Ora nel Pd cresce la paura della “tragedia emiliana”

Al Nazareno sono i giorni della grande paura. I sondaggi che circolano nel quartier generale del Pd sul risultato dell’Emilia-Romagna sono preoccupanti. Perché Stefano Bonaccini è ancora sopra Lucia Borgonzoni, ma nel voto di lista la Lega è nettamente avanti. E dunque, l’attuale presidente della Regione può vincere solo se la percentuale del numero dei votanti è alta, e dunque il voto disgiunto ha un peso notevole. Da notare che nel 2014 le Regionali registrarono solo il 44% di affluenza. Ma allora (era il primo anno di Matteo Renzi a Palazzo Chigi) nessuno si sarebbe sognato di considerarlo un test nazionale.

C’è una sola certezza in quel che accadrà lunedì prossimo se la Borgonzoni diventerà governatrice: Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia andranno compatti da Sergio Mattarella a chiedere di andare a votare. Poi, potrebbe esserci una verifica parlamentare.

Per quel che riguarda il Pd, la strategia è meno definita, ma gira comunque intorno a un punto fermo: perso lo zoccolo duro del potere rosso, non ha nessun senso lasciare pure il governo, che sarebbe più o meno l’unica cosa che rimane. Anzi, i dem potrebbero approfittarne per chiedere un rimpasto.

Certo, nella lettura preventiva che si fa al Nazareno, proprio la scelta di dare vita al Conte 2 ha caricato l’Emilia di quel significato che potrebbe portare alla sconfitta. Ma a questo punto, il danno è fatto, meglio evitare danni ulteriori.

Mentre dunque si materializza il fantasma di un vero e proprio incubo, il Pd cerca di elaborare piani. Il primo riguarda il partito: al netto delle sue intenzioni personali, le dimissioni di Nicola Zingaretti non sono all’ordine del giorno. Non fosse altro perché nessuno saprebbe come sostituirlo oggi. E il gruppo dirigente che lo puntella ha tutte le intenzioni di lasciarlo al suo posto, scaricandogli addosso anche tutte le responsabilità di una fase difficile: un po’ perché nessuno ha voglia di gestire la sconfitta; un po’ perché potrebbe essere l’inizio di una slavina che travolge tutto. Ci sono le Regionali di primavera, il congresso annunciato dallo stesso Zingaretti (la minoranza ex renziana di Luca Lotti e Lorenzo Guerini ha tutte le intenzioni di prendersi il partito attraverso un proprio candidato, che allo stato è Giorgio Gori); il governo.

Proprio il governo, in realtà, è al centro dei ragionamenti. Tra gli elementi che hanno complicato la corsa di Bonaccini c’è la scelta dei Cinquestelle di presentare un proprio candidato: non solo i voti mancanti di M5S potrebbero essere determinanti, ma la percentuale che prenderanno sarà centrale negli scenari che si fanno. Se sarà particolarmente bassa, il Pd è pronto ad addossare ai colleghi di governo le colpe principali.

Ha detto ieri a Repubblica Graziano Delrio che non è in dubbio Palazzo Chigi, ma che qualcosa dovrà cambiare. Il Pd è pronto a chiedere un rimpasto, per ottenere più ministri dei Cinque Stelle. Si racconta che lo stesso capogruppo dem e il vicesegretario Andrea Orlando aspirino a un ministero. Si vedrà. Anche perché le valutazioni di Zingaretti & C. contano fino a un certo punto rispetto all’eventuale forza dell’onda verde.

Comica finale: digiuno per Salvini a processo

Alle cinque della sera c’è tempo per un’ultima trovata. La Lega si mette a raccogliere le adesioni al digiuno di solidarietà con Matteo Salvini “che rischia la galera per aver difeso la Patria”. Proprio mentre si riunisce la Giunta per le autorizzazioni a procedere dove di lì a poco, i senatori del Carroccio decidono di mandare a processo il loro Capo per la gestione dei migranti trattenuti a bordo della nave Gregoretti. E questo nonostante il resto del centrodestra voti (inutilmente) per tentare di garantirgli il salvacondotto, mentre la maggioranza diserta la seduta per protesta.

Alla fine, la giornata che segna picchi di dadaismo ha un unico vincitore: Salvini. Che infatti esulta dall’ennesimo palco dell’ennesimo comizio in Emilia-Romagna in un tourbillon di cambi di registro e d’abito degni del miglior Fregoli: se alla mattina giura di essere pronto a finire in gattabuia come il patriota Silvio Pellico, sul finir del giorno prova a vestire i panni (altrettanto improbabili) del Mahatma Gandhi, divenuto padre dell’India liberata a suon di satyagraha non violenti.

Certo è che il bottino politico portato a casa dal capo della Lega, più esperto di salami che di digiuni, è ghiotto. Perché ha ottenuto esattamente quel che voleva: che la Giunta per le autorizzazioni a procedere dicesse sì al processo contro di lui prima delle elezioni del 26 gennaio a cui arriverà da martire. Di più: da patriota in odore di santità.

E così quando la maggioranza ha scelto di disertare in blocco la Giunta del Senato per non regalargli questo vantaggio (che potrebbe essere decisivo per espugnare l’Emilia-Romagna), il Capitano ha deciso di fare da sé, ordinando ai suoi l’impensabile fino a 48 ore fa: votare loro stessi il via libera ai magistrati di Catania che lo accusano di sequestro aggravato di persona.

I cinque leghisti infatti si sono presentati eccome in Giunta per dire sì al processo a Salvini anche a costo di spaccare il centrodestra. Perché i quattro senatori di Forza Italia insieme all’unico rappresentante del partito di Giorgia Meloni hanno invece confermato il loro no all’autorizzazione a procedere: il pareggio ha determinato la bocciatura della relazione di Maurizio Gasparri che invece chiedeva alla Giunta di garantire l’impunità a Salvini. Il leghista, incassata la condanna (a uso elettorale), ha naturalmente puntato subito agli occhi degli avversari. E in particolare del partito del governatore uscente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, in corsa contro la “sua” Lucia Borgonzoni: “Quelli del Pd non hanno neanche la faccia di difendere la loro idea. Vogliono mandarmi a processo e decidere dove, come e quando” ha detto riferendosi alla decisione di disertare la Giunta.

La maggioranza prova a reagire, sostenendo che al Senato ci sono state delle forzature tali da giustificare la scelta. E che soprattutto il voto finale su Salvini si terrà il 17 febbraio, quando a decidere sarà l’aula di Palazzo Madama. Ma sa perfettamente di aver pagato un prezzo salato alla Lega da quando, giorni fa, ha chiesto il rinvio del voto in Giunta dopo il 26 gennaio.

Una scelta difficile da far comprendere agli elettori che Salvini sintetizza in maniera brutale: “Hanno paura, sanno che domenica si vota”. E infatti il leghista infierisce e rilancia: dice che in caso di processo trascinerà in tribunale Conte e Di Maio. Gli ex alleati di governo rispondono, ma senza fargli male. Alla fine, Gianluca Castaldi dei 5Stelle si toglie almeno una soddisfazione a proposito del digiuno leghista. “In 30 anni hanno mangiato troppo: ci voleva”. Una magra soddisfazione.

Silvio Pelvico

Coerente come un budino sfatto, tetragono come un sacco vuoto, lineare come un arabesco, Salvini ha deciso – bontà sua – di farsi processare per il presunto sequestro della nave Gregoretti, dopo aver chiesto per due mesi di non essere processato. L’opposto del caso della Diciotti, l’altra nave della Marina Militare italiana bloccata per giorni in un porto italiano: prima voleva essere processato, poi non più. Ora, pretendere un po’ di fermezza da un politico è il minimo. Ma pretenderla da un cazzaro è inutile. Anche perché ha allevato, sui social e in piazza, una genia di cazzari che parlano di tutto con la sua stessa enciclopedica incompetenza. E lo applaudono a prescindere, qualunque cosa dica. “Non processatemi!”: clap clap. “Processatemi!”: clap clap. “Mangio”: clap clap. “Digiuno”: clap clap. Anche le tragedie, appena passano dalla sua bocca, diventano farse. Ma la gente stenta ad accorgersene, perché i media continuano a prenderlo sul serio. E lo farebbero anche se indossasse la divisa da clown, con la pallina rossa sul naso.

Ieri, per dire, s’è paragonato a due arrestati famosi: Giovanni Guareschi e Silvio Pellico (ma voleva dire Pelvico, visto il girovita che si ritrova). E ha annunciato che scriverà Le mie prigioni 2.0. Poi, al verbo “scrivere” applicato a sè medesimo, gli è scappato da ridere: “Farò un nuovo format televisivo”. Come Corona. Naturalmente il rischio che venga arrestato è pari a zero. La custodia cautelare, per un parlamentare, richiede l’autorizzazione del Parlamento (che la negherebbe unanime, per non regalargli altri martirii). E comunque i giudici non l’hanno mai chiesta. Per arrestare uno prima del processo, occorrono, oltre ai gravi indizi di colpevolezza, le esigenze cautelari. Cioè almeno uno dei tre pericoli canonici: fuga all’estero (purtroppo altamente improbabile), inquinamento delle prove (e qui non c’è nulla da inquinare: i fatti, cioè il blocco della Gregoretti nel porto di Augusta, sono avvenuti alla luce del sole, in mondovisione) e reiterazione del reato (impossibile perché l’imputato non è più ministro dell’Interno). Quindi la galera potrebbe toccargli solo in caso di condanna definitiva, per giunta a una pena superiore ai 4 anni: due eventualità leggermente più remote del ritorno di Renzi a Palazzo Chigi, anche se la presenza dell’avvocata Bongiorno come difensore di Salvini potrebbe essergli fatale. E comunque, casomai, se ne parlerebbe tra 8-10 anni, quando nessuno si ricorderà più di quel cazzaro che, per misteriosi motivi, nel 2020 superava il 30% dei consensi. Ma a quel punto ci toccherà proteggerlo dalla furia degli ex leghisti armati di cappi, roncole e monetine.

Schiavi nei campi e mafia: cosa c’è dietro il nostro cibo

Come consumatori abbiamo ormai imparato a dare un’occhiata alle etichette dei prodotti alimentari, per evitare di acquistare, ad esempio, kiwi con venti ore di aereo alle spalle. Ma se quella del chilometro zero nel piatto è una battaglia che comincia a essere almeno combattuta, quella dello sfruttamento zero sulle nostre tavole è una questione di cui nulla sappiamo, assediati come siamo dal martellante marketing del sottocosto, diffuso da spot che regalano un litro di passata anche a mezzo euro. A colmare questa drammatica mancanza di informazioni arriva un libro di inchiesta analitico e insieme struggente, Lo sfruttamento nel piatto. Quello che tutti dovremmo sapere per un consumo consapevole (Laterza), di Antonello Mangano. Un giornalista che racconta come sia “ più facile indagare sulla mafia che sulla frutta”. Anche se, come il libro racconta, parlare di frutta significa proprio parlare di mafia, visto che ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra sono dentro la filiera, dalle cooperative alla logistica. Il racconto comincia da Rosarno per finire al nord d’Italia, perché la schiavitù non ha latitudine. Anche se nei campi ci sono anche italiani, la principale arma di chi sfrutta i raccoglitori si chiama permesso di soggiorno: più questo è a termine o viene negato – ad esempio da leggi restrittive – più aumenta la platea delle persone sfruttabili e ricattabili, che vivono in condizioni impensabili: baracche di lamiera, edifici abbandonati. Stranieri derisi, aggrediti, anche solo per gioco.

A Rosarno, dove si raccolgono arance che vanno a finire sulle tavole di arabi, russi, americani e tedeschi, è facile morire, impiccati per disperazione, investiti di notte in bici, bruciati dormendo, come hanno riportato le cronache. Ma si muore anche raccogliendo pomodori, altra filiera a rischio sfruttamento. Alla domanda su come mai le grandi aziende della grande distribuzione, così come le multinazionali che utilizzano, ad esempio, succo di arance per le loro bevande – dalla Coca Cola alla Nestlé -, non adottino controlli stringenti, il libro risponde con una parola: lavoro in “subappalto”. Perché il lavoro esternalizzato, e a chiamata, è flessibile – può essere utilizzato quando la frutta rischia di marcire-, è a basso costo e soprattutto non porta rogne sindacali, mentre le aziende si difendono dicendo che non possono conoscere tutta la filiera. Non tutto, per fortuna, è sfruttamento senza difese. Mangano racconta di braccianti divenuti sindacalisti, così come di lotte e scioperi contro i colossi della grande distribuzione. Ma la differenza possiamo farla anche noi: con il boicottaggio consapevole di alcuni prodotti e l’acquisto attraverso reti etiche, come i gruppi di acquisto. Servirebbe però anche un’etichetta etica e trasparente, che indicasse la scomposizione del prezzo nella filiera e, soprattutto, uno statuto dei lavoratori almeno europeo. Perché la globalizzazione dello sfruttamento è storia, quella dei diritti è ancora da scrivere.

“No” al poltronificio sardo: il capo dell’amministrazione se ne va

L’assessorato degli Affari generali e Personale della Regione Sardegna non ha più un direttore generale. Le dimissioni eccellenti di Carmine Spinelli, ex responsabile del dipartimento minoranze linguistiche di Palazzo Chigi e da appena tre mesi ai vertici dell’apparato amministrativo isolano, stanno scatenando un terremoto silenzioso in Regione. Spinelli ha sbattuto la porta subito dopo Natale, a pochi giorni dall’approvazione della leggina “salva-nomine” confezionata in tutta fretta dopo che la giunta Solinas era stata sommersa dalle critiche per i curricula opachi di alcuni direttori generali scelti mesi fa e riconfermati a dicembre dall’esecutivo. Grazie a questo escamotage, che dilata a dismisura i criteri per l’accesso ai ruoli apicali dell’amministrazione regionale, l’esecutivo ha potuto deliberare l’ennesima proroga fino al mese di giugno per le nomine dei 21 dg regionali in scadenza, fra cui spicca quella dell’ingegner Antonio Belloi, finito ai vertici della Protezione civile isolana senza essere mai stato dirigente ma solo responsabile dell’associazione dilettantistica sportiva dei Vigili del Fuoco a Nuoro. Una proroga che non sarebbe stata condivisa da Spinelli, che prima di andar via avrebbe negato la sua firma in calce all’atto.

Ma fra i motivi dell’addio dell’alto dirigente romano ce ne sarebbe anche un altro, ben più spinoso per la giunta Solinas: non soltanto la Salva nomine, ma la stessa deliberazione di Giunta con cui il 18 dicembre scorso sono stati prorogati i 21 dg “a scadenza” sarebbe illegittima, perché in palese contrasto con la normativa nazionale che prevede una durata di non meno di 3 anni per gli incarichi apicali. L’eccezione alla norma generale sarebbe ammessa in virtù del cantiere aperto sul complesso ddl di riforma della Regione, depositato in Giunta il 3 ottobre scorso e non ancora esitato dal Consiglio Regionale. Una Riforma di cui però si fatica a trovare traccia: sul sito della Regione Sardegna alla voce “Deliberazione della Giunta Regionale n. 39/17 del 3 ottobre 2019” il testo non è cliccabile e dai riscontri sulle richieste di accesso agli atti avanzate dalle opposizioni innanzi alla segreteria generale dell’Aula il testo della Riforma risulterebbe “non pervenuto”. “I casi sono due: o si tratta di un falso o di un’omissione grave del diritto di accesso agli atti prodotti dalla Giunta”, denuncia il capogruppo dei Progressisti Francesco Agus. Un vulnus che a cascata porterebbe alla nullità della proroga dei dirigenti e conseguentemente alla paralisi dell’apparato amministrativo regionale: “Chiunque a quel punto potrebbe impugnare qualunque atto prodotto dagli assessorati regionali perché sottoscritto da un dirigente nominato illegittimamente”.

In questo scenario si registra un’altra singolare scelta del Presidente della Regione, che getta ulteriore luce sulle dimissioni di Spinelli: aver tolto la competenza al servizio legale circa l’analisi tecnico normativa, obbligatoria per legge, per trasferirla in capo alla Presidenza della Regione. Il controllato è diventato controllore di se stesso.

Ma anche il Papa è contrario al matrimonio per i sacerdoti

L’ennesima puntata del tormentone sui I due papi è terminata. La disperata marcia indietro compiuta da monsignor Gaenswein non ha cambiato di una virgola la sostanza di quello che è avvenuto e cioè che Joseph Ratzinger ha deciso di entrare, con tutto il suo peso della sua autorevolezza spirituale e politica, nel confronto in atto dentro la Chiesa sul tema del futuro dell’ordinazione sacerdotale. L’ex papa lo ha fatto mostrando di aderire completamente alle tesi dei “cattoapocalittici”, ovvero di quella parte della gerarchia e del popolo cattolico che considera inaccettabile, su questo come su altri terreni, anche la più minuscola innovazione organizzativa. Concedere la possibilità, pur in via del tutto eccezionale, ai vescovi dell’Amazzonia di ordinare sacerdoti alcuni diaconi sposati è ritenuto da costoro il “principio della fine” per il celibato del clero cattolico, la minuscola slavina che innescherebbe la valanga di una miriade di richieste analoghe da molte altre parti del mondo. Da qui la supplica rivolta a Francesco di fare muro, di dire no a questo cambiamento.

A tinte completamente invertite, dal nero profondo della disperazione al rosso vivo della gioia incontenibile, quello immaginato dagli ultraconservatori è lo stesso scenario dipinto dagli ultraprogressisti. Questi ultimi sperano proprio che accada quel che i conservatori radicali temono: cioè che dall’Amazzonia si propaghi dentro la Chiesa un ‘ondata di rinnovamento che giunga a rendere il celibato ecclesiastico, sul modello delle chiese ortodosse, una mera opzione. L’occasione del prossimo scontro è già nota: sarà il sinodo che la chiesa tedesca si appresta a celebrare tra poche settimane avendo in agenda, tra gli altri, proprio il tema rovente della revisione del celibato.

In questa situazione è obbligatorio chiedersi cosa pensi papa Francesco, quale sia l’orientamento che il sovrano cattolico ha maturato rispetto a questo conflitto. In molti danno per scontato un profondo conflitto di opinioni tra lui e Ratzinger. Io credo che la differenza esista, ma che non sia così acuta come appare in tante drammatiche rappresentazioni giornalistiche.

Tra poche settimane leggeremo probabilmente il documento che il papa avrà prodotto sul tema. Nel frattempo possiamo fare però qualche congettura. Esattamente un anno fa, nel gennaio 2019, nel corso di una conferenza stampa in aereo, un giornalista chiese a Francesco se ritenesse possibile, per il futuro, aprire ai preti sposati. Il papa argentino rispose che quella domanda gli faceva venire alla mente una frase di Paolo VI: “Preferisco dare la vita che cambiare la legge sul celibato”. E aggiunse che riteneva il celibato un “dono per la chiesa” e che era assolutamente contrario a renderlo una mera opzione. Qualche eccezione poteva essere pensata, concluse Bergoglio citando le “isole del Pacifico”, per dei posti sperduti e remoti, dove fosse impossibile disporre di un numero adeguato di preti celibi e risultasse dunque pregiudicata la possibilità per i fedeli di accedere con regolarità all’eucaristia. In questi luoghi, e solo in questi, potrebbero essere forse in futuro ordinati preti, ma con facoltà e poteri fortemente ridotti, degli adulti sposati. Questa è esattamente la situazione dell’Amazzonia, un luogo dove non è pensabile che un prete dica messa in due parrocchie, perché la distanza tra l’una l’altra è di migliaia di chilometri.

Come si può facilmente costatare, tra i due papi (e tra i diversi settori della gerarchia) non sembra esistere in realtà una distanza incommensurabile (quella che invece pare sussistere con la sinistra interna). Entrambi sono a favore del mantenimento del celibato obbligatorio del clero. Le differenza sono per così dire tattiche e non strategiche, di opportunità e non ideologiche. Se anche accogliesse l’indicazione che nel frattempo è provenuta dalla stragrande maggioranza dei partecipanti al Sinodo per l’Amazzonia e concedesse ai vescovi di quella regione di ordinare sacerdote (casomai con facoltà ridotte e in via sperimentale) qualche uomo sposato, Bergoglio, a meno che non abbia cambiato idea in questi dodici mesi, non aprirebbe nel modo più assoluto al celibato opzionale. Per questa ragione è anche assai probabile che egli sia disposto a opporre una decisa resistenza dinanzi a una richiesta analoga proveniente dalla Germania. Non esiste nessun automatismo per il quale quello che viene concesso in un’area molto peculiare come l’Amazzonia debba essere garantito anche agli abitanti di una delle terre più densamente popolate al mondo. Per risolvere il problema del deficit di clero in Europa esistono molte altre vie che possono essere tentate: l’importazione di clero dal secondo e terzo mondo, la chiusura di alcune chiese e la concentrazione del numero sempre più ridotto di fedeli in poche grandi parrocchie, per le quali serva meno personale clericale. E così via.

Lo abbiamo già scritto più volte: abolire l’obbligatorietà del celibato significa cambiare radicalmente la forma della chiesa cattolica e di conseguenza accettare la possibilità di scismi, divisioni, lacerazioni molto più profonde di quelle viste in questi giorni. Possiamo sbagliarci, ma non ci sembra che papa Francesco, giunto a questo punto del suo pontificato, ne abbia né la forza né la volontà.

Eco–crisi, sos tedesco: “Lavoratori a rischio”

La transizione verso la mobilità elettrificata costa. Alle aziende, sotto forma di investimenti ingenti e certi a fronte di guadagni che non lo sono. Ma anche ai lavoratori, che rischiano di perdere il proprio posto nel passaggio dal termico all’elettrone. Quando poi l’allarme viene dalla “grande” Germania, che come leggete qui accanto continua a trainare le vendite di auto in Europa, c’è da prestare la massima attenzione. Secondo il quotidiano Handelsblatt, la road map verso i veicoli a batteria rischia di costare quasi la metà dell’attuale forza lavoro: oltre 400 mila licenziamenti in dieci anni all’industria automotive tedesca, di cui 90 mila nei reparti di sviluppo e produzione dei motori elettrici e delle trasmissioni. Perché questi ultimi, essendo tecnicamente meno complicati rispetto a quelli a combustione interna, necessitano di minore apporto lavorativo. E c’è chi ha già cominciato a organizzarsi, come Psa: Opel, che fa parte del gruppo francese, licenzierà 4.100 operai in Germania, e non è certo peregrino preoccuparsi per la sorte dei loro omologhi negli stabilimenti italiani di Fca, visto che il 2020 sarà l’anno della fusione tra le due aziende. Insomma, c’è da correre ai ripari. Lo stanno facendo i lavoratori tedeschi, il cui sindacato IG Metall ha incontrato a Berlino le associazioni di categoria nonché i vertici politici: il governo Merkel ha assicurato pieno appoggio e misure di sostegno tempestive. Sarebbe il caso di cominciare a pensarci anche dalle parti di Roma.

Il “Piano S” di Kia: 25 miliardi di dollari in 5 anni

I coreani di Kia si muovono, e lo fanno come al solito a tutto tondo: elettrificazione, guida autonoma, servizi di mobilità, ma anche ottimizzazione delle attività industriali. Tutto racchiuso dentro la strategia che prende il nome di “Plan S”, illustrata la scorsa settimana nel corso di un incontro con analisti e azionisti a Seul, e che vedrà impegnata la casa coreana per i prossimi 5 anni. Un ruolo di primo piano, come ovvio, lo gioca l’elettrone. Perché l’ambizione è quella di dare il via ad una transizione che traghetti l’azienda dai motori termici, comunque fondamentali per i profitti e nei Paesi in via di sviluppo, verso un futuro a batteria. A tale proposito, da Seul fanno sapere che il prossimo anno debutterà un inedito modello 100% elettrico: il primo di un “pacchetto” di 11 veicoli a emissioni zero, in rampa di lancio fino al 2025. L’obiettivo è quello di venderne mezzo milione all’anno, più un milione di “modelli eco–friendly” come si legge nella nota ufficiale, tra cui ibridi e con altre tecnologie verdi. Se messo in atto correttamente, i top manager coreani si augurano che questo piano possa fruttare al marchio una quota mondiale del 6,6% di vendite di EV e del 25% di veicoli a basse emissioni. L’altro fronte è quello della tecnologia, con impulsi su ricerca e sviluppo della guida autonoma. Ma soprattutto quello dei servizi: e–commerce, car sharing, e nuove soluzioni di mobilità urbana, con prodotti ad hoc. Per l’implementazione del “Plan S”, Kia ha previsto investimenti per 25 miliardi di dollari nel prossimo quinquennio, che dovrebbero contribuire a centrare anche l’obiettivo principale dell’azienda: raggiungere un margine di profitto operativo del 6%.

L’anno della svolta green Auto elettrica: minaccia o risorsa?

Il mercato europeo dell’auto l’ha spuntata all’ultimo: sul computo dello scorso anno ha pesato il balzo del 21,4% fatto registrare a dicembre, generato dal pressing delle case e dei concessionari per smaltire vetture con emissioni di CO2 che ne avrebbero compromesso la vendita nel 2020. Pertanto, il 2019 ha chiuso a quota 15,8 milioni di vetture, in crescita dell’1,2%, a un soffio dai livelli ante-crisi del 2007, quando si raggiunsero 16 milioni di immatricolazioni. Quasi 3/4 delle vendite derivano da cinque Paesi: Germania, +5% sul 2018 e 3,6 milioni di auto (miglior risultato degli ultimi 20 anni dopo quello del 2009 scaturito, però, grazie ai bonus aziendali); Regno Unito, in discesa del 2,4% a 2,3 milioni di unità, a causa della demonizzazione del diesel e delle incertezze per la Brexit; Francia, +1,9% e 2 milioni di registrazioni, seguita dall’Italia, +0,3% a 1,9 milioni di auto. Infine la Spagna, che archivia l’anno con un calo del 4,8% e 1,25 milioni di vetture vendute.

Secondo Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor, “il mercato dell’auto dell’area Ue+Efta chiude il 2019 senza infamia e senza lode, mentre il 2020 si presenta con notevoli difficoltà essenzialmente per le ulteriori restrizioni sulle emissioni di CO2 e per il persistere degli effetti negativi della demonizzazione del diesel”. Mentre per BloombergNef, divisione del colosso dell’informazione economica che si occupa della transizione energetica, il 2020 sarà “l’anno della scossa” nel mondo, dove si venderanno due milioni e mezzo di veicoli elettrificati (ibridi ed elettrici), il 20% in più rispetto al 2019. Una crescita promossa soprattutto dal Vecchio Continente, che potrebbe fare un cospicuo salto in avanti e accorciare le distanze sul colosso cinese, che rimarrebbe comunque il primo per produzione e vendita delle auto a batteria.

Due i motivi che suggeriscono l’ipotetico scenario di cui sopra: il primo è che, salvo ripensamenti, il governo cinese non rinnoverà gli incentivi alle auto a batteria e ciò peserà negativamente sulle immatricolazioni. Il secondo è l’introduzione in Europa, da gennaio, di più severi limiti alle emissioni, che dovrebbe fungere da volano per le vendite di modelli elettrificati.

Quindi, la richiesta per i modelli 100% elettrici potrebbe salire del 60% e portare a quota 800 mila le immatricolazioni 2020 di automobili a batteria. A contribuire al loro successo sarà il prezzo delle batterie a litio – quello medio previsto è di 135 dollari per kilowattora, il 13% più basso rispetto allo scorso anno e ben l’89% in meno rispetto a 10 anni fa – e la diffusione delle infrastrutture di ricarica: le colonnine pubbliche passeranno dalle 880 mila del 2019 agli 1,2 milioni di fine 2020, per effetto dell’impegno congiunto di governi e utilities dell’energia.

Azioni ai tifosi e senza lucro. I Packers sfidano il record

Nessun profitto, solo sport. In inglese suonerebbe meglio, certo, e potrebbe sembrare il claim di una raccolta fondi per l’acquisto delle magliette di un campionato dilettantistico di provincia. Eppure, sorprendentemente, fotografa bene lo spirito di una delle quattro squadre in campo ieri sera per il Super Bowl, il gioco più ricco del mondo che domenica 2 febbraio, all’Hard Rock Stadium di Miami, consacrerà i vincitori del National Football League, la lega professionistica di football americana. Un rito collettivo: la finale del 2019 ha tenuto inchiodati allo schermo oltre 110 milioni di americani. Un business con tantissimi zeri: un biglietto costa in media 5mila dollari (c’è chi è disposto a spenderne anche 30mila).

Costa 5 milioni uno spot di 30 secondi sulla rete che ha acquistato i diritti della finale; 2,5 miliardi il valore medio di ogni franchigia, con i Dallas Cowboy al top con 5 miliardi. Insomma, numeri da capogiro. E ieri notte i Kansan City Chiefs contro i Tennessee Titans e i San Francisco 49ers contro i Green Bay Packers si sono sfidati per arrivare a Miami e conquistare un posto nel mito. Ma vincitori o no sul campo, la storia dei Green Bay Packers è segnata dai record, e in questa storia la caccia allo sponsor per le magliette è parte della leggenda.

Il nome rende omaggio alla cittadina che gli ha dato i natali, Green Bay – 100mila abitanti o poco più, affacciata su un ramo del lago Michigan, nel Wisconsin, Midwest. E alla Indian Packing Company, azienda produttrice di carne in scatola: nel 1919 il fondatore della squadra, Curly Lambeau, chiese al suo datore di lavoro i soldi per le divise. E anche se la sponsorizzazione coprì soltanto una parte della prima stagione, i giocatori di Green Bay sono rimasti i packers, gli impacchettatori. Così come sono rimasti l’unica small town team, le squadre delle piccole città, comuni negli anni Venti e Trenta, ma oggi il privilegio di ospitare una franchigia di Nfl richiede una popolazione di almeno un milione di abitanti. Il privilegio di cui gode la piccola città del Wisconsin appare, poi, tanto più grande se si considera che il Lambeau Field, lo stadio intitolato al fondatore, riesce a contenere l’80 per cento dei suoi cittadini.Ed è sempre pieno.

Ma a renderli davvero unici nel panorama dello sport professionistico americano è l’assetto societario: non c’è un azionista di riferimento, non c’è un proprietario. O meglio, un proprietario c’è ed è una comunità intera: un azionariato diffusissimo, composto da 360.760 soci, con un limite di 200 mila azioni ciascuno (pari al 4 per cento) per evitare che qualcuno possa assumere il controllo del club.Il valore della squadra è oggi pari a circa 2,60 miliardi di dollari. Nessun dividendo, la contropartita sta nell’orgoglio dei cheesheads – così sono conosciuti tifosi dei Packes per via del bizzarro cappello a forma di fetta di formaggio che amano esibire – di sentirsi parte del team, aver contribuito a sostenerlo nei momenti difficili che negli anni non sono mancati, non certo di poter esprimere un voto nel Consiglio di amministrazione. Lo statuto del club, “Articles of Incorporation for the Green Bay Football Corporation” datato 1923, prevedeva che qualora la franchigia dei Packers fosse stata venduta, una volta pagate tutte le spese, il ricavato avrebbe dovuto esser destinato alla costruzione di un memoriale per i soldati. Oggi c’è un nuovo beneficiario ed è la Green Bay Packers Foundation, che dal 1986 ha distribuito in beneficienza oltre 12 milioni di dollari, un milione solo nell’anno appena trascorso. Sarà anche per questo che i Packer restano saldamente legati alle loro radici, alla piccola città che grazie alle loro imprese è soprannominata Titletown. Questo perché la terza più vecchia franchigia del Nfl è quella che ha vinto il maggior numero di campionati nel football americano, 13 titoli, compresi 4 Super Bowl, l’ultimo nel 2011, sotto la guida del quarterback Aaron Rodgers, al Cowboys Stadium di Arlington, in Texas, contro i Pittsburgh Steelers. Sono, poi, l’unica squadra professionistica di football a poter vantare tre titoli consecutivi, e per ben due volte, dal 1929al 1931e dal 1965al 1967.

I risultati li fanno gli uomini e nella leggenda dei Packers c’è anche Vincent Lombardi, l’allenatore dei favolosi anni Sessanta, quando portò la squadra ultima in classifica alla vittoria di cinque campionati nell’arco di sette anni, stringendo tra le mani anche due trofei di Super Bowl, che oggi portano il suo nome. E per cui ieri notte, gli “impacchettatori” hanno combattuto contro i San Francisco 49ers nella speranza di poterlo fare ancora nella finale di Maimi e riportarlo a casa.