è formalmente completata con la votazione sulla piattaforma web Rousseau dei referenti regionali. I risultati verranno resi noti oggi. E gli ufficiali sui territori dovranno subito sbattere con assemblee regionali dilaniate sempre su quello, su dove e con chi andare. È successo sabato in Veneto, con D’Incà a chiedere un voto su Rousseau per decidere le alleanze, e i maggiorenti locali compatti contro ogni accordo con i dem. Ma volano stracci un po’ ovunque, dalla Liguria alla Campania, dove il ministro dell’Ambiente Sergio Costa rimane un’opzione possibile per tenere assieme dem e Movimento. “Certi 5Stelle di governo fanno già accordi sotto banco con il Pd” è l’accusa che rimbalza. E ovviamente la replica dei filo-dem è che “alcuni di noi hanno tanta, troppa nostalgia della Lega”. Tossine da battaglia congressuale, e in fondo è normale, è la politica.

Cercansi disperatamente regole per marzo

Conta di più l’argomento delle regole, perché gli Stati generali ad oggi non hanno neppure una sede, figurarsi norme definite. “Stanno ancora in alto mare, e mancano meno di due mesi” è la diffusa preoccupazione. Si sta discutendo di costruire un percorso sulla piattaforma Rousseau, con votazioni periodiche sui temi da inserire nell’assemblea. Ma è tutto ancora nebuloso. Danilo Toninelli, il facilitatore a cui Di Maio ha delegato l’organizzazione della tre giorni, è subissato di suggerimenti e pressioni. Mentre sul filo Roma-Milano, quello tra lo staff di Di Maio e l’associazione Rousseau, la creatura di Davide Casaleggio, si lavora a un metodo e a linee guida: condivisi, perché nonostante tutto il ministro e Casaleggio sembrano ancora allineati.

Espulsioni, la bomba sul governo

Nel frattempo mentre il capo politico si arrovella i probiviri stanno completando le sentenze sui 33 grillini sotto “processo” interno per le mancate restituzioni. Se tutto va come previsto, i responsi arriveranno domani. Anche se da Roma, dicono, stanno chiedendo di rallentare. La certezza è che c’è un senatore a un passo dall’espulsione, Alfonso Ciampolillo, mentre è in bilico il suo collega Mario Michele Giarrusso. Non a caso Ciampolillo ieri ha provato la mossa, con una lettera ai probiviri in cui sostiene di non aver mai versato nel 2019 “come forma di protesta interna” e di essere “intenzionato a pagare le quote di mia spettanza ma solo dopo aver chiarito preliminarmente” i nodi politici. “Chiedo di essere sentito” conclude l’eletto pugliese. Ma forse è tardi. Mentre si parla di 15-20 sospensioni in arrivo. E non è affatto un dettaglio, perché i sospesi finiranno tutti nel Gruppo misto. E recuperarli sembra complicato in questo quadro. Un problema, il milionesimo, per il M5S, e chiaramente anche per il governo. In eterna sofferenza, per le eterne spine a 5Stelle.

Ecco tutte le differenze con il caso della Diciotti

Sedici agosto 2018: il Diciotti, pattugliatore della Guardia Costiera, dopo aver soccorso 177 naufraghi, resta in mare fino al giorno 25, quando ottiene finalmente l’autorizzazione a sbarcare. Il Viminale attende cinque giorni per rilasciare il Place of safety, il cosiddetto Pos, e l’accusa di sequestro di persona, rivolta a Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno, riguarda proprio quei 5 giorni.

25 luglio 2019: la Gregoretti della Guardia Costiera ospita 135 naufraghi. Resta in mare fino al 31 luglio. Il Viminale attende tre giorni prima di rilasciare il Pos e l’accusa di sequestro di persona, rivolta ancora una volta a Salvini, anche in questo caso riguarda i tre giorni in questione.

In entrambi i casi le stesse accuse. In entrambi i casi, il sequestro di persona, si realizza con il ritardo del Viminale nell’indicare il luogo in cui sbarcare. In entrambi i casi, infine, il ritardo viene collegato al raggiungimento di un accordo, in ambito europeo, per la redistribuzione dei naufraghi. Eppure le due vicende non risultano identiche. Vediamo perché.

Differente, innanzitutto, è il contesto politico e anche il suo sviluppo.

Quando il caso Diciotti approda in Parlamento la Lega è al governo con il M5S. Sia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sia il suo vice Luigi Di Maio, sia l’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, scrivono alla Giunta per le autorizzazioni e chiariscono d’aver condiviso la scelta del Viminale di lasciare sulla nave i naufraghi in attesa di un accordo con gli altri paesi Ue. Il processo sfuma.

Quando arrivano le accuse per il caso Gregoretti la Lega è all’opposizione. E Di Maio precisa: “Il caso Diciotti fu un atto di governo, l’Ue non rispondeva, servì ad avere una reazione. Quello della Gregoretti fu un atto di propaganda, il meccanismo di redistribuzione era già rodato”. Intervistato da Peter Gomez nel Tg Sono le Venti, in onda sul canale Nove, ieri Conte ha dichiarato che il segretario della Lega “aveva fatto appena approvare il decreto Sicurezza bis che rafforzava le sue competenze”. “Salvini – spiega Conte – ha rivendicato pubblicamente come una sua competenza specifica il se e quando far sbarcare le persone a bordo della Gregoretti. Circa il mio ruolo sull’indirizzo generale, io ci sono, anche per la circostanza specifica di un mio coinvolgimento riguardo alla redistribuzione dei migranti in Europa”. Non è una sfumatura.

Nella sua memoria difensiva, Salvini allega una serie di email intercorse tra lo staff del Viminale e quello di altri dicasteri, nei giorni del caso Gregoretti, che riguardano proprio le trattative con l’Ue per la redistribuzione dei naufraghi. Documenti che dimostrano la condivisione del governo nella strategia diplomatica. Non provano alcuna manifesta corresponsabilità nel tenere i naufraghi in mare per i tre giorni contestati. La vicenda – ha gia sostenuto Palazzo Chigi – non fu trattata in Consiglio dei ministri. Dalle cronache dell’epoca, comunque, non risultano espliciti inviti rivolti da Conte a Salvini affinché autorizzasse lo sbarco. Di Maio polemizzò sul trattamento riservato ai nostri militari: “L’Italia non può sopportare nuovi arrivi di migranti, noi abbiamo dato come Paese e quei migranti devono andare in Europa, però non si trattino i nostri militari su quella nave come dei pirati”. Ed ecco invece la dichiarazione di Toninelli quando la Gregoretti ormeggia al porto di Augusta, il 28 luglio, due giorni prima dello sbarco, quindi nel pieno del sequestro di persona contestato a Salvini: “Ha ormeggiato stanotte al porto di Augusta, come è normale che sia per una nave militare. Ora la Ue risponda, perché la questione migratoria riguarda tutto il Continente”.

Più polemico Di Maio. Più accondiscendente Toninelli. Argomenti utili per un’analisi politica, ma non penale, poiché la responsabilità penale è personale e l’autorizzazione spettava al Viminale. Non a loro.

Differente è anche “l’origine” del fatto storico, sebbene Diciotti e Gregoretti intervengano entrambe in acque maltesi. Solo nel primo caso, però, si assiste a un braccio di ferro su chi deve coordinare il soccorso. Nel secondo, secondo i giudici, il Viminale aveva ancor più chiaramente “l’obbligo di concludere la procedura” e aver omesso di indicare un porto sicuro “dietro precise direttive del ministro degli Interni” ha “determinato una situazione di costrizione a bordo”. E anche a bordo la situazione è differente.

Il “Diciotti” – si legge negli atti – è “un natante scelto e attrezzato per operazioni di soccorso in mare”. La Gregoretti è “destinata all’attività di vigilanza pesca e non è attrezzata per questo tipo di eventi”. E così i 131 naufraghi, dal 27 al 31 luglio, restano sul ponte di coperta con temperature che toccano i 35 gradi. Casi di scabbia accertati: 20. Per 131 persone, un solo bagno a disposizione. I minori sbarcano prima, sì, ma per disposizione della Procura minorile.